Capaldi, una star divina ma “priva di ispirazione”

Ha 23 anni ed è scozzese di Glasgow, il volto acqua e sapone e una voce equivalente alla versione maschile di Adele. Lewis Capaldi ha l’urgenza di gridare: nel marzo 2017 pubblica online una ballata colma di tristezza per un amore finito troppo presto chiamata Bruises. “Deve esserci qualcosa nell’acqua perché ogni giorno diventa più freddo”: era l’incipit di un percorso di sofferenza interamente riversata nelle canzoni, prima in una manciata di Ep e adesso nell’album Divinely Uninspired To A Hellish Extent, in vetta alle classifiche mondiali, scalzando quasi dappertutto l’astro Billie Eilish.

Tutto il disco suona unplugged e low-fi: Hollywood – canzone su una relazione a distanza tra due oceani a prova di jet lag – gioca sull’equilibrio di un brano spoglio, voce e chitarra con una ritmica scarna. Il suo tour iniziato lo scorso 30 ottobre ha registrato il sold out per tutte le date – nessuna esclusa –, con artisti del calibro di Sam Smith, Rag’n’Bone Man e Bastille a chiamarlo come supporter per l’apertura del loro concerti.

Per certi versi il suo talento viene accostato a quello di Ed Sheeran forse per l’aria da nerd e per questo atipico modo di essere star controcorrente. È la voce la potenza lancinante di Lewis, riesce a colpire ed emozionare con rara intensità. Someone You Loved è il suo gioiello, sei settimane consecutive in testa nel Regno Unito: parla di chi non c’è più e di quanto lo si ami ancora spiritualmente, nonostante la morte. Il video è stato realizzato in collaborazione con l’organizzazione di beneficenza Live Life Give Life per sensibilizzare sul tema della donazione di organi.

“Sei come una canzone che non sono pronto a fermare”, canta in Grace; Lost On You parte come un brano di Toquinho per poi svilupparsi come una canzone americana anni ottanta (Foreigner, Bonnie Tyler etc). Forever è un’altra grandissima hit in attesa di esplodere mentre Hold Me While You Wait è – in assoluto – l’arrangiamento più riuscito oltre a essere un piccolo faro su un nuovo modo di costruire canzoni pop, sottile e incandescente allo stesso tempo.

Il suo profilo Instagram è stato senza dubbio uno degli ingredienti del suo successo, con una forte dose di autoironia rispetto ai soliti stereotipi delle star; anche il titolo dell’album è iperbolicamente ironico, “divinamente privo di ispirazione per una dimensione di merda”. Colpisce l’umiltà e il senso di “piedi per terra”: “Tutti dicono che sono uno stratega di marketing social ma state scherzando? Postare una foto di me sulla tazza del cesso? Sono solo uno che sta perdendo la testa su internet, penso sia divertente”.

La sua famiglia è per metà scozzese e metà italiana, mamma fa l’infermiera e il papà vende pesce, il suo eroe musicale è Paolo Nutini: “Mi piace dare al pubblico le stesse emozioni che mi hanno dato i miei cantanti preferiti, il resto non lo prendo troppo sul serio. A parte suonare dal vivo, l’unica cosa vera e tangibile”. Capaldi sarà nuovamente in Italia a Milano il 30 ottobre.

Spice Girls reloaded. Victoria è uscita dal gruppo. E le altre sono rimaste al 1994

Abbiamo chiesto a Maurizio Fiorino un pezzo sulle Spice Girls, muse del suo ultimo romanzo “Ora che sono Nato”. 

Riecco le Spice. Dopo una reunion del 2007, un musical a loro ispirato e l’esibizione alle Olimpiadi di Londra del 2012, le cinque terribili ragazze inglesi sono tornate con un tour in Inghilterra. Un ritorno a metà, visto il no-grazie di Victoria Adams, meglio conosciuta come la signora Beckham, che di esibirsi non ne vuole più sentire parlare.

Pochi, all’inizio, quando si facevano chiamare le Touch, ci avrebbero scommesso mezza sterlina. Siamo a Londra, negli anni 90, la storia inizia con un annuncio sul quotidiano The Stage. Due manager, padre e figlio, si mettono in testa di voler formare il primo gruppo pop della storia interamente al femminile, sulla falsariga dei Take That e degli East 17, idoli incontrastati dell’epoca. “Siete spregiudicate, estroverse, ambiziose e capaci di cantare e ballare?”. Questa la domanda in calce all’annuncio. Qualche settimana dopo, alle audizioni, si presenta un centinaio di ragazze. Ne vengono scelte dodici, infine cinque: Melanie Brown, Geri Halliwell, Victoria Adams, Melanie Chisholm e una certa Michelle Stephenson. Le girls, non ancora Spice, si trasferiscono in un casolare in campagna a provare passi di danza e a incidere qualche demo. Si fanno chiamare, appunto, Touch. Dopo qualche mese la Stephenson viene licenziata (o abbandona di sua spontanea volontà, non si saprà mai) e al suo posto arriva Emma Bunton. Il resto della storia la conosciamo tutti, più o meno: le Touch diventano Spice e le Spice diventano la prima girl band made in Uk.

