La nuova Pd2

Apprendiamo sgomenti che lo scandalo che investe il Csm è “come quello della P2”. Parola di Giuseppe Cascini, leader della corrente progressista Area, che ringrazia il presidente Sergio Mattarella e il vicepresidente David Ermini per averci salvati dalla nuova P2, spingendo fuori chi ne era stato infettato. In effetti era dal 1981, cioè dalla pubblicazione delle liste di Licio Gelli, che non rotolavano tante teste al Csm: al momento cinque consiglieri, uno dimissionario perché indagato e quattro autosospesi per aver discusso del nuovo procuratore di Roma con Luca Lotti, Cosimo Ferri e Luca Palamara. Cioè con due deputati del Pd e col leader della corrente Unicost. Dei tre, gli intrusi erano i primi due: Palamara faceva il suo sporco mestiere di capocorrente, come tutti i capicorrente da che mondo è mondo e Csm è Csm. Almeno finché le correnti non verranno stroncate con l’unica riforma in grado di neutralizzarle: il sorteggio dei membri togati e la cancellazione della quota parlamentare, che porta nel Csm gl’interessi dei partiti. Ma torniamo alla “nuova P2”. Se, come dice Cascini, esiste ed è stata respinta con la ritirata delle toghe in contatto con Lotti e Ferri, non si scappa: la “nuova P2” sono Lotti e Ferri.

B. e i gialloverdi non c’entrano nulla: c’entra solo il Pd. Eppure del Pd non si parla e il Pd non parla (i possibili motivi del silenzio li spiega Lillo a pag. 4). Se quattro membri del Csm si autosospendono senz’aver commesso reati, ma solo per aver parlato con Lotti e/o Ferri, possibile che il Pd non dica nulla su Lotti e Ferri? Che Zingaretti non chieda loro di dimettersi? E che nessun giornalone associ la “nuova P2” al Pd e chieda al segretario di disinfettarlo dai neopiduisti? Lotti e Ferri non sono due marziani insospettabili, che nessuno immaginerebbe a impicciarsi in nomine togate. Lotti, lo spicciafaccende di Renzi, è imputato per rivelazione di segreti e favoreggiamento nel processo Consip e ciononostante, o forse proprio per questo, fu promosso da Gentiloni e Mattarella ministro dello Sport (quand’era già indagato) e ricandidato in un posto sicuro alle elezioni del 2018. Ferri, figlio del ministro dei 110 all’ora, magistrato, ras di Magistratura indipendente, presenza fissa nelle intercettazioni di gravi scandali (P3, Calciopoli, i traffici di B. e Agcom contro Annozero), divenne sottosegretario alla Giustizia in quota B. nel governo Letta, poi restò lì in quota Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, infine Renzi lo impose come candidato sicuro alle elezioni del 2018. Eppure lo stesso Renzi l’aveva definito “indifendibile” per un altro scandalo.

Nel 2014 Ferri era stato beccato a inviare centinaia di lettere agli ex colleghi in toga per invitarli, da sottosegretario, a votare al Csm due Carneadi di MI suoi amici, puntualmente eletti. Di Lotti e di Ferri, dunque, si sapeva tutto: due personaggi al di sotto di ogni sospetto. Il Fatto li inserì nella lista degli impresentabili alle elezioni del 4 marzo, ovviamente in beata solitudine: quelli che oggi menano scandalo tacevano e acconsentivano. Ora indovinate un po’: chi tirò i fili, nel settembre scorso, dell’elezione a vicepresidente del Csm del deputato renziano Ermini, che ora ci avrebbe salvati dalla “nuova P2”? La “nuova P2”. Cioè Lotti e il suo Pd, Ferri e la sua MI, Palamara e la sua Unicost. Il Plenum doveva scegliere fra Alberto Maria Benedetti, un docente mai iscritto a partiti, indicato come laico dai 5Stelle. Finì 13 a 11: per Ermini votarono il Pd (cioè lui), i 10 togati di MI e Unicost e i due capi della Cassazione (Mammone di MI e Fuzio di Unicost); per Benedetti, i laici di M5S e Lega, i togati di Area e di AeI (Davigo e Ardita). Fu così che, col plauso dei giornaloni, fra un vicepresidente apolitico e un deputato renziano come Ermini, la maggioranza del Csm preferì il secondo. Quello che aveva passato gli ultimi due anni ad attaccare i magistrati che avevano osato indagare sul padre e i compari di Renzi coinvolti nello scandalo Consip (“Notizie di una gravità inaudita. Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”, “Scafarto non può aver fatto tutto da solo… vogliamo i mandanti”, “Inchiesta inquietante per colpire l’allora presidente del Consiglio Renzi”, “Un atto gravissimo, una caccia all’uomo per attaccare un organo dello Stato”). E oggi viene spacciato per il salvatore della patria dalla “nuova P2”, cioè dagli amici che l’hanno fatto eleggere appena otto mesi fa.
Ieri, mentre Zingaretti pigolava “chiedo chiarezza”, solo l’ex procuratore antimafia Franco Roberti, ora eurodeputato indipendente del Pd, ha squarciato il muro dell’omertà e dell’ipocrisia, chiedendo la condanna politica di Lotti e Ferri e ricordando gli effetti devastanti della “riforma” Renzi che prepensionò per decreto centinaia di magistrati per impossessarsi delle Procure-chiave. Se l’indagine su Palamara fosse scattata mesi o anni fa, durante la nomina dei dirigenti di altri uffici giudiziari, avrebbe squadernato le stesse contiguità e complicità fra magistrati e politici, e magari pure le interferenze del Quirinale. Che, ai tempi di Napolitano, interferiva addirittura in pubblico, con lettere e comunicati (dal caso De Magistris allo scontro Robledo-Bruti Liberati allo scandaloso stop al voto sul procuratore di Palermo perché – anche allora – il Csm intendeva bocciare Lo Voi e votare il più titolato Lo Forte): figurarsi in privato.
Ps. Ieri, su Repubblica, Carlo Bonini è tornato a calunniare il Fatto (“macchina del fango”) perché abbiamo dato notizie che lui preferisce occultare. È lo stesso giornale che il 23 maggio, per questa partita scandalosa tutta targata Pd, titolava, restando serio: “Destra e gialloverdi alla conquista della Procura di Roma”. Vergogniamoci per loro. 4

