“Omicidio Franco, indagini troppo lente”

Marielle Franco, attivista per i diritti umani e LGBT, è stata uccisa in un agguato a Rio de Janeiro il 14 marzo 2018 insieme all’autista che la riportava a casa. A lungo aveva denunciato le violenze commesse dalla polizia brasiliana, tema di cui si era occupata anche come consigliera comunale della città carioca, ruolo che ricopriva dal 2016. La compagna Monica Benicio, è stata a Roma per un incontro organizzato da Amnesty International.

A marzo sono stati arrestati gli esecutori materiali dell’omicidio, ma non ancora i mandanti. A che punto sono le indagini?

Le informazioni che ho al momento non sono differenti da quelle che si ricavano anche dai media. Inizialmente e per un certo arco di tempo, un singolo responsabile della polizia civile è stato al comando dell’inchiesta. Sotto la sua gestione, l’indagine ha individuato i due esecutori materiali; sia la persona che ha sparato a Marielle sia chi guidava l’auto dalla quale i colpi sono partiti. Devo però sottolineare che il ritmo delle indagini è troppo lento: in un anno ci sono stati solo due arresti. Inoltre, ora che il responsabile dell’indagine è cambiato, la mia preoccupazione aumenta.

Chi ha interesse a coprire la verità su questo delitto?

Non siamo più alle ipotesi, ma alle certezze. Abbiamo ormai l’evidenza della distruzione delle prove materiali, delle testimonianze false rese in tanti mesi di indagini. Tutto questo dimostra la volontà di insabbiare. Spetta allo Stato il compito di fare piena luce sul crimine commesso. E poiché si tratta palesemente di un delitto politico, la responsabilità dello Stato brasiliano è non solo nei confronti dei suoi cittadini, ma di fronte al mondo intero.

È preoccupata?

Mi spaventa chi avanza la tesi infamante che un’attivista come lei possa essere stata uccisa in nome di “divergenze politiche”. È semplicemente un insulto.

A chi faceva paura Marielle Franco?

Era una minaccia per i razzisti, gli xenofobi, i nemici dei diritti LGBT. In poche parole: Bolsonaro e la sua politica vecchia e contraddittoria.

Quell’omicidio non resta purtroppo un caso isolato. Qual è l’estensione della violenza politica in Brasile?

Incalcolabile. Il Brasile è il paese più pericoloso al mondo per gli attivisti politici. È il quinto in classifica per i femminicidi e tra i più pericolosi per la comunità LGBT. Oltretutto, l’attuale presidente non fa che incitare all’odio.

E le responsabilità dei gruppi paramilitari?

Si tratta di uno dei pericoli principali per il Brasile. Il problema è che la milizia oggi non si limita a occupare il territorio, ma è al cuore dello Stato. Le relazioni tra alcune milizia e la famiglia Bolsonaro sono note. Non ho dubbi che i paramilitari abbiano preso parte all’omicidio politico di Marielle.

Dalle sue parole appare evidente il rischio che il Brasile possa ritornare agli anni bui della dittatura. Ma chi può rappresentare oggi nella società brasiliana l’opposizione a Jair Bolsonaro?

Il primo oppositore è qualunque brasiliano comprenda la democrazia e lotti per un paese più giusto ed egualitario. C’è grande fermento dei movimenti LGBT indigeni e neri. Questi cittadini, da soli e insieme, sono la negazione delle politiche portate avanti dal presidente.

Usa e Ryad, affari atomici in sfregio a Khashoggi

America first o Trump first? Il dubbio viene ai democratici, che lo sbandierano, ma ha qualche fondamento. Perché le scelte internazionali, specie mediorientali, del magnate presidente continuano a privilegiare i suoi interessi familiari e le sue amicizie personali, piuttosto che l’interesse nazionale degli Stati Uniti.

La stampa americana scrive che l’Amministrazione Trump ha autorizzato due volte export di tecnologia nucleare verso l’Arabia saudita dopo l’uccisione dell’analista del Washington Post, e oppositore del regime di Ryad, Jamal Khashoggi, la cui responsabilità viene fatta risalire dall’intelligence statunitense al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, per tutti Mbs.

