La guerra dei rifiuti Lega-M5S e il paradosso dei pannolini

Scomodare De André e il suo “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” può sembrare fuori luogo ma il concetto è quello: una materia vile che genera valore in un ciclo economico più efficiente e sostenibile. Parliamo di rifiuti e del loro smaltimento, una partita su cui si sta giocando uno scontro tra economia legale e illegale (20 nuovi arresti giusto ieri), interessi contrapposti delle imprese e, ovviamente, della politica: la Lega, ad esempio, su questo (e molto altro) ha messo nel mirino Sergio Costa, rivendicando più poteri alle Regioni e meno a Roma.

Il campo di battaglia è caldissimo e, in prospettiva, vale miliardi. Il 15 maggio, per capirci, il ministro dell’Ambiente ha firmato una norma attesa da tempo: il secondo decreto della serie end of waste, quello per i pannolini usati. Il testo – secondo la direttiva quadro sui rifiuti – indica quali caratteristiche deve avere un pannolino riciclato per cessare di essere un rifiuto (end of waste) e divenire nuova materia prima. Una norma essenziale per superare un paradosso italiano: essere l’unico Paese al mondo ad avere un impianto per il riciclo dei pannolini – quello di Lovadina di Spresiano (Treviso) – senza però poterlo portare a regime perché, in assenza di quella norma, i materiali ottenuti per la legge sono considerati rifiuti. “È un passaggio epocale per l’economia circolare – ha detto Costa visitando l’impianto – e oggi può finalmente decollare un’industria tutta italiana che coniuga il riciclaggio e la conseguente riduzione del problema dello smaltimento dei rifiuti con la creazione di tantissimi posti di lavoro”.

L’impianto è frutto della partnership tra Contarina, eccellenza italiana nella gestione dei rifiuti, e Fater, joint venture tra Procter & Gamble e gruppo Angelini che realizza prodotti assorbenti coi marchi Pampers, Lines, Tampax. I pannolini che verranno riciclati (per bambini, per incontinenza e assorbenti igienici femminili) sono quelli usati dagli abitanti dei 49 comuni trevigiani in cui opera Contarina. La tecnologia, coperta da oltre 130 brevetti e frutto di un investimento di 10 milioni di euro, è quella di FaterSMART (Sustainable Materials And Recycling Technologies) del gruppo Fater. Tradotto: i pannolini non vanno più in discarica o nell’inceneritore, ma vengono sterilizzati in un autoclave e poi, con un processo di separazione meccanico e ottico, ridotti alle loro tre componenti. Alla fine da una tonnellata di pannolini si ottengono 150 chili di cellulosa, 75 di plastica e 75 di polimero super assorbente (il resto è sostanza organica) per farne imballaggi, oggetti in plastica, carta, arredi urbani, materiali per costruzioni e ancora assorbenti per la persona.

“Il valore di mercato dei materiali che ricaviamo si colloca tra il 50 e il 60% di quello della materia prima ‘vergine’, a fronte di prestazioni tecniche di poco inferiori”, spiega Giovanni Teodorani Fabbri, dg di FaterSMART. Un chilo di plastica, ad esempio, a seconda delle oscillazioni del mercato, può valere tra 0,5 e 1 euro. E all’ambiente non fa di certo male: la stima dell’azienda è di 400 kg di CO2 in meno per tonnellata riciclata e, a pieno regime, l’impianto, con 9-10 addetti, potrà “smaltire” 10 mila tonnellate all’anno.

Se si volessero riciclare tutte le 900 mila tonnellate di pannolini usati in Italia (ma servirebbe molta più raccolta differenziata) “si avrebbero diverse centinaia di milioni di investimenti, un indotto di 1 miliardo l’anno e mille nuovi posti di lavoro, considerando solo gli operai. Ci hanno già contattato da una ventina di comuni in tutt’Italia. E poi praticamente da tutta Europa, dal Nord America e dall’Asia”, racconta Teodorani Fabbri.

L’impianto di Lovadina di Spresiano è partito in fase sperimentale nel 2015, lavorando al 15% delle capacità. In questi 4 anni attorno a quell’impianto sono nati contenziosi su chi dovesse “certificare” il passaggio da rifiuto a nuova materia prima: contenziosi sciolti l’anno scorso quando il Consiglio di Stato ha stabilito che farlo spetta non alle Regioni (come in precedenza), ma esclusivamente al ministero dell’Ambiente. È su questa competenza che hanno litigato fino a sera la Lega e i 5 Stelle: l’accordo pare trovato su un emendamento al dl sblocca-cantieri che restituisce qualche potere in materia ai governatori nella cornice di linee guida vincolanti (entro 12 mesi) emanate dal ministero.

A oggi la lista di decreti end of waste in fase istruttoria conta 13 tipologie di rifiuti: da quelli da costruzione e demolizione ai rifiuti di gesso, dalle batterie al piombo alle plastiche miste ai rifiuti da spazzamento (pulizia delle strade). Il testo in fase più avanzata è quello per i pneumatici fuori uso: già inviato a Bruxelles, è tornato con delle osservazioni e sarà pronto una volta messe a punto le modifiche.