“Senza pudore né melodia: non capisco i brani di oggi”

Lemmy, storico leader dei Motorhead, alla domanda “quando ti sentirai troppo vecchio per il rock”, rispondeva: “Nel momento in cui mi porrò la questione”. Non se l’è mai posta.

Beppe Carletti entra nella redazione del Fatto e i suoi 73 anni sono irreali, secondari, perfetti solo come fonte di esperienza, “perché sono contento, è appena uscito il nuovo album de I Nomadi, il 36esimo, e mi diverto: siamo pronti con il nuovo tour”.

È sempre in tour…

Abbiamo ancora tanto pubblico, non ci avrei mai pensato, e con un bel ricambio generazionale; mancano un po’ i ragazzini: ascoltano il trap, o musicisti alla Ghali.

Non ama Ghali.

L’ho visto una volta in tv e ho pensato: “Sono fortunato”.

Perché?

Emana un po’ di tristezza.

Si sente fortunato.

Ho ottenuto ciò che non avevo previsto e attraversato la storia dell’Italia dagli anni 60 a oggi. E da privilegiato.

Si è sempre sentito privilegiato?

Dopo il primo successo la riflessione istintiva è stata: “Che culo!” Poi il resto lo abbiamo strappato con le unghie (si ferma); in realtà la prima fortuna è la libertà concessa dai miei genitori.

Suoi complici?

Mi hanno lasciato andar via a 16 anni, libero di costruirmi il futuro, e da un piccolo paese in provincia di Modena.

I suoi anni 60.

Bellissimi, poi qualcosa è cambiato con il 1968: ricordo quando anche noi venimmo accusati di collusione con il potere.

Voi?

Una volta, a Reggio Emilia, dei ragazzi ci impedirono di suonare. Eppure avevamo inciso Dio è morto, mica Il mazzolin di fiori.

Anni 70.

Il successone con cinque hit in fila a partire da Un pugno di sabbia a Io vagabondo; in quel periodo abbiamo sbagliato solo il Festival di Sanremo, in coppia con Mal, cacciati alla fine delle prima serata.

Voi e Mal…

Non c’entravamo niente.

Anni 80.

Il vuoto assoluto e la casa discografica lesta nello stracciare il contratto: “Siete troppo di sinistra”. Anzi, arrivarono a darci dei bombaroli.

Anni 90.

La ripresa. Una sera suoniamo alla Festa dell’Unità di Sant’Ilario, arrivano i rappresentanti della Warner, si guardano attorno, non trattengono lo stupore: “Tirate su un bel po’ di pubblico”.

Però nel 1992…

La batosta per la morte di Augusto Daolio e pochi mesi prima era deceduto il bassista.

Il rischio “fine”.

Volevo mollare, temevo di rovinare quanto conquistato in 30 anni di amicizia e musica; poi una sera i fratelli di Augusto mi parlano: “Prosegui”. E da lì sono entrati tre nuovi membri, due cantanti e una bassista, ma dopo cinque anni in due hanno rinunciato.

Come mai?

Troppa fatica, essere Nomadi non è semplice.

Quanti concerti l’anno?

Ora solo 80, nel 1982 erano 220; sul palco Augusto non sentiva la fatica.

Anni Duemila.

Nel 2002 e 2003 per due volte primi in classifica, mai successo in carriera.

2010.

L’infarto di Danilo (il cantante) e noi che proseguiamo in attesa del suo ritorno; poi c’è la soddisfazione del concertone per aiutare a ricostruire dopo il terremoto.

Le fa impressione l’Emilia leghista?