Prima mossa, il singolo d’esordio. Scelgono Wannabe, e mai mossa fu più azzeccata. Nel giro di pochi giorni le Spice diventano una bomba a mano lanciata nel bel mezzo dell’adolescenza (e non solo) di mezzo pianeta. Già nel videoclip c’è tutto quello che serve sapere sulle cinque ragazze. Arrivano come scalmanate, di corsa – fuori c’è una festa della Londra bene –, sono già vestite da Spice perché non esiste e non esisterà mai altro termine per descriverle: le Spice sono Spice e basta, perciò si vestono da Spice, parlano da Spice, si comportano da Spice e così via. Entrano alla festa, ovviamente senza avere un invito, saltano e fanno capriole sui tavoli, ballano, rubano bicchieri di champagne. Insomma, guastano la festa e poi scappano via su un autobus, dirette chissà dove. Il tutto in un unico ciak. Risultato? Primo posto in classifica in 31 Paesi e, a oggi, oltre i quattrocento milioni di visualizzazioni su Youtube, quel singolo resta il più venduto nella storia della musica dei gruppi femminili.

A mettere la ciliegina sulla torta, qualche giorno dopo il debutto, fu il settimanale Top of the Pops, che coniò i soprannomi delle ragazze. Mel B., la più esuberante delle cinque, diventò Scary Spice, alter ego, nonché eterna rivale, di Geri la rossa, la più sfrontata e libertina, alias Ginger Spice. Emma, l’ultima arrivata, diventò Baby Spice: vestita quasi sempre di rosa, occhioni azzurri, voce angelica. Victoria Adams diventò Posh, ovvero la più sofisticata e meglio vestita. Cantava poco, si muoveva ancora meno, un sorriso neanche a pagarlo. Dichiarò, aveva ventun’anni all’epoca, che sorridere le faceva venire le rughe e qualche anno fa ammise che ai concerti il suo microfono era spento e le sue basi pre-registrate. Genio. Al contrario di Mel C., la sportiva, da qui il soprannome di Sporty Spice, che cantava e si muoveva meglio di tutte e cinque messe assieme. Seppur diverse, l’amalgama funzionò alla perfezione. Punti in comune? Indossavano tutte gli zatteroni, professavano il girl power e cantavano “friendship never ends”.

Paragonarle ai Beatles, numericamente parlando, non è una follia. Per avere un’idea di ciò che sono riuscite a fare con soli quattro dischi, basta dire che col primo album Spice e il secondo Spiceworld, seguiti da Forever e un Greatest Hits del 2007, hanno venduto in totale 85 milioni di copie in tutto il mondo e ciò ha fatto di loro la band femminile più venduta nella storia della musica e, per l’appunto, il più grande gruppo pop inglese dopo i Beatles.

Anche tutto ciò che hanno sfiorato appena è diventato oro colato: un film campione di incassi, Chupa Chups coi loro nomi, lattine di Pepsi, diari e scarpe coi loro visi stampati, una Polaroid spicegirlizzata… Poi arrivarono le liti. Dapprima col management, poi tra di loro. Pare siano state proprio Mel. B e Geri a decretare la fine delle Spice Girls. Nel maggio del 1998, Ginger dirama un brevissimo comunicato stampa in cui dichiara di aver lasciato le ragazze per divergenze: “Sono sicura che il gruppo continuerà ad avere successo e auguro loro tutto il meglio”. Il banco di prova fu lo storico duetto a Modena con big Luciano. Al Pavarotti & Friends del 1998, dopo giorni di smentite e comunicati stampa, le Spice ci andarono senza Geri e l’effetto fu devastante, l’inizio di una lenta agonia conclusasi due anni dopo e alcuni tentativi, vani, di rianimazione. Ma oggi ritornano.

Era pro migranti l’esponente della Cdu ucciso a colpi di pistola

Non era un politico di primo piano ma aveva preso una posizione chiara sul tema dell’accoglienza ai migranti proprio quando in Germania, su questo tema, le forze di estrema destra e populiste iniziziavano a polemizzare riscuotendo non pochi consensi. L’omicidio di Walter Luebcke, che aveva militato a livello locale, in Assia, nella Cdu, scuote la Germania nonostante la vittima fosse poco nota: durante la crisi dei migranti del 2015 si battè per l’accoglienza dei rifugiati entrando in rotta di collisione con il movimento di estrema destra di Pegida. Luebcke è stato ucciso – questo emerge dai primi rilievi della polizia scientifica . con un proiettile di piccolo calibro

“Era un costruttore di ponti”, ha dichiarato il ministro-presidente dell’Assia, Volker Bouffier, ricordando l’impegno a favore dei più bisognosi e degli emarginati di Luebcke. Durante la crisi dei migranti, nel 2015, il politico della Cdu si era fatto molti nemici tra le fila del movimento di estrema destra Pegida quando, in occasione di una manifestazione cittadina in cui si discuteva dei centri di prima accoglienza per migranti in Assia, aveva detto a proposito del valore dell’aiuto nel momento del bisogno: “Chi non condivide questi valori può lasciare questo paese in ogni momento, se non è d’accordo. Questa è la libertà di ogni tedesco”.

