Sprofondo rosso, Piombino sbanda a destra

Il risultato finale, forse, sarà lo stesso già visto in molte parti della Toscana: l’ennesima roccaforte rossa che cede il passo all’avanzata del centrodestra. Ma a Piombino, città dell’acciaio e dei movimenti operai in provincia di Livorno, i numeri del possibile ribaltone fanno impressione più che altrove: 48 per cento al primo turno per Francesco Ferrari, nome proposto da Fratelli d’Italia, 28,9 per Anna Tempestini, sostenuta dal Pd e da due liste civiche. Venti punti di distacco che negano a Ferrari la maggioranza assoluta – e dunque la vittoria alla prima tornata – per 300 voti, ma che costringono ora la sinistra a una rimonta al limite dell’impossibile nel ballottaggio di domenica. E pensare che già solo il secondo turno, da queste parti, è una novità.

Mai nella storia la guida della città era stata così in bilico, da sempre conquistata con percentuali bulgare dalla sinistra nelle sue varie declinazioni, fino all’ultima giunta presieduta dal dem Massimo Giuliani. Troppo facile leggere il tonfo della Tempestini come un derivato del vento sovranista nazionale: a Piombino, lo stesso giorno delle Comunali, il Pd è stato il partito più votato alle Europee, con Forza Italia e FdI ridotte rispettivamente al 4 e al 3%. Segno che le responsabilità della sinistra sono anche molto locali, in una città che ha visto sgretolarsi uno dei maggiori poli siderurgici italiani, passato lo scorso anno agli indiani di Jindal, che a fine 2018 contava ancora 1.300 operai in cassa integrazione.

A tener banco c’è poi la questione rifiuti, col Pd che si è fatto carico del raddoppio degli spazi della discarica di Rimateria, decisione contrastata in modo brusco da Ferrari che per altro, già da consigliere, aveva chiesto un referendum consultivo sul tema.

A smuovere le acque nel centrosinistra ha provato anche il Pd nazionale: domani arriverà a Piombino Carlo Calenda, mentre lunedì è sceso in piazza a fianco della Tempestini il segretario Nicola Zingaretti. Di certo il contesto non aiuta: al primo turno il Movimento 5 Stelle, candidato sindaco Daniele Pasquinelli, ha raccolto l’11% e nei giorni scorsi, come consuetudine a livello locale, ha diffuso una nota per invitare gli elettori ad andare alle urne, senza però fornire indicazioni di voto.

Una mano al Pd poteva più probabilmente arrivare da Rifondazione, forte di un ottimo 7,1% con Fabrizio Callaioli. Più della paura per l’avanzata delle destre, però, possono i dissidi interni e le critiche ai dem, tanto che anche i comunisti hanno preferito lasciare libero arbitrio ai propri elettori, equiparando i Democratici alla coalizione di Ferrari: “Mai con la destra, mai col Pd”, è scritto sulla pagina Facebook di Rifondazione. E così alla Tempestini non resta che il sostegno di sigle sindacali e associative – come Arci, Anpi e Cgil – che hanno caldeggiato in tutta la provincia di Livorno un voto utile “per l’antifascismo e l’antirazzismo”. In nome di una tradizione rossa a rischio estinzione.

Salvini cala la sua vendetta. “Schedati” i giudici sgraditi

La partecipazione a convegni e perfino la posizione occupata in sala, le collaborazioni a giornali, l’adesione ad associazioni. Il Viminale ha “schedato” la vita personale e le opinioni dei magistrati che hanno bocciato provvedimenti e ricorsi del ministero dell’Interno. Ma chi ha passato al setaccio la vita dei giudici? “Siamo stati noi – ammette uno dei più stretti collaboratori di Matteo Salvini – Abbiamo ricevuto segnalazioni da cui emergeva che alcuni magistrati avrebbero potuto non essere ‘equidistanti’ in tema di immigrazione. Così abbiamo fatto ricerche, ma non si tratta di dossieraggio. Sono informazioni pubbliche, prese da internet”.

