Rigopiano bis, chiesto il processo per l’ex prefetto. I pm: “Depistò indagini”

Chiesto il processo per l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo e altre sei persone, nell’ambito dell’inchiesta bis, per depistaggio e frode processuale, sul disastro dell’Hotel Rigopiano di Farindola a Pescara. Era il 18 gennaio 2017 e una valanga travolse l’albergo: 29 morti e giorni di ansia con le ricerche in mondovisione.

La Procura di Pescara ha presentato la richiesta di rinvio a giudizio e ha trasmesso gli atti al gup Sarandrea, dinanzi al quale il prossimo 16 luglio si terrà l’udienza preliminare sul filone principale dell’inchiesta. Oltre al prefetto, nel fascicolo bis, sono imputati i due viceprefetti distaccati Salvatore Angieri e Sergio Mazzia, i dirigenti Ida De Cesaris, Giancarlo Verzella, Giulia Pontrandolfo e Daniela Acquaviva. I sette devono rispondere di frode in processo penale e depistaggio. A Ida De Cesaris viene contestato anche il reato di falso ideologico in atto pubblico.

Delle indagini si sono occupati i carabinieri forestali di Pescara, diretti dal tenente colonnello Annamaria Angelozzi. L’accusa formulata dal procuratore capo Massimiliano Serpi e dal sostituto Andrea Papalia è di avere occultato il brogliaccio delle segnalazioni del 18 gennaio 2017 alla squadra mobile di Pescara per nascondere la chiamata di soccorso fatta alle 11.38, presso il Centro coordinamento soccorsi della Prefettura, dal cameriere Gabriele D’Angelo, una delle 29 vittime della tragedia.

“Stiamo con Luca e Cosimo, è normale parlare con i magistrati. Roberti sbaglia”

Manovre occulte? Macché. Nuova P2? Figuriamoci. A sentire deputati e senatori Pd il caso Lotti-Ferri-Csm è al massimo un gossip da primi ombrelloni stagionali. Nella truppa regna un gran silenzio, soprattutto tra i big. Chi si espone, lo fa per lo più per minimizzare.

Alessia Morani, deputata che con Lotti ha condiviso la golden age renziana, si allinea al vertice: “Le dichiarazioni di Zingaretti sono giuste. Massima solidarietà a Lotti e Ferri, che non hanno commesso reati e non sono indagati. Un terzo dei membri del Csm sono eletti dal Parlamento, è normale che ci siano contatti tra onorevoli e membri del Consiglio. Semmai il tema più rilevante di questa vicenda è il correntismo esasperato nella magistratura: servirebbe una riflessione politica comune sulle modalità di elezione del Csm”. E se Matteo Richetti preferisce il “no comment”, Debora Serracchiani mostra disinteresse: “Mi sto occupando di tutt’altro: Ilva, Whirlpool, Mercatone Uno…”. Magari un’altra volta. Andrea Romano, invece, non ha dubbi: “Ci mancherebbe che Lotti e Ferri debbano dimettersi. Da quel che si legge, le loro sono state riunioni del tutto prive di macchia”. Nuova P2? “Ma per carità”. Le priorità, insomma, sono ben altre: “Vorrei che i colleghi dei 5 Stelle spendessero una sola parola per difendere la magistratura dai gravi attacchi di Salvini”. Altre bordate arrivano da Alessia Rotta: “Non c’è nessun caso Lotti-Ferri. C’è un caso Palamara, su cui c’è un’inchiesta, ma le cose sono separate e non capisco questo voler associare le cose. Gli incontri tra magistratura e politica ci sono sempre stati, d’altra parte un terzo del Csm è eletto dal Parlamento. Mi sembrano scomposte anche le parole di Franco Roberti e trovo scandaloso che collegasse manovre oscure sulle nomine delle Procure alla riforma del governo Renzi sull’abbassamento dell’età pensionabile dei magistrati”. Ben più cauta la deputata Rosa Maria Di Giorgi, che però rimanda le decisioni a tempi migliori: “Credo siano fatti da chiarire bene e che lasciano tutti un po’ interdetti riguardo il ruolo di alcuni magistrati. Dovremo vedere fino a che punto c’è stato il coinvolgimento di politici e a quindi valutare”. Anche Francesco Boccia riconosce la delicatezza della questione: “Nessuno di noi deve occuparsi dei vertici degli uffici giudiziari. Dobbiamo essere garantisti, certo, ma anche nei confronti delle istituzioni”.