L’Arabia saudita è il regno per cui Trump pare disposto a sacrificare tutti i suoi cavalli. Scelse Ryad per l’esordio ‘fuori porta’: accettò di ballare – goffamente – la danza delle spade e portò a casa affari per 110 miliardi di dollari in dieci anni, vendendo armi. Poi ha costruito la sua politica mediorientale sullo sbilenco triangolo Washington – Gerusalemme – Ryad. Quindi, ha abbonato a Mbs le responsabilità nell’affare Khashoggi, dandogli la mano al Vertice del G20 in Argentina. E, infine, la scorsa settimana, ha sfidato il Congresso, autorizzando una cessione di armi ai sauditi per otto miliardi di dollari, pur sapendo che saranno usate nel conflitto nello Yemen, che ha già fatto decine di migliaia di vittime civili, bambini, donne, vecchi. The Guardian riferisce che, rispondendo a sollecitazioni del Senato, il Dipartimento per l’Energia Usa ha ammesso che due dei sette trasferimenti di tecnologie nucleari autorizzati all’Arabia saudita sono stati concessi dopo l’omicidio Khashoggi: uno il 18 ottobre 2018, 16 giorni dopo l’assassinio e lo smembramento del giornalista e oppositore nel consolato saudita a Istanbul; e l’altro il 18 febbraio di quest’anno.

Il senatore democratico della Virginia Tim Kaine, candidato alla vicepresidenza nel 2016 con Hillary Clinton, nota: “Ho il serio dubbio che queste decisioni siano basate sui rapporti finanziari della famiglia Trump più che sugli interessi dei cittadini americani”. Secondo Kaine, “l’ansia di Trump di concedere ai sauditi tutto quello che vogliono, ignorando le obiezioni bipartisan del Senato, mette a repentaglio gli interessi della sicurezza nazionale americana … e contribuisce a una pericolosa escalation delle tensioni nella Regione”. Perché qualsiasi decisione pro-Ryad è una decisione anti-Teheran; e il contenimento dell’Iran è l’unica priorità mediorientale chiaramente individuabile nei comportamenti dell’Amministrazione Trump, in perfetta simbiosi con interessi e aspirazioni saudite e israeliane. I sauditi stanno allestendo un reattore di ricerca, ma il loro programma nucleare ha ben altre ambizioni. E la monarchia è riluttante ad accettare vincoli anti-proliferazione atomica.

I trasferimenti di tecnologia nucleare autorizzati dagli Usa riguardano il know-how, non materiali o attrezzature, ma potrebbero anche servire a evadere le restrizioni normalmente imposte sulle cessioni di tecnologia ai Paesi che non s’impegnano a rispettare le regole della non proliferazione.

Le notizie che vengono da Washington alimentano la retorica iraniana anti-americana. Martedì, la guida Ali Khamenei aveva detto: “La resistenza ha un costo, e l’Iran lo pagherà, mentre al contrario l’Arabia Saudita si piega agli Stati Uniti”; ma aveva poi zittito la folla che intonava lo slogan “”Nessun compromesso, nessuna resa, combattere l’America”, dicendo: “Attenzione, non ho detto combattere, ho detto resistere e non arretrare davanti al nemico”. Ieri, alla festa per la fine del Ramadan – sunniti e sciiti l’hanno celebrata quest’anno in giorni diversi – ancora Khamenei ha accusato Arabia saudita e Bahrein di “tradire i palestinesi” ospitando a fine giugno la conferenza di presentazione della prima parte del piano Usa di pace in Medio Oriente.

