Fondi a Radio Padania ora indaga la Procura

La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta su Radio Padania, l’emittente “verde”, in passato diretta anche dal ministro Matteo Salvini. L’indagine è stata avviata dopo l’esposto del senatore del Movimento 5 Stelle, Alfonso Ciampolillo. È stata Repubblica a rivelare il 21 maggio scorso la decisione del parlamentare di denunciare ai carabinieri di Roma la “nota emittente radiofonica della Lega per i reati di falso, truffa aggravata e, comunque, per tutti i reati che emergeranno o saranno rilevati sia a carico della predetta emittente, sia per l’eventuale abuso di ufficio a carico degli uffici ministeriali competenti”.

Adesso la Procura, guidata da Michele Prestipino in attesa della nomina del nuovo procuratore capo, ha fatto un passo successivo: ha aperto un fascicolo per ora senza né indagati né reati.

La polemica legata a Radio Padania nasce nel gennaio scorso quando Repubblica, che ha approfondito la questione in più articoli, rivelò la richiesta al ministero dello Sviluppo economico (il Mise, oggi guidato da Luigi Di Maio) fatta dall’emittente radiofonica per ottenere contributi pubblici. Si tratta di circa 115 mila euro che fanno parte del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione per le emittenti locali. “Non abbiamo ancora dato un euro, verificheremo. E comunque si tratta di un bando del 2017 del governo Gentiloni”, ha spiegato in quei giorni Di Maio. Mentre Matteo Salvini assicurava: “Radio Padania sarà trattata come tutti gli altri”. Alla fine quei soldi non arriveranno mai e per volontà dell’emittente stessa, che ha fatto un passo indietro rinunciando ai fondi con una email inviata al Mise.

La storia poteva chiudersi così, se non fosse che Ciampolillo è andato dai carabinieri (che poi hanno trasmesso l’esposto in Procura) per chiedere di verificare se ci sia stata una “tentata truffa”: “Anche se alla fine hanno fatto un passo indietro e non hanno ricevuto i contributi, comunque la richiesta c’è stata”, spiega il senatore M5S al Fatto.

E aggiunge: “Il punto è che loro chiedono i contributi come una radio locale, ma in realtà si comportano come emittente nazionale, trasmettendo su tutto il territorio utilizzando una piattaforma digitale che è di proprietà del Consorzio EuroDab Italia e trasmettendo inoltre in tutta Italia sul canale 740 del digitale terrestre. Proprio sulla loro attività abusiva sul piano nazionale arrivano a quantificare contributi enormemente superiori a quelli loro effettivamente spettanti. L’emittente risulta con una sola frequenza a Brescia e ha una potenza di 20 watt. Io sono andato sul territorio e lì il segnale si ascolta nel raggio di circa 300 metri”.

Ai magistrati Ciampolillo ha chiesto anche di capire il perché del passo indietro di Radio Padania una volta che è venuta fuori la notizia dei contributi assegnati dal Mise. “Lo abbiamo fatto per evitare ulteriori polemiche”, avevano spiegato dall’emittente sempre a Repubblica il primo maggio scorso. Nello stesso giorno il quotidiano dà anche la notizia dello stop di Di Maio alle trasmissioni sulla rete digitale, quella che ha consentito che si sentisse in tutta Italia.

Quel giorno le agenzie di stampa, citando “fonti del ministero dello Sviluppo economico”, riportarono la versione “ufficiale” del Mise: “La Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica, di radiodiffusione e postali con nota del 29 aprile scorso (…) ha intimato alla emittente di cessare la trasmissione dei contenuti in tecnica digitale attraverso il consorzio nazionale Eurodab. Tale nota, adottata dalla direzione generale senza che il gabinetto del ministro Di Maio ne fosse informato, si chiude con la previsione della possibilità di disporre la revoca dell’autorizzazione alla trasmissione in tecnica digitale in ambito locale a carico dell’emittente. Il procedimento eventuale di revoca della suddetta autorizzazione non è neanche stato avviato dalla direzione competente”.

Il Colle (e il premier) a caccia di Salvini: “Perché non rompe?”

Le montagne russe tra l’altro giorno e ieri ovviamente non sono affatto piaciute, lassù al Colle. Una sequenza micidiale: Conte che parla, Salvini che lo sbeffeggia e rilancia, la rottura notturna sullo Sblocca-cantieri, indi la telefonata di ieri tra i due vicepremier. Dalla quasi crisi alla finta tregua. Un teatrino tragico che di questo passo condurrà in un altro pantano, come quello lunghissimo che ha portato alle fatidiche elezioni europee. Montagne russe appunto. Più verdi che gialle. Sintesi classica: basta con il gioco del cerino.