Alfieri, il “figlioccio” e il lido dell’uomo del clan

C’è un’intercettazione che è una traccia importante della qualità “malavitosa” del sostegno elettorale a Franco Alfieri, indagato per voto di scambio politico-mafioso, candidato sindaco Pd di Capaccio Paestum al ballottaggio di dopodomani. Risale a fine gennaio 2018. Si stanno definendo le liste per le elezioni politiche. E il capo staff del governatore dem Vincenzo De Luca sta per essere candidato in quota Pd nel collegio uninominale della Camera nel Cilento. Il signore delle “fritture di pesce” è al telefono con Pasquale Mirarchi, all’epoca vicesindaco di Albanella. Mirarchi è l’uomo arrestato da candidato sindaco il 23 maggio scorso, tre giorni prima del voto, per il possesso di una pistola Taurus calibro 22 con la matricola abrasa. La Dia salernitana agli ordini di Giulio Pini lo stava perquisendo per una inchiesta su una presunta turbativa d’asta che lo vede indagato con il titolare di una impresa d’illuminazione, la Dervit.

Una ditta che ottenne un appaltone anche ad Agropoli, città dove Alfieri è stato primo cittadino per due mandati. Nella telefonata dell’anno scorso Alfieri e Mirarchi mostrano una certa confidenza. La Squadra Mobile di Salerno la trascrive e la consegna al pm anticamorra Vincenzo Montemurro, riassumendola così: il vicesindaco promette appoggio all’aspirante deputato e auspica incarichi per il futuro. Mirarchi a un certo punto dice ad Alfieri di essere un suo “figlioccio”. Col senno di poi, sono soddisfazioni.

E cosa ci fa questa intercettazione in un fascicolo della Dda? L’Antimafia ha indagato su un cartello di affari e di relazioni tra Mirarchi, la famiglia del boss 82enne Giovanni Marandino, colui che portò il verbo della Nco di Raffaele Cutolo tra Albanella e la Piana del Sele, e Roberto Squecco, imprenditore delle pompe funebri condannato a gennaio con sentenza definitiva a un anno e dieci mesi per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso a un rivale del settore. In primo grado col rito abbreviato ebbe una legnata di sei anni, e le 82 pagine di motivazioni firmate dal giudice Elisabetta Boccassini raccontarono scene da film di Scorsese: concorrenti minacciati nei bagni, con la testa nel vaso e la pistola alla tempia, per riscuotere prestiti ricalcolati con tassi usurai fino a ridurre allo stremo il debitore.

Mirarchi e Squecco, intercettati mentre progettano di assoggettare a un loro monopolio delle onoranze funebri i fiorai della zona, sono i due lati di un triangolo con Alfieri. Squecco, che la Cassazione ha bollato come organico ai Marandino, è titolare di uno stabilimento balneare di Capaccio, il lido-ristorante Kennedy. È il luogo dove nel 2013, grazie alla mediazione di Marandino che voleva “far cessare la guerra” e convincerli a una fusione delle loro imprese funebri, Squecco incontrò un imprenditore vittima, per discutere un accordo che non si chiuse. Alfieri ha scelto il lido Kennedy per l’inaugurazione a metà maggio della campagna elettorale. La pagina Facebook dello stabilimento è piena di locandine e di comunicati del candidato sindaco. C’è una spiegazione, che chiude il triangolo Alfieri-Squecco-Mirarchi: la moglie di Squecco, Stefania Nobili, si è candidata al consiglio in una delle otto liste di Mister Fritture. Ha raccolto 348 preferenze in Democrazia Capaccese ed è stata eletta. Anche in caso di sconfitta di Alfieri. La sentenza su Squecco ha però acceso i riflettori. È stata notificata al commissario prefettizio di Capaccio, che ha disposto la sospensione della concessione demaniale del lido, diffidando i gestori a svolgerci dei concerti già programmati. Vedremo cosa deciderà il futuro sindaco. Potrebbe essere Alfieri.

Pd ostaggio di Lotti. Zingaretti tentenna, poi “prende atto”

Mettere il silenziatore, pattinare sulla superficie, dire il minimo, senza affondare: la strategia del segretario del Pd Nicola Zingaretti, davanti a Luca Lotti e Cosimo Ferri intenti a trattare per la nomina del Procuratore di Roma doveva essere più o meno questa. Ma ieri mattina, quando al Nazareno hanno letto il Fatto, è partito il consueto psicodramma: come tenere botta di fronte all’ennesimo caso di malagestione del potere e di tentativo di influenzare la magistratura? Come reagire, alla vigilia dei ballottaggi?

Zingaretti ha cercato di battere almeno un mezzo colpo. E ha convocato Lotti al Nazareno. Nell’entourage di quello che è stato il braccio destro di Matteo Renzi raccontano che l’incontro tra i due era già previsto, doveva essere una riunione sugli equilibri interni dei Dem. Ma in realtà Zingaretti voleva cercare di fare pressione su Lotti, indurlo a capire la poca opportunità del suo modo di agire. Tanto più che – come vanno ripetendo i neo-vertici del partito – trattava non per conto del Pd, ma suo. Facendo pesare questa posizione, il segretario gli ha chiesto di dargli la sua versione dei fatti. E l’ex sottosegretario ha ribadito quello che aveva già detto pubblicamente mercoledì sera. Ovvero che i suoi comportamenti sono stati improntati all’assoluta correttezza. A quel punto Zingaretti, raccontano, “ha preso atto”. Non avrebbe, dunque, espresso nessuna valutazione particolare.