Un pochino sì.

Cosa è accaduto?

Non capisco di cosa si lamentano, abbiamo tutto: le assistenze domiciliari sono una meraviglia, vengono dalla Svezia a studiare i nostri asili nido, c’è lavoro, compreso per gli immigrati.

È felice di esser nato lì?

A volte penso sia il posto più brutto d’Italia, tra nebbia e zanzare, però mi piace la cultura trasmessa, con mio padre finito nel campo di concentramento e una nonna presidentessa dell’azione cattolica: Don Camillo e Peppone.

Ha un nuovo cantante.

Era il vocalist di una cover band dei Nomadi: ha portato una ventata d’allegria, quello precedente era un po’ triste; gli ho detto: “Mi devi portare fino alla fine”. E giriamo ancora con il pulmino.

Sua moglie?

Mi sopporta da 54 anni, ma non è nomade, è stanziale e i miei figli vivono vicino a me: quelle poche volte che sono a casa mi piace averli a tavola, tutti insieme, con i nipoti.

I nipoti cantano I Nomadi?

Mica tanto; durante Sanremo mi hanno chiesto se mi piace Achille Lauro,

E…?

Il discorso è complicato e tocca la sfera dei testi: negli anni Sessanta ci hanno censurato per Dio è morto e Canzone per un’amica, oggi ascolto dei brani e non capisco.

Cioè?

Ci vorrebbe un po’ di pudore e attenzione, perché finiscono in mano a dei bambini, che devono rapportarsi a termini come scopare, droga e altro.

Attenzione da chi?

Anche delle emittenti; Muti ha dichiarato: “Eravamo la patria della melodia, ora non si sa più di cosa”.

Cosa ascolta?

L’ultimo di Bruce Springsteen è da pelle d’oca.

Qual è il parametro?

Uno deve scrivere brani che poi il pubblico può cantare. Oggi spesso è impossibile.

(Perché la strada non è sempre lunga e diritta…)

Il femminismo di Annie

“La novità del #MeToo è stata la messa in discussione dei miti della virilità. E c’è qualcosa di più e, secondo me, di irreversibile: la scoperta di non essere sole con la propria vergogna”. A un anno e mezzo dalla nascita di quell’hashtag che ha creato nel mondo un’immensa ondata di proteste e denunce e che oggi sembra invece essersi cristalizzato in una pagina Wikipedia, la scrittrice francese, 78 anni, ne rivendica l’eredità. Finalista al Premio Gregor von Rezzori, Ernaux sarà protagonista di un incontro con la giuria oggi al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Nel 2018 la casa editrice L’Orma ha pubblicato in Italia il suo Una donna, scritto nel 1987, subito dopo la morte della madre.

La penna di Annie è una lama tagliente, che incide nel profondo dell’umano sentimento lasciando al lettore l’impressione di essere lui sotto quel ferro. Una scrittura lucida, asciutta. E una cicatrice pulita. Sempre dalla parte delle donne.

Signora Ernaux, è stata accusata di essere troppo o troppo poco femminista. Lei come si sente?

Quando ho cominciato a scrivere, negli anni 70, non mi preoccupavo di essere o no una femminista, scrivevo solo della mia vita reale di donna. E ciò ha prodotto il risultato di essere percepita in modo contraddittorio: troppo femminista dai sostenitori della famiglia tradizionale, non abbastanza da alcune femministe che avrebbero preferito libri di lotta. Il femminismo non può essere decretato, si dimostra nel proprio modo di vivere e di scrivere. E oggi ha anche i volti di donne benestanti e colte, spesso di origine borghese, nelle quali negli anni 70 non mi riconoscevo.

Della “rivoluzione” sembra siano rimaste solo le polemiche contro Delon o Allen. Il #MeToo è stato un movimento così superficiale?

Al contrario, credo che abbia rotto il silenzio sul potere che si arrogano gli uomini sul corpo femminile. Non tutti, evidentemente. Ma tutti approfittano del consenso implicito della società secondo cui all’uomo è permesso flirtare pesantemente. Il Movimento ha messo in discussione, per esempio, il dogma che l’uomo ha più bisogno del sesso della donna e che perciò ha più diritti. Poi abbiamo scoperto di non essere sole con la nostra vergogna. È ciò che accadde negli anni 70 dopo il Manifesto delle 342 puttane che dichiaravano di aver abortito.

Il romanzo è dedicato a sua madre ma si intitola Una donna. Che differenza c’è?

Non mi è mai venuto in mente di scegliere come titolo “Una madre”, tanto sono certa che non si possa confondere l’essere una ragazza, una donna, con l’essere una madre. La madre non smette mai di essere una donna mentre si può, mentre i figli crescono, sentirsi più o meno madre. Mia madre incarnava la forza e la libertà, faceva un lavoro, la commerciante, che la portava a vivere socialmente fuori di casa. Mi ha incitato a fondare il mio futuro su una professione, il futuro di donna prima di tutto, e la maternità non faceva parte dell’essenziale.

