“Non può essere questa la soluzione per strappare gli uomini dalla solitudine”

Mi chiedo se la società, nella sua prospettiva di tolleranza, non nasconda la profonda indifferenza per la solitudine dell’essere umano”. Padre Paolo Benanti francescano docente di teologia morale alla pontificia università Gregoriana chiarisce come l’estremo gesto “a cui abbiamo assistito” sia il segno di una indicibile sofferenza che non può essere ridotta semplicemente a un dibattito concentrandosi su un “pro o contro” la scelta di Noa. Nessun giudizio. Ma piuttosto rispetto. “Mai, se muore una persona è un bene. Nessuno lodi la morte”. Serve piuttosto umanizzarla strappando le persone alla loro solitudine. “Dio era con Noa e nel suo dolore esistenziale. Ognuno di noi ha ben presente cosa sia la voglia di vita degli adolescenti”.

Poi la descrizione: “L’essere umano è un arcipelago di relazioni ma certamente l’ arcipelago della ragazza era stato devastato dalle relazioni”. La posizione del docente sul testamento biologico e le disposizioni di fine vita poi è chiaro: “Non può essere solo uno strumento giuridico a liberare le persone dalla loro disperazione”. Una questione importante che solleva il francescano è poi la relazione con il medico e con il personale che si è trovato a dover mettere in atto la volontà della giovane. “Da quello che ho letto la ragazza aveva una profonda depressione mi chiedo se sono state apportate tutte le cure prima di arrivare a eseguire quella volontà indipendentemente dalla situazione”. Preferirebbe il silenzio il teologo ma non si sottrae e chiude: “Come sapere che l’obbedire a questa estrema volontà può porre in essere una libertà maggiore”.

 

“Si è addormentata nel Signore, il giusto diritto di trovare la pace”

“si è addormentata nel Signore” ne è sicura Mina Welby. Una frase da credente ma che nella vicenda di Noa Pothoven vuole significare come questa ragazza che ha scelto l’eutanasia, abbia desiderato morire nella pace, nella dolcezza. “Accompagnata da chi l’amava e dai medici che l’hanno addormentata”. La psiche degli esseri umani è ancora troppo misteriosa per comprendere il dolore che deve aver lacerato l’esistenza di Noa che secondo Mina Welby avrebbe potuto anche decidere di suicidarsi ma non lo ha fatto perchè il morire per eutanasia “è la medicina per la vita”. Quella ragazza non aveva più vita secondo Welby che più che addolorata si dice profondamente preoccupata di come questa giovane non sia riuscita a trovare qualcuno in grado di aiutarla. È spaventata Mina Welby, e stupita da quante persone le confessino di voler ricorrere all’eutanasia come unica strada possibile. “Bisogna fare di più per aiutare le persone. Anche e soprattutto quelle che soffrono del male dell’anima. Non bisogna trattarlo come un tabù o con superficialità”. Poi un appello “lo scriva in modo chiaro – raccomanda -. Servono più testamenti biologici. Le disposizioni di fine vita sono l’unico strumento per evitare che le persone rimangano imprigionate in una esistenza che non desiderano”. Ma non si ferma solo all’individuo Mina Welby. “Il dramma è anche per le famiglie che si trovano di fronte alla realtà di volontà individuali non espresse e quindi impossibili da realizzare. Una doppia crudeltà a cui i politici devono mettere fine con una legge che sia degna della vita stessa”.

La scelta di Noa: eutanasia per non soffrire più, a 17 anni

Povera dolce, bellissima e sventurata Noa. Se ne è andata nel sonno provocato dalle medicine letali di un’eutanasia che lei stessa ci spiega: “Ho17 anni e una disperazione addosso così devastante che la vita non la voglio più”. Ha perso ogni speranza, ogni illusione. Non vede futuro. Non sopporta il presente: “Io respiro, ma non vivo più”, ha scritto Noa Pothoven nell’ultimo dei suoi 221 post su Instagram (noamaestro, 9988 follower), prima di morire domenica assistita da un medico della clinica “End of Life” dell’Aja, in un lettino d’ospedale, sistemato in salotto.