Mega discarica Russia. La steppa è marcia: cresce la rivolta verde

Contro il muro di tute nere degli Omon, unità speciale della polizia russa, gli attivisti continuavano ad urlare “vergogna”. Due giorni fa cinquanta manifestanti hanno tentato di nuovo di bloccare la costruzione della discarica di Shiyes ad Arcanghelsk: i più fortunati sono finiti in prigione, i più sfortunati all’ospedale. Nella stessa città a dicembre scorso in 30 mila uniti hanno detto niet. Da allora le lamentele si sono raddoppiate, le contestazioni moltiplicate. Ad una latitudine lontanissima, domenica scorsa, ottomila residenti di Syktyvkar, gelida Repubblica di Komi, hanno fatto lo stesso. Né per la libertà, né per l’uguaglianza. Ma per la falda acquifera e la tundra: la paura dei manganelli e dell’arresto ai russi sta passando per il desiderio di ossigeno pulito. La galassia verde diventa sempre più audace e, da nord a sud del Paese, alle autorità urla ormai spesso: “la Russia non è una pomoika, una discarica”.

In arrivo da Mosca a Shiyes, destinata ad accogliere, secondo i piani, quintali di rifiuti ogni anno per vent’anni, ci sono già 6,6 milioni di tonnellate delle oltre dieci che Mosca produce ogni anno ma non sa più dove mettere o spedire. La monnezza della Capitale vaga, spostata come un pezzo superfluo degli scacchi nell’emisfero est, una mossa “necessaria” ha reso noto il comitato ecologico della Duma, che avvisa: lo stesso accadrà per la spazzatura di Pietroburgo e Crimea.

Così i russi hanno dato avvio in sordina nel 2018 alla musornaya voina, la guerra della spazzatura e ora fa rumore quando ferma – o tenta di farlo – l’apertura di quelli che il Cremlino chiama “echotechnopark”, ma di eco e tecno sembrano avere poco, perché i siti assomigliano alle discariche sature di epoca sovietica. Dove non è riuscita alcuna battaglia per la libertà, sta trionfando quella per l’ambiente, sempre meno tutelato tra le colonne di betulle, sentinelle bianche delle foreste che presto, in decine di siti russi, verranno segate via per far spazio ai siti di stoccaggio. Da Kaluga a Yaroslav. I russi scendono in strada per le ultime due cose che non vogliono cedere: l’ossigeno e i deti, i bambini. Si sono affrancati collettivamente dalla paura dell’autorità i residenti di Volokolamsk, dintorni di Mosca, quando lo scorso marzo 60 alunni di una scuola elementare sono stati ricoverati per avvelenamento per i gas in arrivo dalla discarica di Yadrovo. Proteste anche a Klin contro una discarica di 32 mila metri quadri da aprire a 400 metri da una scuola. Come nel villaggio poco lontano dalla Capitale, sempre più comunità si organizzano senza modalità strategiche coordinate. Sono rivolte a macchia di leopardo sulla mappa della Federazione slava, per chiedere, a weekend alterni, una Russia più verde e meno tricolore patriottico. È un movimento che va avanti tra abbandoni, approdi e una vittoria sola finora, quella per la zelenaya zona, zona verde che i cittadini di Ekaterninburg, poche settimane fa, sono riusciti a tutelare fermando la costruzione di una mega-cattedrale.

La vera notizia è che i russi, almeno alcuni, credono di poter cambiare le cose. O almeno bloccarle, protestando simultaneamente il 3 febbraio scorso contro la riforma dell’immondizia, da San Pietroburgo a Omsk, da Yaroslav a Krasnoyarsk, in 20 regioni sotto zero. La questione punge come una spada rovente contro i fianchi del Cremlino.

Un nuovo sondaggio appena pubblicato, clamorosamente sfavorevole alle autorità in fibrillazione, fa saltare nervi e forse accordi: metà dei russi sono preoccupati per l’ambiente delle regioni in cui vivono, dice l’istituto Nafi, citato dall’agenzia statale Itar Tass.