Nel romanzo definisce l’infanzia di sua madre come un appetito mai sazio. Oggi l’infanzia dei bambini occidentali sembra sia una pancia satolla. È così?

Mia madre nella sua infanzia ha patito la fame vera. Per il resto, giocattoli, libri, vestiti, si accontentava di una scarsità che era condivisa con le famiglie numerose di operai e contadini. Sarei tentata di dire che quel mondo è scomparso perché i negozi traboccano di cibo, ma basta guardare ciò che la gente poggia sui nastri del supermercato, per vedere che i consumi sono molto ineguali.

Lei stessa si è riscattata dalla condizione originaria della sua famiglia e ha cercato di non ripetere gli errori di sua madre. Ci è riuscita?

Ciò che conta per l’individuo, uomo o donna, è la quantità di scelte che gli si parano davanti. Mia madre ne aveva poche: ben educata o no, doveva lasciare la scuola per guadagnarsi da vivere. Ma senza diplomi è riuscita a raggiungere una vita migliore di quella dei suoi genitori e dei suoi fratelli. Soprattutto, la sua ammirazione per il sapere l’ha portata a fare di tutto perché io studiassi a lungo. Rappresenta per me un modello di coraggio e di volontà, di femminismo perfino. In fondo io sono il suo successo. Ma dentro di me questa parola non ha altra realtà se non quella di arrivare alla fine del libro che ho iniziato e di dirmi: l’ho fatto!

Si può essere netti e tracciare una linea tra una buona e una cattiva madre?

È infinitamente difficile! Posso dire che mia madre è stata una buona madre, ma per certi aspetti – la sua paura del sesso, il suo continuo controllo, per quella che mi appariva come la sua violenza – non lo è stata affatto. Ho voluto evitare di ripetere questi errori agli occhi dei miei figli. Alla fine ciò che conta è l’eredità interiore che una madre lascia.

Una domanda politica. Dalle urne è uscita un’Europa complessa e disomogenea. Come giudica il voto?

Il risultato delle Europee in Francia segna il trionfo dell’estrema destra xenofoba con Marine Le Pen e della destra liberale incarnata da Macron. Si tratta degli elettori più vecchi e più ricchi che alle Presidenziali avevano votato per lui, alcuni di loro probabilmente ex elettori della destra tradizionale. Per questo il suo piccolo scarto con Le Pen non può essere considerato una disfatta. Ma è spaventoso che non ci sia più una forza politica di sinistra capace di difendere la giustizia sociale. Dubito che i verdi possano rappresentare le aspirazioni e gli interessi di una larga parte delle classi popolari.

Infine la letteratura. In Italia c’è una nuova generazione di scrittrici. Le conosce?

Conosco meglio quelle della generazione vicina alla mia, Cristina Comencini, Milena Agus, Elena Ferrante. Tra le giovani, apprezzo moltissimo Nadia Terranova. Ciò che è terribile è che potrei citare di più gli scrittori, non perché sono in numero maggiore, ma perché godono di una maggiore visibilità, sono più tradotti. Dubito che possiamo individuare una tendenza diversa nel mondo. D’altronde, i cambiamenti nella società non si traducono immediatamente nella letteratura.

Il Friday for future non ha date estive e la Thunberg mette in stand by la scuola

Alla fineè successo quello che tutti i sui detrattori desideravano per poter puntare più agilmente le loro dita: dopo le vacanze estive, Greta Thunberg non tornerà sui banchi di scuola. La giovanissima attivista per l’ambiente svedese, candidata Premio Nobel, si prenderà un anno sabbatico con l’intenzione di concentrarsi sulla campagna internazionale per sostenere la lotta ai cambiamenti climatici. Lo ha spiegato al quotidiano scandinavo Dagens Nyheter: “È stata una decisione difficile, ma doveva essere presa adesso”, ha detto Greta. Già, perché nonostante in Italia la sua figura sia da qualche tempo trascurata, nonostante di Friday for Future si senta parlare poco dopo le manifestazioni nelle piazze, la 16enne svedese continua a giocare nelle squadre dei grandi. A settembre parteciperà a un summit straordinario sul clima nella sede delle Nazioni Unite di New York ed stata invitata a una conferenza in Cile a dicembre. Il Nobel per la pace resta una possibilità all’orizzonte. Con un piccolo problema pratico: la Thunberg non vola in aereo perché lo ritiene inquinante e ora dovrà trovare un modo per attraversare l’Atlantico. Quando ha partecipato al forum di Davos, ad esempio, ha viaggiato in treno per più di 30 ore. Poi ha dormito in una tenda piantata accanto a un hotel.