Così editori e sindacati hanno scippato la pensione ai poligrafici

Mentre l’Inps applica il contributo di solidarietà alle pensioni più ricche, nella previdenza complementare c’è chi fa il contrario, applicandolo sistematicamente a quelle dei pensionati più deboli, comprese le vedove e i figli invalidi. È il caso dello storico Fondo per i poligrafici dei giornali “Fiorenzo Casella”, fondato nel 1958 per garantire una pensione integrativa ai grafici tramite un contributo obbligatorio a carico sia del lavoratore che dell’azienda editrice. Negli anni Ottanta, quando le rotative stampavano a manetta, il Casella poteva contare su 14mila iscritti e metà pensionati, ma la crisi dei giornali, la chiusura degli stabilimenti e la facilità dei prepensionamenti oggi hanno più che ribaltato i rapporti: 2.800 attivi per 14.500 pensionati. In pratica, a ogni lavoratore corrispondono 4,5 pensionati. Dal 2013 per evitare il default l’ente ha imposto tre prelievi straordinari, arrivando al 70% dell’importo della pensione a carico dei più anziani, perché applicato solo alla quota retributiva precedente al 1994. Sacrifici spacciati per risolutivi e provvisori, anche se non lo sono stati affatto. E oggi siamo alla resa dei conti.

A maggio, incalzato dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip), il Casella ha comunicato alla Federazione degli editori e giornali (Fieg) e sindacati l’ultimo bilancio tecnico. Risultato: nel 2028 finiranno i soldi, con o senza decurtazioni. Si avvicina dunque l’idea, ventilata da tempo, di chiudere il Fondo portando il contributo dei pensionati oltre al 90-95% – per poi liquidarne le posizioni in qualche modo – e di trasferire gli attivi in un altro fondo, scaricando al loro destino 19mila “fantasmi”. Questa soluzione, che a dicembre è già finita in un accordo sindacale, spezza la logica solidaristica (le pensioni dei vecchi le pagano quelli che lavorano) ma “politicamente” consente agli amministratori di evitare la liquidazione coatta vigilata dal tribunale. Nessuno, a quel punto, gli chiederebbe conto di come sia potuto accadere.

Dietro a una crisi sistemica e strutturale del Fondo c’è infatti una storia diversa che chiama in causa editori furbetti, complicità sindacali e una gestione discutibile del patrimonio e delle riserve. Emerge dalle varie cause avviate dagli iscritti in giro per l’Italia con esiti diversi, poi accorpate al tribunale di Roma. L’avvocato Michele Iacoviello ne rappresenta 135 raccolti nel “Comitato difesa e salvaguardia del Fondo Casella”. Nel suo ricorso ha evidenziato le “anomalie” di questa vicenda. La prima è nello statuto del Fondo, perché gli amministratori non sono eletti dagli iscritti ma solo nominati da sindacati ed editori, e immediatamente revocabili se non votano come sarebbe gradito a chi li ha nominati. “È l’unico caso in Italia, ed è in violazione del decreto Maroni del 2005 (art. 5) sulla previdenza complementare”, spiega Iacoviello. Una forma atipica che ha consentito alle parti in combine di utilizzare il Casella come un ammortizzatore sociale per gli stati di crisi e ristrutturazioni dei giornali, attraverso prepensionamenti forsennati che hanno via via spolpato attivi e riserve creando un buco che ha poi indotto gli amministratori a una controversa operazione di cessione degli immobili, pur di non portare i libri in tribunale ed esporre la gestione a controlli. “A garanzia delle future erogazioni oggi resta solo la sede, stimata in 12 milioni di euro”.

L’iniquità del contributo nasce anche da come è stato individuato e imposto. Dal 50% è arrivato al 70% e presto salirà ancora (si parla del 90-95%). Da eccezionale e transitorio, è divenuto dunque permanente e strutturale. Quel che fa più scandalo è però che, diversamente da quanto fa l’Inps, non colpisce le pensioni più elevate ma i pensionati più deboli. Le pensioni d’oro vengono abbattute solo sulla parte eccedente i 100 mila euro e nella misura del 15%, mentre qui parliamo del 70% dell’intero importo. “Un sacrificio – aggiunge Iacoviello – non ripartito in parti uguali: è come se vendite e investimenti sbagliati siano stati addebitati ai vecchi pensionati del retributivo, che non hanno mai eletto gli amministratori del Fondo. Mentre chi ha diritto alla pensione contributiva (i lavoratori in servizio e i pensionati più giovani) non viene toccato”.

Il tema va incrociato con un’altra circostanza atipica: dal 1995 l’importo delle pensioni liquidate è rimasto congelato con un costo per i più anziani pari al 53,23% dell’assegno. “Così il neo pensionato – sottolinea l’avvocato – non subirà alcuna decurtazione, che resterà invece un privilegio a carico di chi non è protetto dai sindacati che, casualmente, non hanno iscritti tra i pensionati né tra le vedove”. Scelte operate da consiglieri nominati da sindacati e dalle aziende grafiche che i lavoratori non possono neppure revocare (lo possano fare solo i sindacati). “Non è un caso che – continua Iacoviello – nel buco del Casella ci siano livelli di morosità elevatissimi: 10,7 milioni di euro nell’ultimo bilancio, di cui solo 2,5 per aziende fallite, per i quali gli amministratori paiono tardare ad azionare il recupero. Parliamo di milioni di arretrati mai riscossi né pretesi, soprattutto del Gruppo Caltagirone. Per forza il creditore non si muove: se il Caltagirone di turno vuole uscire dalla Fieg o fare storie, quelli che dovrebbero rincorrerlo sono gli stessi che loro hanno nominato”.

