Appalti pilotati, divieto di dimora per il sindaco di Melfi

Un divieto di dimora è stato notificato al sindaco di Melfi (Potenza) Livio Valvano (Psi), e al presidente del consiglio comunale Luigi Simonetti, con l’accusa di turbata libertà degli incanti in relazione ad un bando di gara per l’installazione delle luminarie natalizie. Valvano e Simonetti avrebbero agito in concorso con l’imprenditore Francesco Roberto, titolare di una ditta con sede a Scampitella (Avellino), al quale è stata notificata la stessa ordinanza di divieto di dimora. Secondo la Procura della Repubblica di Potenza, i tre – insieme al dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Melfi Michelarcangelo Moscaritolo – avrebbero “confezionato un bando gara ‘su misura’ per l’assegnazione dell’appalto per noleggio, installazione, manutenzione e smontaggio delle luminarie”. Durante le indagini della Polizia, inoltre, sarebbe stato accertato “un accordo corruttivo” fra lo stesso Moscaritolo e l’imprenditore edile Antonio Ferrieri, “consistito nella dazione di utilità a favore del funzionario al fine di agevolare l’impresa”: i due, inoltre, su disposizione del gip di Potenza, sono stati posti agli arresti domiciliari con l’accusa di “corruzione elettorale”.

Tangenti Lombardia, “Jurassic Park” rimane in carcere

Deve restare in carcere Nino Caianiello, che imprenditori e compagni di partito a Varese e in Lombardia chiamavano “Jurassic Park” per la sua voracità e sete di potere. L’uomo che per i pm era il “burattinaio” del sistema di tangenti, nomine, appalti pilotati e finanziamenti illeciti in tutta la regione e in Piemonte, nonostante sia stato arrestato un mese fa, può ancora inquinare le indagini. A decidere è stato il tribunale del Riesame di Milano respingendo l’istanza di revoca della misura cautelare per l’ex coordinatore locale di Forza Italia, ritenuto il “ras” del partito in Lombardia. Rigettata anche la questione di competenza territoriale dell’indagine presentate dalla difesa, che sosteneva che l’inchiesta dovesse essere trasferita a Busto Arsizio. Caianiello, accusato di associazione per delinquere, corruzione e finanziamento illecito e difeso dall’avvocato Tiberio Massironi, ha già chiesto di essere interrogato dai pm milanesi e verrà convocato tra la fine della settimana e l’inizio della prossima. Nel frattempo, il legale sta studiando un ricorso in Cassazione. Caianiello, per gli inquirenti il “grande manovratore” del sistema corruttivo, sostiene di non aver mai preso “soldi in modo illecito”.

La categoria è caduta in mano a un’oligarchia senza scrupoli

Gli incontri di Palamara, Spina, Cartoni e Lepre (appartenenti a correnti a parole antagoniste, nei fatti “complici”) con i politici Lotti e Ferri per parlare della nomina del Procuratore di Roma, al di là degli eventuali profili penali, offrono l’ennesima prova del fatto che la magistratura è governata da una oligarchia che non ha il minimo interesse per l’efficienza e l’indipendenza, ma persegue a qualsiasi prezzo solo i propri interessi. Primi fra tutti il controllo degli uffici con le nomine dei dirigenti e l’uso deviato del disciplinare. Da anni indichiamo rimedi a costo zero che disarticolerebbero il sistema di potere. 1) Abolizione dell’immunità (palesemente incostituzionale) dei membri del Csm. 2) Elezione dei componenti non fra magistrati “designati” dalle correnti (quelle attuali sono elezioni “farsa”), ma fra un numero di magistrati decuplo dei posti disponibili, scelti a sorteggio. 3) Processi disciplinari celebrati non dal Csm degli amici di Lotti e Ferri, ma da normali Sezioni dei Tribunali. 4) Rotazione degli incarichi direttivi.

Al sistema serve una riforma seria, non si perda altro tempo

Occorre salvaguardare l’autogoverno della magistratura garantito dal Csm, ma è necessario rifondare il sistema. Bisogna incidere sul metodo di scelta – e sulle regole per la scelta – delle persone e sulla garanzia dell’effettività delle procedure di nomina dei dirigenti. In altre parole bisogna garantire la discrezionalità del Csm, purché entro limiti che evitino l’arbitrio: la scelta delle persone da eleggere va fatta da magistrati che conoscano i candidati, la scelta dei dirigenti va fatta alla luce di qualità individuate dal Csm, con regole chiare e certe al momento del bando dei posti da assegnare. Tutto ciò ed altro è necessario per evitare (ed è questo è il rischio che oggi si corre) la tentazione della politica di ridurre l’autonomia e l’indipendenza della magistratura anche attraverso una rivisitazione del Csm in chiave prevalentemente laica e/o con poteri e compiti ridotti al lumicino ampliando quelli del Guardasigilli. Occorre ridurre le possibilità di incidenza della politica, direttamente o indirettamente, sulla funzione della magistratura.