Dell’incontro, però, c’è pure una coda semi comica. Perché esce un’agenzia di stampa (LaPresse), secondo la quale Zingaretti avrebbe espresso “solidarietà” a Lotti. Subito dopo corretta da un’Ansa, che così scrive, a scanso di equivoci: “Fonti della segreteria hanno precisato: ‘nessuna solidarietà, il segretario nell’incontro ha solamente ascoltato la ricostruzione dei fatti dell’on. Lotti’”. Anche su questo, i racconti divergono: secondo gli uomini di Zingaretti, sono stati i lottiani a fornire la prima versione dei fatti. Secondo questi ultimi, si è trattato solo di un errore.

Quel che è certo, è che il clima nel Pd – dopo i tentativi di Zingaretti di addomesticarlo – torna a essere il solito: veleni, sospetti, guerre e congiure. E la debolezza del segretario diventa plastica. E non solo per le sue personali relazioni con Palamara e Centofanti, ma anche per questioni prettamente politiche. Lotti non ha alcun incarico ufficiale nel Pd, ma è il capo di Bri (Base Riformista), la corrente che conta più parlamentari: sono 74 su 163 complessivi. Che poi sommati ai 10 dell’area Giachetti diventano 84. Per dire, gli zingarettiani veri e propri non sono più di 13. Insomma, almeno a livello parlamentare il segretario del Pd è ostaggio di Lotti. Al quale, peraltro, risponde Andrea Marcucci, capogruppo in Senato.

Con questa tegola, va in fumo il tentativo di stabilire rapporti di fiducia con quell’area. Non a caso, Zingaretti ha spinto il più possibile in queste settimane sulle elezioni. Mentre specularmente le varie sfumature di renziani hanno cominciato a esprimere le loro perplessità: il motivo ufficiale è la concreta possibilità che si consegni il Paese alla destra, quello più inconfessabile è il fatto che la ricandidatura per la maggior parte di loro è una specie di miraggio. Tornando alle pressioni per la Procura di Roma, va notato un altro aspetto. Il Pd ha una Commissione di garanzia (in questo momento presieduta da Silvia Velo, orlandiana doc). Ma nulla può fare su Lotti e Ferri, a quanto raccontano i suoi membri, perché non esiste nessun esposto ufficiale che lo richieda. D’altra parte, ai vertici del Nazareno continuano a ribadire che “non c’è nessuna indagine in corso” (come ha dichiarato lo stesso Zingaretti). Ma poi, a denti stretti, ammettono: “Una questione di opportunità politica ovviamente c’è”.

Il segretario aspetta di superare i ballottaggi per annunciare la nuova segreteria (forse). In origine si era parlato di posti per Br, forse addirittura per Lotti. Questo non avverrà. Il che, però, significa una sola cosa: la guerra nel Pd è cominciata e da lunedì diventerà sempre più evidente.

Il posto alla Regione Lazio per la moglie di Palamara

La moglie del pm Luca Palamara, Giovanna Remigi, è stata per quasi tre anni dirigente esterna della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti. Un ruolo ricoperto dal 2015 al 2017 nell’ufficio staff del direttore Coordinamento del contenzioso nella Direzione Salute e Politiche Sociali alla cifra di 78.000 euro l’anno più retribuzione di risultato. Prima di ottenere un contratto triennale all’Agenzia Italiana del Farmaco nel 2017, quando ministro della Salute del governo Renzi era Beatrice Lorenzin.

L’incarico è arrivato nel febbraio 2015, periodo in cui – secondo quanto riportato da L’Espresso – stando alle dichiarazioni dell’avvocato Giuseppe Calafiore sarebbero stati forti i legami fra il lobbista Fabrizio Centofanti e diversi esponenti della Regione Lazio, fra cui l’ex capo di Gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, dimessosi nel marzo 2015 in seguito all’inchiesta “Mondo di Mezzo” e condannato in Appello a 1 anno di carcere per turbativa d’asta. Centofanti, secondo i magistrati della Procura di Perugia, fra il 2015 e il 2017 avrebbe pagato a Palamara e a una sua amica alcuni soggiorni-vacanza, oltre a benefit di vario genere.

Giovanna Remigi, avvocato classe 1966, entra nell’universo regionale il 1º luglio 2006, quando dopo 9 anni di libera professione, firma il suo primo contratto con Laziosanità, l’Agenzia di Sanità Pubblica della Regione Lazio, società esterna per il controllo e indirizzo della spesa sanitaria, occupandosi soprattutto di contratti d’appalto.

