Milano Next: come la città rischia di perdere il tram

Uno dei (tanti) pregi di Milano è il suo sistema dei trasporti. Le linee del metrò funzionano bene, l’azienda pubblica comunale Atm gestisce la rete con buoni risultati, riuscendo anche a tenere i conti in ordine. Anzi, Atm faceva utili e riusciva perfino a comprarsi i treni nuovi con la sua cassa. E stava diventando un player europeo: dopo aver vinto la gara per gestire i trasporti urbani di Copenaghen, la capitale della Danimarca, era stata invitata alla gara per Lille, in Francia, con buone possibilità di vincere anche quella.

Ma il sindaco Giuseppe Sala e il suo socio, l’assessore al Bilancio Roberto Tasca, hanno deciso di cambiare aria, di invertire la rotta. Hanno cacciato Bruno Rota, il manager che aveva ripulito l’Atm dalla corruzione di Tangentopoli e del dopo Tangentopoli e portato l’azienda al successo. Hanno aperto tavoli di discussione con la Regione Lombardia, nella prospettiva (sciagurata) di unire il gioiellino Atm con il disastrato carrozzone Trenord, un’unione che sarebbe stata, più che un matrimonio, uno stupro organizzato. Hanno avviato trattative con le Ferrovie dello Stato – ai tempi guidate dall’ultrarenziano Renato Mazzoncini, che piaceva tanto a Tasca e a Sala – anche se Fs avevano a cuore più la finanza e la Borsa che l’efficienza del trasporto pubblico (vedi come le Fs trattano i pendolari).

Il piano pareva quello di unire Atm, Trenord e Fs, in una matassa di cui il Comune di Milano avrebbe perso il filo e smarrito il controllo dei suoi trasporti urbani e della sua azienda-gioiello. La matassa poi non è diventata un maglioncino, perché Mazzoncini ha dovuto dimettersi da Fs, dopo che Danilo Toninelli, appena arrivato al ministero dei Trasporti nell’estate 2018, aveva chiesto la revoca di tutto il Consiglio d’amministrazione di Fs e le dimissioni dell’amministratore delegato, segnalando il rinvio a giudizio di Mazzoncini per un’inchiesta su Umbria mobilità, l’azienda pubblica dei trasporti umbri.

Sala e Tasca hanno così dovuto fare a meno dell’amico Mazzoncini, anche se sono riusciti comunque ad aprire le porte della città a Fs, infilandola nella società M5, di cui le Ferrovie hanno acquisito – con un’operazione costruita su misura – il 36,7 per cento. M5 è diventata per Fs il cavallo di Troia per espugnare Milano: entrando nella società della linea lilla della metropolitana milanese, ha acquisito i titoli per gestire il servizio – anche senza Atm – e per partecipare – anche contro Atm – alla gara per la gestione dell’intero servizio di trasporto pubblico milanese, oltre alle gare per il trasporto locale in tutta Italia e nel mondo.

Ma intanto Sala e Tasca e i loro amici ne hanno inventata un’altra: Milano Next. Un’associazione temporanea d’imprese in cui Atm si sposa con A2a (multiutility dell’energia), BusItalia (cioè, di nuovo, Fs), Hitachi Rail Sts (costruttore di treni), Commscon Italia (telecomunicazioni e banda larga), IgpDecaux (pubblicità esterna e mobile). Parola magica: project financing. Ossia quella chimera che promette che i privati mettano soldi per “innovare” e “investire sulla rete”, in cambio della gestione per 15 anni del trasporto pubblico a Milano, Monza, Pavia, Lodi e relative province.

