Promossi ma appena sufficienti. Si boccia di più per le assenze

Gaudio: in Italia aumentano gli studenti promossi. Secondo le ultime statistiche del ministero dell’Istruzione nell’anno scolastico 2017/2018 sono stati 71 su 100 gli studenti delle scuole superiori passati all’anno successivo direttamente, 7,4 i bocciati, 21,5 quelli per cui c’è stata la sospensione del giudizio in attesa della verifica di settembre. Alla fine del procedimento, gli ammessi totali sono il 93,3 per cento, lo 0,3 per cento in più rispetto all’anno precedente. A trainare le promozioni è la scuola statale. Nelle paritarie, bocciati e sospesi sono aumentati di quasi un punto percentuale. Tradotto in numeri: gli studenti delle superiori sono circa 2,6 milioni (la metà iscritti ai Licei). I bocciati quasi 200 mila.

Licei vs Artistico. Il maggior numero di ammessi alla classe successiva (94,7%) è nei Licei. Subito dopo, gli istituti tecnici (88,4%) e quelli professionali (86,1%). Negli istituti tecnici c’è il primo dato negativo, con un peggioramento delle bocciature dello 0,2%. “Il maggior numero di bocciati – si legge nel rapporto del Miur – è presente nei percorsi professionali, in particolare nel settore industria e artigianato (16,4%), mentre fra i tecnici il settore più selettivo è il tecnologico con il 12,2% di non ammessi”. Poi, la “pecora nera”: l’indirizzo artistico è quello con la percentuale più alta di bocciati.

Assenze. Ad aumentare, invece, è il numero di studenti bocciati per assenze durante l’anno, numero che pesa sul peggioramento statistico degli istituti tecnici e professionali. “È aumentata la percentuale di studenti non scrutinati per non aver frequentato almeno i tre quarti del monte ore annuale previsto – si legge – si è passati dal 2,2% (2016/2017) al 2,7% (2017/2018)”. Un fenomeno che si verifica soprattutto nel primo anno di corso (3,6%) e che è più evidente nei percorsi professionali dove quasi 9 frequentanti su 100 non vengono ammessi alla classe successiva per aver superato il limite massimo di ore di assenza previste nel corso dell’anno, senza giustificati motivi.

Nord- Sud. La distanza tra il Nord e il Sud d’Italia è la stessa tra Licei e scuole tecniche. Al sud i licei e gli istituti tecnici raggiungono il 96 per cento di successo, con una media del 91,3% se si assorbono tutti i percorsi. D’altro canto, invece, il Nord si distingue per gli istituti professionali: “Nel Nord-Est e nel Nord-Ovest gli studenti dei professionali ottengono risultati migliori: sono ammessi l’88,5% nel Nod-Est e l’87,7% nel Nord-Ovest. Nelle Isole, invece, si rileva la percentuale più bassa di ammissione per gli studenti dei percorsi professionali (81,8%), anche se gli esiti sono migliorati rispetto all’anno scolastico precedente (81,4%)”.

Gli stranieri. L’81,2% degli studenti con cittadinanza non italiana viene ammesso all’anno successivo. Una differenza più evidente nel primo anno di corso in cui il tasso di ammissione degli studenti con cittadinanza non italiana è pari al 72,8% mentre quello degli italiani è dell’88,2%. “Gli esiti – spiega il Miur – migliorano negli anni di corso successivi, fino ad arrivare al termine del quarto anno di corso a circa 89 ammessi su 100 scrutinati”. Il tasso più basso in Valle d’Aosta ( 73%) e in Toscana (77%).