“Perché Salvini non rompe e si assume le sue responsabilità? Del resto tutta la Lega, a cominciare da Giorgetti e e Zaia gli chiede di finirla con Cinquestelle e di andare al voto anticipato. Perché non lo fa, perché non capitalizza il risultato del 26 maggio?”. È il quesito principe cui agganciare le valutazioni del Quirinale in queste ore. In piena sintonia oggettiva con le parole di Giuseppe Conte nella conferenza stampa di lunedì: “Finitela o mi dimetto”. Un messaggio rivolto soprattutto al leader sornione e tatticista della Lega.

Per stanarlo, il Colle agita anche l’arma dello scioglimento anticipato, individuando una data nelle prime settimane di settembre. In pratica, per il capo dello Stato, Matteo Salvini si deve assumere le sue responsabilità fino in fondo. Cioè: vada a Palazzo Chigi con nuove urne e poi affronti i problemi del Paese, magari con lo spread che schizza a quota 400. Ma lo dica adesso. Altrimenti Sergio Mattarella non concederà mai il voto da ottobre in poi, quando la priorità sarà la manovra finanziaria. Ché l’incubo del presidente della Repubblica è questo: la tenuta dei conti pubblici e l’andamento dell’economia. “Siamo sull’orlo del burrone”, è il mantra che viene ripetuto da chi ha consuetudine con il Quirinale.

Di qui la richiesta estrema di chiarezza ribadita ieri anche a Luigi Di Maio, il vicepremier “dimezzato” del M5S e costretto a fare da comparsa “terza” in questa nuova partita tra il premier avvocato e il Capitano “raddoppiato” della Lega. E la conferenza stampa dell’altro giorno ha segnato la metamorfosi politica di Conte. È ancora prematuro parlare di “partito” del premier però la svolta è evidente. Nel suo intervento Conte è sembrato un leader moderato che fa attenzione ai “mercati”, non solo ai vincoli dell’Ue, e che precisa di non aver mai votato Cinquestelle. Un altro uomo rispetto a quello del giuramento di un anno fa, cui Luigi Di Maio sussurrava all’orecchio e che poi Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, ha accusato di parzialità.

Oggi la scena è completamente cambiata: è lui, e non Di Maio (considerato dall’establishment un vero dead man walking), lo stabilizzatore che deve arginare Salvini, cercando per quanto è possibile di mettergli un cordone sanitario. Impresa ardua, considerato il consenso di cui gode il leader leghista nel Paese e la carta win-win che ha vinto alle elezioni europee. Questo però non impedisce di ragionare sugli scenari attorno Conte, che ci sono e sono vari. Si va dalla premiership di un M5S diverso a un’implosione degli stessi grillini dagli esiti imprevedibili, fino a una lista trasversale.

Ma fermiamoci al tormentone della finestra elettorale di metà luglio, decisiva per eventuali elezioni a settembre. Il Quirinale non esclude l’ipotesi per stanare Salvini dal suo comodo guscio di provocatore che non va mai sino in fondo. Il capo dello Stato non vuole arrivare con questo teatrino alla manovra autunnale “sull’orlo del burrone”.

Per la serie: come si fa a fare in questo pantano una legge di bilancio da 50 miliardi di euro che contempli la clausola di salvaguardia dell’Iva, quota 100, il reddito di cittadinanza e finanche la flat tax ultimo cavallo di battaglia del repertorio propagandistico di Salvini? “Dica Salvini allora se vuole rompere”. Il Colle come Conte lunedì scorso. L’arbitro Mattarella ha ripreso il suo metodo maieutico (da levatrice socratica) per estrarre una soluzione dal caos di questo periodo.

Un metodo sfiancante come già dimostrato nelle lunghissime consultazioni di un anno fa (anche allora fu messa sul tavolo la minaccia del voto anticipato, per l’occasione a luglio).

Ora il paesaggio politico è cambiato ed è Salvini, non Di Maio, l’uomo forte del partito di maggioranza relativa (in questo caso virtuale perché i numeri in Parlamento sono sempre gli stessi del 4 marzo). Ed è per questo che forse servono nuovi percorsi. Il primo è stato imboccato: costringere Salvini alla chiarezza. Aspettando i ballottaggi di domenica prossima.

Nella denuncia di Tria è citato un nome: i pm ora cercano la “talpa”

C’è un nome e un cognome dal quale partiranno le indagini della procura di Roma che ha aperto un fascicolo sulla “manina ” che ha consegnato alla stampa la bozza della lettera di risposta del governo italiano ai rilievi della commissione europea sui nostri conti pubblici. Si trattava di un testo non definitivo, tanto che dopo la sua pubblicazione il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, è stato costretto a smentirlo.