In Milano Next, Atm quasi scompare. L’azienda che vinceva le gare all’estero viene oggi rappresentata come quella che nel 2020 potrebbe perdere anche la gara per Milano e dunque deve cambiare pelle e allungare il tavolo, facendo posto ad amici e fornitori, che così non dovranno più essere scelti con gara. A proposito di gare e di fornitori: già ora, la nuova Atm di Arrigo Giana, dopo la cacciata di Rota, ne fa sempre di meno. Ha vinto il luminoso modello Expo.

twitter: @gbarbacetto

Sto con Di Nicola contro i potenti e le minacce

Caro direttore, il senatore Primo Di Nicola in questi giorni fa notizia per essersi dimesso da vicecapogruppo in Senato per il Movimento 5 Stelle. Mi piacerebbe invece che si parlasse di lui per un motivo più di sostanza: ha presentato un ottimo disegno di legge (il n. 835) sulle querele temerarie.

A fronte del diritto di cronaca e del correlativo diritto a essere informati (entrambi essenziali per una società democratica e riconosciuti dalla nostra consolidata giurisprudenza) vi è una ritrosia e un’ostilità delle persone cui la cronaca si riferisce, le quali spesso reagiscono con azioni giudiziarie tanto pretestuose quanto minacciose. Casi come Milena Gabanelli, Saviano, Tizian e il suo stesso sono paradigmatici di come la seria attività giornalistica d’inchiesta sia contrastata dai poteri privati (ma anche pubblici) con azioni giudiziarie penali (querele) e civili (richieste risarcitorie) assolutamente sproporzionate ed esplicitamente intimidatorie. I “potenti” si fanno difendere da stuoli di avvocati, frequentemente preparati e arcigni, che operano con il solo scopo di far apparire fondate pretese risarcitorie che sono del tutto sfornite di copertura giuridica.

Molto di frequente i giornalisti d’inchiesta sono giovani senza contratto a tempo indeterminato, che vengono pagati a pezzo e che vivono da anni nel precariato e nell’incertezza. Spaventare queste persone – con la prospettiva di risarcimenti cospicui oltre che di parcelle sostanziose per gli avvocati – è purtroppo assai agevole. Ecco perché bisogna stare accanto ai giovani che seguono l’esempio di Lirio Abbate, Agostino Pantano, Ester Càstano, Paolo Borrometi e di altri.

Primo Di Nicola propone di scrivere nel Codice di procedura civile che – se la causa è intentata contro un giornalista in modo temerario, perché palesemente infondato – chi fa finta di essere diffamato e soccomba in giudizio paghi una pesante penale.

Nella scorsa legislatura (v. il Fatto Quotidiano del 25 e 26 luglio 2017) avevo avanzato una proposta simile, forse anche più radicale (v. n. 2659 della XVII legislatura). Siccome resistere fino alla fine della causa, in seguito alla quale pure si può uscire vittoriosi, costa un sacco di quattrini, i giornalisti sono costretti a stare sotto scacco per anni. Proponevo allora che, per le cause o le querele palesemente infondate, perché relative a fatti veri e provati, il giudice potesse dichiarare subito l’azione giudiziaria inammissibile o improcedibile e condannare il querelante a una penale, senza svolgere un procedimento lungo e defatigante. Il mio disegno di legge purtroppo non fece strada.

Il problema è serio: alcuni giudici hanno il coraggio di procedere per calunnia contro i querelatori seriali e temerari (è il recente caso del pubblico ministero di Brescia che ha chiesto il rinvio a giudizio del sindaco di Berzo Demo che aveva querelato un cronista che diceva una cosa vera; un caso non dissimile si è avuto a Rodi Garganico in provincia di Foggia); altri no. Auguro al disegno di legge del sen. Di Nicola di procedere speditamente.