È Noa che ci ricorda – e ci mette all’angolo, come si fa coi pugili che non riescono più a difendersi ed attendono rassegnati il knock-out – quanto, giorno dopo giorno, le “insopportabili sofferenze psichiche post-traumatiche” le hanno tormentato l’adolescenza. L’ha descritto impietosamente nell’autobiografia Winnen of Leren, vincere o imparare, uscita qualche mese fa. Il problema è che lei non ha vinto. È stata sconfitta dal male oscuro che non riusciva più a scacciare dalla mente. Che l’ha portata a smettere di mangiare e bere forse per odio verso il corpo, forse per provare se l’anoressia, spesso anticamera dei suicidi, domava l’altra sofferenza che la straziava psicologicamente.

Già, povera Noa. Nel suo libro racconta dettagliatamente che a 11 anni, a una festa di scuola, era stata “abusata sessualmente”. E che un anno dopo, era stata vittima di un altro abuso. Sino al trauma spaventoso di essere stuprata da due uomini, nel quartiere Elderverd di Arnhem, la sua città, quando aveva 14 anni. E tenersi tutto dentro, zitta, per paura, per vergogna. Nemmeno confidarsi coi genitori. Come ha confessato pochi giorni fa la madre Lizette: “Siamo tutti sotto choc. Non capiamo perché Noa abbia deciso la via dell’eutanasia. Noa è dolce. Bella. Intelligente. Sociale. Sempre allegra. Com’è possibile che voglia morire? Non abbiamo ricevuto una risposta vera, convincente. Solo da un anno e mezzo abbiamo saputo quale tremendo segreto si è portata dentro, senza mai dirci nulla. L’ho scoperto per caso: in una busta che ho trovato in camera sua, c’erano tantissime lettere dei suoi amici di Instagram che discutevano di quel che aveva deciso di fare…”.

Noa ha scritto agli amici che “questa è la mia decisione irrevocabile, e che amare è saper lasciare andar. Andrò subito al dunque: entro 10 giorni morirò. Dopo anni di battaglie e lotte mi sento prosciugata. Ho smesso di mangiare e bere da un po’, ormai. Dopo molte discussioni e valutazioni, è stato deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è intollerabile”.

A eutanasia si sono sottoposti, lo scorso anno, 6585 olandesi (il 4,4% della mortalità); in Italia e Irlanda resta fuori legge. L’Olanda è stato il primo Paese a legalizzare il suicidio assistito nel 2002; due anni dopo ha approvato il “protocollo di Groeningen” sull’eutanasia infantile, scatenando polemiche anche nel Paese più tollerante d’Europa. I bambini dai 12 ai 16 anni, possono morire così solo, però, se c’è il consenso dei genitori e se i medici constatano che il dolore del paziente è intollerabile. Nel 2003 il vicino Belgio ha legalizzato l’eutanasia, anche perché centinaia di belgi si recavano in Olanda per morire (l’estensione ai minori è arrivata nel 2016).

In Lussemburgo, l’eutanasia è possibile dal 2009, ma vale solo per gli adulti e per i pazienti in condizioni terminali “senza via d’uscita”. La Francia ha introdotto il concetto del diritto di “lasciar morire”. La Svizzera prevede sia l’eutanasia attiva indiretta che quella passiva (interruzione dei dispositivi di cura e di mantenimento in vita). Proprio oggi, a Catania, si discuterà al Tribunale del Riesame, del sequestro dei beni di una donna di 47 anni che il 27 marzo era andata a morire in una clinica elvetica. La donna non era malata terminale ma soffriva di una grave forma di depressione: la stessa patologia di Noa. La Procura ha aperto un’inchiesta , senza indagati, per istigazione al suicidio.

Tienanmen a Khartum. I giovani ribelli, i militari e l’utopia della libertà

Momento delicatissimo per il Sudan dopo che lunedì un gruppo di paramilitari legati al governo ha sparato sui dimostrati in lotta dallo scorso dicembre per un ritorno alla democrazia. I morti sono una trentina, ma c’è il rischio che sia abortito il tentativo di varare un governo civile. Ampi settori dell’apparato miliare che per 30 anni hanno guidato con il pugno di ferro il Paese, non vogliono lasciare il potere e le riforme che hanno in mente sono ben poca cosa rispetto a quelle che chiedono, anzi pretendono, i dimostranti e cioè un governo di civili.

La rivolta di Khartum assomiglia tanto a quella che 30 anni fa infuocò in Cina piazza Tienanmen. Il braccio di ferro tra la popolazione, esasperata dalla mancanza di libertà, e il regime che non vuol riformare il potere. Vinse quest’ultimo.