Non solo. Tria ha anche presentato una denuncia molto circostanziata. Qualcuno infatti al ministero dell’Economia ha trasformato quella bozza (che doveva rimanere nei cassetti) in un file pdf, sul quale è rimasto il nome di chi ha fatto questa operazione. Adesso la Procura – che intanto indaga per rivelazione di segreto d’ufficio – identificherà la persona e da lì si cercherà di ricostruire la vicenda. Chi ha chiesto di trasformare la bozza in un file Pdf? Poi questo file è stato passato a qualcuno? A chi? Insomma l’obiettivo è cercare di ricostruire man mano quel che è avvenuto venerdì 31 maggio. Tutto è cominciato alle quattro del pomeriggio quando le agenzie battono i contenuti della bozza della lettera. Tra questi, c’è un passaggio sui risparmi previsti per “Reddito di cittadinanza” e “Quota 100” che andranno a ridurre il deficit. Al Tesoro rimangono stupefatti e la reazione politica dei 5 Stelle è immediata: “M5S non ne sa nulla – dice Luigi Di Maio – non ce ne siamo occupati noi, non è stata condivisa con noi ma non taglieremo mai la spesa sociale”. Due ore dopo circa il Tesoro smentisce i contenuti della missiva (“non corrispondono alla realtà”). Il punto è che oltre al Tesoro, la bozza della lettera poteva essere arrivata solo a Palazzo Chigi. Dal Movimento infatti sostengono che è proprio nella sede del governo che ne è stata presa visione. Alla 19.06 sempre di venerdì comunque interviene proprio Palazzo Chigi, che ha appena ricevuto la lettera definitiva e conferma la versione di Tria: i contenuti non sono quelli divulgati. Ma venerdì è stata una giornata lunga. Alle 22.22 infatti, mentre la caccia alla talpa è in corso, la viceministra Laura Castelli rilascia una nota alle agenzie dicendosi “sorpresa che Tria smentisca i contenuti: nel pomeriggio anche io ho visto una bozza della lettera che girava con quei contenuti e quel passaggio sul taglio al welfare c’era”. Proprio su questo tornerà Tria domenica: “Se Castelli aveva quel testo, non lo doveva avere”, ha detto al Corriere.

Demopolis: il 52% degli italiani vuole che l’esecutivo vada avanti

Lega e Movimento 5 Stellesaranno anche divisi dal risultato delle elezioni europee, ma i loro elettori vogliono vederli governare ancora insieme. Lo conferma l’ultimo sondaggio realizzato da Demopolis, l’istituto nazionale di ricerche che, per conto di Otto e mezzo, ha chiesto agli italiani quale dovrebbe essere il futuro del governo Conte. Risultati positivi dai pentastellati: l’83% dei sostenitori del M5S ritiene che si debba andare avanti, e in particolare, solo l’8% di loro farebbe dei cambiamenti nella compagine di governo attuale. I leghisti, al contrario, sono più scettici anche se il 58% lo supporta: di questi, il 21% è soddisfatto dallo status quo e il restante 37% invece spera in un rimpasto. Sempre in quota Lega, ben il 35% del totale aprirebbe la crisi per ritornare alle urne. Anche la fiducia riposta nel primo ministro cambia fra i due schieramenti: gliela accorda il 78% degli elettori 5S, mentre i consensi dal Carroccio sono al 55%. E gli italiani, in generale, cosa ne pensano? Tendenzialmente sono favorevoli: il 52% crede nell’attendibilità di Conte. E se il 51% del totale gradirebbe che il governo continuasse, a fronte di un 7% che non dichiara la sua preferenza, il restante 42 invece spera comunque in nuove elezioni.

Tregua gialloverde: lo Sbloccacantieri va, il Salva-Roma rinviato

Una dozzina di modifiche, per così dire, minori in cambio della cessazione delle ostilità, nessuna per la verità particolarmente virtuosa. Alla fine M5S trova l’accordo con la Lega sul decreto Sblocca-cantieri su cui martedì notte si era schiantato il primo vertice di governo dopo il discorso di Giuseppe Conte, che aveva chiuso la riunione a Palazzo Chigi assai infastidito.

La giornata si apre con l’appello del premier al Carroccio affinchè eviti di impuntarsi sulla sospensione di due anni del codice degli appalti (“genererebbe il caos”) inserita in un emendamento al provvedimento fermo in Senato (scade il 17 giugno).