La dirigenza del Casella, pur contattata, non rilascia dichiarazioni. Nessuno che ci metta la faccia e risponda ai pensionati, ormai certi che i “sacrifici” imposti loro siano stati un espediente per tirare a campare in attesa che editori e sindacati trovassero la quadra sull’estinzione e sulla rinascita del Casella, scaricando il peso ai “vecchietti”. Nel frattempo, le poche aziende editoriali ancora in piedi trovano vie di fuga. Tre anni fa proprio Caltagirone, che edita Il Messaggero, Il Gazzettino e altre testate, ha deciso di spostare i poligrafici su altri rami d’azienda e inquadrarli nel commercio per non pagare l’obolo al Fondo. Il cui destino sembra segnato, al di là della causa intentata a Roma. Prossima udienza il 19 dicembre 2019.

La politica si risveglia sul digitale

In finanza ci sono segreti conosciuti da tutti, ma che nessuno vuole ammettere perché poi dovrebbe comportarsi di conseguenza e nuotare contro la corrente. Nel 2007 chiunque avesse mantenuto un minimo di razionalità avrebbe potuto vedere il crollo in arrivo, dovuto alla combinazione tra mutui facili e bilanci bancari opachi. Oggi tutti sanno che Google, Amazon, Facebook e – in modo diverso – Apple e Microsoft hanno una posizione così dominante che non potrà essere tollerata a lungo perché ostacola l’innovazione e toglie potere ai governi. Ma nessuno osa dirlo.

Henry Ford e David Rockefeller dovevano attingere alla loro ricchezza per influenzare il dibattito pubblico a colpi di donazioni e lobbying. Facebook e Google, oggi, sono l’infrastruttura stessa del dibattito pubblico. E i 64 milioni di dollari in attività di lobbying che hanno speso nel 2018 hanno sicuramente dato risultati notevoli, visto che sono pochissime le imprese che hanno mai potuto esercitare tanta presa sulla politica. Per questo ha suscitato clamore l’indiscrezione, circolata lunedì, che il Dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission (un equivalente della nostra autorità Antitrust) starebbero investigando su Google, Facebook, Amazon e Apple. Negli ultimi vent’anni la cultura antitrust americana ha avuto come stella polare i prezzi: finché la concentrazione del mercato non li spinge al rialzo, danneggiando il consumatore, va tutto bene. E in un settore in cui il prezzo percepito dall’utente finale è zero, Google & C. hanno avuto vita facile. Vedremo se questa nuova indagine recupererà invece lo spirito originario dell’antitrust americano (aziende troppo grandi sono sempre pericolose). Intanto è bastata la notizia per determinare un tracollo in Borsa da 133 miliardi complessivi per le quattro aziende coinvolte. Alle indagini antitrust, infatti, di solito segue un cambio delle leggi. Forse per i giganti della Silicon Valley la fase dell’impunità si avvia alla (lenta) conclusione.

L’inquinamento, i Tir e la sicurezza: nuove balle in difesa del Tav

Se i cantieri del Tav Torino-Lione vivacchiano in attesa di una decisione politica sul destino dell’opera, prosegue invece a pieno ritmo la produzione di documenti da parte dell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione guidato dall’architetto Paolo Foietta (anche se il suo mandato è scaduto a fine 2018). L’ultimo Quaderno appena pubblicato contesta il gruppo di lavoro che ha redatto l’analisi costi-benefici dell’opera per il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Le accuse sono: 1) “fideismo tecnologico, alla riduzione del carico ambientale provvederà l’evoluzione tecnologica del sistema stradale e dei mezzi di trasporto” 2) “grossolani errori di sottovalutazione di impatti e benefici ambientali” per cui sarebbe falso che “anche una significativa riduzione dei flussi di lunga percorrenza avrebbe un impatto marginale sui livelli di inquinamento destinati a ridursi ulteriormente grazie al rinnovo del parco veicolare”.

La tecnologia.Riguardo al primo capo di imputazione, sarebbe legittima l’accusa contraria. La stima dei costi ambientali e di quelli relativi alla sicurezza del trasporto nell’analisi costi-benefici è stata prodotta ignorando probabili innovazioni future: nessun veicolo elettrico, nessuna ipotesi di convogli di veicoli (semi)automatizzati. Solo una presa d’atto della radicale riduzione delle emissioni di inquinanti locali – un Tir Euro0 inquina come dieci EuroVI – e del declino dei tassi di mortalità sulla rete autostradale (-90 per cento dal 1970).

