La “macchina della sabbia” di “Repubblica” e l’arte di nascondere o taroccare le notizie

Repubblica accusa il Fatto di “macchina del fango” e “buca delle lettere” per aver pubblicato notizie vere, mai smentite, sentendo tutti i protagonisti, ma sgradite ad alcuni colleghi di Repubblica e ai loro danti causa. Giudichino i lettori se sia meglio quel “fango”, oppure la sabbia di Repubblica. Se cioè le notizie vadano sempre pubblicate con l’evidenza che meritano, senza essere accusati di “sfregiare la reputazione” degli interessati – singolare anatema di Carlo Bonini, che non ricordiamo altrettanto attento alla reputazione dei protagonisti dei suoi pezzi – oppure bucate, acquattate, ridimensionate, annichilite in trafiletti, nascoste nelle edizioni locali. Insomma: insabbiate. O magari taroccate (come il famoso “taglia e cuci” made in Bonini delle chat Di Maio-Raggi, per far dire al primo il contrario di ciò che diceva su Marra; o le bufale su tangenti alla Raggi).

In questo alcuni colleghi dei piani alti di Repubblica sono maestri. Specialmente se gli scoop riguardano gli amici di Matteo Renzi e del Pd il cui “tesserato n. 1” è Carlo De Benedetti, già patron del Gruppo. A Napoli, sul caso Consip, lavorano due ottimi giornalisti di giudiziaria: Conchita Sannino e Dario Del Porto. Il 22 febbraio 2017 firmano un articolo bomba, zeppo di materiale inedito, sulle manovre di Carlo Russo e Alfredo Romeo. Il faccendiere toscano e l’immobiliarista napoletano vengono raccontati mentre, intercettati dai pm Woodcock e Carrano, discutono di affari, interventi e interessi ovunque: nel Salento, dove Russo vorrebbe proporre a Romeo un investimento immobiliare a cui sarebbe interessato anche il babbo dell’allora premier, Tiziano Renzi; all’Inps, dove Russo dice di poter aprire un “canale”; nell’editoria, ragionando sull’eventuale acquisto de l’Unità o de la Città di Salerno.

Misteriosamente, però, l’articolo viene confinato nelle pagine di Repubblica Napoli. E non sarà letto da chi ne acquista una copia a Roma, a Milano o in Puglia: il governatore pugliese Michele Emiliano salterà dalla sedia quando saprà dei contatti di Russo con Romeo, ricordando che l’amico toscano di Tiziano gli chiese un appuntamento. “Uno da stare a sentire” scrisse Luca Lotti in un sms di raccomandazione a Emiliano, altro scoop del Fatto, il 24 febbraio 2017.

La tattica di recintare a Napoli gli argomenti fastidiosi agli amici di Renzi viene usata anche quando la “macchina del fango” del Fatto produce lo scoop sul tentativo – fallito – di Romeo di abbordare il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone attraverso un incarico (legittimo) al fratello avvocato Bruno. Il Fatto ci apre il giornale del 17 gennaio 2017. Il giorno dopo Repubblica la riprende lasciandola nelle pagine napoletane. Il 21 gennaio 2017 i fratelli Cantone vengono sentiti a Napoli come testi. Il giorno dopo anche Repubblica dedica un paginone agli sviluppi investigativi. E la correda di una succosa intervista a Bruno Cantone. Solo sull’edizione locale.

Tanta attenzione a non diffondere troppo in giro roba urticante per i renziani, troverebbe una clamorosa spiegazione in un altro buco di Repubblica, che il 10 gennaio 2018 non pubblica una notizia che campeggia ovunque: grazie a una soffiata di Renzi sull’imminente riforma delle banche popolari, Cdb ha dato disposizioni al suo broker di acquistare azioni degli istituti di credito e ci ha guadagnato 600.000 euro. Il giorno dopo Repubblica è costretta a mettere su carta qualcosa a pagina 8. Buttando la palla sulla tribuna della baruffa elettorale: “Banche, diventa un caso politico la telefonata Renzi-De Benedetti”.