A quel punto parte il vertice tra relatori e capigruppo e la quadra si trova, anche sull’emendamento che fa da scudo ai funzionari che firmano la revoca delle concessioni autostradali. Accordo che ancora manca, invece, sul decreto Crescita (fermo alla Camera, scade a fine giugno), dove si battaglia per la norma sul debito di Roma: è quasi certo, però, che alla fine quest’ultima dovrebbe finire in un provvedimento ad hoc che riguarderà anche altri Comuni. Entrambi i decreti saranno probabilmente approvati col voto di fiducia.

Cantieri. Il primo passo per l’accordo viene trovato con la rinuncia della Lega a sospendere una gran parte del codice degli appalti del 2016. Una norma “inapplicabile”, come ha chiarito anche il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, bocciata da sindacati e Ance (i costruttori) ed elogiata dalla sola Confindustria. È servita però alla Lega per incassarne altre minori su cui M5S avrebbe soprasseduto. In buona parte sono sospensioni. Viene sospeso, per dire, fino al 2020 l’obbligo di nominare nelle commissioni aggiudicatrici un terzo commissario indipendente preso da un albo dell’Anac. Sospeso anche l’obbligo per i “Comuni di procedere alle gare, rivolgendosi alla stazione appaltante qualificata”. In sostanza, quelli più piccoli (cioè non capoluogo) potranno fare da stazioni appaltanti autonome e provvedere a emanare i bandi. È un vecchio pallino della Lega dare più libertà di azione ai sindaci dei piccoli centri. Problema: queste amministrazioni spesso non hanno competenze adeguate e così è probabile che venga esternalizzata anche la progettazione, con tutti i rischi del caso. Viene anche sospesa fino al 2020 la norma che limitava il ricorso all’“appalto integrato”. Di fatto è un via libera al ritorno del general contractor, l’appaltatore che fa insieme progettazione esecuzione e collaudo previsto dalla Legge Obiettivo del governo Berlusconi, definita “criminogena” da Cantone. Le restanti norme sono conferme di articoli già contenuti nel decreto, un po’ peggiorati: il tetto per subappaltare i lavori resta al 40%, invece di salire al 100% sospendendo il codice come chiedeva la Lega, e non c’è obbligo di indicare la terna dei subappaltatori; resta pure il massimo ribasso come criterio preferito per gli appalti fino a 5 milioni; su questi ultimi però Salvini & C. incassano la possibilità di evitare le gare (basterà fare una procedura negoziale chiamando una serie di imprese: poche se l’appalto è piccolo, sempre di più man mano che si sale).

In sostanza, M5S incassa lo stop all’arma fine di mondo della Lega, in cambio di modifiche per molti versi peggiorative a un decreto che non brillava già prima per virtuosità. “Alla fine si sospenderanno dal codice le tre norme su cui siamo sempre stati d’accordo, ci saranno meno scartoffie che hanno rallentato l’economia senza sacrificare la legalità e controlli”, dice Luigi Di Maio. “Un accordo al ribasso, altra corsa a spese degli italiani”, sostiene Silvio Berlusconi.

Lo scudo. L’accordo fa salvo anche l’emendamento allo Sblocca cantieri depositato dai relatori che tutela i funzionari ministeriali che firmano la revoca delle concessioni autostradali. Nell’ultima formulazione lo scudo passava dal vaglio dell’Avvocatura di Stato, sostituita ora dalla registrazione della Corte dei Conti. La norma, voluta dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, è stata avallata da Palazzo Chigi nonostante la forte contrarietà del leghista Giancarlo Giorgetti. Il motivo è ovvio: il primo bersaglio potrebbe essere Autostrade dei Benetton (di revoca si parla dal giorno del crollo del Morandi). Un segnale alla controllante Atlantia mentre tratta col governo per entrare nel salvataggio di Alitalia.

Decreto Crescita. La trattativa va avanti fino a tarda sera. E fa slittare l’approdo in aula alla Camera alle 15 di oggi (il governo quasi certamente porrà la fiducia). Il nodo è la norma “salva-Roma”, che trasferisce al Tesoro i vecchi debiti del Comune per evitare il collasso della gestione commissariale del debito storico (quello ante 2008), alimentata con fondi del ministero del Tesoro e con le tasse dei romani. Una norma tecnicamente ineccepibile e senza oneri per lo Stato (il Tesoro potrebbe anzi risparmiare rinegoziando i mutui). La Lega l’ha impallinata dipingendola come un favore all’amministrazione Raggi. Nel decreto è finito così un testo monco, il cui unico effetto è aprire un buco nei conti del Comune di 340 milioni fino al 2028. M5S vorrebbe ripristinare il vecchio testo, il Carroccio vuole che vada in un provvedimento a parte che riguardi altri Comuni. Ed è così che alla fine dovrebbe finire.

Per Salvini l’alleato si è arreso: il governo può andare avanti finché si fa come dice lui

Per Matteo Salvini tutto scorre, è un giorno come un altro: comizi, comizi, comizi; l’ultima appendice di una campagna elettorale che non finisce mai.