È possibile che frasi prnunciate quattro anni fa abbiano determinato la fine di Luebcke? La polizia per il momento non avanza ipotesi e procede ad ampio spettro, analizzando sia la militanza politica della vittima che i suoi contatti personali e professionali. Il corpo è stato trovato sulla terrazza dell’abitazione a Wolfhagen, alla periferia della città, poco dopo la mezzanotte di sabato. La responsabile della polizia giudiziaria Sabine Thurau, conferma: “Non abbiamo ancora indicazioni sui colpevoli e, soprattutto, sul movente, indaghiamo in tutte le direzioni”.

“Gli estremisti hanno rovinato la Siria”

“Vivo in Italia da trent’anni ma non ho mai dimenticato il mio paese natale, la Siria. Per questa ragione ho sempre cercato di fare qualcosa per aiutare il popolo siriano”.

A parlare è Yasser Mohammed Tayeb, 50 anni, di Aleppo, trasferitosi a Bologna nel 1990 dove lavora come imprenditore.

Dal 2014 è presidente regionale e capo ufficio stampa dell’Acasi, acronimo della Comunità siriana in Italia.

Ci può spiegare in cosa consiste il suo lavoro di ufficio stampa presso l’Acasi ?

Mi occupavo di contatti con le istituzioni locali e nazionali per aiutare il popolo siriano, nella mia veste partecipo anche a conferenze e dibattiti sulla questione siriana in veste di relatore e di interprete.

E come presidente a livello regionale?

Lo sono ancora ma solo sotto il profilo burocratico, in quanto mi sono dimesso. Io, comunque, personalmente, negli ultimi due anni mi sono dedicato al volontariato locale nel paesino di Anzola Dell’Emilia, dove vivo e lavoro. Ho fatto varie donazioni alle società sportive e realtà sociali. Tramite la mia attività ho appena donato un defibrillatore alla parrocchia locale.

A proposito di fede, cosa pensa dei gruppi estremisti religiosi che sono intervenuti nel conflitto civile siriano rendendolo, se possibile, ancora più feroce e interminabile?

Penso tutto il male possibile. Dicono di ispirarsi all’islam ma uccidendo e brutalizzando la popolazione tradiscono i precetti del Corano. Io personalmente non solo non sono mai stato legato a nessuna delle visioni radicali sbandierate da questi estremisti e criminali, ma le contrasto con tutte le mie forze. La nostra associazione fin dall’inizio del conflitto ha denunciato la presenza di estremisti dentro i confini della Siria, ritenendola un cancro che ha provocato danni incalcolabili in termini di vite umane perdute e circa la percezione che il mondo ha ora del popolo siriano e dell’intero paese. Che è sempre stato un luogo di convivenza pacifica fra cittadini appartenenti a religioni diverse. Ho sempre ritenuto che la libertà di un popolo si ottiene con manifestazioni pacifiche e non con conflitti armati che causano vittime e distruzioni

L’Spd è stanco e Merkel non si sente tanto bene

A guidare il Partito socialdemocratico in forma commissariale dopo le dimissioni della sua leader, Andrea Nahles, sarà un triumvirato: la governatrice della Renania-Palatinanto Malu Dreyer, l’altra governatrice del Mecklemburgo-Pomerania Manuela Schwesig e Thorsten Schäfer-Gümbel, il candidato Spd uscito sconfitto alle ultime elezioni in Assia. Un tris, appunto, e nemmeno un tris di assi. Del resto il posto alla guida dell’Spd è in questo momento tutt’altro che desiderabile. Chiunque lo tocchi si brucia. È per questo che i candidati più papabili, uno dopo l’altro, si sono affrettati a dirsi indisponibili: per primo si è tirato indietro Martin Schulz, già triturato dai lunghi coltelli Spd poco più di un anno fa, poi ha fatto il passo indietro il ministro delle Finanze Olaf Scholz, che punta invece a concorrere alla cancelleria nelle prossime elezioni, e infine il governatore della Sassonia, Stephan Weil, tra i pochi insieme alla Dreyer ad aver portato a casa una vittoria oer l’Spd negli ultimi anni.

Ma la formula del trio non metterà al riparo a lungo l’Spd dalla sua debolezza, ormai conclamata, e nemmeno servirà a mettere in sicurezza il governo di coalizione Spd-Cdu-Csu, per cui è iniziato ufficialmente il conto alla rovescia. La nuova leadership multipla del partito socialdemocratico dovrà infatti soltanto traghettare il partito fino al prossimo congresso che si terrà, forse, in dicembre. Il nuovo leader o la coppia di leader che verranno eletti dovranno decidere quando staccare la spina a una Grande coalizione che non vuole più nessuno nell’Spd. Le dimissioni di Nahles, annunciate domenica mattina, sono il risultato di un combinato di diversi elementi: un risultato elettorale alle europee peggiore di sempre con il 15,8% dei consensi e oltre 3,5 milioni di voti in meno, uno stillicidio di critiche, a partire dal peso massimo dell’Spd Sigmar Gabriel, e un ulteriore sondaggio nel fine settimana che dava il partito ulteriormente sceso al 12%.