La circostanza era contenuta nella richiesta di archiviazione per il broker avanzata dalla Procura di Roma. Il Gip la straccerà e ordinerà l’imputazione coatta per lui e solo per lui, il broker, Gianluca Bolengo, l’esecutore dell’ordine di De Benedetti, il vaso di coccio tra i vasi di ferro. Renzi e De Benedetti non sono nemmeno indagati. Ma questo certamente non ha nulla a che vedere con la linea di difesa di Pignatone – e della continuità di un’eventuale successione di Francesco Lo Voi – assunta da Repubblica.

Su Luca e Amara ora indaga anche il pm di Milano

L’ex ministro del Pd Luca Lotti conosce Piero Amara, all’epoca legale esterno dell’Eni, nell’estate del 2014. A metterli in contatto è Andrea Bacci che, all’epoca, da un lato è un uomo forte del Giglio Magico, dall’altro è amico di Amara, del quale diventerà socio in affari. L’episodio è confermato al Fatto dallo stesso e sui rapporti tra Amara e Lotti stanno indagando il procuratore aggiunto Laura Pedio e il pm Paolo Storari della Procura di Milano. Interpellato sui suoi rapporti con Amara, Lotti ha preferito non rispondere al Fatto, che gli ha rivolto delle domande via sms. La circostanza è interessante per diversi motivi.

L’inchiesta di Perugia ha rivelato in questi giorni che Lotti (non indagato, ndr) s’interessava, negli incontri con il pm e uomo forte di Unicost, Luca Palamara, della futura nomina del procuratore di Roma. L’inchiesta non riguarda quella nomina ma senza dubbio quella di Gela. Palamara è accusato di essere stato corrotto e di aver “messo a disposizione – dal 2014 al 2017 – la sua funzione di membro del Csm favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati Piero Amara e Giuseppe Calafiore”. Giuseppe Calafiore è un avvocato legatissimo ad Amara. Secondo l’accusa avrebbero corrotto Palamara con 40 mila euro per nominare l’ex pm di Siracusa, Giancarlo Longo, capo della Procura di Gela. Palamara respinge ogni accusa. Calafiore smentisce di aver mai pagato. A rivelarlo è però lo stesso Longo in un interrogatorio del 31 luglio 2018 dinanzi ai pm di Messina. Interrogato dai pm perugini il 26 aprile scorso spiega che “l’interesse di Amara” rispetto alla sua nomina a Gela era collegato “ai procedimenti Eni ivi pendenti”. C’è però un altro filo rosso che collega la figura di Longo con quella di Amara, Calafiore e Lotti. Amara e Calafiore sono indagati dalla Procura di Messina, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, per aver confezionato un fascicolo farlocco, in concorso con Longo, che aveva l’obiettivo di intralciare l’inchiesta milanese che vede oggi imputato Descalzi, per corruzione internazionale, nel processo sulla maxi tangente pagata dall’Eni in Nigeria per l’acquisto del giacimento Opl 245.

Longo ha già patteggiato 5 anni a Messina e il fascicolo è stato trasmesso per competenza a Milano.

Il fascicolo del depistaggio – ordito da Amara in concorso con Calafiore e Longo – riguarda un finto complotto ai danni di Descalzi. È l’estate del 2016 e tra i testimoni chiamati da Longo a confermare il complotto c’è proprio Bacci, tirato in ballo, insieme con Marco Carrai, da chi ha confezionato il falso dossier. Bacci conferma l’ipotesi con la sua testimonianza. Sostiene che un imprenditore iraniano gli ha parlato del progetto di sostituire Descalzi con un altro manager Eni. Interpellato dal Fatto, Bacci ha sempre sostenuto di aver detto la verità nell’interrogatorio dinanzi a Longo ma di aver spiegato che si trattava di un evidente millantatore. L’imprenditore iraniano, al Fatto, ha invece smentito di aver parlato di vicende Eni con Bacci. Nell’estate 2016 Longo però intende convocare altre due persone: Carrai e Lotti. Che in quel momento, dopo la presentazione di Bacci, conosce Amara già da un paio d’anni. Il pm però non fa in tempo a convocarli: dopo i primi articoli del Fatto, che sin dall’inizio ipotizza un depistaggio e spinge persino il Copasir a occuparsi della vicenda, il fascicolo gli viene provvidenzialmente sottratto. Abbiamo chiesto a Lotti di confermarci i suoi rapporti con Amara e di spiegarci se l’ex avvocato dell’Eni gli abbia mai parlato del fascicolo sul quale Longo voleva sentirlo come testimone. Non ci ha risposto.