Mentre il Csm vive un momento di travaglio, il Viminale alza il livello di scontro contro il potere giudiziario. Il ministero impugnerà davanti al Consiglio di Stato la pronuncia del Tar di Firenze secondo la quale non si può affermare l’automaticità tra la denuncia per determinati reati e l’essere responsabile di “comportamenti incompatibili con la vocazione e la destinazione di determinate aree”. Scatterà il ricorso anche contro le sentenze dei tribunali di Bologna e Firenze sull’iscrizione all’anagrafe degli stranieri. Ma il punto è soprattutto un altro: il Viminale ha chiesto all’Avvocatura dello Stato di “valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri, per aver assunto posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini”. Insomma, par di capire, il ricorso oltre ad avere motivazioni giuridiche prende spunto da opinioni e comportamenti che i magistrati hanno manifestato come privati cittadini. Per esempio Luciana Breggia, giudice del Tribunale di Firenze, relatrice della sentenza che ha escluso il ministero dal giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato: tra le “colpe” di Breggia la partecipazione a dibattiti dove il magistrato ha chiarito la sua idea di immigrazione censurando l’uso della parola “clandestini”. Breggia, si apprende poi, ha partecipato alla presentazione di un libro di Maurizio Veglio (avvocato membro dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione). Da qui l’attacco del Viminale: lo straniero che ha fatto ricorso contro il ministero dell’Interno è assistito da Noris Morandi. Che cosa c’entra? Morandi, sostiene il Viminale è anche lui dell’Asgi.“Se un magistrato vuole cambiare le leggi, si candidi”, così Salvini aveva attaccato Breggia.

Ora il Viminale arriva a ricostruire la posizione del magistrato alla presentazione del libro: Breggia era accanto alla portavoce di Mediterranea (l’associazione di Luca Casarini) e al professore Emilio Santoro: a sua volta responsabile di aver definito, in un’intervista, l’attuale esecutivo “governo della paura”. Santoro, si stigmatizza, è docente di Filosofia del diritto e Diritto degli stranieri presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’università di Firenze. Il 17 giugno nello stesso polo didattico si terrà un convegno dal titolo: ‘Le città diseguali. Zone rosse e zone nere’. Tra gli ospiti non risultano noti sovversivi, ma Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale. Presso il dipartimento di Scienze giuridiche dell’università di Firenze, si annota ancora, ha sede la rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza che si occupa “dei diritti, dell’eguaglianza, della integrazione nel rispetto della diversità”.

Il cerchio, secondo il Viminale, si chiude ricordando che alla rivista collaborano Rosaria Trizzino (presidente della seconda sezione del Tar Toscana che ha bocciato le zone rosse) e Matilde Betti, presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna che il 27 marzo non ha accolto il ricorso del ministero dell’Interno contro l’iscrizione all’anagrafe di due stranieri; uno difeso da un altro avvocato dell’Asgi che figura nel comitato editoriale della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza insieme con Betti.Una schedatura? Salvini nega: “Non intendiamo controllare nessuno”.

Dal Salva Roma al Salva Comuni, l’intesa gialloverde

Dal Salva Roma al Salva Comuni. Il braccio di ferro tra gli alleati di governo sulla norma per il debito storico della Capitale dovrebbe approdare a questo compromesso. L’ipotesi caldeggiata dal M5S è quella di destinare i risparmi sugli interessi del debito di Roma Capitale agli altri Comuni in difficoltà. Ma la soluzione non è ancora stata messa nero su bianco, tanto che le Commissioni parlamentari Finanze e Bilancio hanno fatto slittare il decreto crescita in attesa di risposte definitive anche su altri temi. In Campidoglio il clima resta di cauta attesa, anche se il ragionamento che trapela dal M5S è chiaro: “Se si porta a casa la norma su Roma saremo soddisfatti”. A premere per il compromesso è stato Matteo Salvini. “O tutti o nessuno. Ci sono tantissimi cittadini in difficoltà che pagano un’enormità di tasse e quindi bisogna intervenire e aiutare le amministrazioni in difficoltà”, ha risposto a una domanda sulle gravissime difficoltà in cui si trovano comuni in dissesto o in pre dissesto. “Penso al Comune di Catania che fra 15 giorni non avrà i soldi per pagare gli stipendi e i servizi ai cittadini piuttosto che al comune di Alessandria. Mi sembra giusto dare una mano a tutti i cittadini italiani”, ha detto Salvini.