Il ministro è in Emilia, dove nei ballottaggi di domenica può prendere forma l’ultima spallata della Lega nell’Italia ex rossa. Salvini salta da un palco all’altro e intanto continua a tessere la tela di questa crisi-non crisi che aleggia dal 27 maggio sui destini gialloverdi.

Pubblicamente la sua posizione è immobile, sempre la stessa: questo governo può andare avanti e sopravvivere alle difficoltà. Ma a una condizione: d’ora in poi comanda lui.

Nell’entourage del Capitano la telefonata “della pace” con Luigi Di Maio, dopo settimane di esibita freddezza, viene raccontata proprio in questa chiave: adesso finalmente si comincia a ragionare.

O meglio: Luigi comincia a ragionare. Il capo del Movimento 5 Stelle – sempre per la versione leghista – ha iniziato a prendere atto dei nuovi equilibri nella maggioranza. Ha avuto un atteggiamento “molto costruttivo” in una telefonata “lunga e cordiale”. In buona sintesi, una lunga e cordiale resa del grillino: dall’accordo sullo sbloccacantieri a quello sul “salva Roma” (che non sarebbe più tale). Per Salvini alcuni dei “no” di cui incolpava Di Maio sono diventati “sì” e questo basta per guardare avanti con rinnovata fiducia. Per adesso. La road map del leghista infatti è piena di verifiche: il nuovo spirito collaborativo dei Cinque Stelle sarà messo alla prova molto presto sulle autonomie regionali. E poi sul Tav Torino Lione. E poi sulla flat tax. E poi ancora, e ancora…

Intanto, come dicevamo, Salvini comizia. Ieri il tour de force emiliano: Castelfranco Emilia (Modena), Mirandola (Modena), Ferrara, Argenta (Ferrara), Cesena e Forlì.

L’incontro con Di Maio ci sarà, si dice, “entro 48 ore”, comunque prima del consiglio dei ministri di venerdì, ma l’agenda elettorale del Capitano non è stata sconvolta dalla necessità di risolvere i problemi con l’altro vicepremier. Anzi, è rimasta identica, anche oggi il ministro dell’Interno sarà on the road: Ascoli Piceno, Foligno (Perugia), Marsciano (Perugia) e Orvieto (Terni). La priorità non è certo l’incontro con l’altro dioscuro, sono i ballottaggi: da lì può arrivare un altro colpo, un nuovo avanzamento per spostare ancora più in là i confini dell’influenza della Lega. Ma in questo governo – ripete da ogni palco – continua a credere: “Voglio andare avanti. Non mi interessano le operazioni di palazzo”. Né quelle alle sue spalle, né quelle di cui potrebbe essere protagonista: non farà il premier senza prima passare per le urne (l’aveva promesso anche Matteo Renzi).

L’iperattivo Salvini gira per comizi, rilascia interviste (ha raccontato la sua fede “nella Vergine Maria” in un lungo servizio per Chi, in edicola oggi), ricuce alcuni strappi e ne allarga altri. Fa la pace con Di Maio e litiga con Di Battista e Fico. Lunedì sera a Cremona ha ironizzato sul presidente della Camera, che ha dedicato la festa della Repubblica a rom e migranti. “Aspettiamo anche l’ufficializzazione della festa dei borseggiatori e dei lavavetri abusivi ai semafori”, ha ridacchiato il leghista.

Alle preoccupazioni del presidente della Repubblica sulla tenuta dei conti pubblici e sulla stabilità della collocazione italiana, Salvini risponde – indirettamente – senza cautele o gentilezze: “Voglio abbassare le tasse e andare a ricontrattare il nostro modo di essere parte di questa comunità europea. Voglio continuare a essere parte di questa comunità ma senza più il cappello in mano”.

Salvini vuole andare avanti, dice, ma il motore della ruspa è sempre acceso.

Prima al Colle, poi al telefono Di Maio prova a sopravvivere

Vuole sopravvivere, a ogni costo, e a tutti. Al Giuseppe Conte che ormai è un’altra cosa, un presidente che lo rivendica: “I Cinque Stelle non li ho mai votati”. Ai timori del Quirinale che lo vede fragile, e che ieri gli ha chiesto “chiarezza” sul governo, (ri)dandogli pure i compiti a casa: “I conti vanno messi in sicurezza”. E naturalmente al coinquilino di governo Matteo Salvini, il suo carnefice nelle urne, a cui dopo il giro al Colle ha telefonato per invocare “lealtà” e un vertice a due, “entro 48 ore”.