Nel 2013, la Giunta Zingaretti chiude diverse aziende regionali, fra cui l’Agenzia di Sanità Pubblica. Tutti i suoi dipendenti, Remigi compresa, vengono assorbiti nella Direzione Salute fino a scadenza di contratto. Il salto di qualità il 24 febbraio 2015. La manager partecipa con altre 24 persone esterne all’amministrazione (la pre-consultazione interna era andata a vuoto) a un bando pubblico per 4 posti a tempo determinato nella Direzione regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria, e lo vince. Il 24 febbraio 2015 ottiene il ruolo di dirigente dell’ufficio Analisi del contenzioso, alla cifra di 78.310,80 euro. Una nomina temporanea, rinnovatale con apposita determina il 24 giugno 2016.

L’ufficio stampa della Regione Lazio precisa che “all’atto della chiusura dell’Asp, tutti i dipendenti sono stati trattati alla stessa maniera e i contratti a tempo arrivati successivamente, come sempre accade, sono stati gestiti in maniera trasparente e secondo le norme”. L’incarico in via Cristoforo Colombo dura fino al 19 settembre 2017, quando l’allora dg dell’Aifa, Mario Melazzini – nominato l’anno prima dalla ministra Lorenzin – chiama Giovanna Remigi nella sua segreteria tecnica istituzionale e le fa firmare un contratto di tre anni, ancora in corso nonostante il cambio alla direzione generale e che scadrà il 20 settembre 2020.

Nonostante le telefonate e gli sms, non è stato possibile parlare con l’ex ministra. Il Fatto ha provato più volte a contattare Giovanna Remigi attraverso gli uffici dell’Agenzia del Farmaco, ma la sua segreteria ci ha risposto che la dirigente non era disponibile a rilasciare dichiarazioni. Ha risposto al Fatto, invece, il pm Luca Palamara, sposato con Remigi dal 1999: “Mia moglie non ha mai avuto bisogno di me per gestire il suo lavoro – dice –, ha una lunga carriera alle spalle, ha un curriculum di tutto rispetto nei più importanti studi amministrativi. Se ho mai parlato con Zingaretti o altri? Non ne aveva bisogno lei, né avevo bisogno io di farlo”.

Chi perde vince

L’altroieri abbiamo letto sul Corriere, dalla penna di Marzio Breda, il quirinalista più introdotto nelle segrete stanze e nei segreti pensieri di Sergio Mattarella, una notizia talmente strana e bizzarra da farci pensare: stavolta Marzio ha capito male e il capo dello Stato lo smentirà. Invece nessuna smentita. Anche stavolta Breda ha fatto dire a Mattarella esattamente ciò che Mattarella pensa e desidera, ma non può o non vuole dire. Almeno in pubblico. E cioè che il Csm deve ignorare il voto della sua commissione Incarichi Direttivi sui tre candidati alla Procura di Roma e, anziché procedere al voto finale del Plenum, autocongelarsi, passare ad altri uffici giudiziari scoperti da più tempo (ma tutti meno importanti di Roma) e poi, con calma, senza “corse” o “accelerazioni”, silurare il più votato ed estrarre dal cilindro un “nome nuovo per una poltrona dal peso politicamente così sensibile”. Nel frattempo la prima Procura d’Italia, un covo di vipere dove i pm si denunciano l’un l’altro e sarebbe normale cercare un po’ di discontinuità, può restare decapitata, in attesa del “nome nuovo” in “continuità giudiziaria” con la brillante gestione Pignatone. L’antefatto è noto: l’inchiesta di Perugia sulle presunte corruzioni del pm Luca Palamara, capo di Unicost, ha intercettato a strascico incontri e conversazioni fra costui, alcuni membri del Csm e due parlamentari Pd (Lotti e Ferri), interessati per ignobili motivi di inimicizia a ostacolare il candidato di Pignatone (anche lui privo di titoli per indicare il successore): il procuratore di Palermo Franco Lo Voi. Infatti, in commissione, Unicost ha votato per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, mentre Lo Voi (conservatore di MI) ha avuto il voto paradossale di Area (sinistra).

Per tutt’altri e più nobili motivi, cioè per l’esigenza di discontinuità in una Procura così mal gestita, la maggioranza della commissione aveva scelto l’attuale Pg di Firenze Marcello Viola (anche lui di MI): votato non solo dalla sua corrente, ma anche da Davigo e dai laici M5S e Lega. La cosa non è piaciuta ai fan di Pignatone, sparsi fra politica, magistratura e i giornaloni, che hanno scatenato una gran canea, addossando a Viola le manovre di Palamara, Lotti, Ferri & C. Ora, se emergesse che Viola ha chiesto a Lotti e/o Ferri voti o aiuti per Roma, dovrebbe ritirarsi non solo da Roma, ma anche da Pg di Firenze. In caso contrario, non si vede perché dovrebbe saltare a vantaggio di “nomi nuovi” in “continuità” col dogma dell’Immacolato Pignatone. Che, comunque la si pensi sul suo conto, non ha il dono dell’infallibilità né fa capoluogo di provincia.