Solo il 4% dei rifiuti totali in Russia viene riciclato, dice Greenpeace Russia, e i 70 milioni di tonnellate prodotti ogni anno finiscono per essere stoccati in aree che, dicono gli attivisti, coprono ormai un territorio quattro volte più grande di Cipro, che raddoppierà nei prossimi dieci anni. Un perimetro velenoso che richiede decisioni fisiologiche più che politiche. Zona verde e zona oscura. Insieme alle balle di rifiuti, quelle degli interessi. La spazzatura brucia chi la tocca, intossica chi la subisce ma arricchisce chi la sposta. Il contratto per la gestione vale oltre dieci miliardi di rubli e dura otto anni. Il titolare del più grande operatore che eroga servizi di trasporto e raccolta rifiuti è appena diventato, senza dover sconfiggere alcun competitore, Igor Chaika, figlio di quel Yuri procuratore generale della Russia. E i russi, questa, hanno cominciato a chiamarla musornaya mafia, la mafia della monnezza.

Nozze Fca-Renault, Le Maire: “Fusione da fare senza fretta”

La Francia resterà “ferma nella difesa” dei suoi interessi industriali, a cominciare dalla tutela degli stabilimenti, dei centri di ricerca e dei posti di lavoro e la necessità che almeno una sede operativa della futura entità nata dalla possibile fusione tra Fca e Renault resti a Parigi. È questo il messaggio martellato come un mantra dal ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, nel giorno in cui il cda di Renault è tornato a riunirsi, proseguendo la riunione a notte inoltrata, per continuare a studiare e dibattere della proposta di nozze italo-americana, dopo la prima fumata nera dell’altro ieri. “Vogliamo fare questa fusione, ma non la faremo a qualsiasi condizione”, ha avvertito il ministro che lo scorso fine settimana ha incontrato personalmente John Elkann, sottolineando con forza che dinanzi a un dossier di questa portata non si può agire in modo “precipitoso”. La governance resta il punto principale. Se nessuno sembra ormai rimettere in discussione la poltrona dello Stato francese, primo azionista di Renault, nel futuro cda, l’esecutivo transalpino vuole essere sicuro che potrà continuare a pesare sulle nomine anche dopo i primi quattro anni di vita del futuro colosso dell’auto.

Il feroce Calenda ulula “Di Martedì”

Quando non è in giro a mangiar cigni e spararsi le pose mostrando virilmente l’adipe europeista, Carlo Calenda delizia le plebi in tivù. Vive proprio dentro il piccolo schermo, dove ama tromboneggiare dall’alto della sua evanescenza bolsa. L’ultima sua idea, geniale come tutte le altre, è quella di creare una forza di centro – insomma un centrino – magari in coabitazione con Renzi e Casini. Giusto per ricordarci che la politica non è più “sangue e merda”, come ammoniva Rino Formica, ma solo la seconda. L’altra sera Calenda era a DiMartedì. In collegamento c’era la Fornero. Accanto a Calenda, il giornalista Alessandro Giuli. Il quale, piaccia o meno, ha ricordato dati incontrovertibili: “Quando governava lei con Monti eravate tutti simpaticissimi, non c’era nessun antipatico, ma se non c’era Mario Draghi a dire che qualunque cosa accadesse sarebbe intervenuto lui col bazooka per far calare lo spread, l’Italia era già a gambe all’aria”. Il pubblico è esploso in un boato, neanche avesse appena visto Mario Giarrusso nudo. È qui che Calenda ha oltrepassato una volta di più le porte della percezione. Dopo aver buttato là un’omelia su come la martire Fornero abbia pagato le colpe di tutti noi cittadini debosciati, ha definito Giuli “cafone” e “fascista”. Detto che se dai a Giuli del “fascista” lo lusinghi, Calenda che dà ad altri del “cafone” è come Sgarbi che grida ’”urlatore bollito” a Memo Remigi. Se va bene Calenda aggredisce qualcuno su Twitter (talora scambiando profili fake per reali); se va male, alza la voce tipo duro-moscio del Roadhouse mentre accusa altri d’esser antidemocratici. Quel che è successo pure martedì, con Calenda che sbraitava paonazzo e Floris che si affannava a calmarlo. Daje. Se non altro, Calenda ha poi abbozzato delle scuse. Parafrasando Forrest Gump: fascista è chi il fascista lo fa. Oppure, e se preferite: Calenda è chi il Calenda lo fa.