 

Cari ipocriti in toga, noi l’avevamo detto

La recente vicenda che, con le dimissioni di un componente e altri quattro autosospesi, sta travolgendo il Csm, non è altro che l’ultimo e più torbido effetto di quella perversa degenerazione correntizia che sta portando alla disintegrazione, se non dell’intero sistema giudiziario, sicuramente dell’organo di autogoverno oramai da tempo occupato e presidiato dalle correnti associative. Tale degenerazione si sostanzia nella lottizzazione di incarichi direttivi, anche ai più alti livelli (molto spesso “appannaggio” di ex Csm), di prestigiosi incarichi extragiudiziari, di posti nell’ambìto massimario della Cassazione, nelle commissioni del concorso in magistratura, nel direttivo della Scuola Superiore della Magistratura ecc.. Soggetti attivi di queste spartizioni sono i componenti del Csm, espressi dalle rispettive correnti, ma spesso “orientati” dai vertici delle correnti medesime, che non disdegnano di ricorrere ad accordi e alleanze trasversali sottobanco (anche con membri laici) per avere il controllo del Csm; tutto ciò con il supporto di magistrati-segretari di fiducia delle correnti, per redigere “medaglioni” (profili dei magistrati) necessari alla bisogna.

Non è, quindi, senza significato che il protagonista principale della vicenda (Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione) sia, di fatto, il capo di una corrente (Unicost) e sia stato, per anni, potente presidente dell’Anm e membro uscente del Csm, e che sullo sfondo appaia (ancora una volta) la figura di quel Cosimo Ferri, “gran visir” di un’altra corrente (Mi) di cui è stato segretario e poi componente del Csm, oggi magistrato fuori ruolo, prima sottosegretario alla Giustizia in quota Pdl e oggi deputato Pd e che inviò, durante la campagna elettorale per il rinnovo del Csm 2014-2018, migliaia di sms chiedendo il voto per due semisconosciuti candidati di Mi, Pontecorvo e Forteleoni, puntualmente eletti. Ed è ancora significativo che, secondo la stampa dell’epoca, i principali protagonisti dell’accordo tra le due correnti (Mi, Unicost), che avevano portato all’elezione di vicepresidente il deputato Pd Davide Ermini, sarebbero stati proprio i due rispettivi leader di fatto Ferri e Palamara (che Marco Lillo, su questo giornale, definì “l’uomo chiave della partita in corso al Csm”, “in ottimi rapporti con il giro renziano”).

E allora, solo tenendo presente questo perverso meccanismo, si può comprendere (ma non giustificare) perché mai il componente di Unicost Luigi Spina si ritenga in dovere di comunicare al “capo” le notizie sul suo processo pervenute al Csm col rischio, poi verificatosi, di essere indagato e doversi per questo dimettere, e perché Palamara possa rivolgersi al consigliere del Csm intimandogli: “No, adesso lo devi chiamare, altrimenti mi metto a fare il matto” (il Palamara sollecitava, perentoriamente, l’audizione del pm Stefano Fava che aveva presentato al Csm un esposto contro l’aggiunto Paolo Ielo che il Palamara “odiava” per avere “osato” trasmettere a Perugia atti sul suo conto). E solo così si può comprendere (ma non giustificare) perché altri quattro componenti, Corrado Cartoni, Antonio Lepre e Paolo Criscuoli di Mi e Gianluca Morlini di Unicost si sentano in dovere di partecipare alle riunioni con Ferri e Palamara (e con il politico imputato del Pd Luca Lotti) per discutere delle nomine strategiche di procure di Roma e di Perugia.

Ora che il torbido sistema sta (finalmente) crollando, tutti cercano ipocritamente scampo: l’Anm ci ricorda che “sono inaccettabili rapporti tra magistrati e politici” e Unicost umoristicamente vuole costituirsi parte civile (!).

Non era certo necessario che si pervenisse a questo indegno epilogo che disonora la magistratura perché il Plenum del Csm – presenti il presidente e il pg della Cassazione che sono, per mera “coincidenza” (come ritiene Repubblica) anche, rispettivamente, importanti esponenti di Mi (leggi: Ferri) e Unicost (leggi: Palamara) – si accorgesse del malcostume – per anni denunciato (invano) dal Fatto Quotidiano e a tutti noto e gridasse “No alle logiche spartitorie”; “basta degenerazioni correntizie e giochi di potere”; e auspicasse di recuperare “l’etica della funzione” e cambiare “metodi di selezione e di rappresentanza”.