Il fatto rilevante non è l’ennesima dimissione di un capo partito dopo la perdita delle elezioni, il fatto significativo è che queste dimissioni cadono in un momento di particolare difficoltà del partito socialdemocratico, in una crisi di identità da molti considerata irreversibile. I temi storici cari ai socialdemocratici – i diritti sociali, le pensioni, il salario minimo – non scaldano più il cuore dell’elettorato Spd, mentre i temi che muovono le passioni degli elettori di sinistra, come l’europeismo, sono rimasti bloccati al palo dagli alleati di governo cristiano-democratici.

Ad ammetterlo sono gli stessi dell’Spd. Appena una settimana fa il sottosegretario per l’Europa agli Esteri, il socialdemocratico Micheal Roth, commentando “la sconfitta amara” alle europee in un incontro con la stampa estera ha ammesso candidamente che alle elezioni “il partito non è stato preso sul serio nel suo anelito europeista come altri partiti”. Paradossalmente sull’europeismo sono risultati più convincenti i verdi dell’Spd, che pure era riuscito a ottenere di mettere l’Europa come primo punto nelle trattative per il contratto di governo. L’unione Cdu-Csu invece è riuscita, in una difesa a oltranza degli interessi nazionali, a non cedere un centimetro di sovranità all’Unione europea. Anche per questo la cancelliera Angela Merkel e la presidente della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer non hanno interesse a staccare la spina alla Grosse Koalition. “Non credo che il trio sia un segnale di instabilità” ha detto oggi Merkel, rispondendo a chi le chiedeva un commento.

A Berlino tuttavia l’ipotesi di un’uscita dell’Spd dal governo di coalizione non è esclusa, almeno al livello di analisi. E gli scenari possibili si moltiplicano. La prima opzione è che si vada ad elezioni entro i primi mesi del 2020, in tempo per la guida tedesca del semestre europeo, la seconda è che la cancelliera si metta alla testa di un governo di minoranza, cercando di volta in volta maggioranze variabili per ogni provvedimento. La terza opzione è che si crei in Parlamento una nuova coalizione di governo, che sostituisca i socialdemocratici con verdi e liberali (la cosiddetta coalizione Giamaica, dai colori dei partiti che richiamano quelli della bandiera del centro-America). Questa opzione al momento è la meno accreditata.

The Donald, fumo di Londra

È un presidente degli Stati Uniti in versione commesso viaggiatore, quello che è atterrato a Londra in visita ufficiale, un prologo – poco gradito a Sua Maestà la Regina Elisabetta e ai suoi sudditi – delle celebrazioni per il 70° anniversario dello Sbarco in Normandia. Erano un’altra America, quella della ‘grande generazione’, e un’altra Inghilterra, quella di Winston Churchill capace di ‘lacrime e sangue’. Fin dall’inizio della sua presidenza, Trump il magnate ha il vizietto di mescolare il sacro del servizio pubblico con il profano dell’interesse privato. Lo fa di continuo: in Arabia Saudita e più in generale in Medio Oriente, dove fa affari anche suo genero Jared Kushner; in Russia, dove lo tentava l’idea d’una Trump Tower a Mosca, e nel sub-continente indiano.

Quando non agisce lui in prima persona manda gli inviati di famiglia, il figlio maggiore Donald jr e il rampollo numero tre Eric: Donald jr, che non pare un fulmine di guerra, s’è fatto beccare con il sorcio in bocca in India, dove ha dovuto abbozzare e cambiare programmi. Quanto a Tiffany, l’unica figlia della seconda moglie, lei non fa affari, ma spende i soldi dei contribuenti Usa per andare in vacanza a Belgrado. In Gran Bretagna, il sito The Trump Organization annovera la proprietà in Scozia di resort, cioè tenute con alberghi di lusso e campi di golf, a Turnberry e Aberdeen, e di una società immobiliare, la McLeod House & Lodge. Trump era a Turnberry, per inaugurarvi il resort, il 23 giugno 2016, non a caso il giorno della Brexit, per la quale aveva fatto campagna e il cui successo salutò come fosse una sua vittoria.