Oltre la dimensione personale, c’è quella pubblica: le elezioni europee hanno mostrato una prima svolta ambientalista sia per i contenuti delle campagne elettorali sia per le scelte di voto con l’exploit dei Verdi soprattutto nei Paesi in cui il Friday for Future è rimasto legato alla sua accezione pura di protesta dei ragazzi. In generale, però, le piazze si sono svuotate. L’ultima manifestazione è stata indetta il 24 maggio, il calendario globale di Friday for Future indica solo i venerdì di giugno come appuntamenti. Poi le scuole si chiuderanno per le vacanze estive, la data successiva è del 22 settembre. La protesta, insomma, va in vacanza, anche se alcune compagnie di volo lamentano il calo degli acquisti per una nuova sensibilità ambientale e sembrano spopolare i campeggi ecologici: trovate di marketing o effetto Greta? Difficile saperlo. Come difficile sarà convincere i giovani a scioperare dalla spiaggia. Potrebbe essere la sfida estiva di Greta.

L’ecologia è un’idea geniale: dieci invenzioni rivoluzionarie

Sono state annoverate tra le invenzioni che nell’ultimo decennio stanno salvando il pianeta: ne abbiamo raccolte una decina, quelle che ci sono sembrate più interessanti, innovative o geniali nella loro semplicità. A volte, basta davvero poco per innovare a basso costo per le tasche e per l’ambiente.

Uno.Da anni, ad esempio, esiste una Ong, che ha sede anche in Italia e che utilizza i rifiuti per portare la luce nei Paesi in via di sviluppo. Una delle intuizioni di Liter of Light viene da due giovani italiani ed è stata pluripremiata: utilizzare le bottiglie di plastica piene d’acqua per sfruttare la rifrazione della luce e diffonderla. Sono nati così lampioni che hanno bottiglie al posto delle lampadine, collegate a un pannello solare e usate per l’illuminazione pubblica.

Due. Durante la maratona di Londra, invece, quest’anno al miglio 23 è stata distribuita la prima bottiglia d’acqua biodegradabile. Si scrive bottiglia, ma in realtà è una capsula formata da una membrana gelatinosa di alghe marine e cloruro di calcio. È commestibile ma anche economica: per produrla, secondo l’azienda che si chiama Ooho, si spendono 2 centesimi.

Tre/Quattro. Sulla stessa linea sono state create le mono-porzioni di shampoo e bagnoschiuma che, avvolti in una pellicola biodegradabile, riducono la produzione di plastica delle confezioni. Esiste anche il dentifricio sotto forma di pillole: custodite in una scatola di carta, basta masticarle un po’ prima dello spazzolino.

Cinque.Ci sono poi aziende specializzate nel packaging commestibile: sia per gli animali marini (hanno creato ad esempio gli anelli per tenere insieme le birre) sia per gli uomini con le posate da mangiare.

Sei.Molti, invece, i prototipi delle turbine da inserire in mare e nei corsi d’acqua: piccole e sensibili, riescono a produrre energia anche dalle correnti meno intense e alcuni modelli sono anche in grado di soddisfare il fabbisogno di una casa.

Sette. Geniale il taglierino che ricorda un temperamatite e che è in grado di ridurre una bottiglia di plastica in un lungo filo di plastica. Talmente resistente che può essere utilizzato anche per legare e trascinare un’auto in panne.

Otto.A livello industriale, intanto sono stati sviluppati macchinari in grado di riciclare gli pneumatici, separando la gomma dal ferro e da altri materiali. Ognuno è poi riutilizzato per creare altri oggetti, soprattutto pannelli isolanti e rivestimenti. A Taiwan, una nuova tecnologia, è in grado di fare lo stesso con i pannelli solari esauriti.

Nove. Un anticoagulante in polvere estratto dalla soia riesce a separare l’acqua pulita da inquinanti e parti torbide, che si solidificano e si depositano sul fondo.

Dieci.Sembrano funzionare bene i Seabin, i bidoni dei rifiuti galleggianti che collegati a una pompa attirano l’acqua circostante, trattengono i rifiuti e ridisperdono quella pulita. Uno degli obiettivi del progetto è raccogliere dagli oceani plastica sufficiente per costruire altri Seabin.

Whirlpool, l’ultimatum di Di Maio. Ma l’azienda punta alla cessione

Ieri è partito il conto alla rovescia: ora la Whirpool ha sette giorni di tempo per proporre una soluzione che mantenga aperto lo stabilimento di Napoli con tutti gli attuali 430 posti di lavoro. Se non lo farà, il governo chiederà la restituzione di almeno 15 milioni di euro ottenuti in questi anni, sotto forma di finanziamenti pubblici. La multinazionale degli elettrodomestici, però, ha risposto alla minaccia ribadendo la volontà di “riconvertire” la fabbrica partenopea. Tradotto: vuole liberarsene cedendola a un’altra società.