Le materie. Matematica è la disciplina più difficile per tutti. Le insufficienze in matematica (16%) sono di più di quelle in italiano (6,7%) e nelle lingue straniere (10,6%). Le carenze in matematica e italiano sono rilevanti soprattutto nei percorsi tecnici e professionali: per quanto riguarda la matematica, la percentuale di insufficienze al primo anno è pari al 24,9% per gli studenti dei tecnici, mentre in italiano sono quasi il doppio rispetto agli studenti dei percorsi liceali. Al primo anno, le insufficienze in matematica nel Nord ovest sono a quota 23% (per arrivare al 13 al quarto anno). Ad ogni modo, la maggioranza degli studenti termina l’anno con appena la sufficienza in tutte e tre queste materie. Le eccellenze sono una minoranza. Curiosità: tanto in italiano che in matematica, la percentuale di chi ha voti tra l’8 e il 10 vede stravincere le donne.

Bindi e Claudio Fava: archiviate le accuse dei massoni del Goi

Il gip di Roma Valerio Savio ha archiviato l’inchiesta nei confronti degli ex vertici della commissione Antimafia Rosy Bindi, all’epoca dei fatti presidente, e Claudio Fava, e dei componenti Davide Mattiello (Pd) e Mario Michele Giarrusso (M5s), che erano stati denunciati nel 2017 dal Grande oriente d’Italia (Goi) e dal gran maestro Stefano Bisi in seguito al sequestro degli elenchi degli iscritti alla massoneria in Calabria e in Sicilia da parte della guardia di finanza proprio su richiesta dell’allora commissione parlamentare. Anche la Procura aveva chiesto l’archiviazione per tutti e quattro, accusati di diffamazione. Bindi difesa dall’avvocato Giorgio Beni, era accusata anche di abuso d’ufficio e rivelazione del segreto d’ufficio. Per il gip, “nelle dichiarazioni incriminate degli indagati si fanno correlazioni in generale tra il mondo massonico deviato e la mafia siciliana ma non si chiama mai in causa specificamente né Bisi né il Goi e che ogni assimilazione tra Goi e massoneria deviata operata dai media non può essere imputata agli stessi indagati”.

Processo carburanti, Cosentino assolto definitivamente

La Cassazione rende definitiva l’assoluzione dell’ex sottosegretario Pdl Nicola Cosentino (difeso dagli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro) e dei suoi fratelli nel processo per la gestione dell’Aversana Petroli e per le imputazioni di estorsione e illecita concorrenza con l’aggravante mafiosa ai danni di un imprenditore rivale, Luigi Gallo, grande accusatore dei Cosentino, che la Corte d’Appello di Napoli ha chiesto di indagare per calunnia. Ed è un’assoluzione amara sia per Cosentino che per la Dda di Napoli. Durante la custodia in carcere per questa accusa, “Nick o americano” fu sorpreso a corrompere gli agenti penitenziari ed è stato condannato in via definitiva. Mentre la Procura avrebbe voluto utilizzare in un nuovo appello le rivelazioni del pentito Nicola Schiavone. A novembre il figlio del boss dei Casalesi Francesco Schiavone ha affermato che Giovanni Cosentino chiese al clan di intervenire per fargli aprire un distributore di benzina sulla Nola-Villa Literno prima di Gallo. Il verbale è stato depositato in un altro processo ancora aperto. La Dda sperava di usarlo anche in questo.

La difesa di Fava: Palamara avvisato prima da altri

Il pm Stefano Fava, indagato a Perugia per favoreggiamento e per rivelazione di segreto in favore del pm Luca Palamara, ha risposto per ore ai magistrati, difeso dall’avvocato Luigi Castaldi. Fava ha sostenuto di non avere rivelato alcun segreto al collega sull’esistenza dell’indagine a Perugia nei suoi confronti per i viaggi pagati a Palamara dall’imprenditore Fabrizio Centofanti. Nel corso dell’interrogatorio i pm perugini gli hanno contestato la conversazione intercettata il 16 maggio – grazie al trojan inoculato nel telefonino di Palamara – nella quale i due parlavano dell’indagine di Perugia. In quella conversazione Fava secondo i pm “rivelava a Palamara come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti ‘dalle carte di credito’ di Centofanti Fabrizio e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi”. Nella conversazione Palamara fa anche i nomi di altri magistrati che gli avrebbero parlato dell’indagine di Perugia. Sul punto Fava ha confermato che effettivamente quel giorno Palamara sosteneva che gli avevano parlato dell’inchiesta (teoricamente segreta) il procuratore dell’epoca Giuseppe Pignatone e anche l’aggiunto Rodolfo Sabelli.