Addio al dado Knorr, scioperano i 76 dipendenti contro i licenziamenti

Dopo Pernigotti, Mercatone Uno e Whirlpool, arriva l’ennesima crisi aziendale: la Knorr, di proprietà della multinazionale Unilever, ha deciso di delocalizzare la produzione del dado che da 60 anni viene prodotto nella fabbrica di Sanguinetto, paesino di 4 mila anime nella bassa veronese. La gente compra il dado sempre di meno e le vendite sono calate, si è giustificata la proprietà che ha così deciso di licenziare i dipendenti facendo scattare la protesta dei lavoratori che ieri mattina sono scesi in sciopero contro l’apertura della procedura di licenziamento collettivo per 76 dei 161 lavoratori rimasti. “Stavamo discutendo del rinnovo del contratto integrativo e, invece, l’azienda ci ha comunicato lo spostamento della produzione in Portogallo, racconta Maria Pia Mazzasette, segretaria della Flai Cgil di Verona. “Un comportamento squallido – aggiunge – visto che l’anno scorso c’era già stata una riduzione di personale di 30 persone per rendere lo stabilimento sostenibile”. All’azione sindacale ha fatto, tuttavia, seguito una nota di Unilever che ha “smentito in modo categorico la chiusura totale dello stabilimento e l’abbandono dell’Italia da parte di Knorr”. La multinazionale ha precisato che la razionalizzazione riguarda esclusivamente l’area dello stabilimento relativa ai dadi da brodo tradizionali e non le altre produzioni alimentari e che “l’intervento è necessario per garantire la sostenibilità futura dello stabilimento”. Poco importa aver lasciato per strada 76 lavoratori.

Mittal scarica sullo Stato la stretta sull’ambiente

Sono circa 1400 i dipendenti dell’ex Ilva di Taranto che per 13 settimane saranno collocati in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria. Lo ha annunciato Arcelor Mittal Italia che ha rilevato nel settembre 2018 lo stabilimento siderurgico e attraverso il suo amministratore delegato, Matthieu Jehl, ha motivato la “decisione difficile” come conseguenza delle condizioni del mercato “davvero critiche in tutta Europa” e precisando che si tratta di “misure temporanee” essendo “l’acciaio un mercato ciclico”. L’azienda ha evidenziato “un’importante riduzione del consumo di acciaio a livello europeo e, anche italiano, che ha determinato un progressivo minor carico di ordini e, quindi, di lavoro”.

Un fulmine a ciel sereno? Non proprio. Qualche settimana fa, la stessa Arcelor Mittal aveva annunciato la riduzione della produzione in Europa da 6 a 5 milioni di tonnellate. Non solo. Il ricorso alla cassa integrazione è arrivato soprattutto a distanza di pochi giorni dall’avvio delle procedure di riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale alla fabbrica ionica annunciata dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa per “introdurre eventuali condizioni aggiuntive motivate da ragioni sanitarie”: una procedura che imporrà ai nuovi padroni dell’acciaio italiano prescrizioni più severe e costose. La Valutazione Integrata di Impatto ambiente e salute, infatti, ha definito “non accettabile” il rischio per la salute degli abitanti del quartiere Tamburi, a ridosso dell’impianto: il riesame dell’Aia, quindi, non potrà che disporre per l’azienda un’accelerazione e un aumento degli investimenti per l’ambientalizzazione. Arcelor ha dato da subito il pieno appoggio all’iniziativa di Costa per rendere Taranto “il polo siderurgico integrato più avanzato e sostenibile d’Europa”, ma a distanza di pochi giorni ha scaricato allo Stato il costo di una parte dei lavoratori. Una sorta di do ut des tra fabbrica e governo: la prima garantisce l’impegno economico per gli investimenti necessari a non avvelenare la città e gli operai, il secondo si accolla il costo di esuberi temporanei.