Si rischia il colpo di grazia da chi non vede l’ora di regolare i conti

Cosa c’è nelle carte di Perugia non è dato sapere. I fatti rivestono ovviamente grande interesse, ma conta molto anche la percezione, sempre più diffusa, di un Csm ridotto a un mercato di poltrone in crisi di credibilità. Una percezione devastante, capace di demolire quel poco di fiducia nella giustizia che ancora resiste. C’è poco da illudersi: i tempi e costi dei processi e le campagne che rappresentano la giustizia come un campo di battaglia tra fazioni, hanno creato una situazione di disastro incombente e le cronache di questi giorni potrebbero dare il colpo di grazia, Un’occasione ideale per quei palazzi che da sempre aspettano il momento buono per regolare i conti con la magistratura, per costringere i pm a starsene buoni in un angolino, in attesa di ordini che in caso di “separazione delle carriere” sarebbe l’esecutivo a impartire. Serve uno scatto d’orgoglio e dignità (da parte di tutti coloro che ne siano ancora capaci) per reagire. Se non si vuole che la casa continui a bruciare, innescando derive illiberali.

La guerra di trojan, una “spia” che viene dalla Spazzacorrotti

La battuta che corre nelle chat dei magistrati è di scarsa fantasia: “Porca trojan”! Ironia che prova a sterilizzare l’incubo inconfessabile: che prima o poi possa toccare persino a uno di loro, come è successo al pm di Roma Luca Palamara, già presidente dell’Anm e fino al 2018 consigliere del Csm in quota Unicost: ritrovarsi con il cellulare infettato dal malware. Un Grande Fratello addosso h24. Cos’è. Il trojan che grazie alla riforma voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (cosiddetta Spazzacorrotti) ora può essere inoculato anche nei telefonini degli indagati di corruzione, è un software malevolo (malware) che demolisce ogni forma di privacy. È utilizzato per le intercettazioni, ma è super evoluto: può far ascoltare le telefonate ma raccogliere gli audio ambientali (tramite l’attivazione del microfono), i video tramite l’attivazione in remoto della telecamera, il tracciamento degli spostamenti tramite il Gps, la cronologia della navigazione online o la navigazione in diretta, registrare qualsiasi lettera digitata dalla tastiera e permettere di prendere il controllo totale del dispositivo.

Come. Riuscire a far installare dall’intercettato un trojan su un telefono non è semplicissimo (anche perché altrimenti non funziona). Spesso si ricorre a una esca, una applicazione o un file mascherato (giochi, app di funzione, ecc) e si induce con escamotage il soggetto a scaricarli e installarli sul telefono. Inoltre, una particolare funzione permette a questi software di non essere rilevati dagli antivirus.

I dati. È stato lo stesso Garante della Privacy, nelle scorse settimane, a rilevare che servirebbe una disciplina apposita per l’acquisizione e la conservazione dei dati raccolti dai Trojan (soprattutto dopo il caso Exodus, dati depositati da società private su cloud esterni, estranei ai server delle Procure) e considerandone la mole, la potenziale estensione e anche la mancata individuazione di limiti precisi al loro uso. “Alcuni agenti intrusori sarebbero… in grado non solo di ‘concentrare’, in un unico atto, una pluralità di strumenti investigativi (perquisizioni del contenuto del pc, pedinamenti, acquisizioni di tabulati) ma anche, in talune ipotesi, di eliminare le tracce delle operazioni effettuate, a volte anche alterando i dati acquisiti” scriveva il garante ritenendo inadeguate le garanzie poste dal codice di rito penale a tutela dell’indagato (dal riscontro effettivo del giudice sugli atti compiuti dagli inquirenti sul rispetto delle condizioni stabilite dalla legge per ciascun atto, al contraddittorio sulla prova) e suggerendo l’introduzione di molti paletti.