L’ARIA. Foietta considera una “tesi estrema” la seguente affermazione di chi scrive: “La qualità dell’aria, a Torino come in tutta Europa è in miglioramento da decenni. Tale tendenza proseguirà grazie alla progressiva sostituzione dei mezzi più inquinanti”. Gli autori dello studio per il ministero sono accusati di “costruire i presupposti per trasformare la Val Susa in una camera a gas”. Ma forse Foietta non ha mai sfogliato i Rapporti della Qualità dell’aria dell’Arpa Piemonte che mostrano come da trent’anni la concentrazione degli inquinanti sia in calo. Perfino nel Quaderno di Foietta si legge che “i dati Ispra 2018 confermano che anche in Italia si è registrata la diminuzione progressiva delle emissioni inquinanti negli ultimi anni, avvenuta nel settore dei trasporti grazie all’introduzione di catalizzatori, filtri per particolato e altre tecnologie”. A sostenere che tale evoluzione proseguirà in futuro è ancora l’Arpa Piemonte, nel Piano regionale della qualità dell’aria: “Al 2030 si prevede una consistente e diffusa riduzione delle concentrazioni di biossido di azoto, mentre, per quanto riguarda il particolato, si osserva una riduzione delle concentrazioni in particolare nell’Agglomerato di Torino e in altre aree urbane, legato alla prevista riduzione delle emissioni da traffico per le innovazioni tecnologiche e il miglioramento dei carburanti”. Spostare dalla strada alla ferrovia 3-4.000 Tir non modificherebbe in modo apprezzabile il quadro. Non è un caso che in nessuno dei documenti dell’Osservatorio si fornisca una stima di quanto migliorerebbe la qualità dell’aria a Torino e dintorni grazie al Tav.

La Co2 risparmiata. Nel Quaderno si scrive di un presunto “risultato estremamente positivo [con] benefici che valgono dal 2030 oltre un milione di tonnellate di CO2 risparmiate ogni anno”. La stima proposta si basa su un irrealistico risultato in termini di “spostamento modale” (passaggio dalla strada alla ferrovia). Una valutazione meno estrema, contenuta nell’analisi costi-benefici, porta a una quantificazione dimezzata. Ma prendiamo per buono il milione. È tanto o è poco? Nella Ue le emissioni del settore trasporti sono pari a 1,2 miliardi di tonnellate. Il Tav le ridurrebbe quindi di meno di un millesimo. La sostanziale irrilevanza degli investimenti ferroviari ai fini della riduzione delle emissioni è confermata dalla Svizzera, Paese che – si afferma nel Quaderno – dovremmo assumere come esempio, ma che ha emissioni nei trasporti superiori del 15% rispetto alle nostre.

LA SICUREZZA. L’Osservatorio scrive di “condividere nel merito e nel metodo quanto scritto e specificato” in un post su Facebook (sic!) secondo il quale il completo cambio modale, azzerando i flussi su strada da e per la Francia, porterebbe a una riduzione annua di 170 morti.

Sarebbe stato sufficiente consultare il Bollettino semestrale pubblicato dall’Aiscat, l’associazione dei concessionari autostradali, per scoprire che negli ultimi dieci anni i mezzi pesanti su tutte le autostrade a pedaggio in Italia hanno causato in media 82 vittime. Quelle davvero evitabili grazie alla nuova linea si contano sulle dita di una mano. Identico risultato potrebbe essere conseguito investendo non una decina di miliardi ma qualche decina di milioni in misure di controllo e di repressione.

In nessun Paese europeo il riequilibrio modale ha avuto un ruolo di qualche peso nella riduzione degli incidenti stradali conseguita negli ultimi 25 anni (da 77 mila a 25 mila vittime in Europa). Meglio evitare di sprecare le nostre scarse risorse in costose cure omeopatiche e concentrarci sulle terapie che hanno dato prova di essere efficaci. E senza costi per la finanza pubblica.

Fca e i gialloverdi calunniati: sono il governo più liberale d’Europa

Certo che la vita, come diceva il mafioso Joe di Sergio Leone, è davvero chiù strana della merda, è ’na cazzata. Ad esempio, nel Vecchio continente non c’è bistrot con cucina-tradizionale-rivisitata i cui clienti non siano inorriditi dal governo populista – o, a piacere, sovranista – italiano e invece questi gialloverdi sono i più liberali di tutti. Altroché. Gli altri parlano, i nostri (non) fanno i fatti: gli piace il laissez-faire (barconi esclusi, s’intende). Unicredit si vuole caricare Commerzbank diventando (più) tedesca? E Salvini: “Bellissimo!”. La società anglo-olandese Fca, che pure mantiene impianti ex Fiat in Italia con tanta Cig pagata dal locale contribuente, vuol fondersi con Renault (e Nissan)? E Di Maio: “Sono in contatto coi vertici di Fca, ma le trattative sono in corso”. Intanto il governo francese – azionista di Renault col 15% – chiede un posto in Cda, la sede e l’ad francese, un maxi-dividendo e altre garanzie. E Di Maio? Niente. E dire che quel settore (l’automotive, dicono quelli bravi, che poi è in gran parte Fca) pur dopo una crisi che l’ha devastato vale 300 mila occupati, un po’ meno del 6% del Pil e funziona da traino per la robotica, che di Pil e occupati ne fa un altro bel pezzo. Ci sarebbe di che stare attenti al volgere degli eventi, per così dire, ma il nostro governo è liberale e non vuole disturbare la grande operazione di mercato franco-nippo-anglo-olandese. Che poi, se sono liberali, almeno lo dicessero così gli altri capiscono che, anche se non distinguono proprio tutte le posate sulla tavola, alla fine non c’è nulla da temere…