Ieri mattina nella Capitale sudanese si sentivano sporadici spari, poi la situazione è tornata all’apparenza tranquilla. “La tensione – ha raccontato al telefono un diplomatico – si taglia con il coltello. Poca gente per strada, quasi tutti i negozi chiusi e quelli aperti deserti. Rare anche le automobili. Sembra che tutti siano con il fiato sospeso, in uno stato d’attesa”.

I militari hanno cancellato tutti gli accordi raggiunti finora con i gruppi di opposizione: prevedevano un periodo di transizione di tre anni con un governo guidato da civili cui avrebbero partecipato anche i militari. Un tempo piuttosto lungo necessario ai gruppi democratici per smantellare tutto l’apparato di potere creato e consolidato dal dittatore Omar Al Bashir in sella dal 30 giugno 1989 e defenestrato dalla piazza e dall’esercito l’11 aprile scorso. Ieri i militari hanno annunciato che le elezioni si terranno entro nove mesi. Ammesso e non concesso che saranno organizzate, è molto probabile che le vincerà l’attuale apparato, magari anche con qualche aiutino (leggi broglio) nell’urna.

Lo stringer del Fatto Quotidiano a Khartum non ha dubbi: “I militari stanno vincendo, anche se al loro interno sono divisi. Corre voce che gli ufficiali più arrendevoli con l’opposizione siano stati arrestati e che stia prevalendo la linea dura”.

Il gruppo Soufan, che si occupa di analisi e strategie politiche del Medio Oriente, fondato da un ex agente della Cia, spiega in un rapporto: “Ci sono chiari parallelismi con alcune delle proteste delle Primavere arabe che alla fine hanno portato a insurrezioni in piena regola.

In Siria, per esempio, dove i bombardamenti indiscriminati di civili da parte dei militari, hanno compattato i movimenti di protesta che hanno abbandonato la piazza e lanciato una rivolta più ampia”. Il documento conclude: “Esiste il rischio reale che la situazione possa sfociare in una vera e propria guerra civile, con un impatto significativo sulla regione, con violente ripercussioni sul conflitto in corso in Libia”.

I Paesi arabi rimasti lontani dalle proteste che nel 2011 hanno infiammato le Primavere con relativi sogni di democrazia, cominciano a preoccuparsi per un possibile contagio. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, hanno intessuto rapporti con i leader sudanesi che guidano il Transitional Military Council e fornito loro un inquietante sostegno. Ha goduto della loro interessata amicizia in particolare il numero due del Tmc, il famigerato comandante delle Rapid Support Forces i cui paramilitari lunedì hanno sparato sui dimostrati: il generale Mohamed Hamdan Daglo. Più conosciuto come “Hametti”, nel 2009 l’alto ufficiale – che appartiene alla tribù araba dei rezegat – è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale per genocidio, violazioni dei diritti umani, stupro continuato e crimini di guerra per il suo ruolo di capo delle criminali bande di janjaweed (riciclatesi nelle Rsf) che terrorizzavano e massacravano le popolazioni civili di origine africana nel Darfur. Ciononostante Arabia Saudita ed Emirati gli hanno dato il loro sostegno politico ed economico. I principi ereditari saudita, Mohamed bin Salman, e di Abu Dhabi, ad aprile hanno offerto al Tmc un pacchetto di aiuti da 3 miliardi di dollari e fornendo allo stesso tempo armi ed equipaggiamenti ad Hametti e alle forze sotto il suo controllo. Ma Hametti già a cavallo tra il 2016 e il 2017, nonostante il suo inquietante curriculum e le numerose proteste, era stato incaricato dall’Unione europea del delicato compito di proteggere le frontiere settentrionali del Sudan dal passaggio dei migranti: finanziatori Germania (denaro) e Italia (logistica). I suoi uomini avevano ottemperato molto bene ai loro compiti. Da criminali quali sono avevano sparato, massacrandoli, su gruppi di poveri disgraziati in fuga nel deserto. Chissà se ora quelle armi, comprate anche con soldi italiani, lunedì sono state usate in piazza a Khartum.