Per restare vicepremier e pluriministro Luigi Di Maio deve reggere tutto questo e anche altro, per esempio un corpaccione parlamentare che gli rimprovera atteggiamenti da autocrate ma per paradosso anche l’eccessiva mitezza, “perché non è possibile che dopo il voto non abbia fatto saltare neanche una testa” come ringhiavano ieri pomeriggio alcuni eletti. In tanti hanno sete di sangue, preferibilmente di governo, dentro il M5S finito nel crepaccio del 17 per cento. Ma il Di Maio ancora capo nonostante tutto pensa solo ad altro, a come schivare il voto a settembre, dove il candidato premier formale del Movimento difficilmente potrebbe essere lui. Più probabile un altro, magari proprio il presidente del Consiglio che nel lunedì dell’ultimatum ha preso le distanze dal Movimento, per mostrarsi terzo.

Però alcuni pretoriani di Di Maio non si fidano. E hanno preso come uno schiaffo un passaggio di Conte: “Ringrazio i parlamentari della maggioranza e auspico un maggiore loro coinvolgimento nella interlocuzione col governo”. Chiara l’accusa a Salvini come a Di Maio: aver finora adoperato gli eletti come pigia-bottoni senza autonomia. Un peso sicuramente più pesante per il 5Stelle, reduce da ore difficili, “perché lunedì notte dopo il muro della Lega a Conte sullo Sblocca cantieri sembrava davvero finita” racconta un parlamentare di peso. Però il vicepremier si fa forza, e ieri mattina sale al Quirinale. “Un incontro programmato da tempo” giurano dai 5Stelle. Una chiacchierata che, dicono fonti vicine al Colle, serve anche per tenere l’ammaccato vicepremier sulla scena principale, ora ingombra del solito Salvini e da Conte. Così Sergio Mattarella chiede a Di Maio come vanno le cose, lo sonda, e il capo del M5S risponde con tutta la convinzione che può mostrare: “Presidente, io e il Movimento vogliamo assolutamente portare avanti il governo”.

Ma per continuare serve una rotta chiara senza liti ed eccessi, ricorda Mattarella, che al vicepremier ripropone la prima urgenza, la manovra finanziaria, quella che si presenta “complessa” come ha ammesso non a caso Conte. E viene ribadito che sforare dai vincoli europei può essere molto rischioso. Infine, Mattarella esorta anche a scegliere un “nome forte” per la commissione Ue. Di Maio prende nota e saluta. Fuori del Colle, le agenzie raccontano di una Lega ancora in guerra sullo Sblocca cantieri. Per questo, raccontano, Di Maio decide di chiamare il vicepremier. Ma c’entra, eccome, il giretto al Quirinale, dove gli hanno sollecitato di fare il punto con Salvini. Così il capo del M5S raccomanda subito al leghista la necessità di tornare al “rispetto istituzionale”. Gli riferisce del messaggio chiaro del Colle sulla manovra. Ma soprattutto chiede un cambio di passo: “Non voglio più svegliarmi ogni mattina e trovare una brutta sorpresa – dice in sostanza il 5Stelle –. Gli scontri devono finire, vediamoci per fissare i punti dell’agenda di governo, quelli indispensabili, da qui a due giorni”. Cioè prima che Conte torni dal viaggio in Vietnam. Tradotto, ora è necessario tornare a parlarsi tra i due leader eletti, per fronteggiare il capo del governo. Salvini ascolta, “si mostra disponibile” giurano. Quindi è possibilista sull’incontro, dove si potrebbe parlare anche di rimpasto, con Di Maio che è disposto a concedere uno o due ministeri. Nell’attesa sullo Sblocca cantieri si arriva a punto di caduta. “È l’effetto della telefonata” si consolano i 5Stelle. E sul blog delle stelle un post urla sollievo: “Se si lavora insieme, si trova sempre una soluzione. Vogliamo lavorare per il Paese”. Ma un big rovescia sarcasmo: “Pur di tirare avanti facciamo i democristiani”.

Invece dentro Montecitorio il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, vicino a Roberto Fico, scandisce: “Non esiste una maggioranza alternativa a questa in Parlamento”. E Salvini? “Mah, domenica ci sono i ballottaggi…”. Dopo il voto, sperano nel M5S, il leghista calerà l’intensità del fuoco. Ma il vertice con Di Maio, agenda di Salvini alla mano, non pare possibile prima di domani. E possibile è diverso da certo.