Eppure il monito di Mattarella al Csm via Corriere a questo mira: siccome la commissione ha osato disobbedire a Pignatone e bocciare l’amato Lo Voi, non se ne fa più nulla. E questo Lo Voi deve avere delle doti nascoste davvero notevoli, perché era stato bocciato in commissione già nel 2014 come aspirante procuratore di Palermo e anche allora il Quirinale (regnante Napolitano) aveva fatto azzerare tutto. Invocando una regola inesistente – l’ordine cronologico nella nomina dei capi degli uffici, a partire da quelli scoperti da più tempo – per evitargli la sconfitta definitiva al Plenum e rimetterlo in corsa. I candidati per Palermo erano tre: il procuratore di Messina Guido Lo Forte, quello di Caltanissetta Sergio Lari e, appunto, Lo Voi. Fra i tre non c’era partita: Lo Voi aveva 9 anni in meno di Lo Forte e Lari, non aveva mai diretto neppure un condominio, mai stato procuratore capo né aggiunto, ma solo sostituto (e per tre anni appena). L’unico incarico di prestigio l’aveva ottenuto su nomina politica, per grazia ricevuta dal governo B., a Eurojust (organo non giurisdizionale, ma “amministrativo”, tant’è che molti Paesi dell’Ue ci mandano degli impiegati o dei poliziotti). Il candidato con più anzianità ed esperienza professionale era Lo Forte: infatti in commissione ebbe 3 voti, contro 1 a Lari e 1 a Lo Voi. Mancava solo la ratifica del Plenum, quando arrivò il diktat di Napolitano, che bloccò la votazione, inventandosi un criterio cronologico mai visto né sentito prima. Un abuso di potere bello e buono. Ma anziché difendere le proprie regole, circolari, prassi e precedenti, il Csm si piegò fantozzianamente all’ukase quirinalizio e rinviò la votazione fino alla propria scadenza.

Il nuovo Csm capì l’antifona e obbedì al Colle e ai partiti, premiando il candidato meno meritevole. Che la tragicomica relazione della forzista Elisabetta Casellati dipingeva come Er Più perché il governo degli amici di Dell’Utri, Mangano e Cuffaro l’aveva promosso a Eurojust (“snodo fondamentale nella straordinaria carriera del dott. Lo Voi”). Naturalmente Lo Forte e Lari ricorsero al Tar del Lazio. Che ovviamente annullò la nomina di Lo Voi: “illegittima”, “illogica”, “irrazionale”, “apodittica” per “vizi sintomatici dell’eccesso di potere, sia delle violazioni di legge in ordine al procedimento valutativo”. Ma il Consiglio di Stato ribaltò il verdetto con una lunga supercazzola che spacciava per un titolo di merito (“le diverse esperienze maturate, anche in ambito internazionale”), anziché di demerito, l’euroincarico burocratico gentilmente offerto da B. Ora che la storia si ripete, sempre col Quirinale a gamba tesa per rimettere in gioco lo sconfitto Lo Voi, ci siamo riletti la sentenza del Consiglio di Stato: sia il presidente del collegio Riccardo Virgilio, sia l’estensore Nicola Russo sono ora indagati per corruzione giudiziaria con l’accusa di essersi venduti all’avvocato-faccendiere-depistatore dell’Eni Piero Amara: lo stesso dello scandalo Palamara. Amara, dopo due arresti e un patteggiamento, ha finito di nuocere. Ma non c’è più bisogno di lui per pilotare nomine e sentenze. Bastano i giornaloni e i monitoni.

Herlitzka e Lucrezio: un riscatto che manda all’inferno persino Dante

Roberto Herlitzka (1937) è il più grande attore italiano. Adesso se ne stanno accorgendo: come sempre succede, non per le cose importanti ma grazie a una deliziosa interpretazione semicomica in un mediocre film di Sorrentino (non ricordo quale dei tanti: in parentesi: Sorrentino, uno ch’era nato talento e che il successo ha reso un routinier piccolo- borghese). Il grande attore tragico è sempre grande anche nel comico. Me ne accorsi in uno straordinario film surreale del 1983 di Lina Wertmüller, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada. Recitavano due colossi come Tognazzi e Moschin; lui non era inferiore, nella parte, davvero da lui creata, di un faccendiere meridionale che fa da segretario al ministro dell’Interno democristiano. Per conoscere Herlitzka occorre vederlo a teatro. Un testo grottesco e tragicissimo venne ridotto da Ruggero Cappuccio dal più tetro romanzo che conosca, Il soccombente di Thomas Bernhard. Herlitzka reggeva due ore di monologo sciorinando tutte le angosce e le nevrosi di un pianista fallito che sa di esserlo. Da brivido. E chi oggi potrebbe interpretare Re Lear meglio di lui? O Tutto per bene o Enrico IV di Pirandello?