Questa mattina l’azienda incontrerà i sindacati che poco dopo la diffusione della notizia hanno espresso la propria contrarietà. Francesca Re David, segretaria generale di Fiom Cgil ha affermato che “è del tutto evidente che la prospettiva della cassa integrazione ordinaria, per quanto legata per definizione a un’evoluzione di ciclo congiunturale, non ci rassicura e diventa un ulteriore elemento di incertezza” e ha annunciato che “nell’incontro in programma per lunedì 10 giugno chiederemo una verifica sull’attuazione dell’accordo sottoscritto in merito alle strategie industriali e produttive e agli investimenti relativi al processo di risanamento ambientale”. Per Franco Rizzo di Usb Taranto è una decisione “assolutamente inaccettabile” che calpesta “l’accordo del 6 settembre” favorendo il privato a danno dei lavoratori e delle casse pubbliche. Ed è anche sulla modalità improvvisa con cui Arcelor ha informato le organizzazioni sindacali che in tanti puntano il dito: genera una tensione che renderà particolarmente duro l’incontro di oggi.

Nel dettaglio la cassai integrazione riguarderà 1.395 lavoratori dello stabilimento di Taranto che operano nei reparti “Colata continua numero 5”, “Laminatoio a freddo” e “Treni nastri”.

Attualmente il livello di produzione dello stabilimento tarantino si attesta intorno a 4,7 milioni di tonnellate di acciaio e l’obiettivo era quello di raggiungere quota 5 milioni nel 2019 superando così di poco la gestione commissariale. Traguardi che ora sembrano decisamente troppo lontani e rendono ancora più complicata la piena realizzazione dell’accordo firmato il 6 settembre 2018 con la benedizione del vicepremier Luigi Di Maio.

Quel documento, infatti, stabiliva la possibilità di alzare a 8 milioni di tonnellate la produzione annua e, soprattutto, il rientro in fabbrica dei 2.500 dipendenti in esubero che dal 1º gennaio scorso sono rimasti fuori dalla nuova gestione. Di quei 2.500, però, circa 800 hanno scelto l’esodo e l’incentivo di 100 mila euro: sono quindi 1.700 i lavoratori ora in forza a Ilva in amministrazione straordinaria che Arcelor dovrebbe riassorbire tra il 2023 e il 2025. Un quadro che, alla luce degli ultimi fatti, sembra destinato a restare sulla carta.

Renato Rascel e la Ue: “È arrivata la bufeeeraa…”

Ieri non ci pareva vero di poter finalmente omaggiare Renato Rascel: “È arrivata la bufeeeraa / è arrivato il temporaaalee…”. E invece bisognerà pazientare ancora un po’: alla fine non ha piovuto. Ci aveva tratto in inganno, noi che siamo così impressionabili, il titolone di apertura di Repubblica: “E dall’Europa arriva la bufera”. Dice: “Ecco il documento che inchioda il governo: tutto da rifare sui conti” (dopo Rascel, ovviamente tocca a Bartali). Dice: “Bruxelles piega il governo: Ora procedura d’infrazione”. E ieri, effettivamente, la Commissione ha proposto di aprire (non aperto) una procedura di infrazione contro l’Italia sui conti pubblici – chiedendo in sostanza a un Paese in stagnazione una manovra che lo mandi in recessione – e passando la palla ai governi, cui spetterà decidere: “Siamo pronti a scambiare altri dati con l’Italia. La mia porta è sempre aperta”, ha concluso, ecumenico, Pierre Moscovici. Alla fine della partita manca oltre un mese, forse di più e pure la bufera aspetta: lo spread ieri ha avuto la fiammata desiderata dopo la decisione di Bruxelles, ma poi è tornato dove era partito (tradotto: qualcuno sta coprendo i Btp sui mercati). Notevole come l’omaggio a Rascel di Repubblica ricordi quegli annunci del CorSera a novembre sulla procedura di infrazione Ue praticamente già decisa, annunci che tante incomprensioni e imbarazzi hanno creato nella redazione di via Solferino: ma in questo caso siamo sicuri che, ove mai i governi non seguissero le indicazioni dei quasi ex commissari Ue, non ci saranno polemiche. È arrivata la bufeeeraaa…

Trump e le pseudo gaffe. Criticarlo sempre può essere un boomerang

 

Caro Fatto, non amo particolarmente il presidente statunitense Donald Trump, e non è un eufemismo, ma certi atteggiamenti, o meglio attacchi, me lo rendono simpatico. Perché puntare il dito se “osa” stringere la mano alla Regina d’Inghilterra o se nella cena ufficiale chiede una bottiglietta di Coca Cola? Di grave, in lui, c’è ben altro, per me sarebbe meglio non perdere tempo, e derubricare certe situazioni al semplice folklore.