Questa affermazione è farina del sacco di Palamara e va comunque contestualizzata. Nel settembre del 2018 Il Fatto aveva già rivelato che c’era un fascicolo (segreto e senza indagati allora, Palamara è stato iscritto a dicembre) sui rapporti tra Palamara e Centofanti. Nel pezzo non c’erano dettagli sui soggiorni negli hotel contestati a Palamara. Quindi non era segreto il fascicolo ma erano segreti i dettagli. Sarebbe importante capire se le conversazioni di Pignatone e Sabelli non fossero mere millanterie di Palamara. E in ogni caso, se i colleghi avessero solo commentato – dopo l’uscita dell’articolo del Fatto – l’esistenza del fascicolo.

Il pm Stefano Fava ieri nell’interrogatorio comunque ha fatto notare che lui non disponeva dell’informativa della Guardia di Finanza dove erano descritte nel dettaglio le presunte ‘utilità’ pagate da Centofanti a Palamara. E quelle frasi su pernottamenti e carte di credito? Erano solo deduzioni logiche.

Fava ieri si è visto contestare anche il favoreggiamento di Palamara perché Fava gli ha consegnato alcune carte allegate a un esposto al Csm presentato da Fava a marzo contro il suo ex procuratore, Giuseppe Pignatone, in cui si lamentava della mancata astensione del capo nei procedimenti sull’avvocato Piero Amara. L’avvocato siciliano, arrestato nel 2018 a Roma, molti anni prima, nel 2014, aveva pagato una consulenza, pienamente lecita, al fratello del procuratore, l’avvocato e professore Roberto Pignatone. Inoltre nel’esposto si faceva riferimento anche all’astensione del procuratore aggiunto Paolo Ielo nel medesimo procedimento. Il fratello di Ielo è un avvocato famoso e aveva lavorato (a partire da molti anni prima) con l’Eni. Il fratello procuratore si era astenuto nel procedimento sui rapporti tra una società riferibile, per i pm, ad Amara ed Eni.

L’esposto al Csm è stato presentato nel marzo scorso. I pm di Perugia bollano le questioni sollevate da Fava come “circostanze allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita”. Fava aveva consegnato all’amico Palamara anche alcune carte relative ad altre consulenze del gruppo Condotte al fratello del pm Ielo, anche queste pienamente lecite, di cui aveva scritto Il Fatto. Complici le parole in libertà che ha incautamente detto al collega Palamara, Fava si è ritrovato in un baleno da accusatore del suo ex capo, a indagato.

Per smontare le accuse contro di lui Fava si è presentato davanti ai pm della Procura di Perugia Gemma Milani e Maro Formisano con una cartellina piena di documenti. Il pm ha consegnato la fitta corrispondenza intercorsa in particolare con il procuratore aggiunto Ielo in merito alle sue richieste di arrestare l’avvocato Piero Amara. La documentazione dimostra che Fava non era certo un pm tenero con Eni e con il suo avvocato Piero Amara.

La tesi di un complotto che fa leva sui magistrati da Trani a Siracusa può insomma essere sostenuta per altri uffici e altri pm. Purché non si mescolino le pere con le mele e, nella furia di alcuni giornalisti di dare la patente di giusti e duri sempre e comunque ai pm amici, non si faccia l’errore di mettere anche il pm Fava nel canestro di quelli che hanno favorito le trame dell’avvocato Piero Amara. Per la semplice ragione che Fava, fino a quando il suo capo Giuseppe Pignatone non gli ha tolto le indagini, voleva arrestare Amara in ben due procedimenti. Inoltre Fava ha chiesto sì alla Procura di Milano gli atti di un procedimento sui rapporti tra Eni e la società Napag, riferibile per i pm a Piero Amara. Però il suo atteggiamento non era affatto più morbido (contro Amara) di quello tenuto dai pm milanesi. Non è vero nemmeno che non avrebbe informato il suo capo, come scritto sui giornali. Il primo marzo scorso, nello stesso giorno in cui ha scritto a Milano per chiedere il fascicolo sui rapporti Amara-Napag ha girato la sua richiesta in copia al procuratore Giuseppe Pignatone. Il Capo quindi non ha autorizzato preventivamente ma è stato informato. Quanto a Ielo, l’aggiunto si era astenuto dalle questioni che riguardavano Eni. Ieri a Perugia era di scena anche l’interrogatorio di Luigi Spina, consigliere dimissionario del Csm, accusato di rivelazione di segreto e favoreggiamento. Si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Tutti insieme, compatti: pace obbligatoria al Csm