Radio Radicale, la svolta: Di Maio cede e la salva

Nella battaglia intestina del governo gialloverde, la Lega si appunta sul bavero un’altra medaglietta: quella del salvataggio di Radio Radicale. Lunedì pomeriggio, quando si riuniranno le Commissione Finanze e Bilancio della Camera per votare il dl Crescita, sul tavolo finirà anche un emendamento condiviso dai due partiti di maggioranza che dovrebbe prorogare di un altro anno il fondo dell’editoria e il cui taglio slitterebbe così al 2020. Ossigeno, quindi, per la radio fondata nel 1976 da Marco Pannella e per tutte le altre storiche testate locali a rischio chiusura per la crisi del settore.

Così, dopo mesi in cui Vito Crimi, sottosegretario M5s con delega all’Editoria, si è battuto per non prorogare la convenzione stipulata nel 1994 con Radio Radicale e che ha permesso alla storica emittente radiofonica di ottenere un finanziamento da 10 milioni di euro l’anno, lo stesso ministro dello Sviluppo economico che ha la competenza della convenzione ha fornito la soluzione. Secondo quanto riportato ieri da Repubblica, sarebbe infatti Di Maio il promotore del testo che concede a Radio Radicale il finanziamento poi finito nel dl Crescita. Del resto il vicepremier M5s già il sabato prima delle Europee aveva chiaramente lasciato intendere che si sarebbe occupato del salvataggio di Radio Radicale: “Una soluzione si può trovare, partendo però da un presupposto e cioè che non possiamo dare milioni a un’unica radio e lasciare le altre sul mercato”.

Dalle parole ai fatti. M5s ha depositato, d’accordo con la Lega, una mozione che di fatto salva Radio Radicale ma che punta a non rinnovare la concessione senza una vera gara, digitalizzando però gli archivi della radio “che rappresentano una risorsa preziosa”. Anche perché lo Stato italiano lo ha finanziato fino ad oggi, per quasi 30 anni, con 250 milioni di euro.

Ed anche se nelle prossime ore dovesse riaprirsi la partita tra gli alleati di governo, il più è ormai fatto e indietro difficilmente si potrebbe tornare: sul dl Crescita il governo sta valutando l’ipotesi di mettere la fiducia alla Camera. Si tratta del primo voto blindato dopo le tensioni delle ultime ore. Una sorta di tregua armata tra Salvini e Di Maio che possono sostenere solo ingoiando un po’ di rospi a vicenda. E nel caso di Radio Radicale a ingoiarlo è stato il vicepremier Luigi Di Maio.

Oggi, intanto, al Senato verranno votate 5 mozioni presentate dalle opposizioni, dal Pd a Forza Italia, dalla Svp a Fratelli d’Italia, che hanno continuato a battersi per il salvataggio di Radio Radicale. Testi fotocopia che prevedono che le imprese private che abbiano svolto attività di informazione di interesse generale mantengono il diritto ai contributi previsti dalle norme sulle provvidenze all’editoria. Ma le mozioni non serviranno non solo perché rappresentano solo un impegnano del governo a occuparsi di un tema. L’accordo per il salvataggio di Radio Radicale è stato trovato. E a cedere ci ha già pensato Di Maio.