Le relazioni pericolose e il balbettìo di “Zinga”

Nicola Zingaretti finalmente ieri ha detto qualcosa sul caso che investe il Csm, Luca Lotti e Cosimo Ferri.

Le sue parole purtroppo sono in stile Zingaretti: “La divisione e l’autonomia tra i diversi corpi dello Stato penso sia un principio basilare da difendere”. E come si concilia questo pensiero alto con gli incontri notturni tra membri del Csm, magistrati come Palamara e l’ex ministro Luca Lotti? Come si concilia questo auspicio con il ruolo giocato da Cosimo Ferri, prodotto perfetto delle porte girevoli tra magistratura, governo, Csm e ora Parlamento?

Zingaretti è molto cauto sui comportamenti degli uomini vicini a Matteo Renzi in questo scandalo. Potrebbe tirare un rigore a porta vuota e segnare la discontinuità con il predecessore ma tentenna. Forse perché, rispetto al mondo di Luca Palamara, il magistrato al centro dello scandalo, non c’è poi molta discontinuità da rivendicare. Zingaretti per esempio aveva buoni rapporti con Fabrizio Centofanti, il presunto corruttore di Palamara. E Centofanti non è solo l’imprenditore indagato come corruttore di Palamara a Perugia per i soggiorni alberghieri donati al magistrato in cambio del suo intervento al Csm contro un pm siciliano. Le società del giro di Centofanti pagano anche l’ex capo gabinetto di Zingaretti in Regione, Maurizio Venafro, e il costruttore Peppe Cionci, in passato vicino a Zingaretti. Venafro per questo è stato indagato per corruzione e Cionci per reati fiscali.

Non solo. Centofanti è anche al centro dell’unica grana giudiziaria di Zingaretti. Il segretario è indagato per finanziamento illecito perché, per l’avvocato Giuseppe Calafiore, “Centofanti era sicuro di non essere arrestato perché riteneva di essere al sicuro in ragione di erogazioni che lui aveva fatto per favorire l’attività politica di Zingaretti”. Accuse de relato che non hanno trovato riscontro e che però non aiutano il Pd a tenere una linea dura sul caso Palamara-Centofanti.

Il Pd fa lo gnorri su Lotti, ma Roberti picchia duro

“Alla fine di questa storia chiederò a tutti di rispondere delle accuse infondate e infamanti contro di me”. Mercoledì sera Luca Lotti va all’attacco. Per uno che tende a non parlare, neanche sotto tortura, un chiaro segno di nervosismo: “Sui giornali e nei tg il mio nome è stato tirato in ballo, sempre a sproposito, nonostante io non abbia commesso nessun reato. Pare che incontrarmi o cenare con me sia diventato il peggiore dei reati: se così fosse in molti dovrebbero dimettersi, magistrati e non”.

Il riferimento è alle notizie sul ruolo avuto da lui e da Cosimo Ferri (oggi deputato Pd) per condizionare la scelta del procuratore di Roma. Mentre tali notizie iniziavano a emergere, lo stesso Lotti presiedeva una riunione di corrente. Martedì sera in Senato all’incontro di “Br” (ovvero Base Riformista), presieduto dall’ex sottosegretario a Palazzo Chigi e da Lorenzo Guerini (presidente del Copasir), c’erano circa 40 esponenti Pd. Da Antonello Giacomelli al capogruppo, Andrea Marcucci. Ma nessuno chiede informazioni. “Si trattava di una riunione politica”, prova a chiudere la questione Guerini con il Fatto, il cui imbarazzo si evince dall’uso di meno parole possibili.