“Scimmia, ti odio” alla figlia di tre anni disabile: arrestati

“Odio mia figlia, ho un rifiuto per lei. Mi conosci, annegherò lei e la picchierò di continuo. Non sopporto la sua voce… brutta scimmia. Faccio finta di darle da mangiare, ma la pizzico”. A parlare di questa bambina di 3 anni mezzo è la mamma, una donna egiziana di 29 anni arrivata in Italia nel 2010 assieme al marito, suo connazionale e coetaneo. Le frasi sono una minima parte dell’orrore intercettato dalla polizia locale di Milano nel corso dell’indagine sui maltrattamenti subiti dalla piccola negli ultimi mesi. Violenze fisiche e psicologiche spinte da un odio innaturale verso quella figlia con l’unica colpa di avere una disabilità cognitiva. Una condizione mai riconosciuta ufficialmente e che ora si sospetta possa essere conseguenza del maltrattamento. I genitori sono stati arrestati venerdì su un autobus in stazione Centrale diretto a Malpensa. Portavano con sé gli altri 4 figli (di età compresa tra gli uno e gli otto anni), in tasca avevano un biglietto di sola andata per l’Egitto. Agli agenti hanno chiesto di sbrigarsi perché temevano di perdere il volo. Mentre li arrestavano, la loro bambina era al sicuro all’ospedale Fatebenefratelli, dove questa storia è partita.

Niente confisca per Villa Wanda: vittoria postuma di Licio Gelli (e degli eredi che salvano la casa)

Niente sequestro per Villa Wanda, la dimora di Licio Gelli (1919-2015), maestro venerabile della loggia massonica P2, sulla collina di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo. È stato respinto il ricorso della Procura di Arezzo contro il verdetto di primo grado che aveva deciso che l’immobile che fu di Gelli non era passibile di confisca. Secondo la magistratura aretina la confisca era invece necessaria come misura di prevenzione a carico di persone pericolose anche se defunte.

La Corte d’Appello di Firenze ha ribadito la stessa posizione del Tribunale di Arezzo: Villa Wanda (ribattezzata così in onore della moglie) fu acquistata per 12 milioni di lire da Gelli nel 1968 dall’imprenditore Mario Lebole, del quale era socio dopo aver concluso l’attività alla Permaflex. La richiesta della confisca era legata ai passaggi di proprietà della villa, tra familiari di Gelli, che secondo la Procura guidata dal procuratore capo Roberto Rossi sarebbero state operazioni fittizie, messe in atto anni fa per impedire allo Stato di aggredire il bene immobile, a fronte del debito di Gelli con l’Erario. Sulla base della “pericolosità” di Gelli, la Procura chiedeva di applicare la misura preventiva del sequestro del bene, come avviene in fatti di mafia. Nel caso di Villa Wanda, acquistata quando Gelli era un manager non ancora coinvolto in pagine oscure della storia d’Italia, lo Stato, per la Corte d’Appello di Firenze non può pretendere la confisca dell’edificio come misura di prevenzione per le persone che in vita hanno tenuto condotte penalmente rilevanti. Respinta, quindi, la richiesta di esproprio della villa agli eredi, per i quali nei giorni scorsi il Tribunale di Arezzo ha emesso un’altra sentenza favorevole: è valido l’atto di vendita dai figli di Gelli alla società della vedova, Gabriela Vasile (sposata in seconde nozze), e del nipote Alessandro Marsili (figlio di Maria Rosa Gelli). Un passaggio di proprietà per il quale l’Agenzia delle Entrate chiedeva la revocatoria, ritenendolo un atto per far sparire il bene dalle disponibilità dei Gelli, che hanno un debito milionario con il Fisco. Villa Wanda, immersa nel verde, conta oltre 30 stanze su tre piani

I pulitori dei McDonald’s occupano l’ispettorato del lavoro Convocata la multinazionale

“E l’Ispettorato del lavoro?” Proprio lì si sono diretti i 30 lavoratori bengalesi che ogni notte fanno le pulizie da McDonald’s. Al grido di “Diritti! Lavoro! Dignità!” hanno fatto irruzione, chiedendo di raccontare la loro storia: 4 mesi e mezzo di stipendi arretrati e condizioni di lavoro ai limiti della legalità. Gli ispettori hanno immediatamente convocato un incontro alle 10 di venerdì 7 giugno, per un confronto fra tutti i soggetti coinvolti.

Fra loro figura anche McDonald’s e la società che aveva in appalto le pulizie notturne, la Angel Service. Se le aziende non dovessero presentarsi, scatterebbero la denuncia e i controlli in tutti i fast food del marchio, per accertare le reali condizioni dei pulitori.