Gli diedero corda gli inglesi nostalgici della ‘relazione privilegiata’ con gli Stati Uniti, che credevano di ritrovare dopo la Brexit; ma certo trangugiarono amaro gli scozzesi, che erano e che sono contro la Brexit e che sarebbero pronti a barattare la permanenza nell’Ue con l’uscita dal Regno Unito, riscattando, secoli dopo, Braveheart e Maria Stuarda. Il clima in Gran Bretagna nei confronti di Trump si è talmente deteriorato che The Guardian titola: “Il presidente non è il benvenuto”. E una vignetta di Uber mostra il presidente mentre vende perline e cianfrusaglie, in stile Cristoforo Colombo, a un Nigel Farage che si compra tutto, pronto a fare credere ai suoi connazionali che sono gioielli preziosi. Se si lascia fare a quei due, Donald e Nigel, la Brexit è fatta in 48 ore: ‘no deal’, frontiera chiusa fra le due Irlande e un Regno Unito suddito della sua ex colonia.

Trump arriva a Londra accolto, oltreché dalla Regina, dalla premier Theresa May, che, al passo dell’addio – lascerà l’incarico il 7 giugno – offre al suo Paese l’ultimo sacrificio: fare buon viso all’ospite sgradito, che l’ha spesso usato nei suoi confronti toni offensivi, che ha ripetutamente tifato in modo palese per il suo grande rivale tory, il rozzo ma efficace ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson, e che ha ‘fatto comunella’ con tutti i partiti di Farage, Ukip prima e Brexit ora. Anche il sindaco di Londra, Sadiq Aman Khan, musulmano, critico della visita, ha subito i grevi attacchi del magnate presidente, che gli ha dato dello “stupido”.

Il programma del soggiorno a Londra di Trump non prevede bagni di folla: le manifestazioni che s’annunciano sono tutte di contestazione, come già avvenne lo scorso anno, quando la visita non era di Stato; e come era sempre avvenuto con George W. Bush, che una volta restò ‘prigioniero’ per due giorni a Buckingham Palace, costretto ad ammirare la galleria della Regina non potendo arrivare al British Museum. Ancor prima che Trump entrasse in carica, anzi che fosse eletto, Newsweek aveva dettagliato come i rapporti d’affari internazionali della sua ‘azienda famiglia’ potessero compromettere la sicurezza nazionale. In un ampio e documentato servizio, pubblicato il 14 settembre 2016, Kurt Eichenwald, che scrive anche su Vanity Fair, si chiedeva che cosa sarebbe successo se il presidente non avesse tagliato, o almeno sospeso, affidandoli a un blind trust, i legami con la Trump Organization (il che non è assolutamente successo).

Per farsi in modo un po’ meno plateale i fatti propri, i Trump usano, o usavano, perché il giochino è ora diventato palese, la Trump Foundation, ufficialmente messa su per fare buone azioni, ma spesso utilizzata come cassaforte di famiglia per affari e/o pagamenti più o meno leciti, negli Stati Uniti e con l’Universo mondo. Tant’è vero che la magistratura ci vuole vedere chiaro e ha aperto un’inchiesta, per sventare la quale Trump il magnate aveva deciso di chiudere la Foundation. Ma è stato bloccato dai magistrati: prima si verificano i conti e si vede se è tutto in regola, poi si smantella.

Mercatone Uno, pm di Milano indagano per bancarotta

Il crac della Shernon Holding di Valdero Rigoni che nell’agosto 2018 ha acquistato Mercatone Uno, oltre al pesantissimo strascico occupazionale, ora si prepara ad avere anche conseguenze giudiziarie. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta a carico di ignoti in relazione al fallimento della catena italiana di mobili. L’indagine è stata affidata al procuratore aggiunto Riccardo Targetti, che coordina il pool reati fallimentari, e al pm Roberto Fontana. Era stata la stessa Procura di Milano a presentare l’istanza di fallimento accolta il 23 maggio scorso, respingendo il concordato preventivo richiesto da Rigoni. Nel provvedimento, i giudici hanno evidenziato “l’elevato debito maturato in soli 9 mesi di attività per oltre 90 milioni, i costi fissi di gestione per oltre 5 milioni al mese, l’assenza di credito bancario, la totale assenza di fiducia dei fornitori che rifiutavano le prestazioni di merci in mancanza del loro pagamento immediato”. Il drammatico epilogo della crisi del gruppo, un tempo tra i leader nella sua fetta di mercato, si è riverberato sui 1.860 lavoratori del gruppo ma anche sulle 500 aziende di fornitori che avanzano oltre 200 milioni non pagati.

Assedio di Nissan-Renault a Fca. E il governo francese detta la linea

Fiat Chrysler Automobiles, la società automobilistica “apolide” e sempre meno italiana (con la sede legale e fiscale ad Amsterdam e a Londra e il cuore produttivo e di mercato negli Usa) ha un bisogno assoluto di allearsi con Renault e Nissan, viste le sue difficoltà per le vendite in Europa, l’assoluto deficit sul fronte delle auto elettriche e l’intenzione di un parte degli eredi Agnelli di defilarsi sempre di più, incassando il maggior numero di dividendi possibili. Ma sul trionfale cammino verso l’accordo con i francesi prima e quello con i giapponesi poi – celebrato e vantato negli ultimi 10 giorni sui media – proprio ieri si è materializzato un primo e duplice intoppo.