Maria Simonetti

 

Cara Maria, sono totalmente d’accordo con lei. Sottolineando i comportamenti da buzzurro e le gaffe del magnate presidente, finiamo col fargli un favore: un po’ perché lo facciamo apparire un perseguitato del Galateo agli occhi dei suoi elettori che, “rednecks” o suprematisti che siano – e spesso le cose si sovrappongono –, di sicuro non sanno quali siano le buone maniere e neppure gliene importa molto. Lo stesso vale – ma il discorso è più scivoloso, me ne rendo conto – per gli atteggiamenti e le sortite sessiste dello showman presidente.

Anche se, ammettiamolo!, è spesso difficile “passare oltre” i modi e le rozzezze di Donald Trump, pare che ce la prendiamo con lui per come è, non per quel che fa.

E, invece, la sostanza è, se possibile, ancora peggio della forma: presupponenza, sicumera, tronfiaggine, scarsa considerazione per le ragioni altrui. Il che si traduce in sanzioni, dazi, ingerenza dove nessuno gliela chiede – Venezuela o Brexit – e disinteresse dove gli alleati lo vorrebbero impegnato; cattive compagnie dall’America latina – Jair Bolsonaro – al Golfo – MbS e i principi suoi sauditi -; abbandono degli accordi buoni – di disarmo e commerciali, per non parlare del Patto di Parigi sul clima – e i tentativi di smantellare qualsiasi ordine multilaterale, dall’Onu al G7, promuovendo una rete di relazioni bilaterali dove gli Stati Uniti hanno automaticamente la meglio, Cina e forse Russia e magari Ue se fosse coesa escluse.

Il Trump dei fatti è peggio del Trump dei modi. E di sicuro è meno empatico, perché qualcuno può scambiare la rozzezza per schiettezza, ma nessuno è pronto a sacrificare al velleitarismo trumpiano la propria sicurezza e il proprio benessere e il futuro del Pianeta. Nessuno? Lei, Maria, di sicuro no.

Giampiero Gramaglia

Mail Box

 

Giustizia: Salvini vuole tornare all’800, ma i magistrati no

Matteo Salvini ha prospettato una tesi: qualsiasi magistrato che consideri illegittimo un provvedimento del governo deve astenersi dal pronunciarsi in una causa in cui la legittimità di quel provvedimento sia messa in discussione.

Era dalla prima metà dell’800, oltre duecento anni fa, che nessuno aveva sostenuto una simile idiozia, spazzata via dal libro di Giuseppe Mantellini, primo avvocato regio del Granducato di Toscana e poi primo Avvocato Generale dello Stato italiano, intitolato appunto Lo Stato ed il Codice civile. Da allora il governo e i suoi atti amministrativi sono soggetti alla giurisdizione ordinaria e a quella amministrativa, come qualsiasi altra persona o atto.

emilio zecca

 

Prima l’italiano! La sintassi moderna mi fa arrabbiare

Gentile Direttore Travaglio,

di fronte ai problemi che affliggono l’Italia e il mondo, mi occuperò di una questione piccola e marginale.

Da anni ormai sono costretto a leggere sui giornali (purtroppo qualche volta anche su quello da Lei diretto) e ad ascoltare dalla bocca di giornalisti, conduttori e politici frasi come: “A me non convince” al posto di “Non mi convince”; “A me fa arrabbiare” al posto di “Mi fa arrabbiare”; e altre simili che preferisco dimenticare. “Convincere” e “Fare” sono verbi transitivi e reggono l’accusativo e non il dativo.