La rana e i 2 scorpioni

C’era una volta uno scorpione che voleva attraversare un fiume e, non sapendo nuotare, chiese a una rana, che si accingeva anch’essa alla traversata, di traghettarlo sull’altra sponda. La rana gli rise in faccia: “Non sono mica matta. Se ti carico in groppa, tu mi pungi e mi uccidi”. E lo scorpione: “Neanch’io sono matto: se ti pungo, tu muori avvelenata, ma io muoio annegato”. La rana si convinse e se lo caricò in groppa. Ma, a metà del guado, si sentì pungere la schiena e, con un fil di voce, domandò allo scorpione il perché di quel gesto suicida. Risposta: “Sono scorpione: è la mia natura”. E morirono tutti, per nulla felici né contenti.

La fiaba di Esopo, anche se è stata scritta 2600 anni fa, descrive alla perfezione lo stato attuale del governo Salvimaio. Il premier Giuseppe Conte, soprattutto dopo il suo bel discorso dell’altroieri alla nazione, rappresenta la maggioranza degli italiani che vorrebbero arrivare incolumi e sereni dall’altra sponda del fiume: cioè tenersi questo governo, nato appena un anno fa con grandi speranze e ancor più grandi promesse di cambiamento, legittimato dal voto popolare del 4 marzo 2018 e confermato il 26 maggio 2019 (sia pur con equilibri rovesciati) con consensi addirittura superiori. E sanno benissimo che ciò può avvenire soltanto se i due vicepremier usciranno dalla campagna elettorale e daranno retta al premier, rientrando nei ranghi di suoi vice e ministri dei rispettivi dicasteri e ripartendo dal contratto, senza più risse né spacconate. Cioè ricominceranno (o cominceranno) a governare. Ma Conte sa benissimo che durante la traversata può accadere di tutto. E vuole i pungiglioni di Lega e 5Stelle. Perciò ha fatto sapere coram populo che, prima di rimettersi in acqua, vuole sentirsi dire chiaro e forte dai due compagni di viaggio che non tenteranno di avvelenarlo. In soldoni, vuole che si interroghino sulla loro attuale natura e decidano subito se sono rane o scorpioni. Fino al 2018 i 5Stelle erano sempre stati scorpioni. Nati nel 2009 come movimento civico di opposizione, erano disposti al massimo a governare qualche città, ma non l’Italia. Dire “mai alleanze con nessuno”, significava precludersi qualsiasi possibilità di governo. Poi, con l’elezione di Luigi Di Maio a capo politico, il passo di lato di Beppe Grillo e la svolta governista nella campagna elettorale del 2018,culminata con l’arruolamento di una squadra di aspiranti ministri indipendenti (incluso Conte) e premiata dagli elettori col 33%, il Movimento si fece rana. E andò al governo, anche al costo di pesanti sacrifici.

Come quello di Di Maio, che aveva tutto il diritto di fare il premier e invece dovette cedere al niet di Salvini che pretendeva un atto di genuflessione dinanzi a B. e non lo ebbe mai (il che fa onore al capo 5Stelle). Nacque così l’opzione Conte, che si è rivelata una scelta felice e che oggi aggiunge al parterre nazionale un nuovo leader stimato e popolare. Ora però i 5Stelle dimagriti al 17% hanno molto più interesse a passare all’opposizione tornando scorpioni, che a restare in una maggioranza prigionieri dell’energumeno. A meno che, si capisce, Salvini non rientri nei ranghi e si ritrasformi da scorpione in rana. La Lega, nata anch’essa come scorpione contro la partitocrazia e il consociativismo della Prima Repubblica, è rana almeno dal 1994, quando andò al governo con B. per la prima volta. Bossi però si riscoprì scorpione dopo sette mesi e avvelenò il Caimano durante la traversata. Tornò rana nel governo Dini, col centrosinistra. Poi ridivenne scorpione contro “Roma Polo e Roma Ulivo” dalle elezioni del ’96 alla resa finale del ’99, quando tornò a Canossa, anzi ad Arcore, e segnò la fine di una carriera personale tutt’altro che ingloriosa, diventando la ruota di scorta del secondo e del terzo governo B., i peggiori della storia repubblicana. Salvini è una rana travestita da scorpione: si finge nuovo e rivoluzionario, ma in realtà senza il potere il suo partito non può stare, specie dopo il ritorno al governo, la conquista di tutte le regioni del Nord, lo sfondamento al Centro e il secondo posto al Sud. Eppure lo scorpione torna a fare capolino dopo le Europee, che han convinto Salvini di poter governare da solo (con la Meloni) senza neppure l’impopolare soccorso berlusconiano.
Per farlo, però, deve pungere Conte, e teme di affogare con lui: cioè di scontentare quell’elettorato, per ora maggioritario, anche tra chi ha votato Lega, che preferisce questo governo (magari rimpastato) alle elezioni. Non solo: Salvini sa bene che ottenere i voti per andare in Europa a battere i pugni, far la voce grossa, cambiare gli assetti e le regole Ue (missione già fallita: la nuova commissione Ue sarà molto simile alla vecchia e il sogno di una maggioranza “sovranista” è già svanito), è molto più facile che ottenerli per governare l’Italia. Per giunta da solo (ci provò Renzi e sappiamo com’è finito). Storicamente, non è mai accaduto che chi vince le Europee poi vinca le Politiche. Tantopiù che il M5S potrebbe presentarsi con un bottino di riforme più nutrito di quello leghista e con uno schema a due punte: Di Maio (o chi per lui) capo e Conte (popolarissimo negli ultimi sondaggi) candidato premier. Siamo proprio sicuri che, in un referendum sul prossimo premier fra Salvini e Conte, un elettore su tre sceglierà ancora il primo? Quindi: né Di Maio né Salvini possono permettersi il lusso di fare lo scorpione, infatti sperano entrambi in cuor loro che sia l’altro a pungere e affondare Conte e a pagare il prezzo della crisi. Ma Conte ha fatto sapere che presto li lascerà in riva al fiume, se non riceverà garanzie sulle condizioni che ha posto. Cioè ha rubato il pungiglione a tutti e due. Magari per usarlo lui.

