Bufera nel Csm, il vicepresidente va al Quirinale

Il Csm è a pezzi. Il vicepresidente ieri, di primo mattino, è andato al Quirinale a parlare con il presidente Sergio Mattarella del contenuto di quelle carte che possono far saltare il sistema. Ermini al Quirinale avrebbe detto di non avere nulla da temere da questa inchiesta perugina. Nelle carte, c’è un’intercettazione in cui Lotti si lamenta di Ermini perché non a sufficienza collaborativo. Forse per questo, nei giorni scorsi, in pieno scandalo, a dei suoi collaboratori, Ermini aveva detto: “Se qualcuno pensava di mettermi qui per fare il burattino si è sbagliato, seguo il capo dello Stato”. Per la partita delle nomine e non solo, la versione di Ermini è quindi che avrebbe respinto le pressioni ricevute. Alla fine del colloquio con il Quirinale, assai preoccupato per gli eventi, Ermini convoca con una mail “neutra” i consiglieri per una riunione. “Cari consiglieri, in vista del plenum straordinario di domani (per i lettori, oggi, ndr) ci vediamo alla buvette nel pomeriggio, orario da fissare”.

La riunione è stata pesantissima. Si sono autosospesi Corrado Cartoni e Antonio Lepre, i togati di Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice, presenti a un incontro, in un albergo romano, con Luca Palamara (pm della capitale ed ex consigliere Csm indagato a Perugia per corruzione), Cosimo Ferri (deputato renziano del Pd, mentore di Mi, di cui è stato il segretario), Luca Lotti (giglio magico di Renzi e imputato a Roma per l’inchiesta Consip), Luigi Spina (il consigliere di Unicost, la corrente centrista anche di Palamara) costretto alle dimissioni perché indagato per favoreggiamento e rivelazione pro-Palamara.

Pur autosospendendosi, Cartoni e Lepre, hanno voluto ribadire, in un clima pesante come il piombo, che sì, sono stati presenti a quell’incontro, ma hanno scelto “autonomamente” il loro candidato alla procura di Roma, Marcello Viola, ora pg di Firenze. Cartoni e Lepre hanno detto, a porte chiuse, di voler autosospendersi per “senso di responsabilità”.

La riunione è durata diverse ore anche perché i consiglieri laici avrebbero voluto parlare con le carte di Perugia in mano. Invece, sono arrivate secretate e le ha solo il comitato di presidenza ( Ermini e i capi di Corte Mammone e Fuzio) chiuse in cassaforte.

Nel frattempo, ieri sono stati azzerati i lavori delle commissioni. Tutti i gruppi, “sconvolti” o “travolti” dalle notizie di questi giorni, si sono riuniti per capire che linea tenere oggi e nelle prossime terribili settimane, senza far crollare il Consiglio. Si dice che siano volati gli stracci, fra consiglieri delle diverse correnti. Tutti a rinfacciarsi le trattative con la politica che da decenni con il famoso “uno a te, uno a me”. Ma ora c’è l’aggravante di combutte con politici anche imputati, vedi Luca Lotti e per di più per un’inchiesta della procura di Roma.

Insomma sembra che la riunione di ieri sia stata una resa dei conti anticipata perché al plenum di oggi, pubblico, non venga dato lo spettacolo di una istituzione dall’immagine fortemente compromessa. D’altronde il capo dello Stato ha chiesto “senso di responsabilità” e un passo indietro a chi è coinvolto a vario titolo in situazioni imbarazzanti per il Consiglio.

Ieri è stata la giornata anche della spaccatura plateale dentro l’Anm. Il vicepresidente dell’Anm, Luca Poniz, di Area (progressisti) prende le distanze da un’intervista del presidente Anm, Pasquale Grasso, che è di Mi. A Poniz, in sostanza, Grasso è sembrato troppo tiepido nello stigmatizzare il comportamento di Cartoni e Lepre, definendolo solamente “inopportuno”. “Sono relazioni che alterano il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale, ha detto Poniz, ed è in questo lo scandalo che molti di noi vedono”.

Le lamentele di Lotti & C: “Ermini non è collaborativo”

C’è anche nome del vicepresidente del Csm David Ermini negli atti d’inchiesta di Perugia. E proprio alla luce di queste altre notizie, oggi, l’indagine della Procura umbra rischia di avere un impatto devastante sull’intero Csm. Dall’inchiesta emerge che il numero due del Csm Ermini non risultava sufficiente collaborativo agli occhi del consesso rappresentato, sul versante politico, dal “parlamentare imputato” Luca Lotti: al di là della singola partita sulla procura di Roma, ci si lamentava del fatto che Ermini, più generale, avesse un atteggiamento non abbastanza “reattivo” e rispondente alle richieste. Nessun reato. Conversazioni che però gettano una pessima luce sull’intero Csm e il suo vicepresidente. Ma c’è anche dell’altro a rendere insostenibile per la magistratura il peso di quest’indagine: un’ulteriore pista investigativa che la Procura di Perugia sta seguendo in queste ore. Ed è mantenuta sotto assoluto riserbo.