L’introduzione. La rivoluzione trojan è comunque iniziata da poco, con la pubblicazione della Spazzacorrotti sulla Gazzetta del 16 gennaio 2019. Prima la Cassazione li aveva resi utilizzabili solo per i reati di mafia e di terrorismo, poi i commi dell’articolo 266 della legge “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” lo hanno esteso anche ai “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

La storia. Due pm di Napoli si contendono il primato del debutto di un trojan nelle indagini, quasi dieci anni fa. Il sostituto Catello Maresca lo utilizzò per infettare il pc del vivandiere di Michele Zagaria a Casapesenna. Il sostituto Henry John Woodcock lo usò invece nell’inchiesta sulle soffiate della P4 di Alfonso Papa e Luigi Bisignani.

Da allora i trojan hanno fatto passi da gigante e dai computer si è trovato un modo per introdurli nei cellulari. Le prime versioni hanno sofferto problemi seri. L’indagato si insospettiva perché il cellulare si surriscaldava e la batteria si scaricava subito. È successo ad Alfredo Romeo e Italo Bocchino, intercettati dai pm Woodcock e Carrano agli albori delle indagini che deflagreranno nel caso Consip. Fu sufficiente consegnare lo smartphone a un tecnico che si accorse della duplicazione dell’icona di una app. La seconda era il trojan.

La rete di Palamara e la diffusione del “complotto” Eni

È Eni uno dei nervi scoperti dello scandalo che sta investendo Luca Palamara, i suoi amici e il Consiglio superiore della magistratura. Le alchimie correntizie di Palamara riguardavano le nomine ai vertici delle Procure di Roma, Perugia, Firenze e Torino, certo. Lambivano l’indagine Consip in cui era rimasto impigliato Luca Lotti, ex ministro del governo di Matteo Renzi. Ma erano di sicuro impegnate su una vicenda attorcigliata e ancora non risolta che ruota attorno alla compagnia petrolifera nazionale e ai suoi vertici, l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, con schizzi di fango anche per l’allora presidente del Consiglio Renzi.

L’uomo chiave di questa storia è Pietro Amara, definito “avvocato esterno dell’Eni”, il professionista che dalla compagnia ha ottenuto negli anni incarichi per 13,5 milioni di euro e che l’Eni non ha scaricato neppure dopo che il Corriere della Sera, l’8 settembre 2017, lo ha segnalato come coinvolto nel “complotto” ordito per depotenziare e depistare le indagini della Procura di Milano, coordinate dall’aggiunto Fabio De Pasquale, sulle corruzioni internazionali in Nigeria e in Algeria. Amara comincia a fare i suoi giochi (sporchi) che si sviluppano anche contando sul potere di un pezzo da novanta del Csm: Palamara, kingmaker della corrente Unicost. Alcuni pm fanno (consapevolmente o inconsapevolmente) da sponda: Giancarlo Longo, ai tempi alla Procura di Siracusa; Carlo Maria Capristo e Antonio Savasta, allora in quella di Trani; Stefano Fava, in quella di Roma.

La storia inizia il 23 gennaio 2015, quando arriva un esposto anonimo alla Procura di Trani. È il primo atto del “complotto” che secondo la Procura di Milano è ordito da Amara, aiutato da una corte dei miracoli e “altre persone interne a Eni in corso di identificazione”. A raccogliere gli anonimi e a svilupparli con zelo sono il procuratore Capristo (di Unicost) e i pm Savasta (di Magistratura indipendente) e Alessandro Pesce, che spediscono la Guardia di finanza ad acquisire documenti fino dentro il cda dell’Eni. I finanzieri, dopo averli analizzati, concludono che in quelle carte di reati non se ne vedono e che la competenza a indagare, semmai, è della Procura di Milano.

Amara racconta di aver avuto un incontro (un po’ “carbonaro”) con Capristo a Roma, nella galleria Sordi. “Percepii”, dice Amara, “che lui non vedeva sfogo in relazione a questa vicenda”. Si dà allora da fare per indirizzarla verso Siracusa. “Chiesi a Longo”, racconta, “di contattare Capristo per spiegare le ragioni per cui il fascicolo potesse andare a Siracusa”. È il pm Giancarlo Longo (di Unicost), in effetti, ad aprire un fascicolo su un nebuloso (e farlocco) sequestro di persona che gli permette di farsi trasmettere gli atti da Trani. In seguito, Capristo riesce a diventare procuratore a Taranto, grazie ai voti di Unicost, Magistratura indipendente, laici di sinistra e Forza Italia.