Dai vertici del Pd non arriva nessuna presa di posizione per quasi tutta la giornata di ieri. Anche se i rapporti tra il segretario Zingaretti e gli ex renziani sono ormai ai minimi termini. Ci pensa l’ex procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, neoeletto eurodeputato a rompere il fronte del silenzio: “Chiedo al Pd, finora silente, di prendere una posizione di netta e inequivocabile condanna dei propri esponenti coinvolti in questa vicenda, i cui comportamenti diretti a manovrare sulla nomina del successore di Giuseppe Pignatone sono assolutamente certi”. Appello destinato a cadere nel vuoto. Anzi, è la seconda parte della sua dichiarazione che riceve più attenzione: “Nel 2014 il governo Renzi con decreto legge, abbassò l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella sciagurata iniziativa era dettata da un duplice interesse: liberare in anticipo una serie di posti direttivi per fare spazio a cinquantenni rampanti; tentare di influenzare le nuove nomine”. È a questo punto che ancora una volta il Pd rivela la sua debolezza. Perché quella riforma fu fatta dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Che non solo oggi è il vicesegretario del Pd, ma che di Roberti è stato lo sponsor. E poi, come sottosegretario al ministero aveva lo stesso Ferri: i due non sono mai andati troppo d’accordo, ma la continuità tra vecchio e nuovo Pd continua a essere un fatto.

E così la prima reazione diretta a Roberti è di Carmelo Miceli, deputato siciliano: “Incomprensibile l’attacco di Franco Roberti, contro l’operato dell’attuale vicesegretario Orlando”. Più prudente, ma sempre critico, il commento al Fatto del capogruppo dem in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli: “In questo momento delicato non abbiamo bisogno né di reazioni emotive, né di giudizi sommari. Ritengo invece che una misura di cautela e prudenza sia opportuna, a tutela delle persone coinvolte, e ancor più della magistratura e di un organo di garanzia e presidio istituzionale come il Csm. Fuori luogo poi associare le vicende di oggi alle scelte del passato governo”. Nel frattempo, arriva la reazione del segretario: “Le indagini dovranno accertare la verità e le responsabilità individuali”. Nel suo circolo stretto lo considerano un chiaro riferimento a Lotti. Ma l’affondo non arriva: “Questa vicenda deve stimolare interventi di riforma che assicurino procedure più trasparenti nel funzionamento del Csm”. In serata arriva la difesa di Lotti, da parte del senatore Magorno, ex segretario Pd Calabria.

Rousseau, bilancio in attivo: 400 mila euro “liquidi”

In casa 5 Stelleè tempo di fare i conti. Secondo l’ultimo bilancio, chiuso a dicembre scorso, l’Associazione Rousseau sarebbe ampiamente in attivo, grazie al flusso di liquidi in arrivo dai parlamentari, che ogni mese devono versare 300 euro nelle casse dell’associazione. Alla fine del 2018, la somma di depositi bancari, postali, denaro e valori di cassa ammontava ad oltre 404mila euro. Però restano da saldare debiti per quasi 500 mila euro. Tra le passività spiccano i debiti verso fornitori, circa 352 mila euro, e i quasi 130 mila euro di debiti tributari. Ma quanto ha incassato l’Associazione, presieduta da Davide Casaleggio, nel 2018? Esattamente 1 milione 124mila 54 euro, sotto forma di “contributi da persone fisiche”, e 120 mila euro di versamenti da “associazioni, partiti e movimenti politici”. Ma il denaro arriva anche dall’estero (7 mila euro). Le spese sono soprattutto per servizi telematici, 145 mila euro, e circa 90 mila euro per attività editoriali, di informazione e comunicazione, a cominciare dal nuovo Blog delle Stelle, stimato 17 mila euro. Oltre 272 mila euro la cifra destinata al supporto legale “a tutela del garante Beppe Grillo”.