Doveva essere la resa dei conti al Csm, invece ieri, dopo la rinione a porte chiuse di lunedì, c’è stato il plenum della pace. Un plenum straordinario voluto dal presidente Mattarella e che ha visto tutti i consiglieri togati e laici ricompattarsi e firmare un documento unitario, letto in aula da Alessandra dal Moro. Per dire che l’istituzione deve essere preservata e che vanno respinte “senza se e senza ma” trattative, incontri come quello con l’imputato a Roma Luca Lotti, fedelissimo di Renzi, che mette becco su chi deve succedere a Giuseppe Pignatone a capo della Procura.

In tanti chiedono al Presidente della Repubblica di non essere lasciati soli. Non a caso il vicepresidente David Ermini, nel suo intervento in cui condanna le “degenerazioni correntizie”, “i giochi di potere”, “i traffici venali”, rassicura che Mattarella “non ha mai fatto mancare la sua guida illuminata”. Infatti, per volere di Mattarella, Ermini chiede “criteri cronologici” nelle nomine per essere il meno condizionate possibile.

Piercamillo Davigo parla di “indice di smarrimento etico dei magistrati” ma anche “di punti di luce” come “il gesto respossabile anche se doloroso” dei togati che si sono autosospesi. Giuseppe Cascini, che è stato aggiunto a Roma e che ora è capogruppo di Area (progressisti) in Consiglio evoca, “per gravità” i tempi della P2 e aggiunge: “L’attacco al sistema che viene da centri di potere occulti che operano fuori dell’istituzione, è stato possibile solo a causa dell’indebolimento del ruolo del Consiglio, incapace di resistere alle tante pressioni, interne ed esterne”.

I laici M5s Gigliotti e Benedetti puntano i loro discorsi sulla condanna ferma dell’ingerenza della politica nelle nomine dei magistrati. Ermini viene pure ringraziato da tanti consiglieri. Nei corridoi si dice che sia stato determinate per il passo indietro dei quattro togati autosospesisi per un incontro a cui ha partecipato Lotti. Lo ringraziano anche Cascini e Davigo, contrari alla sua elezione perché “politico”. E lui, renziano di ferro, amico di Lotti dal 2005, in questi giorni si è decisamente smarcato. Forse al Csm si è consumato l’ultimo atto della fine del potere renziano, con Ermini che ribadisce come un mantra di seguire “solo Mattarella”.

Il plenum, è stato preceduto dall’autosospensione di altri due togati: Gianluca Morlini, (Unicost) presidente della Quinta commissione, quella che propone le nomine e dove si è votato il 23 maggio per il procuratore di Roma (4 voti Viola, 1 Creazzo; 1 Lo Voi) e Paolo Criscuoli (Magistratura indipendente) della Prima commissione, che tratta le inconpatibilità ambientali e funzionali. La sera prima si erano autosospesi Corrado Cartoni, capogruppo di Mi e Antonio Lepre, pure di Mi e membro della Quinta.

Il passo indietro che è stato chiesto, ha una sola ragione: erano presenti a un incontro con Lotti . Luca Palamara (il pm romano ed ex consigliere Csm indagato a Perugia per corruzione) e Cosimo Ferri (deputato renziano Pd, mentro di Mi di cui è stato segretario). Con 5 togati in meno, se, in astratto, dovessero lasciare altri 3, il Csm potrebbe essere sciolto. Invece, è certo che andranno rifatte le composizioni delle commissioni a cui non partecipano i sospesi e le elezioni suppletive per un togato pm, al posto di Spina.