Più ingombrante quello allestito dal governo di Parigi (che detiene il 15% di Renault, destinato scendere al 7 nella diluizione che, comunque, con gli altri soci consentirà di fronteggiare alla pari la partecipazione di Fca) e proprio alla vigilia del consiglio di amministrazione del gruppo francese che oggi dovrebbe discutere la proposta di alleanza con l’azienda guidata da John Elkann. Ancora interlocutorio, invece, ma per questo meno strategico, quello provocato da Nissan che sembra parlare a nuora (Renault) affinché suocera (Fca) intenda: “Servirebbe una revisione fondamentale della relazione esistente tra noi e i francesi”. Uno scenario complesso, che ha sullo sfondo l’inerzia del governo italiano che sempre ieri (come una settimana fa), si è limitato prima a una battuta del premier Conte (“Seguiamo l’operazione con molta attenzione, ma non intendiamo orientarla. Ci interessa conservare l’occupazione”), seguita in serata da una più lunga, ma ancora neutrale dichiarazione del vicepremier Di Maio affidata a Facebook: “Lo Stato ha già supportato e supporta Fca in Italia e lo ha fatto attraverso i ministeri che ho l’onore di dirigere, sia nell’interesse dei lavoratori che dell’azienda. Nel rispetto della tradizione di un marchio indissolubilmente legato al Paese e alla sua storia e che ci auguriamo continui a essere rispettato. È un’operazione di crescita e sviluppo aziendale come da noi intesa”.

Ma vediamo i vari capitoli di un weekend che ieri ha provocato in Borsa un calo del titolo di Fca, dopo il balzo dell’8% di una settimana fa, seguito poi da 5 sedute di fila col segno negativo: ieri -1,7 a 11,3 euro. Tutto era cominciato sabato scorso a Parigi: quando il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire ha incontrato John Elkann e gli ha comunicato le nuove condizioni che vogliono riequilibrare se non addirittura ridisegnare verso la Francia i rapporti di forza.

I punti caldi sono 4, resi noti da un portavoce dell’esecutivo: “Le Maire ha detto a Elkann che la Francia vuole la sede operativa a Parigi; che sia previsto un dividendo straordinario per i soci Renault simile a quello di 2,5 miliardi di euro annunciato da Fca e un posto nel cda per il governo”. Poi due condizioni: che il presidente di Renault, Jean-Dominique Senard diventi ad (presidente diventerebbe John Elkann) e lo rimanga almeno per un mandato di quattro anni, la stessa durata chiesta per le garanzie sugli attuali livelli occupazionali, in un primo momento indicate in soli due anni. Le stesse fonti governative hanno concluso spiegando la strategia del governo francese: “La proposta di alleanza avanzata da Fca non può diventare un prendere o lasciare. Continueremo a guardare all’affare nella sua interezza, per capire se sia giusto o meno”. Insomma, se il cda Renault darà l’ok alle trattative, il governo francese potrebbe diventare un terzo incomodo.

A sua volta, da Tokyo, Nissan (che detiene il 15% di Renault che ha invece il 43% del gruppo giapponese) ha precisato le proprie intenzioni, non dando nulla per scontato. L’ad Hiroto Saikawa ha dichiarato che la fusione può creare “nuove opportunità” nell’alleanza, ma una volta realizzata “richiederebbe una revisione fondamentale della relazione esistente tra Nissan e Renault” perché “altererebbe in modo significativo la struttura del nostro partner francese”. Infine, il ceo della casa giapponese ha aggiunto che “dal punto di vista della protezione degli interessi di Nissan”, il gruppo nipponico “analizzerà e considererà i suoi rapporti contrattuali esistenti e il modo in cui operare nel business”.

Un botta e risposta che, nelle indiscrezioni, indica adesso anche i possibili assetti del futuro colosso automobilistico: distribuite le due cariche più importanti tra Fca e Renault, altri quattro posti a testa toccherebbero ai due alleati (con uno riservato allo Stato francese tra quelli destinati ai soci dell’azienda di Parigi) e un’undicesima poltrona nel cda riservata a Nissan, capace a quel punto di far pendere la maggioranza a discapito di Elkann & C. I giapponesi sono strategici per le sorti della fusione, poiché sono all’avanguardia sia nella produzione che nella ricerca sull’auto elettrica e posseggono i contatti commerciali e fiduciari con la Cina e con la Corea, oggi monopoliste delle batterie elettriche. Scenari di sviluppo che vedono molto indietro Fca e l’Italia, esclusa anche dall’accordo tra Francia e Germania per la ricerca sulle batterie.

Un tema, questo, che potrebbe essere l’oggetto dell’iniziativa del silente governo italiano, in difficoltà davanti all’azienda di Elkann, ormai di diritto olandese e, dunque, di fatto non più italiana, pronta ad allearsi con chi è partecipato dallo Stato francese, ma che ha ancora stabilimenti e occupati nel nostro Paese, anche se spesso in regime di cassa integrazione. Convocando Fca e pretendendo di sapere che cosa intenderà fare nelle sue fabbriche italiane.