Ma se veramente (e non fittiziamente) si vuole “il riscatto” (o saremo perduti) come dice il vicepresidente Ermini: a) si riconduca l’Anm nei suoi circoscritti limiti che le derivano dall’essere una semplice associazione privata; b) si tolga a essa e alle sue correnti la possibilità di partecipare, in qualsiasi modo, alle elezioni dei componenti del Csm; e poiché tutti i diversi sistemi di elezione succedutisi nel tempo non hanno dato alcun risultato, l’unica soluzione è quella del sorteggio (anche integrato) dei membri togati (sempre auspicato da questo giornale e, guarda caso, sempre osteggiato dall’Anm); c) si riformi radicalmente la sezione disciplinare spesso terreno, a seconda dei casi, di favori o di rivalse; d) si abolisca l’immunità (palesemente incostituzionale) dei membri del Csm, fonte di abusi ed eccessi di ogni genere.

“Chiesa Usa,soldi alle lobby per coprire i preti pedofili”

La Chiesa cattolica americana avrebbe pagato a lobbisti 10,6 milioni di dollari per prevenire cause per danni da parte di vittime degli abusi del clero. Secondo un nuovo rapporto commissionato da studi legali che rappresentano oltre 300 vittime, i fondi sarebbero stati sborsati tra 2011 e 2018 in otto Stati del nord-est degli Usa dove erano in discussione leggi per riaprire i termini entro cui è possibile fare denuncia. Lo riporta la NbcNews. Secondo Stephen Weiss, un avvocato che lavora per uno degli studi che hanno commissionato il dossier, “siamo davanti all’ennesima conferma: la Chiesa cattolica rifiuta di assumersi la responsabilità per decenni di abusi avvenuti sotto i suoi occhi”. Circa metà degli oltre 10 milioni di dollari sarebbero stati spesi in Pennsylvania per evitare che lo Stato allargasse la fascia temporale entro la quale è possibile fare azione legale, si legge nel rapporto commissionato dagli studi legali. La Pennsylvania, sulla spinta dell’Attorney General Josh Shapiro, il cui grand giurì l’anno scorso ha individuato 301 “preti predatori” di oltre mille minori, è lo Stato che ha guidato la carica per la modifica dei termini legali.

Fine vita, la legge “obbligatoria”: ma quando?

Sta per scadere il tempo. “Un anno per consentire al Parlamento italiano di intervenire con un’appropriata disciplina” sul cosiddetto “fine vita”: così ha messo nero su bianco la Corte Costituzione il 24 ottobre 2018 con un’ordinanza che gli esperti definiscono “fuori dalla prassi”.

Oggi la vicenda di Noa Pothoven ha comunque rimesso al centro la questione nel nostro paese. E riproposto alle Camere la necessità di dimostrare come colmare il vuoto legislativo individuato dai togati – dello stesso organo di garanzia – rispetto alla “questione di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale” (l’istigazione o aiuto al suicidio).

La Corte ha infatti rinviato il compito di intervenire sulla questione sollevata dal caso di Fabiano Antoniani (Dj Fabo) che aveva reso pubblica la sua scelta di andare in Svizzera per il suicidio assistito, accompagnato da Marco Cappato imputato dopo l’autodenuncia fatta al suo rientro in Italia.

Nel dettaglio quindi il Parlamento italiano, entro l’udienza della Corte fissata il 24 settembre 2019, dovrebbe legiferare sulla “rilevanza penale dell’aiuto al suicidio che punisce chiunque determini altri al suicidio o rafforzi l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione”.

Più chiaramente: la Corte Costituzionale era stata chiamata a decidere sulla questione di legittimità sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del processo contro Marco Cappato (accusato di aver accompagnato Antoniani in Svizzera per suicidarsi,) dell’articolo 580 del codice penale. Per questo i giudici costituzionali scrivono: “L’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”.