La riunione di ieri al ministero dello Sviluppo economico è stata concitata, ma non risolutiva. L’ha aperta Luigi Di Maio con un duro intervento: “Lo Stato si farà rispettare”, ha detto il vicepremier ai vertici aziendali presenti, prima di stabilire l’ultimatum di una settimana. La linea rigida per il momento non ha smosso la Whirlpool, che ha rilanciato confermando “l’impegno a trovare una soluzione per la riconversione del sito di Napoli che ne garantisca una nuova missione strategica” e ha aggiunto che “l’obiettivo è quello di dare continuità industriale e assicurare i massimi livelli occupazionali per un futuro sostenibile di tutti i lavoratori coinvolti”. Con questa posizione, il gruppo americano si rimangia clamorosamente gli accordi firmati solo sette mesi fa al ministero, con i quali prometteva di mantenere la titolarità di tutti i siti produttivi e di investire 250 milioni per il triennio fino al 2021. Una parte di questi soldi dovevano essere stanziati proprio per Napoli, la cui missione restava quella di costruire “lavatrici a carica frontale di alta gamma”.

Alla base del dietrofront, ha spiegato l’azienda, ci sarebbe il fatto che “i volumi e i piani per lo stabilimento sono diventati insostenibili”. Secondo quanto appreso dall’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, l’intenzione della Whirlpool non sarebbe delocalizzare le linee che oggi “sfornano” quel tipo di lavatrici, ma di abbandonare del tutto il prodotto.

Nei prossimi giorni Luigi Di Maio contatterà la sede americana, quartier generale della multinazionale. “Oggi abbiamo visto un ministro autorevole – ha commentato Barbara Tibaldi della Fiom – ma l’azienda non ha avuto il coraggio di dare risposte quando ho chiesto se esiste la possibilità che non vendano più la fabbrica”. Gianluca Ficco della Uilm è scettico sulla possibilità di rilancio: “Sono già in atto due reindustrializzazioni che coinvolgono la Whirlpool – ha fatto notare il sindacalista – una a Caserta con la Seri e una a Torino per l’Embraco. Mi sembra difficile che si riesca ad avviarne una terza prima di chiudere questi due progetti complessi e problematici”.

La sfida italiana per una nuova governance

Progresso civile, sviluppo economico e benessere sociale esteso a tutti i cittadini sono chimere per lo Stato italiano da sempre affetto dall’endemica malattia della partitocrazia, intesa come classe politica e dirigenziale che va dai burocrati ai sindacati, dagli imprenditori ai professionisti. Eppure per Fausto Capelli, professore di Diritto dell’Unione europea al Collegio europeo/Università di Parma per salvare il Paese la strada da seguire è tracciata: un efficace sistema di controlli interni che trova fondamento nella sfiducia verso chi gestisce il potere e che, con ogni probabilità, è lo strumento più sicuro per far funzionare correttamente la democrazia, perché in primo luogo riduce gli abusi concedendo nuova linfa alle istituzioni. Un circolo virtuoso per la lotta alla corruzione e allo sperpero di denaro pubblico. Insomma, una teoria auspicata anche da Aristostele che garantisce un funzionamento corretto del sistema democratico rappresentativo mai applicato in Italia.

Per salvare la democrazia in Italia

Fausto Capelli

Pagine: 408

Prezzo: 19

Editore: Rubbettino

Venezuela, la battaglia decisiva per il petrolio

Il Venezuela non è conosciuto solo come patria di Simón Bolívar, ma anche per le sue risorse naturali. La produzione di petrolio attorno al lago Maracaibo è iniziata dopo la Grande guerra, attirando investimenti delle società petrolifere che, dopo aver perso la produzione russa, vedevano il fermento rivoluzionario minacciare anche quella messicana. Già alla fine degli anni 20, il Venezuela era diventato il più grande esportatore di petrolio al mondo, posizione che avrebbe mantenuto fino alla fine degli Anni 60.

Negli Anni 70, grazie alla rendita petrolifera, i venezuelani vantavano il reddito pro capite più alto dell’America Latina. Un volo settimanale del Concorde univa Caracas e Parigi e le borghesi venezuelane erano conosciute come dame dos (dammene due), shoppers internazionali compulsive grazie alla solidità del bolívar.

Il modello di economia della rendita che aveva trasformato, non senza contraddizioni, una popolazione di contadini poveri in un Paese moderno, crollò negli anni 80 assieme ai prezzi del petrolio: grattacieli di Caracas trasformati in rovine verdeggianti, sommosse popolari contro l’austerità, il tutto accompagnato dalla liberalizzazione del settore petrolifero (“apertura”). L’ascesa di Hugo Chávez nel 1999 ha contribuito a riportare il settore petrolifero sotto il controllo statale e ha coinciso con un aumento dei prezzi del petrolio che, facendo lievitare le entrate, ha consentito massicci investimenti nel sociale e nelle infrastrutture. Dopo la morte di Chávez, con la diminuzione dei prezzi del greggio nel 2014, il modello è imploso e il Paese vive la peggiore crisi economica e sociale dall’inizio del 900, a riprova di quanto erano fragili le fondamenta dell’economia chavista.