Una vicenda dai contorni ancora poco chiari: da metà dicembre i cleaners non ricevono il loro compenso. Quasi tutti sono stati riconfermati dalla società subentrata alla Angel Service, però 4 mesi e mezzo di arretrati sono difficili da mandar giù, soprattutto per chi è arrivato nel nostro Paese per lavorare e costruirsi un futuro migliore. Si sono quindi rivolti all’Usb, Unione sindacale di base, per avviare una vertenza, ma senza risultati. Angel Service sostiene di non aver ricevuto il denaro da Mc Donald’s e rifiuta di saldare i conti coi suoi ex dipendenti. Durante la protesta, iniziata davanti al Mc Donald’s di Tor Pignattara, uno di loro commenta amareggiato: “L’azienda ha sempre tardato coi pagamenti. Ma questo è troppo. Come possiamo mangiare o pagare l’affitto?”. Pochi controlli e ancora meno garanzie: secondo Usb, a fronte di contratti “part-time”, per cui avrebbero dovuto lavorare per 30 ore settimanali, gli impiegati ne avrebbero coperte 48, ricevendo una parte degli stipendi in nero.

Dal sindacato minacciano battaglia, dopo essersi imbattuti anche in altre ditte che lavorano con le stesse modalità. “È impensabile che una multinazionale multimiliardaria non sappia come sono trattati i suoi dipendenti – commentano -. Bisogna che apportino i necessari cambiamenti”.

Orchestra: si cambia, anzi no. La sovrintendente è la stessa dei tempi di Cuffaro e Lombardo

Già sovrintendente durante i governi Cuffaro e Lombardo e assessore ai tempi di Crocetta, l’architetto Ester Bonafede torna alla guida dell’Orchestra Sinfonica Siciliana vincendo la concorrenza di candidati di rilievo nazionale, da Giovanni Pacor, ex sovrintendente dell’opera nazionale di Atene e poi del Teatro di Genova, a Gennaro Di Benedetto, ex capo del personale della Scala di Milano, già sovrintendente a Genova e Cagliari e direttore generale del Santa Cecilia a Roma, grazie al sostegno di Forza Italia e del governatore Musumeci. E Lega e Movimento 5 Stelle si scagliano contro “una nomina esclusivamente politica che mortifica merito e competenze”, frutto di una “spartizione politica”, come denunciano i deputati grillini: “A beneficiarne è stata stavolta Bonafede, ex assessore di Crocetta, vicina a Micciché e già alla guida della Foss sotto Cuffaro e Lombardo nel periodo di dissesto finanziario dell’ente”.

In quell’occasione, era il 2013, Crocetta spedì come commissario dell’Orchestra un dirigente della Polizia di Stato in pensione da tre mesi, Filippo Vitale, sostenendo: ‘’Occorre rilanciare l’attività di teatri e fondazioni attraverso un rigoroso controllo di gestione. La figura di un questore mi sembra perfettamente calibrata per il caso specifico”. E oggi anche la Lega parla di “un pessimo segnale che conferma che in Sicilia la musica non cambia e che gli amici degli amici hanno sempre una corsia preferenziale” e sceglie l’ironia per commentare la nomina: “Era difficile competere con un curriculum come quello dell’ex assessore della giunta Crocetta imposta da Micciché – dice Fabio Cantarella, responsabile degli enti locali della Lega – che può vantare addirittura una gestione disastrosa della Foss sotto l’ala protettiva di Cuffaro e Lombardo oltre che un contenzioso aperto con lo stesso ente”.

“Se tradisse sparerei anche a mio figlio”: arrestato Fragalà, il “re” del Litorale

Cosa nostra e camorra alleate per gestire il litorale a sud di Roma. Non senza l’aiuto della politica. “Un tavolo permanente tra le mafie del territorio”, com’è stato definito dagli inquirenti. Cocaina, marijuana e hashish, con canali che passavano per Colombia e Spagna. E poi racket, estorsione e violenze per mantenere il controllo di un territorio sul quale da tempo aveva messo gli occhi la ’ndrangheta. L’operazione della Dda di Roma e dei carabinieri del Ros, che ieri ha portato all’arresto di 31 persone legate al clan mafioso Fragalà, tentacoli su Anzio e Pomezia, ha reso possibile aggiornare la mappa criminale dell’hinterland capitolino. Una mafia in piena regola, con tanto di rito di affiliazione. Giuramento con il sangue, un fazzoletto di seta annodato e l’immagine di San Michele Arcangelo: fra gli oggetti sequestrati anche un foglio scritto a mano con una formula richiamanti antiche battaglie settecentesche.