La trattazione della questione verrà affrontata il 24 settembre ma nel frattempo l’orizzonte più vicino è lunedì 24 giugno quando nell’aula di Montecitorio i partiti verranno chiamati a votare. Manca però un testo base rispetto alle quattro diverse proposte di legge presentate in II Commissione (Giustizia) e XII Affari Sociali (Sanità) di Montecitorio.

Se non dovesse esserci un accordo sul testo base l’unica via praticabile è quella dell’approvazione della proposta del deputato Andrea Cecconi già M5S, oggi Gruppo Misto, a cui si deve la richiesta di calendarizzazione in aula.

Che si proceda pare però molto complicato: i 5S difficilmente accetteranno una proposta di un fuoriuscito dal Movimento, mentre la Lega è contraria al merito. Possibile quindi il rinvio in commissioni congiunte. Ecco perchè si tratterà di una impresa impossibile che dovrà dirimere e risolvere la Corte.

Come spesso accade ormai, sempre più spesso, per questioni etiche.

 

Nessuna eutanasia, Noa si è lasciata morire (ed è legale)

Ci sono vite appese a un filo, come quella di Noa. E notizie che dovrebbero rimanere legate, saldamente, alla verità. Perché l’eutanasia è un tema tortuoso e raccontarlo come il capriccio di una ragazza triste, incapace di reagire a un trauma, è una distorsione presuntuosa della realtà, tipica di chi crede che l’animo umano sia un acquario, trasparente e circoscritto. Perché non è vero che Noa sia morta con l’impassibile complicità del suo Paese, l’Olanda. Non è una storia di eutanasia legale, quella di Noa, sebbene in tanti, sull’onda dell’emotività e talvolta di una cattiva fede di quelle che fanno comodo, di questi tempi, abbiano raccontato che sia andata così. Non è andata così. La diciassettenne Noa era reduce da una serie di abusi sessuali e prima ancora di voler smettere di vivere, aveva smesso di sopravvivere. Lo aveva scritto lei stessa, in un doloroso messaggio sulla sua pagina Instagram, pochi giorni prima di andarsene: “È finita, non ero viva da troppo tempo, sopravvivevo e ora non faccio più neanche quello. Respiro ancora, ma non sono più viva”. Depressione, psicologi, elettroshock, alimentazione forzata tramite coma farmacologico, Noa e chi amava questa ragazza sottile, frangibile come quel filo che la legava blandamente alla vita, le avevano tentate tutte. Lei però non trovava pace né sollievo. Sentiva che la vita era un carico troppo gravoso da sopportare e che non si esiste respirando e basta. Aveva chiesto al suo Paese di consentirle l’eutanasia legale, ma le era stata rifiutata. Lo raccontava nel suo libro, uscito nel 2018: “La domanda è stata rifiutata perché sono troppo giovane e avrei dovuto affrontare un percorso di recupero dal trauma psichico fino a 21 anni. Ritengono che sia molto giovane, che debba terminare il trattamento psicologico finché il mio cervello non sarà completamente sviluppato. Non succederà fino all’età di 21 anni. Sono distrutta perché non posso aspettare così a lungo”.

Quindi no, non c’è stata una mano fredda e burocratica a staccare la spina. Quella spina l’ha staccata la mano diafana di una ragazza che aveva smesso di nutrirsi e di bere, una ragazza abbracciata fino alla fine dai suoi familiari, inermi di fronte a quella tenace volontà di morire. “Amore è lasciare andare”, aveva scritto Noa. E ha fatto bene Marco Cappato ad arrabbiarsi per una notizia riportata in modo errato o equivoco soprattutto in Italia e in Inghilterra. “Noa ha smesso di mangiare e bere. Significa lasciarsi morire ed è legale anche in Italia. L’eutanasia non c’entra.”, ha dichiarato su twitter. Peccato che il Papa, un’ora dopo, abbia twittato: “L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza”. Nessuno aveva abbandonato Noa. Noa se ne è andata nella sua casa, circondata dall’amore dei suoi familiari. Nessuno si era arreso. L’accettazione è amore, non è resa.