Quanto a Savasta, nel gennaio 2019 finisce agli arresti domiciliari per un’altra storia, accusato di essersi venduto le inchieste. Longo sarà poi indicato da Palamara come procuratore a Gela, ma senza successo: la sua carriera s’interrompe nel febbraio 2018, quando viene arrestato insieme ad Amara su richiesta delle Procure di Roma e di Messina. Nell’estate del 2016, il Fatto Quotidiano comincia a scrivere del “complotto” Eni, segnalando fin dal primo articolo la possibilità di un depistaggio: “I casi possono essere soltanto due. O qualcuno ha davvero complottato contro Descalzi e il premier. Oppure ha voluto far credere ai pm che sia stato così”. Lo stesso Longo, intercettato, spiega: “A luglio cominciano gli articoli del Fatto (…) e lui ha cominciato ad andare in panico su questa cosa”. “Lui” è il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, che sente odore di bruciato, si confronta con i magistrati di Milano che stanno indagando su Eni e decide di mandar loro anche il bislacco fascicolo sul “complotto”, che il 15 luglio 2016 plana sulla scrivania dell’aggiunto De Pasquale.

Nel marzo 2017 De Pasquale chiede l’archiviazione delle accuse rivolte ai due consiglieri indipendenti di Eni, Luigi Zingales e Karina Litvak, riconosciuti non manovratori, ma semmai vittime del “complotto”. Per cercare i veri registi dell’intrigo, a Milano si mettono al lavoro i pm Laura Pedio e Paolo Storari. Intanto però un pm di Roma, Stefano Fava, chiede che Milano gli trasmetta quel fascicolo. Senza neppure avvertire il suo aggiunto Paolo Ielo e il procuratore Giuseppe Pignatone che, informato dal suo omologo di Milano Francesco Greco, gli ritira la delega. Intanto Eni avvia nuovi audit su Amara e il “complotto”, dopo quello vuoto e rassicurante del novembre 2017. E la Procura di Perugia apre l’inchiesta che scardina il sistema: indaga Palamara, indicato come il gran regista delle nomine.

Vercelli, polemica elettorale sul post sessista del leghista

A pochi giorni dal ballottaggio per l’elezione del sindaco di Vercelli, è polemica per un fotomontaggio postato su Facebook da Paolo Tiramani, deputato della Lega, che in città sostiene il candidato del centrodestra Andrea Corsaro. Il parlamentare ha pubblicato due immagini della candidata di centrosinistra, la sindaca uscente Maura Forte: truccata e sorridente, la prima, con la scritta “quello che ti vogliono far credere”, grigia la seconda, bollata come “la verità”. “Non è questione di estetica – scrive Tiramani nella didascalia -: la sinistra, come le sue bugie, ha le gambe corte”. Quanto basta per scatenare le critiche nei confronti del parlamentare. “Questo post è un allarme per tutte le donne – dichiara a Repubblica Maura Forte – Io sono una insegnante e quello che mi preoccupa è il messaggio che diamo ai giovani, cioè che nella comunicazione politica tutto è possibile. Paolo Tiramani è un deputato, oltre ad essere lo sponsor del mio concorrente e un primo cittadino. Viene meno il rispetto della persona quando ad agire così è un parlamentare”

La Cassazione contro Corte appello Torino: “Scelte stravaganti”

“Stravagante”: la Cassazione boccia con questa parola una delle soluzioni adottate dalla Corte d’appello di Torino per sveltire i processi e smaltire l’arretrato. L’occasione è una causa per violazione di domicilio (con tre imputati condannati in primo grado) di cui, il 7 novembre 2018, è stata dichiarata la prescrizione: i magistrati subalpini avevano scritto alla parte civile invitandola a “manifestare interesse” alla continuazione del procedimento. Il problema, come spiegano gli stessi giudici, era che il reato era ormai prescritto, e le “esigenze organizzative in relazione ai gravossisimi carichi di lavoro” imponevano di celebrare l’udienza solo nel caso in cui la vittima fosse davvero interessata. L’avvocato della parte civile inviò una e-mail a Palazzo di Giustizia ma, nonostante questo, fu dichiarata la prescrizione. Secondo la Cassazione, che ha cancellato la sentenza trasmettendo le carte alla giustizia civile per permettere alla donna di ottenere un risarcimento dagli imputati, la mossa dei giudici torinesi “ha introdotto un meccanismo di doverosa attivazione sconosciuto alla nostra legislazione (oltre che alla giurisprudenza) e ha adoperato un modulo procedimentale stravagante.