La tesi è che un magistrato della Procura di Roma sia stato corrotto con l’acquisto di una Smart in cambio dell’aggiustamento di un processo. A dare il via a questo filone d’indagine è sempre l’ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, l’uomo che ha raccontato di una presunta mazzetta da 40 mila euro destinata a Palamara affinché gli garantisse la nomina a procuratore capo di Gela, ha raccontato anche altro. Dell’esistenza di una mazzetta da 40mila euro – che Palamara ha negato durante gli interrogatori – Longo ha riferito d’aver saputo dall’avvocato Giuseppe Calafiore (che però nega di aver mai pagato Palamara, ndr). Nello stesso giorno, il 31 luglio 2018, Longo, assistito dal suo legale Candido Bonaventura, rende anche altre spontanee dichiarazioni al procuratore capo di Messina, Maurizio De Lucia che, insieme al pool di sostituti procuratori Federica Rende, Antonella Fradà e Antonio Carchietti, conduce le indagini sul “Sistema Siracusa”.

Durante l’interrogatorio, durato più di quattro ore, intervallato da un’interruzione di 17 minuti in cui si “sospende il verbale e la registrazione”, Longo racconta tutti i rapporti avuti con gli avvocati Piero Amara (ex legale esterno del’Eni, ndr) e Calafiore, ricostruisce le vicende processuali da lui seguite al Tribunale di Siracusa, i soldi ricevuti per indagare figure scomode ai due avvocati o per favorire i loro interessi. Nel verbale risultano però tre diversi omissis. Passaggi secretati dai magistrati messinesi per approfondire le rivelazioni fatte dall’ex pm ed evitare che terze parti possano acquisirle. E poi inviati alla Procura di Perugia affinché indaghi.

Tra queste, c’è la storia di una Smart che l’avvocato Amara avrebbe regalato a un pm romano. A confidarlo a Longo è l’amico Calafiore, in una delle tante chiacchierate tra i due. A sua volta, però, Calafiore non è la fonte diretta: del “regalo” ha saputo dal collega e socio Amara.

Gli atti sono stati trasmessi dai pm di Messina ai colleghi di Perugia e lo scorso 26 aprile Longo è stato nuovamente interrogato sulla vicenda proprio dai colleghi perugini ai quali – come può rivelare oggi il Fatto – ha confermato la versione già raccontata e verbalizzata dinanzi ai magistrati siciliani. Il verbale è secretato. L’episodio è ancora in fase d’indagine.

Sulla vicenda, sia Longo sia il suo legale preferiscono mantenere il riserbo evitando qualsiasi dichiarazione o commento.

Davanti ai magistrati di Perugia, Longo si è anche detto estraneo alla possibile corruzione del collega Palamara, spiegando ai magistrati di aver appreso solo in seguito, intorno all’estate 2017, che l’avvocato Amara, insieme con Calafiore, avrebbero tentato di corrispondere la somma di 40 mila euro a Palamara affinché favorisse Longo nella nomina di procuratore a Gela. Longo a seguito delle vicende siracusane, era finito sotto la lente della prima commissione del Csm per incompatibilità ambientale, per questo motivo aveva fatto richiesta di trasferito, prima a Gela e in seguito accettando il ruolo di giudice civile a Napoli.

Avendo collaborato con la giustizia, Longo ha patteggiato una pena a 5 anni a Messina per corruzione in atti giudiziari, dimettendosi dalla magistratura, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e quella legale per i prossimi cinque anni. Le sue parole hanno innescato l’accusa di corruzione per Palamara portando la procura di Perugia ha intercettare l’uomo forte della corrente Unicost, nonché ex segretario dell’Anm. Le conversazioni intercettate hanno disvelato un sistema che, nel suo intreccio tra Csm, magistrati e politica, sembra ormai pronto a implodere sotto il peso dello scandalo.

Torna la “banda del buco”, bottino da 100 mila euro

È tornata in azione a Napoli la “banda del buco”. E nel mirino dei rapinatori è finita un’agenzia bancaria della centrale piazza Carità.

Secondo una prima ricostruzione in quattro, che indossavano una tuta bianca e con il volto parzialmente coperto, sono entrati, subito dopo l’orario di chiusura al pubblico, all’interno della filiale dal sottosuolo. In quel momento nella banca non c’erano clienti. I rapinatori, che sono sbucati in una zona destinata all’archivio, erano armati ed una volta dentro hanno costretto gli impiegati a consegnare loro il denaro che doveva essere caricato nel bancomat. Il bottino, secondo una prima stima, dovrebbe essere di circa centomila euro.