Quel che meno si conosce è che Herlitzka è anche il più colto degli attori italiani. Non ne fa esibizione. Però due anni fa volle, col suo tipico understatement, calare la maschera. E portò un po’ in giro un altro suo monologo, una silloge di passi del De rerum natura, Il poema della Natura, di Lucrezio. Ma con un particolare: il più arduo dei poeti latini, uno dei più ardui poeti di tutti i tempi, veniva recitato da Herlitzka nella sua traduzione.

Questa traduzione l’aveva compiuta lungo tutta la vita. Al liceo torinese aveva avuto come insegnante Oreste Badellino, uno dei grandi latinisti del Novecento. E adesso il lavoro viene pubblicato: La natura di Tito Lucrezio Caro (La nave di Teseo, pp. 276, euro 18). Consiste di quattro libri sui sei del poema; non dispero che il Maestro voglia dedicarsi a completare l’opera.

Mentirei se affermassi che si tratta di un testo facile. Herlitzka ha fatto più una versione d’arte che una volta a far comprendere i riposti sensi del testo. Va letta per la sua bellezza e per la sua enorme musicalità. E anche per essere una scommessa della quale la portata potrebbe sfuggire. Il poema è volto in endecasillabi di terzine dantesche, e nello stile dei nostri trecentisti. Diventa un trionfo di ritmi, rime e luci. Poi, per capire la rivelazione del più grande poema scientifico di tutta la poesia occorre rivolgersi a più didattici traduttori. Il mio preferito è Armando Fellin (Utet), che si aggiunge alla lunga schiera principiata col secentista Alessandro Marchetti. Come mai, se il poema venne riscoperto da Poggio Bracciolini nel 1418, venne volto solo nel Seicento? Ma perché nel Quattrocento e nel Cinquecento i coltissimi e dotti prelati atei se lo leggevano nell’originale, e la Chiesa non pensò mai a proibirlo per la sua difficoltà. In italiano, era altra cosa: e Marchetti venne messo all’Indice. Dante non aveva letto Lucrezio, ma nel X dell’Inferno lo colloca senza menzionarlo fra coloro che l’anima col corpo morta fanno. Ed ecco la scommessa di Herlitzka: costringere Dante, il massimo piacere del quale, almeno nella prima Cantica, è quello di condannare a supplizi atrocissimi tutti i suoi nemici e anche gran parte degli amici morti e vivi, a cantare un poeta che spiega ch’esiste solo la materia, e che la materia è fatta di minuscole particelle indivisibili ruotanti nel vuoto e componentesi e scomponentesi. La morte è scomposizione di atomi, e l’anima immortale non esiste. Tutto qui. Anche Dante ha trovato, grazie a Herlitzka, il suo meritato inferno.

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Lina, il genio che la sua Roma non ha voluto omaggiare

Quando Lina Wertmüller stava per compiere 90 anni, telefonai ad Antonio Monda, direttore artistico della Festa del Cinema, per consigliargli di cogliere questa occasione e tributare a Lina, nell’ambito della manifestazione romana, un riconoscimento alla carriera. La grande regista italiana, prima donna nel mondo a esercitare questa professione con successo internazionale e prima donna di cinema ad avere tre nomination all’Oscar, è romana, ha diretto molti film ambientati a Roma, ha dimostrato in mille occasioni il suo amore profondo per questa città. Monda mi disse che un riconoscimento del genere non era previsto e, quindi, perse un’occasione preziosa per dimostrare intelligente gratitudine verso una romana apprezzata ovunque, meno che alla Festa del Cinema.