Riecco i No Muos: stavolta contro Trenta e M5S

Il Comune di Niscemi contro la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il Comitato Mamme No Muos contro il Movimento 5 Stelle. Il motivo è lo stesso: aver tradito anni di promesse riguardo la chiusura del Muos, l’enorme sistema di parabole e antenne per le comunicazioni satellitari situato all’interno della Sughereta di Niscemi, a Caltanissetta, nella base della Marina militare americana.

E così nei giorni scorsi il sindaco Massimiliano Conti ha annunciato ricorso al Tar contro il ministero della Difesa per aver autorizzato, senza il parere preventivo del Comune, alcuni progetti edilizi interni alla base: “Ho dato mandato all’avvocato di impugnare gli atti che il ministero ha approvato in una conferenza di servizio malgrado la nostra assenza e la mancanza della relazione contenente il parere sull’incidenza ambientale”. Il Comune aveva già avuto modo di esprimere la propria contrarietà ai lavori durante le prime due riunioni della conferenza di servizio, giustificando poi l’assenza al terzo incontro – avvenuto a dicembre 2018 – proprio con la mancanza del parere dell’Ente gestore. Poche settimane fa, però, il ministero ha notificato in via ufficiale la decisione presa durante quella riunione, ovvero il via libera alla costruzione di strade, recinzioni e barriere all’interno della base a prescindere dalla valutazione ambientale.

Ma è proprio l’impatto sulla salute del territorio ad agitare i comitati No Muos, in passato ampiamente sostenuti anche dai rappresentanti locali e nazionali del Movimento 5 Stelle. La decisione del sindaco ha creato qualche malumore tra gli attivisti – molti ritengono un grave errore non essersi presentato alla conferenza –, ma la forzatura del ministero ha comunque spinto le Mamme No Muos ha scrivere un duro comunicato contro Elisabetta Trenta e i 5 Stelle: “La ministra ha scelto di considerarci invisibili, ignorandoci del tutto. Riteniamo necessario schierarci, sostenendo pubblicamente la posizione del sindaco Conti”.

Quanto al Movimento, il discorso parte da lontano, in una terra dove i 5 Stelle avevano il 53% alle politiche del 2018 e un anno dopo sono caduti al 39, con la Lega cresciuta di 24 punti: “Il M5s ha promesso molto durante le proprie campagne elettorali. Ancora riecheggiano le parole pronunciate nei loro comizi, le rassicurazioni che le cose sarebbero cambiate dopo la loro vittoria. Coloro che in passato sventolavano le nostre bandiere ora sembrano più interessati a garantirsi la sopravvivenza”. Una delusione testimoniata anche dal web, dove Fabio D’Alessandro, uno degli attivisti No Muos, ha ideato un blog-parodia per incalzare i 5 Stelle. Si chiama “Movimento5Stellepromuos” e contiene un blob con le promesse mancate dei grillini, da Di Battista a Di Maio passando per la ministra della Salute Giulia Grillo e per il senatore Michele Mario Giarrusso. In alto, una scritta beffarda: “Vuoi sapere da quanto tempo il M5S non sta facendo nulla contro il Muos di Niscemi?”. La risposta è un contatore in perenne aggiornamento. Segna 369 giorni e spiccioli: “Proprio così. Da quando è al governo”.

Regole, asse Di Maio-Di Battista. La graticola per i sottosegretari

Per restare dov’è deve riorganizzare tutto, rotta politica e Movimento, e in fretta. Così i primi segnali sul nuovo M5S arriveranno presto, a giorni. Ma per spingere più lontano la notte Luigi Di Maio è disposto anche ad altro. Innanzitutto a concedere molto a Matteo Salvini: punti in agenda e pure ministri, con quel rimpasto temutissimo da alcuni 5Stelle di governo, così impauriti da chiamare Beppe Grillo, il fondatore, per chiedere aiuto.