“Truffa all’Inps” e “soffiate” a Cdb: Repubblica e i guai del gruppo Gedi

Il futuro assetto della Procura di Roma, l’identikit del successore di Giuseppe Pignatone, è questione che toccherà tutti gli indagati nei fascicoli pendenti in Piazzale Clodio. E anche coloro sui quali pende una richiesta di rinvio a giudizio. È il caso, per esempio, di Luca Lotti: l’ex sottosegretario, intercettato indirettamente dalla Procura di Perugia, discuteva della nomina a Roma con i due ras delle correnti Magistratura Indipendente e Unicost, Cosimo Ferri e Luca Palamara, alla presenza dell’ormai ex consigliere del Csm Luigi Spina. Se non bastasse, dinanzi a Lotti, Palamara descriveva la sua strategia, tesa, secondo l’accusa, a colpire il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo che, proprio di Lotti, ha chiesto il rinvio a giudizio nell’inchiesta Consip.

L’identikit del successore di Pignatone interessa quindi sia il potere politico (Lotti e Ferri, entrambi parlamentari del Pd), sia il potere giudiziario (Palamara e Spina ne parlano con loro). È però questione che in futuro toccherà anche altro potere: quello che gestisce una parte dell’informazione. La Procura di Roma lavora su inchieste che riguardano il gruppo Gedi e – sebbene indirettamente – Carlo De Benedetti, “tessera numero 1” del Pd, a lungo patron del gruppo Espresso. Onore al merito, va detto, che sull’inchiesta che vede al centro Palamara, e che sta destabilizzando la nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma, Repubblica è dal primo giorno il quotidiano con le informazioni più dettagliate.

Frutto della bravura dei suoi cronisti. E della scelta operata dalle loro fonti che, in questi giorni, mostrano d’aver individuato – a Repubblica si affiancano, come fossero un unico giornale, Corriere e Messaggero – a chi centellinare le notizie che stanno condizionando la nomina del futuro procuratore di Roma. L’informazione – com’è giusto che sia, e a maggior ragione per tutte le storture emerse dall’inchiesta perugina – deve svolgere il suo importante ruolo di “quarto potere”. Il “quarto potere” incarnato da Repubblica ha però una peculiarità che lo distingue da tutti gli altri: la Procura di Roma ha tra le mani un pezzo consistente del suo destino. Questo non inficia né influenza – ne siamo certi – il lavoro dei suoi cronisti. Tuttavia Repubblica resta – per forza di cose – un osservatore particolare di questa vicenda: il futuro procuratore di Roma dovrà gestire un’inchiesta che può valere, per il gruppo Gedi, qualche milione di euro. Il cuore del Gruppo Gedi, la società che edita il quotidiano Repubblica e il settimanale L’Espresso (che sono estranei alla vicenda) è infatti sotto inchiesta per truffa ai danni dell’Inps. Reato contestato all’ex amministratore delegato Monica Mondardini, al direttore delle Risorse umane Roberto Moro e a Corrado Corradi, capo della Divisione Stampa Nazionale. A marzo le sedi della Gedi – che edita anche La Stampa e Il Secolo XIX – sono state perquisite dalla Guardia di Finanza. Il sospetto del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Francesco Dall’Olio è che il gruppo Gedi abbia utilizzato tra il 2012 e il 2015 alcuni escamotage, realizzando una presunta truffa milionaria, portando a casa almeno 7 prepensionamenti. Tra il 2011 e il 2015 sono stati concessi per decreto ministeriale a Gedi e alla Manzoni spa 187 prepensionamenti di poligrafici, 69 di giornalisti, mentre per altri 554 lavoratori sono partiti contratti di solidarietà.

Una richiesta di rinvio a giudizio e un’eventuale condanna, per il gruppo Gedi potrebbero risultare devastanti. Non è l’unica inchiesta che tocca il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Nell’era Pignatone è stato aperto un fascicolo che ha toccato – pur senza indagarli – sia De Benedetti sia Matteo Renzi. Dopo una richiesta d’archiviazione, il gip Gaspare Sturzo ha chiesto l’imputazione coatta per il broker Gianluca Bolengo, della Intermonte Sim, che rischia il processo per ostacolo alla vigilanza. Alla vigilia del Decreto sulle banche Popolari, Bolengo ordinò l’acquisto di azioni per 5 milioni di euro, in favore della Romed di Carlo De Benedetti, consentendogli di guadagnare 600 mila euro.

Bolengo secondo il gip avrebbe dovuto riferire alla Consob che si trattava di un’operazione “ragionevolmente sospetta”: che il decreto sulle Popolari sarebbe passato, lo seppe direttamente da De Benedetti, al quale era stato comunicato da Renzi in persona (soffiata smentita da entrambi). Gli esiti di queste due inchieste saranno stabiliti dal nuovo corso della Procura di Roma. Il che, se pur non pregiudica la correttezza delle sue cronache, fa di Repubblica un osservatore molto speciale.