Dentro il Bilderberg: ecco di cosa si discute davvero

Cinque anni fa i post sui social durante il meeting Bilderberg erano 20.000, nel 2019 sono stati poche centinaia. I contestatori convinti che nell’hotel Fairmont a Montreux, in Svizzera, si prendessero decisioni segrete erano una decina di pacifici Gilet gialli e quattro blogger. Eppure questo evento, il numero 67, continua a far discutere. Io ho partecipato, da giovedì sera a domenica. L’aspetto più dibattuto è la “segretezza”, anche se online viene pubblicata la lista sia dei partecipanti che degli argomenti. I meeting del Bilderberg iniziano nell’omonimo hotel nel 1954 a Oosterbeek, su iniziativa del principe d’Olanda Bernardo. Durante la Guerra fredda si moltiplicano le iniziative per consolidare i rapporti tra élite di Europa e Stati Uniti in chiave anti-comunista. Della maggior parte di questi programmi oggi resta poco, ma il Bilderberg resiste e fa discutere. Perché nessuno capisce bene cosa sia: non è un think tank, non produce documenti, non è neppure un’organizzazione (c’è solo una struttura amministrativa e un comitato per gli inviti), non si diventa “membri” come invece accade per l’Aspen Institute o il Rotary. È un evento che nasce e muore in un weekend.

Ogni anno vengono selezionati 130-150 partecipanti: alcuni sono vecchi saggi la cui opinione è sempre utile, come l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger o l’attivista per i diritti civili degli affroamericani e uomo d’affari Vernon Jordan, altri sono persone con un incarico di rilievo (il genero di Donald Trump e inviato per il Medio Oriente Jared Kushner), altri esperti dei temi in agenda (Nick Bostrom per l’intelligenza artificiale), altri ancora leader emergenti (Stacey Abrams, senatrice della Georgia). C’è anche qualche giornalista, da Lilli Gruber ai direttori di Bloomberg ed Economist. Alcuni membri facoltosi finanziano l’organizzazione, ciascuno dei partecipanti si paga viaggio e albergo (a cinque stelle).

E la segretezza? Per rispondere bisogna spiegare cosa si “fa” al Bilderberg. Questi meeting sono l’apoteosi della cultura americana del networking. Non solo scambio di biglietti da visita, ma costruzione di rapporti personali come ponte tra culture, professioni e idee diverse. Tutto è pensato per questo. Fin dalla prima cena con free sitting. I posti a tavola non sono assegnati, puoi trovarti accanto a Kissinger come a Patrice Caine, ad della Finmeccanica francese Thales o a Robert Rubin, ex segretario al Tesoro Usa. Il clima è informale, tutti parlano con tutti, anche con il re dell’Olanda Willem-Alexander.

Venerdì il primo panel comincia già alle 8 del mattino, l’ultimo finisce alle 19, un paio di pause caffè e un rapido pranzo a buffet. Un moderatore, due-tre relatori, niente slide, mezzora di interventi e poi dibattito. Relatori e pubblico, tra un panel e l’altro, si scambiano di ruolo. Kissinger, a 96 anni, sale due volte sul palco, una volta da intervistato, l’altra da intervistatore. Quando la domanda dal pubblico supera il minuto, scatta un lampeggiante rosso. I posti sono in ordine alfabetico: il mio vicino di banco è lo storico di Harvard, Niall Ferguson. Ci deve essere una qualche gerarchia segreta e implicita per le domande, lui riesce sempre a farsi dare la parola, io no.

Brexit, Intelligenza artificiale, minacce cyber e poi Cina, tanta Cina. Blogger e curiosi si chiedono: “Che cosa ha da dire il Bilderberg su questi temi?”. La risposta è difficile. La platea è abbastanza omogenea (europei o americani, anglofoni, cosmopoliti), ma di rado ci sono due che la pensano allo stesso modo. Ci sarà un secondo referendum in Gran Bretagna oppure ormai l’uscita dall’Ue è certa e bisogna solo auspicare che sia anche rapida? La Russia di Vladimir Putin è un vero pericolo o è aggressiva per mascherare le sue fragilità? Ognuno ha un’opinione diversa, nessuno sente l’esigenza di arrivare a una sintesi. Ne azzardo una io, a bilancio dei quindici panel. L’Europa è ai margini dei pensieri degli Stati Uniti, concentrati sulla Cina: gli americani hanno confidato per qualche anno che insieme al benessere a Pechino arrivassero riforme, democrazia e mercato. Ora hanno capito che non succederà e reagiscono di conseguenza. L’Ue tentenna.