E non si tenti di giustificarlo come anacoluto! È vero che la lingua italiana è in continua evoluzione: accetto l’ingresso di parole straniere, se contribuiscono alla concisione e alla chiarezza e anche i nuovi significati attribuiti a parole che originariamente significavano altro (ad esempio: “palazzo”). Ma le sgrammaticature eclatanti, per favore, no. La supplico pertanto di invitare i suoi collaboratori di evitarle.

Giovanni Tasselli

 

Caro Giovanni,

Ricevuto! Mi convince!

M. Trav.

 

Stati Uniti d’Europa: sempre più un miraggio

Dopo le ultime elezioni, sarebbe giusto cercare di capire perché la Comunità economica europea (Cee), nata nel 1957, non sia mai diventata una comunità politica, con un Parlamento che delibera a maggioranza semplice, una politica estera comune, un esercito integrato europeo, una unificazione delle leggi nazionali sotto un nuovo Codice penale e civile europeo, e una politica sull’immigrazione comune, che stabilisca accordi efficaci con i paesi da cui partono i clandestini. L’Unione europea, a 62 anni dalla sua fondazione, è unita oggi solo nella moneta unica.

Ma anche a livello finanziario l’unica misura veramente essenziale, cioè l’unificazione del debito degli stati comunitari con l’emanazione di Bond europei per evitare la speculazione sul debito, non è stata mai presa. Gli “Stati Uniti d’Europa”, ancora non esistono: quello che potrebbe essere il polo più importante di un mondo ormai multipolare, è ancora bloccato da egoismi, nazionalismo, servitù e alleanze militari, che ne rallentano la crescita e ne fanno un nano politico.

Forse l’emergenza dei cambiamenti climatici con giovani e giovanissimi che si muovono in tutta Europa, nonchè il loro auspicato ingresso in politica potrà smuovere questo gigante addormentato, perché per avere un futuro europeo bisogna muoversi tutti insieme.

Paolo De Gregorio

 

Strage di piazza Tienanmen, chi c’era e cosa non c’è più

Ogni volta che ricordo quei giorni rivedo gli sguardi pieni di ottimismo e speranza di chi marciava nei cortei, di chi pedalava per raggiungere gli altri, convinto di partecipare alla lotta per un futuro diverso, più aperto, per la Cina tutta. Sguardi che non ho mai più rivisto a Pechino.

Ilaria Maria Sala

 

Morte di Noa: la sofferenza che a nessuno piace vedere

Conosco una persona che ha desiderato la morte. I suoi primi 10 anni furono permeati dalla brutalità, per colpa di una madre violentissima. Quasi ogni giorno era vittima di veri e propri pestaggi: frustate sulle gambe con la gruccia di fil di ferro, la testa sbattuta contro il termosifone, calci o bastonate senza giustificazione. Crescendo, le violenze si trasformarono in apatia, dolore e colpa. La sfera emotiva castrata. E il pensiero della morte era un sollievo, una consolazione. Nel dolore, accostò la sua vita a quella di un famoso cantante: Kurt Cobain. Nella lettera d’addio, il frontman dei Nirvana, oltre a parlare della totale assenza di sentimenti causata dalla depressione, cita la sua infanzia.

Per paradossale che sia, fu questo a salvargli la vita. Si chiese: è questo ciò a cui voglio arrivare?

Al contrario di Noa Pothoven, questa persona non si uccise. Ci mise anni per uscire da quella disperazione: oltre il baratro, nessun Eden o Eldorado, soltanto l’ordinarietà di una vita normale.

Il problema reale è la bassissima considerazione che abbiamo delle ferite dell’anima. Noa è morta, perciò lasciamola in pace. Pensiamo piuttosto ai vivi e alla superficialità con cui si affrontano i problemi psicologici, che si nascondono nella mente ed esplodono nei momenti più inaspettati, e a quelle persone che troppo spesso vengono abbandonate perché sono un “fastidio” di cui, nel nostro egoismo, non vogliamo occuparci.

G. C.