Giorgetti si prende tutto: arriva la Consip dello sport

Le gare per i grandi eventi, ma anche gli acquisti più semplici, i materiali, le utenze. E persino gli impianti del maxi-progetto renziano “Sport e periferie”, roba da centinaia di milioni. Passerà tutto da Sport e Salute spa, la nuova società creata dal governo per togliere soldi e potere al Coni di Malagò (ma evidentemente non solo a lui). Una specie di Consip dello sport, qualcosa che assomiglia sempre più a un vero e proprio ministero. E che risponde direttamente al sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, tramite l’ex manager Alitalia Rocco Sabelli, da lui scelto per guidarla.

La Lega mette le mani sugli appalti sportivi. Lo fa grazie a un emendamento firmato dal senatore Claudio Barbaro, altro uomo forte del Carroccio sullo sport (è presidente Asi, uno dei principali enti di promozione) e inserito nello Sblocca cantieri. Ci aveva già provato a marzo alla Camera, ma la norma era stata stoppata dal M5S per “questioni politiche”. Stavolta gli alleati si sono convinti, o semplicemente dopo le Europee è diversa la situazione. L’emendamento è stato approvato in aula. “Al fine di ottimizzare le procedure di affidamento e razionalizzare la spesa”, prevede di assegnare a Sport e salute la qualifica di “stazione appaltante”, e soprattutto di “svolgere attività di centralizzazione delle committenze per conto delle amministrazioni o enti aggiudicatrici operanti nel settore dello sport”. Se il primo punto conferma e amplia il ruolo che già svolgeva in passato Coni servizi (di cui Sport e salute ha preso il posto), il secondo è una rivoluzione: significa che tante gare che fino ad oggi venivano effettuate singolarmente dalle varie Federazioni, in futuro potranno essere fatte dalla società che fa capo a Palazzo Chigi. Nell’ultima versione è entrato pure un comma che toglie al Coni il progetto “Sport e periferie”, il grande piano di ristrutturazione degli impianti che il governo Pd aveva deciso di affidare a Malagò (anche per aggirare gli enti locali e il codice dei contratti) e per cui è stato stanziato complessivamente quasi mezzo miliardo (con risultati altalenanti).

A parte l’ennesima botta al Comitato olimpico, il principio della norma è semplice: centralizzare, in teoria, vuol dire risparmiare le spese: circa il 10%, secondo prime stime, soldi da reinvestire nello sport, una buona notizia per il settore. Così però la partecipata governativa gestirà tutti gli appalti per i grandi eventi: gli Internazionali di tennis e presto le Atp Finals, Piazza di Siena, magari le Olimpiadi 2026 (se Milano-Cortina se le aggiudicheranno). Non solo. Potrebbero finire nelle sue mani anche gli acquisti più semplici, i materiali, le attrezzature e gli arredi, persino le risme di carta. Tanto potere, tanti soldi. Basti dire che il conto aggregato delle Federazioni sfiora i 750 milioni di euro di spesa l’anno. Ovviamente non tutti se ne vanno in acquisti centralizzabili, ma una buona fetta verrà gestita diversamente, come minimo decine di milioni. Centinaia, con Sport e periferie.

Il Coni perde un altro pezzo (il piano milionario caro all’ex ministro Lotti) ma stavolta non è l’unico a uscirne ridimensionato. Se alcune risorse saranno usate dal governo, significa che per forza di cose ne arriveranno meno alle Federazioni. Fino ad oggi gestivano autonomamente i loro fondi, scegliendo cosa comprare, come e da chi. Domani riceveranno merci e beni già acquistati. Paradossalmente, la Lega realizza un progetto già ipotizzato proprio dalla vecchia dirigenza di Coni servizi. Di recente lo aveva auspicato anche la Corte dei Conti, che nell’ultima positiva relazione sulla società invitava a “valutare la possibilità di centralizzare ulteriori servizi”. Detto, fatto. Tante Federazioni avevano esultato nel vedere il Coni depotenziato (e depauperato) dal governo: pensavano che così avrebbero avuto maggiore libertà. Forse si sbagliavano: prende tutto la Lega.