Tutti i consiglieri autosospesi hanno sottolineato di averlo fatto per “senso delle istituzioni” e rivendicano la loro autonomina. Ma a quell’incontro con Lotti c’erano. Criscuoli parla di “caccia alle streghe” e Morlini specifica che Lotti è “arrivato dopo, senza che io lo potessi prevedere”. Una versione simile gli altri consiglieri autosospesi la danno ai loro colleghi. Raccontano di una cena, Cartoni, Lepre, Criscuoli e Morlini. Dopo, raggiungono Ferri in albergo e vedono spuntare Lotti con Palamara, ,“senza che Ferri li avesse informati”, sostengono.

Ma, alla vista “dell’imputato”, come lo definiscono i pm di Perugia, non vanno via. I togati di Mi ora hanno rotto i rapporti con Ferri. Al plenum, al posto dei sospesi e del dimissionario, 5 poltrone vuote. I presenti, insoltitamente si abbracciano. Uniti nel momento del bisogno.

Nomine Ue, il risiko e il sacrificio dei candidati ufficiali

Un affossamento dei rispettivi Spitzenkandidaten, col nome di Manfred Weber (Ppe), di Frans Timmermans (SD) e anche quello di Margrethe Vestager (Alde) che usciranno dalla corsa per la presidenza della Commissione europea, la poltrona più ambita nel Risiko Ue. Secondo più fonti diplomatiche europee sarà questo uno dei primi “giochi” che si produrranno alla cena dei 6 leader Ue, a Bruxelles, dove venerdì sera sederanno lo spagnolo Sanchez e il portoghese Costa per i socialisti (SD), l’olandese Rutte e il belga Michel per i liberali (Alde), il croato Plenkovic e il lettone Karins, incaricati del negoziato sul pacchetto delle nomine dalle rispettive famiglie politiche.

Ma il naufragio del bavarese Weber sostenuto da Angela Merkel finirebbe con l’affondare anche la candidatura del capo negoziatore della Ue per la Brexit, il francese Michel Barnier. Uscire dall’impasse non sarà facile dato che al vertice della settimana scorsa Merkel ha fatto sapere di non gradire l’idea di un’ascesa della bulgara, Ceo della Banca mondiale, Kristalina Georgieva, in quota Ppe. Molto probabile perciò un vertice straordinario sulle nomine nell’ultima settimana di luglio.

Firenze, la super-assessora con vista sui “big”

“La mia giunta sarà ispirata da competenza ed esperienza” è stato il mantra del sindaco Dario Nardella, appena riconfermato al primo turno. Non solo: “Nuove deleghe significa nuovi stimoli” ha esultato venerdì, presentando la nuova giunta a Palazzo Vecchio. E magari si riferiva proprio a lei, Cecilia Del Re, che a Firenze ormai tutti conoscono come la “regina delle preferenze” (2.600, la più votata in assoluto). Per premiarla, il sindaco le ha affidato un assessorato monstre con dentro di tutto, basta leggersi l’impressionante elenco delle deleghe: ambiente, agricoltura urbana, tutela del territorio, turismo, fiere e congressi, innovazione tecnologica, servizi informativi e soprattutto urbanistica. Ed è proprio su quest’ultima delega che si potrebbe configurare se non un conflitto d’interessi, almeno una vicinanza con quei poteri forti che in città pesano e cercano spesso di influenzare le scelte politiche sullo sviluppo di Firenze. La Del Re, come recita il curriculum, di professione fa l’avvocato associato in uno degli studi legali più famosi di Firenze, il “Del Re & Sandrucci”, fondato nel 1995 dal padre giuslavorista Andrea Del Re. Lo studio del padre, come si legge nel suo curriculum, negli ultimi anni ha annoverato tra i suoi clienti le più importanti società della città tra cui Toscana Aeroporti (fino al 2009) ma anche la Fiorentina calcio, Mercafir (fino al 2014), Banca CR Firenze, Cassa Edile della Provincia di Firenze, Ferrovie dello Stato, Firenze Fiera, Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino, Fondiaria-Sai e Salvatore Ferragamo Spa.