Qualche settimana fa il Festival di Cannes ha tributato a Lina una grande dimostrazione di stima dedicandole una serata e la proiezione del restaurato Pasqualino sette bellezze, seguita da una personale attestazione di stima da parte di Leonardo DiCaprio. Ora, da Hollywood, un organismo come l’Academy, ben più prestigioso della Festa del Cinema, assegna a Lina l’Oscar alla carriera dimostrando che nessuno è profeta in patria, soprattutto quando la patria affida posti di rilievo a persone prive di sensibilità. Perché, in altre sedi e con responsabili ben più attenti, Lina aveva già avuto altri premi alla carriera: quello del David di Donatello, quello del Globo d’Oro e quello del premio Flaiano. Lina è nata a Roma il 14 agosto 1928. Ha scritto e diretto spettacoli di burattini, sketch di Carosello come quelli per la Brillantina Linetti, testi per trasmissioni come Canzonissima, musical televisivi come Il giornalino di Gianburrasca. È stata aiuto regista di Fellini per La dolce vita e per Otto e ½; ha diretto un western e numerosi documentari; ha fatto la regia di innumerevoli spettacoli teatrali e di opere liriche; ha scritto commedie musicali insieme a Garinei e Giovannini e sceneggiature per Zeffirelli e Festa Campanile; ha pubblicato libri tradotti in tutto il mondo; ha diretto attori del calibro di Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Rutger Auer, Harvey Keitel, Roberto Herlitzka, Ugo Tognazzi. Ha avviato al cinema, portandoli al successo internazionale, attori come Mariangela Melato, Giancarlo Giannini, Piera degli Esposti e Valeria Golino. I suoi film – più di 20 – sono stati amati e commentati da scrittori come Leonardo Sciascia ed Henry Miller. Lina ha dedicato questo Oscar a sua figlia Maucci e a suo marito Enrico Job. Lo si poteva indovinare. Enrico, infatti, è stato per Lina un amore profondo e totale; Maucci è il prolungamento di quell’amore. È questo il lato meno noto di Lina, che perciò merita di essere raccontato.

La sua casa è in pieno centro, alle spalle di piazza del Popolo, arredata in stile liberty dalla sua fantasia e dal rigore estetico di Enrico. È qui che per sessant’anni si è incontrato il meglio dell’intelligenza e della simpatia: giovanissimi talenti in cerca di maestri e generosi maestri in cerca di allievi; registi come Emir Kusturica, artisti come Joseph Beuys, attori come Barbra Streisand e Robert Mitchum. E poi gli amici di sempre: Rosi e Fellini, Sciascia e Moravia, Furio Colombo e Tullio Kezich. Qui si è discusso di politica e di storia, di estetica e di sociologia con un saggio equilibrio di intransigenza etica e tolleranza logica. Ma sempre all’insegna della competenza, della passione, della curiosità. In questo sodalizio mai striato di connivenza, Lina è sempre stata lievito e collante. Dotata di un pensiero laterale fuori del comune, ma anche di una rara e semplice modestia, ci ha sempre spiazzato con intuizioni illuminanti ma ha sempre ascoltato con la saggezza vorace di chi vuole maturare idee che poi ci saremmo ritrovate nei suoi film, tradotte in immagini e in poesia. Anarchica, socialista, generosissima, sempre pronta alla intuizione felice, assolutamente disinteressata al parere dei critici, Lina ci ha insegnato a scovare i paradossi della nostra esistenza e a usare l’arma buona dell’ironia per snidare le prepotenze dei potenti e le debolezze dei deboli, mostrando il lato umano della nostra povera vita di umani.

E se nei brani di Michael ci fosse traccia di pedofilia?

Pubblichiamo stralci dell’introduzione alla nuova edizione di “Su Michael Jackson” del Pulitzer Margo Jefferson, in uscita oggi per 66thand2nd.

 

Un bel giorno, nel primo anno del Ventunesimo secolo, io e il mio editor americano ci trovammo in un ristorante per discutere di Michael Jackson. Tessemmo le lodi della sua incredibile genialità e allo stesso tempo la rimpiangemmo: rimpiangemmo trent’anni di musica, di balli e film, in cui Michael aveva incrociato stili e generi, modelli e metafore, confondendo i codici culturali. Discutemmo delle voci e degli scandali che lo avevano trasformato in un oggetto di scherno, in un personaggio repellente. Ci ripromettemmo di restituirgli quel che gli spettava prima che (parole del mio editor) “si autodistrugga… anzi, prima che lo distruggano e che si autodistrugga”.

Ma i fatti si susseguirono troppo velocemente e io non riuscii a concludere il libro che avevamo in mente prima dell’arresto di Michael del 2003. Fu rinviato a giudizio nel 2004 e un anno dopo, nel 2005, fu prosciolto dalle accuse. Nel 2009 fu trovato morto per overdose. Ora, a dieci anni di distanza, è tornato a catturare l’attenzione di tutti. […] In Leaving Neverland, un documentario dai toni pacati e tuttavia tremendo, due uomini di trent’anni si mettono davanti a una cinepresa e descrivono gli anni della loro infanzia, quando hanno fatto sesso con Michael Jackson. Usano quest’espressione piatta, “fare sesso”, e lo farò anch’io.

[…] Ma li amava? Nei limiti di una creatura ferita che sapeva ferire, immagino di sì. Ci piace pensare di amare dando il meglio di noi. Ma amiamo anche con tutto il peggio di noi. […] Nel video di una canzone che ha scritto e intitolato Childhood, Michael Jackson siede, vestito di bianco, nel bel mezzo di una foresta lussureggiante, e canta dolcemente, con nostalgia, rivolto all’obiettivo: It’s been my fateto compensate,/Forthe Childhood I’ve never known/Before you judge me, try hard to love me/The painful youth I’ve had… Perciò adesso dobbiamo rileggere compulsivamente i suoi video e i versi delle sue canzoni in cerca di qualche criptica confessione. “Have you seen my childhood?” chiede per due volte, nelle languide tonalità di un piccolo soprano. In tribunale equivarrebbe a una richiesta di proscioglimento.