Sblocca cantieri, ok del Senato alle modifiche Lega-M5s

Il governo gialloverde raggiunge un altro accordo sul decreto Sblocca cantieri, in particolare sul punto della sospensione del Codice degli appalti: ci sarà (come voleva la Lega), ma in forma light (il compromesso accettato dal M5S). Il Senato ha approvato così il maxi-emendamento che prevede che fino al 2020 non ci sarà più l’obbligo di nominare nelle commissioni aggiudicatrici un terzo commissario indipendente preso da un albo dell’Anac. Sospeso anche l’obbligo per i “Comuni di procedere alle gare, rivolgendosi alla stazione appaltante qualificata” (potranno fare da soli). Viene anche sospesa fino al 2020 la norma che limitava il ricorso all’appalto integrato. I Cinquestelle hanno ottenuto invece la conferma dal tetto per subappaltare i lavori al 40%. Vengono poi modificate, riportandole però ai livelli previsti dal Codice e modificati dall’ultima legge di Bilancio, le soglie per l’affidamento: per i lavori da 40mila a 150mila euro torna la procedura negoziata prevista per somme sopra i 150mila euro, mentre la procedura ordinaria scatterebbe oltre il milione. Confermato anche l’addio al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’aggiudicazione dei lavori di valore inferiore a 5,5 milioni di euro.

Almaviva, minaccia tagli a Palermo: 1300 lavoratori a rischio

Nuova crisi sul futuro del call center di Almaviva contact a Palermo: due dei maggiori committenti, Wind-Tre e Tim, hanno annunciato il taglio del 70% dei volumi di traffico e l’applicazione degli ammortizzatori sociali fra il 35 e il 60% su tutte le commesse lavorate a Palermo, come Sky, Alitalia, Trenitalia. Lo scorso martedì Almaviva ha incontrato i sindacati nella sede di Sicindustria per comunicare “che le due multinazionali,che coprono almeno il 50% dell’intero fatturato sviluppato suPalermo – afferma il segretario generale della Slc Cgil palermitana, Maurizio Rosso – ridurranno drasticamente, già dalle prossime settimane, i volumi di traffico, e quindi il lavoro di circa il 70%”. In poche parole, ciò comporterà un esubero di circa 1.300 operatori, “con il timore concreto della chiusura della sede di via Cordova”, dice il segretario Rosso. Wind Tre ha un contratto con Almaviva fino al 2021 e occupa 771 operatori, mentre la commessa Tim scadrà nel 2020 e impiega 623 operatori. Da anni, il settore dei contact center attraversa una crisi significativa, che negli ultimi mesi ha assunto caratteristiche di irreversibilità.

Lo sconto concesso a Padoan e i peccati dei gialloverdi: come nasce la sanzione

La sintesi brutale dell’equivoco è questa: la Commissione europea propone una procedura di infrazione per debito eccessivo verso l’Italia perché ha violato le regole Ue nel 2018, come tutti gli anni dal 2016 in poi. Ma a far muovere Bruxelles sono le scelte che il governo Conte ha messo a bilancio per il 2019 e gli anni seguenti. Il Pd incolpa i gialloverdi. Per Luigi Di Maio la responsabilità “è dei debiti fatti dai governi Pd”.

La confusione nasce da una costruzione barocca di regole indecifrabili che servono solo a garantire scelte politiche, la discrezionalità di Bruxelles di aiutare i governi amici e sanzionare quelli ostili che sfidano le regole fiscali.