In sintesi, quindi, Del Re per i prossimi cinque anni dovrà occuparsi e decidere su quelle infrastrutture – come l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola voluto da Matteo Renzi e Marco Carrai e il nuovo stadio della Fiorentina – le cui società sono state assistite proprio dal padre nell’ambito dei contratti di lavoro dei loro dipendenti. E così, dopo il primo rimpasto per il mancato rispetto della parità di genere, un’altra grana – questa volta di opportunità politica – potrebbe coinvolgere la giunta di Nardella che si è insediata solo da quattro giorni. La denuncia arriva dal laboratorio politico “Perunaltracittà” di Firenze che al Fatto anticipa l’oggetto di un articolo sul tema che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista La città invisibile.

Va detto che, pur avendo fatto il praticantato e risultando ancora ufficialmente associata dello studio del padre, Del Re da quando è diventata assessore nel 2010 non ha quasi mai praticato l’attività legale. “Da quando è stata folgorata da questa passione civile, in studio non l’ho più vista” conferma al Fatto Andrea Del Re, padre dell’assessore e titolare dello studio. Ed è proprio Cecilia Del Re a provare ad allontanare qualunque sospetto: “È vero che Toscana Aeroporti, la Fiorentina e Mercafir sono stati in passato clienti di mio padre – spiega – ma prima di tutto non lo sono più oggi e poi, in prima persona, io non ho mai avuto rapporti personali con loro”. Non crede che ci sia un motivo di opportunità politica per la sua nomina all’urbanistica, assessorato che deve dialogare quotidianamente con questi soggetti, per giunta gestendo molti soldi pubblici? “No, sono stata la più votata in tutta Firenze e il sindaco Nardella ha deciso di darmi fiducia: in questi anni ho dimostrato la capacità di trattare molti temi diversi maturando un’esperienza amministrativa che parla per me”.

Renzi fermo al 2015, Zinga “congelato”: il Pd sta nel guado

Matteo Renzi è bloccato, si rifugia nel passato. Nicola Zingaretti è paralizzato, si consola con lo status quo. Aspettando di capire se il governo gialloverde arriverà allo showdown, il Pd sta fermo. Sulla strada delle scissioni. Ma pure su quella di un dialogo strutturato con i Cinque Stelle: i canali sotterranei sono aperti (soprattutto con Roberto Fico), ma diventeranno ufficiali nella legislatura che sarà.

Per commentare la conferenza stampa di Giuseppe Conte, lunedì sera, Matteo Renzi twittava una foto (ormai di ben 4 anni fa, l’8 giugno 2015) che lo ritraeva su una panchina insieme ad Angela Merkel e Barack Obama al G7 di Elmau. Come dire: “Io sì che ero un premier”. La foto già all’epoca era una sapiente montatura: scattata dall’allora fotografo ufficiale di Palazzo Chigi, Tiberio Barchielli, restituiva a Renzi una centralità che non aveva. I media presenti all’evento, infatti, rivelavano una realtà diversa: accanto alla panchina c’era una folla di gente.

Quattro anni dopo, riproporre quell’immagine sa tanto di operazione nostalgia. Non solo: rivela uno sguardo al passato e non al futuro. E per di più lo fa con una foto semi-taroccata. Metafora perfetta per descrivere pure l’operazione Comitati civici. Ieri il Foglio raccontava di iniziative con il vento in poppa, con 900 dei suddetti Comitati operativi. Iniziativa clou? Quella sulle fake news del 12 luglio, che dovrebbe vedere l’eterno ritorno di Renzi sulla scena. Dato il contesto, suona un po’ ironica. Perché i Comitati sono un format già visto, ma pure una sorta di vetrina per un progetto che stenta a decollare. Se si va al voto rapidamente, Renzi non è pronto neanche a fare la scissione “consensuale” di cui si favoleggia nei corridoi del Nazareno. Lo spazio per il partito di centro non lo vede e soprattutto deve dividerlo con Carlo Calenda. Quindi si agita, tra attività di conferenziere in giro per il mondo, sogni di rivalsa, volontà di ribalta.