Nell’attesa il vicepremier è pronto anche a far rotolare teste come pretendono tanti parlamentari, convinti di essere ignorati da quelli che stanno più in alto e in molti casi ansiosi di salire di grado. Così ecco la mossa, una graticola per i sottosegretari. Ossia una verifica sul loro rendimento, anche attraverso un confronto diretto con deputati e senatori. Ma sui membri di governo sono in preparazione anche schede di valutazione su come abbiano lavorato in questo primo anno gialloverde. E dal combinato disposto delle due fasi il capo deciderà se e chi rimuovere.

Proprio Di Maio vi ha fatto cenno in una delle riunioni sulla riorganizzazione del M5S. Un processo che vuole creare una struttura territoriale, con tre-cinque referenti per ogni regione o macro-area, nuove regole e magari anche nuovi valori, perché qualcosa va rivisto anche lì, tra i sacri principi. Ne è convinto Di Maio e lo pensa anche Alessandro Di Battista, il fu trascinatore di folle ancora senza ruolo, a cui il capo ha chiesto di concentrarsi proprio su questo, su come ripensare il Movimento, mediando con eletti e iscritti.

Insomma, di fare da traino del comitato costituente con cinque o più big a cui il vicepremier vuole affidarsi. Ne dovrebbero fare parte anche due donne, Paola Taverna e la sindaca di Torino Chiara Appendino, spesso sentita da Di Maio nelle ultime settimane. Mentre Roberto Fico, il presidente della Camera con il cuore molto rosso, sta riflettendo sul proprio ruolo. “Roberto darà sicuramente una mano, bisogna vedere in quale forma” spiegano persone a lui vicine. Mistero, invece, sulla decisione di Grillo, a cui hanno chiesto più volte di entrare nel comitato, anche per riavvicinarlo. Di sicuro nel comitato ci sarà Di Battista, che ha già suggerito di lavorare a un manifesto in 20 punti con temi di programma e valori del Movimento, da elaborare assieme ad eletti ed iscritti. “Una proposta a cui Alessandro tiene molto” raccontano. Però c’è tanto di cui discutere.

Per esempio del vincolo dei due mandati elettivi, uno dei temi principali nelle riunioni in cui Di Maio e Di Battista stanno consultando eletti di vario ordine e grado. Tanti, tra cui la sindaca di Roma Virginia Raggi e Fico, hanno avallato l’idea di dispensare dalla regola i consiglieri eletti a livello circoscrizionale o nei piccoli centri. “Il mandato zero” lo chiamano ai piani alti del M5S. E sarebbe un modo per favorire l’ingresso in Parlamento di persone rodate sul campo, un filtro. Mentre pare a oggi fuori questione rimuovere la norma per i parlamentari, opzione a cui fa Davide Casaleggio ha fatto muro pochi giorni fa in un’intervista a Le Monde. Invece si ragionerà sugli accordi con liste civiche, strada che verrà sperimentata per piccoli passi.

Intanto però la stretta attualità è fatta di altro, come dell’attesa per l’incontro tra Di Maio e Salvini. Dal Movimento negano che possano vedersi oggi, perché i rispettivi impegni non lo permettono. Ma fonti trasversali danno per sicuro il vertice a due proprio per questa mattina, prima che il 5Stelle si presenti all’assemblea di Confcommercio a Roma, alle 10.30. Molti i temi sul tavolo, compreso il nome per la Commissione europea. “Arriverà alla fine, ma lo sceglieremo assieme a Di Maio e al premier Conte” assicura Salvini a Otto e mezzo. Ma dal M5S dicono altro: “Il nome deve farlo lui”. Poi c’è il rimpasto. Con il Carroccio che però fa trapelare disinteresse per “nuove poltrone”. Quello che preme, dicono, è l’agenda di governo. Ossia far sì che ora a decidere come e su cosa si procede sia Salvini, quello che ha stravinto.