Nella sala conferenze dell’hotel Fairmont non c’è Greta Thunberg, ma banchieri, imprenditori e ministri sembrano consapevoli del fatto che il cambiamento climatico o si ferma ora o sarà troppo tardi. E che le tecnologie verdi sono una opportunità di business, purché l’uscita dal carbone e dalle energie fossili avvenga senza troppi traumi. Poi c’è l’intelligenza artificiale: “Non è una questione filosofica, ma militare”, riassume un partecipante. Ricorre l’analogia con il progetto Manhattan. Ma Enrico Fermi lavorava all’atomica per il governo Usa, non per aziende della Silicon Valley guidate da nerd che non hanno finito il college. Alcune parole che riempiono giornali e tv non vengono mai citate: populismo, migranti, disuguaglianza.

E l’Italia? È nell’agenda di alcuni partecipanti, ma solo per le vacanze in Toscana. A cena, qualcuno chiede “che farà adesso Salvini?”. Altri se Matteo Renzi, qui ancora popolare, “avrà un futuro in politica”. Renzi, che ha imparato l’inglese e continua a essere percepito come il giovane premier riformatore ma sconfitto, era al suo primo Bilderberg.

Ma torniamo alla segretezza. La regola è “Chatam House”: si possono usare le informazioni, ma non attribuire virgolettati ai singoli partecipanti. Nel caso del Bilderberg un principio standard per i seminari a porte chiuse viene contestato: i cittadini non hanno forse il diritto di sapere? Due risposte. Primo: tutti i partecipanti sono già attivi nel dibattito pubblico, dove però devono pesare le parole. Se un banchiere chiede informazioni sull’intelligenza artificiale, qualche analista penserà che vuole investire nel settore, se un ministro esprime un dubbio sull’Iran sembrerà una posizione dell’intero governo. La formula del Bilderberg permette interlocuzioni senza conseguenze (e senza gaffe). Ma c’è una seconda ragione: il meeting si regge proprio sul chiudere persone di mondi diversi insieme per qualche giorno, le discussioni iniziano al cocktail, proseguono nella sala conferenze, si sviluppano a cena, finiscono al bar dell’hotel con whiskey che gli esperti giurano essere notevoli. Non c’è differenza tra “lavori” e pause. Quella che dall’esterno pare segretezza, da dentro risulta assenza di distrazioni e formalità. Manager, primi ministri e accademici che di norma non hanno cinque minuti per una telefonata, per un intero weekend si dedicano a riflessioni ad ampio spettro e incontri con persone che mai avrebbero incrociato altrove. La “selezione all’ingresso” dovrebbe garantire che non sarà tempo sprecato. Di complotti, io non ne ho visti. A parte un bigliettino allungato con discrezione sospetta al mio vicino Niall Ferguson. Ma era solo l’invito a sedere a cena al tavolo di uno degli organizzatori.

L’ultima sera l’aperitivo è su una barca sul lago di Ginevra, la cena preparata servita in un castello. La riservatezza limita l’ostentazione, ma il Bilderbeg è eccome un appuntamento di élite. Anzi, è il laboratorio di una nuova élite transatlantica oggi non più prodotta spontaneamente dalla globalizzazione. Tra Brexit, Trump e caos nell’Ue, le due sponde dell’Atlantico sono più lontane ora che al tempo del primo meeting nel 1954.

Se il comitato che seleziona i partecipanti ha avuto fiuto, qualcuno dei presenti a Montreux accederà a posizioni ancora più alte. Magari il finlandese Erkki Liikanen prenderà il posto di Mario Draghi alla Bce, forse Stacey Abrams sarà la nuova stella dei Democratici Usa. O forse Renzi smetterà di fare discorsi a pagamento in giro per il mondo e fonderà un suo partito. E allora le teorie del complotto potranno ricominciare.

De Girolamo star e perché si entra in politica: l’unico vero reality

È arrivato primo il celebre norvegese Lasse Matberg in coppia con la celeberrima Sara Di Vaira; ma la la trionfatrice morale di Ballando con le stelle è stata Nunzia Di Girolamo. Ci si chiede se la nostra classe politica sia all’altezza delle proprie competenze; ebbene, l’ex ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali del governo Letta ha dimostrato coi fatti la propria preparazione. Samba, salsa bachata, quick sulle note di Lady is a tramp, tango sulle note di Amami ancora… Che dire? più alimentari e soprattutto forestali di così si muore. Una lezione snobbata dalle élite (la giuria di Ballando), ma acclamata dal popolo con il 27% del televoto, stracciata la stessa Suor Cristina. Ma, veniva da chiedersi tra un casqué e un ocho milonguero, perché dunque si entra in politica? Molte risposte si leggono sulle prime pagine, ma ce n’è una su tutte: per sfondare in tv. C’è un solo, vero talent show nell’Italia di oggi, si chiama politica, e De Girolamo non ha sbagliato un colpo. Scenate Sgarbi style con i giurati (le élite non comprendono il popolo), liti con il compagno Raimondo Todaro, completini fetish e figure audaci celebrate da Google (“Di Girolamo a gambe all’aria, mai così erotica”). Un compendio della classe e dell’autorevolezza richieste in tv tale da farle bruciare le tappe. Da ministro di Letta a opinionista di Giletti. Da opinionista a ballerina. Da ballerina a candidata alla conduzione di Linea Verde. È nata una stella.