D’Alema e il voto degli operai

Noi, che non siamo per nulla appassionati di voto utile (ritenendolo un ricatto con il fondamentale scopo di dar seguito all’equivoco sul “posizionamento” del Pd erede del Pci) siamo particolarmente attenti a quel che accade a sinistra. In un’intervista a Repubblica Massimo D’Alema, parlando delle politiche del sopracitato Pd, suggerisce: “Piglierei uno dei pochi capi operai della sinistra, Maurizio Landini, e gli farei fare un seminario di una settimana per spiegare come si parla agli operai, il 50 per cento dei quali ha votato Lega. Perché il Pd, al momento, non è in grado di farlo. Nel mio partito ideale, in campagna elettorale tutti i lunedì i candidati sarebbero mandati a fare comizi davanti alle fabbriche”. Le poche aperte rimaste, verrebbe da dire. Il modello di partito a cui D’Alema fa riferimento ha un radicamento territoriale capillare e soprattutto sa a chi rivolgersi. E, sia detto a beneficio degli smemorati, ai bei tempi del 35 per cento non parlava (solo) alla borghesia, che avesse o meno coscienze da mettere a posto.

Ovviamente, dato che D’Alema è il babau della sinistra, queste dichiarazioni hanno provocato diverse reazioni, per lo più scomposte. Alti lai si sono levati da ogni dove contro l’ex leader maximo, reo di una quantità indicibile di peccati, molti dei quali effettivamente commessi, tra cui noi annoveriamo l’antica idea di “sperimentare” l’abolizione dell’articolo 18 e i dirigenti del Pd la triste circostanza di avere tutti insieme il carisma del dito mignolo di D’Alema. Come spesso accade ce la si prende con chi dice la verità. Che dovrebbe tener conto anche del fatto che ormai la classe operaia è tutta in paradiso e per gli altri è rimasto l’inferno del lavoretto. L’ex premier tra l’altro rifletteva – con tutte le ragioni – sulle dichiarazioni di alcuni dirigenti del Pd a proposito di come guadagnare consensi nell’elettorato moderato. Che, appunto, già vota Pd! Quindi il punto è come riconquistare gli elettori delle periferie, non dei centri urbani; dei lavoratori, non degli imprenditori. Per questo un patto per il lavoro – come propone D’Alema, con un rafforzamento del welfare, dei diritti e delle tutele – è una strada giusta, per quanto impervia. Il partito guidato da Zingaretti ha smesso, e non da oggi, di avere come priorità i lavoratori e il lavoro, diventato una merce totalmente svalutata, al centro della propria politica. Gli interlocutori non sono più, da decenni, gli operai (che come si diceva stanno scomparendo, insieme alla politica industriale dei vari governi, grazie a regole che permettono delocalizzazioni selvagge e licenziamenti via sms). A conferma di queste considerazioni, Swg ha diffuso l’analisi dei dati sull’astensione delle Europee rispetto alle Politiche 2018. Se il Movimento 5 Stelle offre all’astensione il 38 per cento del suo (ex) voto, il Pd si ferma al 26. Ma l’astensione nell’area della sinistra-sinistra cresce del 23 per cento. Fatto il totale della platea che si dichiara di sinistra, oltre 4 persone su dieci stanno a casa (il 41 per cento!). Per chi si dice di destra il dato è molto più basso: 24 per cento. L’astensione di centrosinistra (Pd, Bonino e altri) ammonta al 36 per cento, l’astensione di centrodestra al 27. E se il centrodestra è al suo massimo di voti assoluti dal 2013 (con la Lega che traina), il centrosinistra oggi arriva a 7, 5 milioni, avendone presi quasi 11 alle Politiche 2013 e quasi 13 alle famose Europee del 2014.

Morale: a sinistra ci sono praterie da conquistare. Ma il Pd preferisce guardare altrove, del resto era chiaro da tempo. Cambiare sede per far dimenticare il Nazareno, nel senso di patto, serve a poco se poi la testa del partito è sempre girata al centro.

Il Signore volle mandare la punizione: un’estate da campagna elettorale

Stanco dei soliti trucchetti e delle piaghe ormai note (inondazioni, terremoti, cavallette, Bruno Vespa) il Signore volle mandare agli italiani la più terribile delle punizioni: la campagna elettorale estiva. Due mesi a 40 gradi, umidità 90 per cento, Salvini su tutte le spiagge, Di Maio soffocato dalle giacchette in tungsteno, Silvio immerso nel ghiaccio secco come i gelati da asporto, Zingaretti non pervenuto, Calenda con le infradito sul Cervino.

Spossati da due anni di campagna elettorale (politiche, amministrative, europee, condominiali), 60 milioni di italiani si preparano con terrore a una nuova stagione di avanspettacolo.

Giugno. Rotti gli indugi, ecco i principali leader accusare tutti gli altri della crisi, compattare le proprie fila, riorganizzare la comunicazione. Salvini esordisce presentandosi con due fidanzate, una bionda e una bruna, segno di pluralismo. Di Maio risponde con una fidanzata bionda e un orso bruno che suona l’organetto. Proteste degli ambientalisti. Giorgia Meloni lancia un grande sondaggio popolare: a chi vorreste spezzare le reni entro giovedì? C’è grande attesa per la formazione delle liste. Calenda chiede a Zingaretti il permesso di formare un nuovo partito che tolga voti a Zingaretti per poi allearsi con Zingaretti. Zingaretti tentenna. La sinistra a sinistra del Pd punta tutto sull’unità: ottenere un solo voto. Uno studio americano svela il mistero degli applausi a Di Martedì: pur di non sentire altre cazzate, il pubblico potrebbe applaudire per tre ore filate.