La Terra è malata, ma è sorta l’Aurora

La battaglia ambientalista di cui Greta è paladina, trova una valida alleata nella norvegese Aurora Aksnes, nota come Aurora, buffa biondina dall’aspetto da elfo e androgino, che nelle sue canzoni parla di amore sì, ma per la Terra, la natura e l’umanità con tutte le sue differenze e contraddizioni. La sua musica è un incrocio tra folk nordico ed elettronica, e vederla su di un palco è come assistere a un’opera teatrale: il suo vivace viso pallido esprime il significato dei suoi testi, e le melodie, il canto e le danze lo amplificano. Tra pochi giorni (il 7.6) esce A Different Kind of Human (Step 2), il suo terzo disco, composto da 11 pezzi piuttosto politicizzati, che sommuovono volentieri il fondo viscerale e depresso del nostro Io, in un gioco inesausto di fantasia, che travolge le artificiali barriere dell’intelletto e della modernità per far riflettere. Anticipato dal singolo The Seed, è un album abbastanza incazzato, perché, spiega l’artista, “abbiamo un potere grande di cui non ci rendiamo conto finché non siamo veramente arrabbiati per qualcosa”.

Con Girotto il Tango è ancora più “Nuevo”

Revisited ha un significato che va ben oltre il letterale: qui è riandare sulla strada tracciata nel 1974 da Tango Nuevo e affrontarla con sguardo contemporaneo. Il trio di Girotto, pienamente consapevole che sia nel tango che nel jazz “non c’è spazio per la purezza dogmatica” va dritto all’essenza dei brani, ne penetra le melodie fino ritrovarne l’anima.

Con la complicità di un produttore come Siggi Loch (fondatore e direttore artistico della label tedesca Act) – che nel 1975 supervisionò l’uscita europea dell’album firmato da Piazzolla e Mulligan e realizzato dall’Atlantic Records, e che da allora accarezza il sogno di produrre una risposta altrettanto convincente – la rivistazione prende sonorità marcatamente jazz e l’originale orchestrazione per big band cede spazio all’intimità del trio. Spazzate via anche le tenui sfumature pop-jazz di Tango Nuevo ci si concentra sull’essenza della melodia. Le composizioni di Piazzolla (Close Your Eyes And Listen, Deus Xango, Twenty Years Ago, Years Of Solitude) e Mulligan (Aire De Buenos Aires) vibrano di nuova e inaspettata vitalità.

Il dialogo fra Girotto (sax baritono), Gianni Iorio (bandoneon) e Alessandro Gwis (piano e tastiere) si fa intenso, libero di costruire storie nuove. L’impronta di Girotto si fa sentire, il suo baritono ruggisce più di quello di Mulligan ma ritrova la propria cifra nella tenerezza dei passaggi più lirici, come in Etude For Franca, scritta da Mulligan per la fotografa italiana che diventerà sua moglie. Anche per Girotto, argentino di Cordoba che prima di approdare al Berklee di Boston ha suonato assiduamente con gruppi jazz e orchestre di tango, l’incontro con Tango Nuevo è stato momento importante del suo essere musicista: abbraccia entrambi i mondi del suo far musica.

Lo sguardo infatti si allarga, alla scaletta originale si aggiungono altre composizioni di Piazzolla: il “nuovo tango argentino” liberato dalla gabbia del ballo riafferma ancora una volta la propria dignità di musica da concerto con Escualo e Francanapa. Definirlo semplicemente rilettura ne diminuisce il valore.