Spicca il “patto federativo” tra Fragalà, famiglia di origine catanese con base a Torvajanica, e il clan Senese padrone di Roma sud est. Un accordo garantito dalla mediazione di Francesco D’Agati, detto ’u zio Ciccio, 83enne legato ai Santapaola, fautore della pax mafiosa del 2012 a Ostia fra i Fasciani, i Triassi e gli Spada dopo gli omicidi Baficchio e Sorcanera. E c’è voluta una settimana di vertici fra i boss, alla presenza di ’u zio Ciccio per evitare una faida. Da una parte, quello che viene ritenuto il capo dei Fragalà, Alessandro, 61 anni, insieme al nipote Salvatore, 41 anni, e al coetaneo Santo D’Agata; dall’altro, i reggenti del clan Senese: con Michele ‘o Pazzo in prigione dal 2013, ci sono il padre Vincenzo e il fratello Angelo. Una settimana di incontri a Roma, nel luglio 2015, fra i bar limitrofi all’abitazione dei Senese, al Quadraro, e la sede della coop Giano Special Servizi. Lo scontro era dovuto a una pesante controversia fra i Fragalà e un commerciante legato ai Casalesi di Roma. “Un’amicizia di vecchia data da preservare”, diceva ai suoi D’Agati, autodefinendosi “il custode di tutti”, prima di celebrare la ritrovata pace con “prelibati cannoli” a casa di ’u zio Ciccio. “Se mi sento tradito sparo anche a mio figlio”, diceva Alessandro Fragalà, intercettato, nel 2015. E da tempo, come emerge dall’indagine condotta dai pm Michele Prestipino e Giovanni Musarò, i siciliani puntavano a “riprendersi il comune di Pomezia”, conquistato due anni prima dal M5S. Per farlo, il boss e sua figlia Astrid (già presidente della Confcommercio Roma sud) si erano affidati a due politici del Pd, fra cui Omero Schiumarini (che non risulta indagato). “Uno che può stare al tavolo e al divano con me”, come il boss etichettava il dem, con trascorsi in An e Forza Italia, sconfitto nel 2013 al ballottaggio per le comunali da Fabio Fucci. Per i pm Omero era “interlocutore privilegiato sin dal momento della detenzione domiciliare” del boss: una “fedeltà non solo a parole”. Oggi Schiumarini è nello staff politico del Consiglio regionale del Lazio. Dal 1° gennaio 2019 è stato assunto part time nell’Ufficio Tecnico Europa, fino al 31 dicembre. L’ufficio è di diretta competenza del presidente dell’Assemblea, all’epoca dell’inizio del contratto Daniele Leonori, da poco promosso assessore della giunta Zingaretti.

Istat, in un anno +42mila indeterminati + 50mila a termine

Dopo il consistente aumento di occupazione registrato a marzo e aprile 2019, la stima degli occupati risulta sostanzialmente stabile rispetto al mese precedente; anche il tasso di occupazione rimane invariato al 58,8%. È quanto stima l’Istat nei suoi dati provvisori. Su base annua, invece, l’occupazione mostra una lieve crescita (+0,2%, pari a +56 mila unità). Su base mensile, la sostanziale stabilità dell’occupazione è sintesi di un calo tra i 15-34enni (-52 mila) e un aumento nelle altre classi di età, concentrato prevalentemente tra gli ultracinquantenni (+46 mila). L’Istat registra nelle sue stime di aprile una lieve crescita dei dipendenti sia permanenti sia a termine (+11 mila per entrambe le componenti), compensata da una diminuzione degli indipendenti (-24 mila). Su base annua, invece, l’istituto di statistica registra segnali positivi per le donne, i 15-24enni (+39 mila) e gli ultracinquantenni (+232 mila), compensati da un calo per gli uomini e le fasce di età centrali. Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. In un anno crescono sia i dipendenti a termine (+50 mila) sia i permanenti (+42 mila), mentre risultano in calo gli indipendenti (-36 mila).