Dall’altra parte, però, trova un’altra debolezza. Nicola Zingaretti, il neo segretario, fa l’inclusivo, si presenta come unitario. Ci tiene talmente tanto a interpretare questo ruolo che nelle liste delle Europee ha accontentato praticamente tutti. Ora, però, vuole pensarci bene prima di andare avanti con lo stesso film. E infatti, resiste alle pressioni.

Alla porta ha la fila, di gente del Pd e non solo (un’alleanza in vista di elezioni future dovrà pur metterla in piedi). Però, non decide: sono passati 3 mesi dalle primarie e la segreteria ancora non c’è. Sulla carta, aspetta i ballottaggi. In realtà, è tutto congelato in attesa di capire se si va a votare a settembre, oppure no. Perché lo schema di gioco cambia: serve un gruppo d’attacco oppure uno che ricostruisca? Nessuno lo sa. Nel frattempo, tutto paralizzato. Con una notazione: in perenne campagna elettorale, alla Regione Lazio negli ultimi tempi, il governatore lo hanno visto molto poco.

Ma sono tempi confusi, con un partito che stenta a darsi un’identità: ecumenica, di sinistra, di centro?

Dopo le europee, i vincoli restano

“Il voto europeo è stato molto significativo. Gli europei si sono espressi”. Questa la prima risposta del leader della Lega Matteo Salvini alla richiesta del premier Giuseppe Conte di fare meno polemiche e tornare a pensare al governo, a cominciare dal negoziato con la Commissione europea sulla legge di Bilancio. Il leader leghista poi ha precisato: “Se ci sono dei vincoli che bloccano la spese, le assunzioni, le strade, le ferrovie si va a ridiscutere una politica fiscale vecchia di anni e superata dal momento economico che ha bisogno di forti iniezioni. Chiederemo di poter usare per gli italiani la riduzione fiscale che vogliamo fare alle imprese italiane e vediamo”.

Ma davvero gli italiani lo hanno votato per questo alle elezioni europee? La Lega era l’unico partito a non avere un programma ufficiale per il Parlamento europeo. Nessun documento permette di ricostruire quindi quali siano esattamente gli obiettivi di un partito che continua a candidare attivisti anti-euro (come Francesca Donato e Antonio Maria Rinaldi) ma che poi ufficialmente esclude l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. In campagna elettorale più volte Salvini ha fatto credere che dopo il voto ci sarebbe stata una Commissione europea molto più ben disposta verso l’Italia e che i vincoli (peraltro recepiti dalla legislazione italiana) sarebbero magicamente caduti.

Invece, come prevedibile e previsto, la legge di Bilancio sarà negoziata in gran parte dall’attuale Commissione europea, presieduta da Jean Claude Juncker e quella nuova sarà espressione di una maggioranza nell’europarlamento tra socialisti, liberali e popolari, dalla quale Salvini è escluso.

Se il leader leghista avesse chiarito questi aspetti ai suoi elettori, forse ora potrebbe rivendicare un mandato pieno a sforare i parametri di debito e deficit. Ma non ha neppure osato presentare un programma per evitare di dover uscire dall’ambiguità sui suoi reali obiettivi.

Le due Italie divise: in mezzo c’è la Carta

L’Italia di Matteo Salvini – che oggi è al 34% ma potrebbe arrivare al 40 e forse anche al 50% – vota il capo che agita il rosario, che chiede la cacciata dei giornalisti sgraditi (Lerner), che vuole togliere la scorta agli oppositori (Saviano), che dice me ne frego alle regole Ue (anche se poi i maggiori interessi sul debito li paghiamo tutti quanti noi). È anche l’Italia dell’assessore leghista di Ferrara che dorme con la pistola sotto il cuscino. Del deputato leghista di Vercelli che deride la sindaca uscente del Pd con una card sessista. E che include gli ultra neonazisti del Verona che cantano: “Siamo una squadra a forma di svastica”.