Nessuno aveva smesso di prendersi cura di lei, chi la amava non poteva nutrirsi e idratarsi al posto suo. E nessuno, purtroppo, poteva restituire la speranza a una giovane ragazza che, cristianamente parlando e malgrado quello che pensa il papa, aveva accettato la sua croce. L’aveva accettata così profondamente da ritenerla un prolungamento di sé, non una zavorra passeggera di cui si sarebbe liberata. Per questo la scelta di Noa è stata solo di Noa e in fondo è perfino inesatto chiamarla “scelta”: è stata la sua croce a decidere per lei.

Case occupate, liberi otto antagonisti arrestati in dicembre

Tornano liberi dopo quasi sei mesi agli arresti domiciliari, gli otto antagonisti arrestati lo scorso 13 dicembre per associazione per delinquere finalizzata all’occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica e alla resistenza a pubblico ufficiale per una presunta gestione illecita di case popolari, a Milano. Lo ha deciso la quarta sezione penale del Tribunale davanti alla quale gli imputati sono già a processo, accogliendo le istanze dei legali: “A molti mesi dai fatti – scrive il collegio – trascorsi nel rispetto delle misure cautelari e senza reiterazione di condotte illecite del tipo di quelle loro ascritte, deve ragionevolmente ritenersi che le esigenze cautelari siano venute meno”. Per i giudici la “non breve durata complessiva delle diverse misure cautelari” ha “ragionevolmente avuto un’efficace funzione special-preventiva”. La presunta associazione per delinquere che non agiva per fini di lucro, secondo l’accusa, avrebbe avuto “uno scopo comune: una propagandata ‘giustizia sociale’ a tutela del diritto della casa, volta a creare una soluzione all’emergenza abitativa, parallela e contrapposta a quella offerta dalle Istituzioni”.

Segregata in casa dal “guru del corallo” (già arrestato), fugge gettandosi dalla finestra

Il suo aguzzino era stato assolto a gennaio 2018 “perché incapace di intendere e volere”.

È lui il fidanzato 40enne da cui una ragazza di 26 anni ieri è fuggita gettandosi dalla finestra. Era stata rinchiusa in casa contro il suo volere. La vicenda è accaduta a Milano. Il carnefice è Giacomo Oldrati chiamato il “guru del corallo”. Da quanto emerso infatti usava una sostanza tossica ricavata dai funghi del corallo per drogare le vittime.

Si considerava un santone che costringeva le ragazze a subire atti umilianti e vessatori. Ieri la donna si è buttata nel vuoto dal secondo piano del palazzo nel quale era stata segregata da sabato scorso. Ha atteso un momento di distrazione del sequestratore e si è lanciata dalla finestra. Si è miracolosamente alzata da terra, senza abiti addosso, ha cercato aiuto in un negozio. Dopo i primi soccorsi e l’arrivo della polizia la vittima è stata portata in ospedale.

L’inferno dentro le mura di casa. Sequestrata dall’uomo che rintracciato dalle forze dell’ordine si è subito scagliato contro i poliziotti prima di essere arrestato, accusato di sequestro di persona, lesioni aggravate e resistenza a pubblico ufficiale.

È poi emerso che già nel 2012 era finito in manette per il tentato omicidio di 5 ragazze ma, dichiarato incapace di intendere e di volere, era stato assolto.

Quattro anni fa aveva conosciuto l’attuale fidanzata che ancora traumatizzata è riuscita a raccontare come per i primi tre anni, anche a fronte di una cura farmacologica a cui era stato sottoposto, riusciva a mantenersi tranquillo. Da marzo erano iniziate le aggressioni, fino al fine settimana scorso di terrore dal quale si è liberata solo rischiando la vita.