Luglio. Secondo i primi sondaggi, l’incremento più sostanzioso è quello dei candidati che si chiamano Mussolini. Oltre ad Alessandra e a Tizio Caio Sempronio, già noti alle cronache e recentemente trombati, correranno anche Brunello Mussolini, 13 gradi, pienezza di corpo con retrogusto fruttato, e Dolores Mussolini, utilitaria ibrida con motore bicilindrico a spinta. L’osservatorio Ocse per la trasparenza delle elezioni cataloga i tweet di Salvini: 235 con cocomeri, 211 con gelati e/o ghiaccioli, 121 in apnea per trattenere la pancia e solo 47 con elettori di colore, 45 dei quali, dopo attenta analisi si rivelano Giorgetti molto abbronzato. La cronaca influenza l’umore popolare e infuoca le polemiche: un commercialista di Sondrio naufragato con il suo dodici metri lancia l’SOS nel Mediterraneo meridionale, viene raccolto da una motovedetta libica e internato in un lager a Misurata. Si moltiplicano in Puglia le apparizioni di Padre Pio che invita a votare Salvini. Zingaretti: “Sempre meglio delle apparizioni di Renzi”. Di Maio appare a Di Maio, che si spaventa a morte.

Agosto. La tenuta psicofisica degli italiani preoccupa l’ordine dei medici. Calenda apre un nuovo partito in franchising. Emma Bonino lancia il suo nuovo movimento, “Più o Meno Europa”, Giorgia Meloni presenta i suoi candidati: il nipote di Mengele, la figlia novantenne del Boia di Riga e l’avvenente Giorgina Pinochet, giovane youtuber cilena. Si discute molto per l’endorsement di Pamela Prati: invita a votare per un partito che non esiste. Si profilano le nuove alleanze. Salvini e Meloni discutono se assumere nuovo personale, Berlusconi manda un curriculum ma viene scartato. Polemiche nel Pd: Calenda ha fondato un nuovo partito per allearsi con Zingaretti. Non contento, è uscito dal nuovo partito per fondarne un altro che si alleerà con Calenda e Zingaretti. Non contento, è uscito dal nuovo partito per fondarne un altro. Si calcola che alle elezioni ci saranno settantadue partiti fondati da Calenda con un unico slogan: “Unità a sinistra”. Renzi corre la maratona in 46 minuti e 09, sequestrato il motorino. Per un tragico errore dovuto alla stanchezza, Salvini si scatta un selfie con il mojito e inghiotte il telefonino: prognosi riservata.

Settembre. Si vota (?)

CSM, Palamara e altri io so perché ho visto

Paolo Borsellino, pochi giorni dopo la strage di Capaci e prima della strage di via D’Amelio, in cui perse la vita, disse in un dibattito a Palermo che i responsabili della morte di Giovanni Falcone andavano individuati anche all’interno della magistratura. Il Consiglio Superiore della Magistratura, e anche altri magistrati, si sono resi responsabili di pagine indegne che portarono all’isolamento di due magistrati simboli nella lotta alla mafia. Ho fatto il pubblico ministero per 15 anni e provengo da quattro generazioni di magistrati, ho saputo di fatti gravi, ma quello che ho visto con i miei occhi fa accapponare la pelle. Quando da pm di Catanzaro individuai un sistema criminale pervasivo fatto di commistioni tra criminalità organizzata di tipo mafioso, politici di tutto l’arco costituzionale, affaristi, professionisti, appartenenti a organi di controllo, uomini delle forze di polizia, dei servizi segreti, e numerosi magistrati, tutti uniti dal collante dei poteri occulti delle massonerie deviate, non venni fermato dalla ’ndrangheta con la coppola e lupara, ma dalla legalità formale del sistema criminale fattosi Stato. Le inchieste mi furono sottratte dai miei capi che mi dovevano tutelare e invece colludevano tradendo me e, quindi, lo Stato. Il mio trasferimento dalla Calabria per incompatibilità ambientale e lo strappo delle funzioni di pm li decise il Csm all’unanimità, presidente Napolitano, vicepresidente Mancino (poi imputato nel processo nella trattativa tra Stato e Cosa Nostra). Fermarono il magistrato che indagava sui magistrati corrotti e lasciarono al loro posto i magistrati collusi per non disturbare i manovratori del Sistema.