Il rapporto della Commissione pubblicato ieri per verificare che l’Italia sia in regola con i conti pubblici (articolo 126.3) è una miniera di numeri. La sintesi è però chiara. Tra il 2010 e il 2013 l’Italia ha varato una stretta fiscale mostruosa, portando il suo avanzo primario – la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto del costo del debito – al 2% del Pil, che gli ha permesso di uscire dalla procedura per deficit eccessivo. L’effetto è stato una recessione da cui il Paese non si è ancora ripreso e un aumento del debito/Pil pari al 5% l’anno, ma tant’è. Dal 2014, col governo Renzi, lo sforzo fiscale “si attenuta progressivamente”. L’avanzo scende all’1,4%. La crescita del Pil resta inferiore al costo del debito, e questo ne fa aumentare lo stock. E infatti dal 2015 l’Italia viola sistematicamente la “regola del debito” che in teoria impone di rientrare entro il limite del 60% del debito/pil imposto dai trattati (nel 2016 è al 131,4%). Lo scostamento è gigantesco: nel 2016 la violazione di Roma è pari al 5,8% del Pil – circa 90 miliardi -; che sale al 6,7% nel 2017 (107 miliardi). Bruxelles, però, non si muove. Perché? Per evitare la sanzione i governi Renzi e Gentiloni varano ogni anno una correzione minima del deficit (e ne promettono una consistente per il futuro) e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padan motiva la mancata correzione con i “fattori rilevanti”: la crisi dei migranti, la bassa inflazione, le riforme strutturali eccetera. In teoria non basta, ma Bruxelles concede la “flessibilità”, cioè uno sconto sulla dose di austerità da assumere. In totale, scrive la Commissione, vale quasi 30 miliardi tra il 2015 e il 2018. La regola del debito resta violata, ma non viene mai ventilata una procedura di infrazione per Roma.

Cosa è cambiato col governo gialloverde? In sostanza, questo: l’esecutivo Conte ha smesso di tagliare un po’ il deficit dell’anno successivo per permettere a Bruxelles di far finta che è tutto a posto e sul futuro promette una discesa molto meno rapida. Nel luglio 2018 il Consiglio europeo chiede all’italia una correzione del deficit “strutturale”, cioè al netto del ciclo economico, dello 0,6% del Pil (10 miliardi), poi ridotta allo 0,3%. Conte, appena insediatosi, vota a favore salvo poi rigettare gli impegni (il saldo peggiorerà dello 0,1%). Nella manovra varata in autunno, il governo decide che il deficit non calerà, ma resterà intorno al 2% del Pil nel 2019. A causa della minor crescita, oggi la Commissione stima che salirà al 2,5% e al 3,5% nel 2020, perché non crede che Roma riuscirà a disinnescare i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva il prossimo anno senza fare nuovo disavanzo. Il debito/Pil quindi salirà al 133,7% nel 2019 e al 135% nel 2020.

La mancata correzione sul deficit fa crollare il castello di carte e così Bruxelles riscrive la storia, chiedendo sanzioni retroattive sul 2018 all’Italia, che non ha mai rispettato la regola del debito. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha replicato all’Ue che il deficit sarà più basso grazie a maggiori entrate e ai risparmi su Reddito e Quota 100. Ma Bruxelles si rifiuta di prendere per buone le stime e considera le scelte della manovra – specie Quota 100 – così negative da rendere ininfluenti i “fattori rilevanti” indicati da Tria.

Il governo: “Niente manovre correttive”. La partita è sul 2020

Il governo, per ora, non si muove: nonostante la proposta della quasi ex Commissione Ue di aprire una procedura di infrazione contro il nostro Paese, l’esecutivo non ha intenzione di fare alcuna manovra per tagliare il deficit quest’anno. Questo per due motivi: sarebbe controproducente (manderebbe in recessione un Paese in stagnazione) e non ce n’è bisogno. Primo punto: “Il Fmi concorda su un processo graduale di rientro del debito evitando politiche procicliche, cioè di fare una contrazione fiscale che generi altri limiti alla crescita”, dice Domenico Fanizza, direttore esecutivo per l’Italia presso il Fondo. Secondo punto: “L’obiettivo programmato lo stiamo raggiungendo. La Commissione fa contestazioni sulla base di loro stime, le nostre sono diverse”, dice il “moderatamente ottimista” Giuseppe Conte simbolcamente da Hanoi, Vietnam.