Depistaggio Cucchi, archiviato il maresciallo Mandolini. La sentenza a fine novembre

La posizione di tre persone indagate nel filone depistaggi dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi – per la quale è stato chiesto il rinvio a giudizio per otto carabinieri – è stata archiviata. Il decreto è stato firmato lo scorso 5 aprile dal gip del Tribunale di Roma Elvira Tamburelli e riguarda il capitano Nico Blanco, l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano – cugino di uno dei carabinieri per i quali è stato richiesto il rinvio a giudizio – e il maresciallo Roberto Mandolini, già imputato nel processo in corso per il pestaggio ma solo con le accuse di calunnia e falso. La circostanza è emersa appunto al dibattimento, che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Un’udienza rapida, nella quale è stato ascoltato un solo testimone della difesa ed è stato completato il calendario delle udienze e, salvo slittamenti, c’è anche la possibile data della sentenza della Corte d’Assise di Roma: il 26 novembre.

Il 19 luglio, invece, è fissata la requisitoria del pm Giovanni Musarò che sostiene l’accusa di omicidio preterintenzionale contro Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernando e Francesco Tedesco, accusati di aver pestato il geometra romano dopo l’arresto per droga avvenuto il 15 ottobre 2009. Una settimana dopo, il 31enne morì nell’ospedale Pertini di Roma.

Dopo nove anni, Tedesco ha rotto il silenzio accusando i colleghi Di Bernardo e D’Alessandro. “Per me questi nove anni di silenzio sono stati un muro insormontabile”, ha detto aprendo la sua deposizione in aula lo scorso 8 aprile. Quindi il pestaggio, quasi in presa diretta, tutto d’un fiato: “Al fotosegnalamento Cucchi si rifiutava di prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito. Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto”, ha raccontato, entrando nei particolari.

Esplode bombola di gas al banco, strage sfiorata al mercato rionale

Un inferno di fuoco quello che si è scatenato ieri a mezzogiorno nel mercato rionale della stazione ferroviaria a Gela. Davanti al furgone Iveco per la vendita di polli allo spiedo erano assiepate decine di clienti. All’improvviso un’esplosione violenta ha investito in pieno le tre persone a bordo (due uomini e una ragazza) e innescato un violento incendio che ha coinvolto li presenti. Venti i feriti, quattro dei quali in gravi condizioni. Le fiamme hanno investito in pieno chi stava nel raggio di pochi metri dal furgone, molti sono rimasti ustionati. Gli altri ambulanti hanno prestato i primi soccorsi tentando di spegnere il fuoco che stava divorando il furgone e gli ombrelloni delle bancarelle vicine. Il boato, le fiamme e la densa colonna di fumo nero hanno creato il panico nel mercato. Sul posto scene di disperazione, con pianti, urla e richieste disperate di aiuto. I feriti più gravi sono stati portati in ospedale. Da Caltanissetta è arrivato un elicottero del 118 per assistere una delle casalinghe ustionate, all’ottavo mese di gravidanza, trasferita al centro Grandi ustioni di Palermo. Al Cannizzaro di Catania invece è stata trasportata sempre la ragazza che lavorava nel furgone e che per fortuna non rischierebbe (come si temeva) di perdere l’uso di un occhio; il 50% del suo corpo però è ricoperto dalle bruciature. Nei centri specializzati per Grandi ustionati sono stati ricoverati anche i due compagni di lavoro, tutti in codice rosso e prognosi riservata. Gli altri feriti, meno gravi perché coinvolti marginalmente dall’esplosione e dall’incendio, sono ricoverati a Gela,

La Procura di Gela ha aperto un’inchiesta per accertare le cause dell’esplosione e le responsabilità; carabinieri e polizia hanno posto sotto sequestro il furgone Iveco e le bombole per le necessarie perizie tecniche.