Non mi hanno mai perdonato di aver scoperto nefandezze gravissime commesse da magistrati. Quando magistrati onesti e autonomi della Procura di Salerno, dopo mesi di indagini, scoprirono che, con i miei collaboratori, avevamo agito correttamente ed eravamo stati ostacolati dai vertici della magistratura catanzarese, in collusione con ambienti della borghesia mafiosa, furono anche loro fermati e spazzati via, sospesi o trasferiti, da una forma di colpo di Stato in salsa giudiziaria. Si inventarono la guerra tra Procure tra Catanzaro e Salerno, quando invece vi era un ufficio giudiziario che doverosamente indagava su un altro ufficio giudiziario che reagì indagando chi indagava su di loro. È come se i ladri arrestano le guardie che li stanno arrestando. Il presidente era Napolitano che, con tutto il Csm, avallò questa operazione che ha impedito al Paese di conoscere le trame di crimini di una gravità inaudita. Quella che era la nuova P2. L’associazione nazionale magistrati, che vide durante l’inchiesta Why Not che mi fu avocata, le dimissioni del suo presidente perché aveva mentito sui suoi rapporti con un indagato eccellente, era presieduta da Palamara, ora indagato per corruzione, che non esitò a dare la copertura dei vertici della magistratura associata a quella operazione scellerata. A distanza di dieci anni, molti dei protagonisti del sistema criminale che distrusse le nostre indagini sono stati indagati a vario titolo. La magistratura di Salerno, dopo dieci anni, ha accertato che le indagini Poseidone e Why Not mi furono illecitamente sottratte. La verità su quello che stavo scoprendo non si saprà mai più per colpa soprattutto di alcuni magistrati e dell’organo di autogoverno che dovrebbe tutelare l’indipendenza dei magistrati. Le funzioni di pm non mi verranno più ridate. Nel corso di questi ultimi dieci anni scandali gravissimi hanno attraversato la magistratura e da ultimo, ancora, il Csm. Sono certo che in magistratura vi sono anticorpi importanti, che i fatti criminali vengono perseguiti da magistrati onesti e coraggiosi, ma la magistratura come ordine, causa anche un crollo della tensione morale nel Paese, e in particolare il suo organo di autogoverno, hanno perso molta credibilità, dilaniati da lotte di potere interno, da correnti che scimmiottano i partiti, da collusioni con il sistema criminale della borghesia mafiosa e di una corruttela imperante.

Ho amato la toga come un figlio, e anche oggi, pur essendomi dimesso per lo schifo che ho subito, amo il lavoro dei magistrati, una missione, ed è per questo che ho il diritto-dovere di dire quello che ho denunciato quando facevo parte dell’ordine giudiziario. Per evitare che ad altri magistrati accada quello che è accaduto a me e ai miei collaboratori. Se un politico è disonesto te ne liberi in cabina elettorale, se un funzionario pubblico, un appartenente alle forze di polizia, peggio ancora un magistrato, sono collusi o corrotti si incrina fortemente la tenuta democratica del Paese. La questione morale è l’emergenza democratica italiana, solo una rivoluzione culturale, una ribellione delle coscienze e il sostegno alle persone oneste che operano nello Stato determineranno l’uscita da questo baratro.

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Processo Bossi, ma la querela della Lega che fine ha fatto?

Desidererei che l’ottimo direttore, durante i suoi interventi nelle trasmissioni televisive, sollecitasse Salvini, vicepremier nonché ministro degli Interni del governo in carica, a spiegare ai cittadini italiani (compresi, si capisce, i numerosissimi – ahi noi! – propri elettori) il motivo per il quale non ha presentato, nella sua qualità di segretario del proprio partito, la necessaria querela contro Bossi e il figlio Renzo: condannati, ricordo, in primo grado per aver fatto “proprio uso e consumo” dei fondi per il rimborso delle spese elettorali.

Nel gennaio scorso, infatti, i giudici competenti hanno dovuto dichiarare in appello il “non luogo a procedere”, per mancanza della querela che sarebbe dovuta essere presentata, appunto, dal segretario della Lega. Non credo che avremo mai risposta. Però, ecco, è bene chiedere…

Mario Potolicchio

 

Caro Mario,

spero di averne l’occasione: finora Salvini è sfuggito al confronto, almeno con me. E ha sempre rifiutato ogni richiesta di intervista del Fatto.

M. Trav.

 

Europee: il partito dei corrotti vince e la legalità scompare

Ha vinto il partito dei pii, “il partito dei corrotti”. “La parola legalità – ha scritto sconsolato Massimo Fini – non ha diritto di cittadinanza nel nostro Paese”. Ora si aprono sterminate praterie davanti alle grandi e inutili opere. Destra, pseudo sinistra e radical chic hanno accolto con una standing ovation il crollo dei 5S. Quasi tutti i media, da sempre casse di risonanza delle élite dominanti, si sono quotidianamente accaniti contro il Movimento e hanno cercato di sminuire l’importanza del provvedimento “Spazzacorrotti” e della legge sul voto di scambio politico mafioso. Mafie e corruzione sono le vere emergenze del Paese e non le imprese di Spelacchio, l’albero più famoso del West! Per non parlare del reddito di cittadinanza che ha suscitato le ire funeste dei benpensanti. Eppure è stato l’unico provvedimento che ha rappresentato una inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberiste e di austerity messe in atto dalle destre, compreso il Pd, che hanno governato negli ultimi decenni. Non dimentichiamo mai che Berlusconi ha definito il M5S come il pericolo n° 1. Dal suo punto di vista ha perfettamente ragione; per questo, ora può tirare un sospiro di sollievo.

Maurizio Burattini

 

Ritorno alle origini “green” per salvare il Movimento

Per i Cinque stelle, l’errore è stato appoggiare la politica immigratoria dura, quella che ha mostrato la loro faccia meno umana, al grido salviniano di “prima gli italiani”.

Le persone con più cuore si sono allontanate (la Mannoia, la Ferrilli e i tanti cittadini con più senso cosmopolita); quelle più egoiste, tra la copia e l’originale hanno scelto il secondo (votando la Lega).