Le entrate statali venezuelane dipendono per la quasi totalità dai ricavi dalle esportazioni di petrolio e, per l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica, tengono in piedi l’intera economia venezuelana. Il Venezuela vanta le maggiori “riserve provate” di greggio al mondo (il 25 per cento del totale Opec, più dell’Arabia Saudita). Nel 2014 Pdvsa, la società nazionale del petrolio e quinta maggior impresa petrolifera al mondo, estraeva 3 milioni di barili al giorno. Oggi la produzione è tracollata a 700 mila barili al giorno, con una perdita potenziale di ingressi per le casse venezuelane, ai prezzi attuali, di circa 40 miliardi di dollari l’anno. Il governo di Maduro ha affidato le joint venture di Pdvsa nell’Orinoco a società russe e cinesi, gran parte della produzione di Maracaibo e nell’est ai “nuovi ricchi” chavisti (boliboys) o a società private venezuelane. Il settore petrolifero è fuori controllo.

Quando a un petrostato mancano le entrate petrolifere, manca sangue. Maduro ha cercato di sopperire con trasfusioni di denaro che a oggi hanno fatto lievitare il debito estero a 100 miliardi di dollari. Il Paese è sottoposto a sanzioni americane. Queste hanno iniziato a far più male dal 2019 (quando Washington ha riconosciuto come governo legittimo quello di Guaidó) con il blocco alla compravendita di titoli del debito pubblico, gli ostacoli posti all’acquisto di greggio venezuelano, i vincoli ai pagamenti della Citgo (ottava più grande raffineria americana di proprietà di Pdvsa). Le sanzioni americane avrebbero potuto essere aggirate, come nel caso dell’Iran, solo se Pdvsa non fosse stata allo sbando.

Donald Trump non vuole impadronirsi del greggio venezuelano. Nel 2018, pompando oltre 10 milioni di barili al giorno, più della metà dei quali di petrolio “non convenzionale”, gli Stati Uniti hanno raggiunto il picco di produzione che avevano toccato nel lontano 1970. Non è escluso che nel prossimo futuro possano ridiventare, per la prima volta dopo il 1948, esportatore netto di idrocarburi. Quel che interessa a Trump, oltre a eliminare un regime ostile, è la possibilità per le imprese petrolifere americane di fare affari in un Paese che le aveva allontanate.

Le proposte avanzate dell’opposizione di Guaidó per il settore petrolifero lasciano presagire una nuova apertura ai capitali stranieri basata su tassazione “competitiva” (bassa), creazione di un’agenzia per regolare il settore petrolifero (estromissione del ministero del Petrolio e del Parlamento), nuovi contratti che consentirebbero a società straniere il controllo sui giacimenti (limiti alla sovranità nazionale sulle risorse naturali sancita a partire dalla nazionalizzazione petrolifera del 1975).

Qual è, dunque, la posta in gioco in Venezuela? Se dovesse prevalere l’opposizione “democratica” il greggio venezuelano sarebbe svenduto a società straniere, con un’impennata della produzione e il concreto rischio che il Venezuela possa uscire dall’Opec (scenario che replicherebbe quello disastroso degli anni 90). Questo minerebbe, tra l’altro, l’unica organizzazione con un minimo controllo sull’offerta mondiale di petrolio e l’unico argine contro il dilagare sui mercati un petrolio “a saldi” che comprometterebbe la battaglia contro il cambiamento climatico.

Se Maduro riuscisse ad arroccarsi, ciò significherebbe un’industria petrolifera in parte controllata da consorterie interne corrotte e incompetenti, nonché da Russia e Cina che pretendono petrolio “scontato” e accesso diretto alla produzione come garanzia dei significativi prestiti elargiti.

Senza un processo di riconciliazione nazionale che coinvolga maduristi, chavisti delusi e opposizione democratica, e che rimetta ordine, senza svendite, alla gestione della principale risorsa naturale del Paese, il Venezuela diventerà uno Stato fallito come la Libia.