Il problema è che i numeri, nello schema cervellotico delle norme Ue, sono solo, per così dire, la prosecuzione della politica con altri mezzi. Bruxelles ha deciso di mettere l’Italia all’angolo in previsione della manovra d’autunno e, per farlo, prova a isolarla fin d’ora nel Consiglio europeo, cioè tra i governi che tra un mese decideranno se la procedura partirà o no: la Francia, ad esempio, il cui disavanzo nel 2019 sforerà addirittura il 3% sul Pil è stata benedetta dai commissari, perché – dicono – “la violazione è temporanea” e comunque “rispetta i parametri europei”. Insomma, anche nei palazzi dell’Ue le leggi si applicano o si interpretano a seconda di chi ci si trova di fronte. Al momento i tre azionisti del governo (Lega, M5S e partito del Quirinale) parlano con una voce sola, ma come vedremo è il medio periodo che è in discussione. Restando all’oggi, i numeri dei conti pubblici per il 2019 riportati ieri in una nota concordata da Chigi e Tesoro dimostrano – sempre secondo il governo – che Bruxelles parte da premesse sbagliate e “punitive” nei confronti dell’Italia.

La nota inizia con un’ammissione. È vero, nel 2018 quella assurda diavoleria detto deficit strutturale (parametro criticato da questo come dal precedente governo) non è sceso, ma la colpa è della minore crescita del commercio mondiale (“il forte rallentamento dell’attività e delle esportazioni manifatturiere”). Su quest’anno invece, è il senso della nota, Bruxelles sbaglia e di parecchio: il deficit alla fine sarà in realtà al 2,1% del Pil anziché al 2,4% scritto nel Def o al 2,5% stimato dalla Commissione. Il conto è meno propagandistico di come potrebbe apparire a prima vista: a bilancio ci sono già 2 miliardi di spese congelate “in caso il deficit nominale superi il 2% del Pil” (una clausola pretesa proprio dall’Ue); il flusso delle entrate poi è migliore di quanto stimato a fronte di bassa necessità di maggiori spese. Insomma, secondo il Tesoro, “il beneficio netto per il bilancio” vale “circa 0,2 punti percentuali e condurrebbe la stima di deficit al 2,2%”. A questo va aggiunto quel che tutti sanno e cioè che reddito di cittadinanza e pensioni costeranno meno del previsto: quest’anno “ragionevolmente” lo 0,07% del Pil (1,2 miliardi, ndr), dunque il deficit “si attesterebbe al 2,1% del Pil”. Secondo il governo, peraltro, già il 2,2% comporta un miglioramento, seppur minimo, del saldo strutturale e dunque rispetta il Patto di stabilità.

E qui si arriva al futuro: “Adesso si aprirà un dialogo costruttivo”, dice il ministro dell’Economia; “farò di tutto per evitare una procedura di infrazione”, sostiene Conte. Non è detto, però, che bastino i buoni argomenti sul bilancio: Bruxelles vorrà promesse sulla manovra 2020 (flat tax e tutto il resto) che né il premier, né Tria sono in grado di fare.

Matteo Salvini, i cui consiglieri si fidano il giusto del partito del Quirinale, ieri ha messo le mani avanti: “Ha totale fiducia in Conte”, ma “il voto degli italiani chiede un cambio di marcia in Europa”. Tradotto: la Lega per il prossimo anno vuole fare una vera manovra espansiva. Se è così sarà guerra, ma con almeno un’incognita di peso: la Germania, già assai preoccupata da una Brexit senza accordo, non vuole un altro focolaio di crisi in Europa. “Il dialogo è la via maestra”, ha detto ieri il ministro delle Finanze Olaf Scholz. Non è chiaro se esiste un’intesa possibile per l’autunno, ma i gialloverdi non cederanno già in estate.