Aggiungendo a questo l’espulsione di De Falco e il salvataggio di Salvini in Parlamento, il sentimento di tradimento negli elettori si è fatto evidente… a tutti eccetto che all’attento staff pentastellato.

Infine, nel momento in cui Greta Thunberg ha centralizzato il tema climatico (così caro in passato ai 5S) lo si è marginalizzato, perdendo ciò che distingueva il Movimento dagli altri partiti. Senza contare gli attivisti nei territori, lasciati a se stessi e ai loro problemi locali.

Che fare, ora? Sicuramente ridare spazio al tema climatico e cercare appoggi dai Verdi, gli unici che collaborando con i cinquestelle potrebbero riportare l’attenzione dei giovani sul problema più evidente del nostro pianeta. Problema che l’Europa ha compreso, l’Italia leghista e cementista no.

Barbara Cinel

 

Venezia: Grandi Navi, soluzioni a piccoli passi

Da 7 anni si attende l’attuazione del decreto che bandisce l’ingresso delle navi con oltre 40 mila tonnellate nel Canale della Giudecca, a Venezia. Forse si aspetta che capiti la tragedia, già sfiorata il 2 giugno, prima di trovare un’alternativa al transito di questi bestioni del mare? La sicurezza prima di tutto.

Gabriele Salini

 

Il turismo mordi e fuggi inquina le città d’arte

La nave che travolge il traghetto a Venezia è l’immagine più efficace della “turistificazione”, che si abbatte sulle città d’arte.

Sempre meno tempo, per vedere sempre più cose. Non si assapora la bellezza, ma si pensa solo a fare un selfie e mandarlo agli amici, come certificazione di divertimento. Conta quante cose hai visto, non le emozioni che hai provato.

Così il turismo intensivo sgretola i centri storici e arricchisce gli speculatori del “weekend tutto incluso”. Spariscono le case sostituite da B&B; i negozi diventano smerci di souvenir made in China, i laboratori artigianali lasciano spazio a fast-food. A Roma, i residenti del centro sono meno rispetto al periodo dell’unità d’Italia.

Il “pacchetto weekend” inquina come un sacchetto di plastica. La bellezza vuole calma, contemplazione, rispetto. Meglio un solo viaggio di “immersione”, che la frenesia dell’incursione. Occorre porre dei limiti, prima che le cavallette dei selfie distruggano tutto. È questa la vera invasione che dovrebbe preoccuparci.

Massimo Marnetto

Sofferenza. Celeste Formigoni, le prove sono chiare. Come pure la legge

 

Sono rimasta indignata nel leggere ieri su Libero la lettera di Roberto Formigoni e la risposta di Vittorio Feltri. L’ex governatore lombardo lamenta, pur sostenendo di non lagnarsi, le condizioni del carcere, dopo la condanna a 5 anni e 6 mesi per “distrazione di fondi” dalla Fondazione Maugeri. Ora Formigoni accusa della sua detenzione il decreto “Spazzacorrotti”, che giustamente proposero i 5Stelle: una legge che ha come obiettivo quello di inasprire le pene per chi non rispetta le regole nei palazzi del potere. Incredibile come Feltri lo innalzi a vittima del sistema, pregandolo di chiedere la grazia al capo dello Stato, per colpe che giudica “presunte”. Non sarebbe più utile lasciare che la giustizia faccia il suo corso e che il caso di Formigoni funga da monito per i tanti “furbetti” che ancora si aggrappano alle poltrone?

Luisa Bartolomei

 

Il Celeste è in carcere da pochi mesi, condannato con una sentenza definitiva che finalmente ha potuto essere eseguita. Insopportabile, per chi era abituato a rubare soldi pubblici senza essere preso, ma che anche nel caso fosse preso e condannato era certo di non scontare la pena. Questa volta non è andata così, grazie alla nuova legge che impedisce le pene alternative per i condannati per corruzione. Il carcere è brutto per tutti, ma fintantoché non sarà abolito per i poveri cristi, è giusto che non sia abolito per i potenti.

In Italia va in carcere chi ruba pochi soldi. I colletti bianchi, politici e imprenditori, rubano molto di più ma finora non entravano in cella. Roberto Formigoni – ha accertato una sentenza definitiva dopo tre gradi di giudizio – è colpevole del reato di corruzione per aver favorito le cliniche private della Fondazione Maugeri e l’ospedale San Raffaele, a cui ha fatto arrivare, tra il 2001 e il 2011, oltre 200 milioni di euro. In cambio, è stato “ringraziato” dai faccendieri della Maugeri e del San Raffaele, Pierangelo Daccò e Antonio Simone, con una sessantina di milioni: non tangenti classiche, ma regali milionari ricevuti per anni, viaggi, vacanze, ristoranti, finanziamenti e un mega-sconto sull’acquisto di una villa in Sardegna. Le foto estive sugli yacht forniti da Daccò sono entrate a far parte dell’album dei ricordi della Seconda Repubblica. Invece le code e le lunghe attese dei cittadini per avere un esame clinico sono rimaste anche nella Terza. Quanto sarebbe migliorata la sanità pubblica lombarda, se tutti quei soldi fossero stati impiegati per curare meglio i cittadini?

Gianni Barbacetto