Insulti allo straniero: così parlava Poletti su Radio Padania

“Mi stai sui coglioni. Ti sto dando una risposta intelligente, che mi stai sui coglioni”. Così rispondeva Roberto Poletti a Lazhar, cittadino extra comunitario durante una delle storiche dirette di Radio Padania. Era il 2015 e all’ascoltatore che si diceva di sentirsi offeso da come il partito della Lega trattasse gli immigrati, Poletti rispondeva con questa sobria affermazione. Chissà se ha imparato a moderare i toni, visto che ora è pronto a debuttare sulla Rai. L’ex direttore di Radio Padania è stato l’autore di Salvini & Salvini, Il Matteo Pensiero dalla A alla Z, biografia dell’attuale ministro dell’Interno, scritta nel 2015. Ha lavorato anche a Mediaset come inviato nei programmi di Paolo Del Debbio. Anche prima dell’intervento su Radio Padania, come conduttore su Telelombardia, Poletti si è sempre distinto per “l’aplomb” con cui conduceva programmi di cronaca meglio se da luoghi in cui si poteva calcare la mano su vicende di aggressioni e scippi. Ora il salto di qualità: assunto per la conduzione di UnoMattina, il contenitore di informazione della rete ammiraglia. Il suo debutto sarà a UnoMattina Estate.

Sopra e sotto il tetto dei 240mila. In Rai la regola non vale per tutti

Il ritorno di Gad Lerner su Rai3 e il trasloco di Fabio Fazio a Rai2 non solo hanno riacceso la polemica politica con Matteo Salvini, ma hanno rinfocolato attacchi reciproci tra giornalisti e conduttori. “Tutti ci siamo tagliati lo stipendio, tranne lui. Che ha pure aggirato il tetto imposto ai giornalisti”, è sbottata Lucia Annunziata domenica scorsa a Mezz’ora in più nei confronti di Fazio. Che, con Che tempo che fa, ha un contratto da 2.240.000 euro a stagione, più circa 10 milioni annui alla sua società Officina srl. Ora, col passaggio a Rai2 e la diminuzione delle puntate, il compenso si ridurrà, ma non sarà mai sotto il tetto dei 240 mila che la stessa Annunziata si è autoimposta. Infotainment è la parolina magica per aggirare il tetto: se sei giornalista e fai solo informazione, stai sotto; se fai pure intrattenimento e spettacolo, stai sopra. È il mercato, bellezza. Perché Mediaset è sempre in agguato.

Le star oltre il “muro”
Esempio classico è Bruno Vespa che, trattando pure di diete, gossip e spettacolo, è riuscito ad aggirare il fatidico tetto. Fino a tre anni fa, per quattro puntate a settimana di Porta a Porta il popolare giornalista percepiva 1 milione e 900 mila a stagione, compenso poi sceso a 1 milione e 300 mila (per 3 puntate a settimana). Peccato, però, che altri 400 mila euro l’anno gli arrivino per prodotti realizzati per RaiCom e Rai Cinema. Totale, 1 milione e 700 mila euro.

Tra i più pagati c’è naturalmente Alberto Angela. Per le sue trasmissioni culturali, che fanno sempre il picco di ascolti, Rai1 sborsa al conduttore 950 mila euro annui. Altra bella cifra è quella guadagnata da Enrico Lucci, che ha appena esordito su Rai2 con un nuovo programma, Realiti: 500 mila euro tondi tondi.