Fca-Renault, in cda un posto per Parigi. Ma tutto rinviato all’incontro di oggi

Nozze rimandate ancora di un giorno. Questo il verdetto sulla fusione tra Renault e Fca al termine del cda di ieri durato oltre tre ore nel quartier generale alle porte di Parigi. Il costruttore francese ha confermato il suo “interesse” per Fca, ma ha rinviato a oggi pomeriggio ogni possibile decisione. Renault vuole “continuare a studiare con interesse l’opportunità della fusione”, che segnerebbe la nascita, almeno tra un anno, del terzo colosso mondiale nel settore dell’auto. La Francia, maggiore azionista Renault con il 15%, ha fatto pressione per avere un posto nel nuovo board e un effettivo diritto di veto sulla nomina degli ad. Ma dopo i colloqui con il presidente della Fca, John Elkann, Parigi ha accettato uno dei quattro posti in cda assegnati a Renault, bilanciati da quattro rappresentanti Fca, secondo le fonti. Ma pretendendo comunque una serie di garanzie allo scopo di evitare tagli occupazionali e difendere l’interesse nazionale francese, tra cui il quartier generale operativo del nuovo gruppo a Parigi e un dividendo straordinario per gli azionisti di Renault. Intanto sul fronte dell’alleato della Renault, secondo il Financial Times, Yu Serizawa e Yasuhiro Yamauchi, esponenti di Nissan si dovrebbero astenere “da un voto cruciale” che “potrebbe minacciare il futuro dell’alleanza ventennale”
Ma il presidente e ceo di Nissan, Hiroto Saikawa ha già spiegato che la proposta di Fca comporterebbe “una fusione completa che, se realizzata, altererebbe significativamente la struttura del nostro partner Renault” e che perciò richiede “una revisione fondamentale della relazione esistente”. La famiglia Agnelli, che controlla il 29% di Fiat-Chrysler, con la fusione vedrebbe invece la sua parte automaticamente diluita al 14,5%,restando comunque primo azionista della nuova entità, mentre lo Stato francese scenderebbe al 7,5%. Intanto sul ruolo silente del governo italiano, in difficoltà davanti all’azienda di Elkann, ormai di diritto olandese e, dunque, di fatto non più italiana, Ma che ha ancora stabilimenti e occupati in Italia, si fanno sentire le opposizioni. “Il governo con la sua assenza – ha detto il segretario del Pd Nicola Zingaretti – sta danneggiando l’Italia e i suoi interessi”.

Asti-Cuneo, l’Authority boccia l’intesa coi Gavio

All’Autorità di regolazione dei Trasporti (Art) non piace la soluzione trovata dal ministro Danilo Toninelli per completare l’autostrada Asti-Cuneo con la costruzione della decina di chilometri mancanti. In un documento riservato di 12 pagine inviato al ministro, che il Fatto ha visionato, l’Art elenca quelle che considera evidenti criticità dell’accordo raggiunto con i concessionari dell’autostrada, il gruppo Gavio per il 65%, Anas per il resto.

La più clamorosa di queste criticità è che il peso preponderante dell’operazione viene scaricato sugli automobilisti della Asti-Cuneo e anche della Torino-Milano che è l’altra grande autostrada dei Gavio coinvolta nell’affare attraverso un finance crossing, un incrocio finanziario. A beneficiare di questa impostazione è soprattutto il gruppo Gavio che di fatto ottiene dal ministro dei Trasporti forse più di quanto stesse ottenendo dal precedente ministro Pd, Graziano Delrio. E non si tratta di spiccioli, ma di centinaia di milioni di euro.

L’accordo tra ministro e Gavio si basa su 5 punti. Il primo è la conferma della scadenza nel 2026 della concessione per la tratta Torino-Milano alla società Satap dei Gavio. Il secondo punto riguarda la scadenza della Asti-Cuneo che viene invece allungata di 10 anni, al 2045. Il terzo punto regola il finanziamento incrociato: i 350 milioni necessari per il completamento della Asti-Cuneo vengono tirati fuori dai Gavio attraverso la Satap Torino-Milano ed entrano a far parte del Piano economico finanziario (Pef) di quest’ultima nonostante le due autostrade non siano affatto contigue. Il quarto punto regola gli investimenti già effettuati sulla Asti-Cuneo (280 milioni) che vengono conteggiati nel nuovo Pef della Torino-Milano. L’ultimo punto prevede il completo ammortamento di 630 milioni, cioè i 350 necessari per il completamento della Asti-Cuneo più i 280 per le opere già realizzate.

Tutto questo si traduce in una struttura tariffaria così concepita: nessun incremento sulla Torino-Milano da oggi al 2022 e un incremento del 2,5% dal 2023 al 2026. Sulla Asti-Cuneo, invece, nessun incremento da oggi fino al 2021 compreso e poi un aumento dell’1,9% per 24 anni di fila. Infine la ciliegiona sulla torta: un tasso di remunerazione del capitale investito del 7,3% sia per la Torino-Milano sia per la Asti-Cuneo. E poi 812 milioni di euro riconosciuti alla Satap Torino-Milano come valore di subentro, soldi che lo Stato tra 7 anni dovrà dare ai Gavio per riprendersi la concessione, se volesse farlo. O che dovranno essere sborsati da chiunque volesse subentrare ai Gavio tramite un’eventuale gara.

Secondo l’Art “l’ingiustificato aggravio” per gli utenti della Torino-Milano e “la rilevante crescita dell’onere di subentro” impongono “una rivalutazione, almeno parziale, dello scenario proposto”. Di più: l’Art fa notare che il trasferimento a Satap Torino-Milano degli investimenti effettuati e di quelli necessari per completare l’Asti-Cuneo privano quest’ultima della “componente tariffaria di costruzione” azzerando di falo stesso riconosciuto nella remunerazione fissata al 7,3%. Di conseguenza dovrebbero esserci “rilevanti benefici tariffari per i relativi utenti”, che però non ci sono, anzi, sono previsti rincari dal 2023 in poi. Da una prima stima sommaria i pedaggi non dovrebbero crescere, ma rimanere fermi e forse diminuire.