La Commissione: “L’Ue apra la procedura contro l’Italia”

La Commissione europea guidata da Jean Claude Juncker è quasi a fine corsa, ma questo non le ha impedito di mettere l’Italia sulla graticola in vista della prossima sessione di Bilancio, quando a comandare a Bruxelles saranno altri nomi (ma le stesse famiglie politiche: popolari, socialisti più probabilmente i liberali dell’Alde). L’esecutivo di Bruxelles ieri ha concluso il suo rapporto sul debito del nostro Paese parlando di scostamenti “significativi” rispetto agli obiettivi di riduzione del debito nel 2018 e definendo “giustificata” una procedura di infrazione per disavanzi eccessivi.

Il vicepresidente della Commissione, il lettone Valdis Dombrovskis, un falco della burocrazia comunitaria, la mette giù molto dura: “L’Italia deve riconsiderare la sua traiettoria di bilancio e metterla chiaramente su un percorso di discesa, perché quello attuale ha creato danni all’Italia: la crescita va giù, gli interessi sul debito salgono e c’è un impatto negativo sugli investimenti”. Il problema, ha sostenuto ieri, non è la procedura, ma la situazione generale di tutti gli indicatori macroeconomici, peggiorati nell’ultimo anno e la crescita “praticamente in stallo”.

I conti italiani, azzeramento della crescita a parte, non sono in realtà molto diversi dal passato, ma a Bruxelles le scelte di bilancio per il 2019 e, soprattutto, gli annunci per l’anno prossimo hanno fatto scattare l’allarme. Non è un caso che nel mirino sia finita in particolare Quota 100, cioè la possibilità per chi ha almeno 62 anni e 38 di contributi di andare in pensione in anticipo (pur con le penalizzazioni previste dalla legge Fornero): questa riforma, dice la Commissione, “capovolge” gli effetti positivi degli interventi del 2011 e indebolisce “la sostenibilità a lungo termine” delle finanze. Le pensioni sono la principale fissazione dei teorici del consolidamento fiscale e non è un caso che il grosso della manovra “salva Italia” di Mario Monti & C. fosse proprio sulla previdenza (dalla riforma Fornero al taglio dell’adeguamento all’inflazione per gli assegni già in essere).

Ora la palla passa al Consiglio europeo, cioè ai governi dell’Ue, che hanno l’ultima parola su tutto: entro due settimane è atteso il parere della tecnostruttura del Consiglio, che sarà verosimilmente a favore della procedura, poi ritocca alla Commissione che avanza una raccomandazione ai governi, più precisamente all’Ecofin, cioè al consiglio dei ministri finanziari, che decide se far partire la procedura di infrazione e quali tempi dare allo Stato interessato per rimettersi a posto (sei mesi o tre mesi): tutto questo balletto, andando di corsa, dovrebbe concludersi l’8 luglio, ma non è detto che non prenda più tempo. Finora la reazione dei mercati è stata contenuta: un aumento dello spread dopo l’annuncio ben oltre i 280 punti, poi la chiusura sotto i 270 con rendimenti al 2,47% per i decennali, in linea se non meglio delle ultime settimane.

Il governo italiano, dal canto suo, finora s’è dimostrato compatto. Pur aprendo a un dialogo e a una trattativa con la Commissione, sia il premier Giuseppe Conte sia il vice Matteo Salvini hanno escluso una manovra correttiva per il 2019 (secondo Bruxelles ne serve una da almeno 3,5 miliardi). L’altro vice Luigi Di Maio, oltre a incolpare “i debiti del Pd” della bocciatura europea, ha chiarito che “Quota 100 non si tocca” (e Salvini, rincarando, “con la Fornero siamo solo all’inizio”). Una nota del Tesoro e di Palazzo Chigi, infine, sostiene che i conti del 2019 siano assai migliori di quelli stimati dalla Commissione: il deficit – grazie a maggiori entrate e minori spese – chiuderà al 2,1%, e non al 2,5% previsto da Bruxelles. “Siamo pronti a scambiare altri dati con l’Italia. La mia porta è sempre aperta”, dice il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici. Come già in autunno, sarà una lunga danza.