L’Italia a cui si è rivolto lunedì scorso Giuseppe Conte – e che, molto probabilmente, non appartiene al 50% di cui sopra ma forse all’altro 50% – è invece convinta, per esempio, che le regole di Bruxelles vadano rispettate “finché non saremo in grado di cambiarle”. Essa non ama la politica che “colleziona like”, ma apprezza chi si sforza di essere “sobrio nelle parole e operoso nelle azioni”. Chi rifugge dalle “veline quotidiane e dalle freddure a mezzo social”. Chi pretende dai ministri “leale collaborazione, senza prevaricare su scelte che non gli competono e non lanciando messaggi ambigui sui giornali”.

Il vicepremier Salvini, ci mancherebbe altro, detesta l’uso della violenza fisica e i messaggi sessisti. Quanto a chi lo accusa di essere un “fascista”, o straparla o si rifugia nell’insulto in mancanza di argomenti più solidi. Tuttavia, l’uomo del 34% sembra quotidianamente impegnato a sobillare la pancia, diciamo così, del suo popolo per raggiungere rapidamente il 50%. Mentre sul versante opposto il premier Conte non si crede De Gasperi e non nega di essersi trovato un giorno a Palazzo Chigi grazie a una carambola di fortunate (per lui) circostanze. Però, da servitore leale delle istituzioni si dichiara pronto a lasciare immediatamente la poltrona, poiché non ci tiene a “vivacchiare”.

Salvini non è Belzebù così come l’avvocato di Volturara Appula non ce lo ha inviato Padre Pio ma entrambi oggi, forse senza saperlo, rappresentano due Italie diverse e contrapposte. Che non vanno distinte seguendo banalmente il criterio di destra e di sinistra (la parola sinistra si addice a Conte come le buone maniere a Donald Trump). Poiché ciò che le tiene decisamente separate non è l’ideologia bensì la Costituzione della Repubblica. Nell’ultimo anno tutto ciò che il salvinismo ha fatto emergere dalle viscere del Paese ha finito per generare nella società italiana una naturale reazione degli anticorpi. Per un po’ i diktat sui porti da chiudere o sulle navi dei migranti da abbandonare al proprio destino, i proclami duceschi sulla pacchia finita, le scorribande sulle competenze di altri ministri e dicasteri avevano colto di sorpresa chi aveva fatto l’abitudine alle formule rituali (e alle ipocrisie) del politicamente corretto. Da questo punto di vista l’agire-choc di Salvini, e il relativo esplicito linguaggio, hanno avuto l’effetto positivo di eliminare la fuffa retorica del sinistrese e di rafforzare, appunto, i convincimenti che attingono forza direttamente dalle radici della nostra Carta. Fateci caso, nei passaggi chiave della conferenza stampa di Conte si fa riferimento all’indispensabile equilibrio tra entrate e spese (art. 81), là dove si nega la possibilità di aggirare le regole europee su debito pubblico e deficit, come auspicato dal capo leghista. O dove si fissa il limite delle autonomie regionali, che però “non devono aggravare il divario tra Nord e Sud” (art. 5). O dove si rammenta all’iperattivo ministro degli Interni che non può “prevaricare” intervenendo sull’attività dei colleghi di governo. E che non un unto del Signore o dai santi Cirillo e Metodio ma il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile” (art. 95). Conte ha avuto il merito di denunciare pubblicamente lo stravolgimento delle regole. E di rammentarle al Paese (e a chi fa finta di non capire). Cosicché quando, presto o tardi, si tornerà al voto gli italiani sapranno che, al di là dei programmi dei partiti o delle coalizioni, saranno chiamati a una scelta decisiva e senza compromessi. Tra chi rispetta la Costituzione. E chi no.