[…] Quando morì, mi sentii sollevata, grata. Adesso riuscirà a riprendersi tutto, pensai. E ce ne vanteremo. E così è stato. La morte restituisce a un artista la sua reputazione. […] Ma ora, dieci anni dopo, un documentario come Leaving Neverland ci mette davanti a nuove domande. Al termine delle tragedie shakespeariane, il palcoscenico è sempre disseminato di cadaveri e una figura autorevole e serena li osserva, promettendo di mantenere vivo il ricordo di quell’orrore e di mettere fine al caos. Sul palcoscenico della vita di Michael Jackson, i corpi appartengono a dei ragazzini, la figura che ristabilisce l’ordine è Dan Reed, il regista di Leaving Neverland, ma in questo caso, con un inquietante doppio effetto, due ragazzi tornano in vita per raccontare la loro storia. Provo imbarazzo e vergogna per il fatto che quando ho scritto il libro che state per leggere non sono riuscita a spingermi fino al punto di riconoscere che quest’uomo ferito era quasi di sicuro un predatore sessuale? Certamente. Anche perché come critica tendo a credere di essere immune da considerazioni ingenue e dal rifiuto della realtà. Adesso mi dico che almeno non sono stata l’unica. […]

Ho visto Leaving Neverland tre settimane fa e da allora non ho né ascoltato né guardato immagini di Michael Jackson. Ma quando leggerete questa introduzione, immagino che sarò già tornata alla sua opera. Trovo molto difficile concepire una vita di rinunce. Ma altrettanto difficile sarà decidere cosa fare delle performance che ho amato per decenni. […] Ripenso a tutto questo e mi chiedo chi mai potrà capire il fascino degli opposti rappresentati da un performer. Michael era fragile e ferale, percussivo e sinuoso, vulnerabile e imperioso. E quello che ci ha dato la sua arte non si può cancellare. Quanto alla sua vita, abbiamo sempre saputo quanto fosse affascinante e generoso. Adesso abbiamo anche imparato che era scaltro, egoista, in preda ai suoi stessi demoni. Sono cose che non si possono cancellare, né si può far finta che non esistano. Non ci resta che accettarle, che accogliere quel che suscitano in noi – sgomento, dolore, ira, compassione – e tentare di trasformarle in consapevolezza.

The Donald, dopo le gaffe inglesi tappa in Francia

Il terzo e ultimo giorno della visita di stato di Donald Trump nel Regno Unito è stato il più istituzionale: ha partecipato a Portsmouth, cittadina costiera inglese, alle celebrazioni del 75° anniversario dello sbarco in Normandia al fianco della regina, di altri 15 capi di stato fra cui Theresa May, Angela Merkel ed Emmanuel Macron e di 300 veterani. Una prova di unità e coesione internazionale senza intoppi, nel solco di una ecumenica pax atlantica che Trump non ha voluto turbare, anzi, dal palco ha letto la preghiera scritta dal presidente Usa Franklin Delano Roosevelt per lo sbarco del 1944. Poi è volato in Irlanda per un incontro con il premier Leo Varadkar – si parlerà anche di Brexit – e per un paio di giorni di golf nel suo resort di Doonbeg. In mattinata si era dovuto rimangiare la dichiarazione, rilasciata in conferenza stampa con May, che l’NHS, il servizio sanitario nazionale, sarebbe sul tavolo dei negoziati dell’accordo commerciale Usa-Uk post Brexit. “Non è oggetto di scambio” ha detto. Cautela dovuta alla rivolta di politica e opinione pubblica britanniche, per cui l’integrità dell’NHS è intoccabile. E ha fatto un’altra marcia indietro delle sue. Notoriamente scettico sul cambiamento climatico, in un’intervista a Itv trasmessa ieri mattina dal gabinetto di guerra di Winston Churchill ha rilasciato l’enigmatica dichiarazione: “Credo ci sia un cambiamento del clima, in entrambe le direzioni”. A sensibilizzarlo sarebbe stata una lunga chiacchierata con l’ambientalista principe Carlo. Si è parlato anche di politica britannica: all’ipotesi che a Downing Street vada Jeremy Corbyn, che martedì aveva definito “una forza negativa”, Trump ha risposto: “Tutto può succedere, ma mi sembra molto difficile”. Oggi il trasferimento in Francia dove è in programma un confronto con Macron: diversi i terreni di divergenza con l’Eliseo, fra tutti l’accordo sul nucleare con l’Iran.