La soglia della legge
Sul tetto dei 240 mila euro imposto da Viale Mazzini (per adeguamento ai manager della pubblica amministrazione) ci sono poi altri grandi campioni. Gigi Marzullo, che formalmente è “responsabile delle rubriche e degli approfondimenti culturali di Rai1” (i vari Sottovoce &c.), percepisce da mamma Rai i fatidici 240 mila euro a stagione. Così come Bianca Berlinguer che, raggiunta la soglia come direttrice del Tg3, l’ha mantenuta per la realizzazione di #Cartabianca, sempre su Rai3. Da esterna Rai, dove in passato è stata anche presidente, prende 240 mila euro a stagione anche Lucia Annunziata, per la sua Mezz’ora in più, la domenica pomeriggio. Stessa cifra per Federica Sciarelli, dal 2004 conduttrice di Chi l’ha visto?. Sul tetto dei 240 mila ci sono anche molti giornalisti che non hanno una trasmissione propria, ma magari sono direttori di testata. Scorrendo l’elenco del sito Rai sulla trasparenza troviamo il direttore della Tgr Alessandro Casarin, il direttore di Rainews Antonio Di Bella, l’ad di RaiCom, nonché ex presidente Monica Maggioni, il corrispondente dal Medio Oriente Piero Marrazzo, il presidente di Raiway Mario Orfeo, il direttore di Rai Parlamento e la sua vice, Antonio Preziosi e Susanna Petruni, il direttore di Radio Rai Roberto Sergio, l’ex direttore di Raitre Andrea Vianello. Tutti insieme appassionatamente a quota 240 mila euro, come numerosi altri dirigenti e manager Rai. Esattamente lo stesso compenso percepito dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, nonostante abbia come ovvio molti più oneri e responsabilità.

Sopra i 200 mila c’è anche Elisa Isoardi, l’ex fidanzata di Matteo Salvini che, con la sua Prova del cuoco, arriva 230 mila euro, ovvero 1.800 euro lordi a puntata. Un po’ più bassa Eleonora Daniele: 1.200 euro a puntata. Poi c’è La vita in diretta: Tiberio Timperi prende 1.700 euro a puntata, la sua partner televisiva Francesca Fialdini si ferma a 1.200. Per le sue corrispondenze dagli Usa a Giovanna Botteri vanno 204.746 euro.

Chi è rimasto lontano
Sotto i 200 mila ci sono poi tanti altri volti noti del piccolo schermo. Come Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, che sta sui 180 mila euro l’anno. O Franco Di Mare, inviato e conduttore di Unomattina, tra i 180 e i 190 mila. O Duilio Gianmaria, conduttore di Petrolio, anch’egli tra i 180 e i 190 mila euro annui. E così a scendere, pure di molto. Giorgia Cardinaletti, per esempio, interna di Raisport messa a condurre la Domenica Sportiva, sta tra i 60 e i 70 mila euro annui. Come anche Monica Giandotti, giornalista del Tg3 prossima conduttrice di Agorà estate. Infine torniamo al punto di partenza: Gad Lerner. Per le 5 puntate di L’approdo il popolare giornalista ha dichiarato di percepire 69 mila euro lordi: 14 mila a puntata, cui vanno aggiunti 36 mila euro per i costi di produzione. Il pubblico l’ha premiato: la prima puntata, lunedì, è stata vista da 1 milione e 174 mila spettatori, per il 7,4% di share.

“Il Giornale” chiude la redazione romana: “Perdiamo valore”

“Da oggi Il Giornale è l’unico grande quotidiano nazionale senza una redazione romana”, denuncia il Cdr, comitato di redazione (la rappresentanza sindacale dei giornalisti) del quotidiano fondato da Indro Montanelli. In una nota, spiega che il trasferimento a Milano è stato deciso nonostante gli sforzi dei cronisti di andare incontro alle esigenze della testata, dando “disponibilità a trovare forme di risparmio più efficaci e meno traumatiche per la vita dei colleghi di Roma e delle loro famiglie. Appelli tutti caduti nel vuoto”. E continua: “L’azienda non ha concesso nulla ed è rimasta ferma su una decisione che farà perdere autorevolezza e valore al quotidiano”. Il comunicato, ripreso dall’Associazione Stampa Romana, ringrazia i lettori, il sindacato dei giornalisti, e tutti coloro che hanno espresso solidarietà in questa difficile e malvista transizione. “Da oggi giornalisti che seguono la politica, la politica economica e la cronaca della Capitale lo faranno da Milano – avvertono – con difficoltà facilmente immaginabili e a scapito della qualità delle informazioni, che costituiscono il cuore del notiziario di un quotidiano che da sempre segue la politica con grande attenzione”.