Presi i soldi i banditi sono scappati sempre dalle fogne. Sul posto sono giunti gli uomini delle “Volanti” della polizia ma i rapinatori, che nel frattempo alle loro spalle avevano chiuso il percorso di fuga con travi di legno, erano già riusciti a scappare.

Gli investigatori hanno accertato che alcuni tombini nelle vicinanze erano stati chiusi con assi di legno, in modo da ritardare l’inseguimento, nei condotti fognari, da parte delle forze dell’ordine.

“Inosservanza dei sistemi di sicurezza” Indagati il pilota e il comandante

La Procura di Venezia, dopo l’incidente navale di domenica in cui la nave “Opera” della compagnia Msc, entrata ad alta velocità nel Canale della Giudecca, è andata a sbattere contro una banchina e urtato un battello carico di turisti, ha iscritto nel registro degli indagati il pilota e il comandante della nave, oltre ad altri soggetti non legati alla Compagnia.

La notizia è stata confermata in serata da Msc: “Sono stati notificati – si legge in una nota – al Comandante della MSC Opera e al DPA (Designated Person Ashore) gli avvisi di garanzia e la relativa iscrizione nel Registro degli indagati della Procura della Repubblica di Venezia, atto dovuto per poter procedere all’espletamento della consulenza tecnica ex articolo 360 CPP. Il Comandante e il DPA cosi come la MSC hanno fin da subito offerto la loro piena collaborazione affinché la Procura possa espletare tutti gli atti di indagine necessari al fine di poter escludere una qualsivoglia responsabilità in capo a loro. “La Procura – aggiunge la Compagnia – ha altresì iscritto nello stesso Registro i nominativi di altri soggetti estranei a MSC coinvolti a vario titolo nella gestione degli eventi che hanno portato all’incidente di domenica”.

L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è violazione dell’articolo 1231 del codice di navigazione, inosservanza delle norme sulla sicurezza, una fattispecie penale. Non c’è al momento un fascicolo per lesioni, perché quelle riportate dai feriti – sono ancora ricoverate solo due delle quattro turiste finite in ospedale – sono perseguibili solo su querela.

Approdo a Marghera, nessun “no” da Toninelli

“La soluzione per le grandi navi a Marghera è pronta da un anno, bloccata dal ministero” Matteo Salvini

Nessuna formalizzazione e, quindi, nessuna bocciatura: sull’ipotesi di togliere le Grandi Navi dalla Laguna avanzata dalla Lega non ci sarebbe stato alcun “No” del ministero dei Trasporti. Domenica era stato il leader del Carroccio, Matteo Salvini, a sostenere che il ministro Toninelli avesse bloccato una fantomatica soluzione già individuata, ovvero l’approdo a Porto Marghera. Ieri lo ha ribadito l’ex ministro dell’Ambiente, Corrado Clini: “Era in un decreto del 2012 poi riconfermato da Delrio nel 2017: l’arrivo a Marghera e la costruzione lì di una nuova area portuale”.

“A differenza di quanto sostenuto da molti in queste ore, nessun progetto sull’ipotesi Marghera per le grandi navi a Venezia giace al Mit. Nessun progetto è stato dunque bloccato o lasciato in un cassetto – hanno replicato dal ministero –. Esiste solo uno studio la cui natura non ha nulla a che fare con alcuno stadio di progettazione, nemmeno quello iniziale della fattibilità tecnico-economica”.

Lega e amministratori locali spingono per questa soluzione che prevede la costruzione di una lunga banchina. Ma approdare a Marghera significherebbe passare per il canale dei Petroli, vicini alle petroliere, con i conseguenti rischi per la sicurezza e l’ambiente. “È questa la soluzione di cui parlano? – aveva scritto domenica Toninelli su Facebook – Far sfiorare una nave da crociera e una petroliera, con i rischi del caso? O presentare come biglietto da visita di Venezia lo sbarco di milioni di turisti di fronte a un petrolchimico?”.

Ieri Toninelli ha incontrato il presidente dell’Autorità portuale del mar Adriatico settentrionale, Pino Musolino. “Stiamo trovando una soluzione – ha detto – abbiamo fatto una sintesi su due progetti. In poche settimane apriremo un dibattito pubblico per scegliere definitivamente una soluzione, e i colossi delle crociere sono d’accordo con la nostra sintesi”.

“Servono manovre perfette per gestire quei bestioni”

Se vi paiono poche 600 Grandi Navi all’anno che entrano dalla bocca di porto del Lido, sfiorano i Giardini della Biennale, smuovono le onde davanti a Palazzo Ducale, imboccano il Canale della Giudecca, costeggiano le rive ed entrano a Marittima. È lì l’epicentro di quello tsunami del turismo di massa che i transatlantici scaricano quotidianamente nelle fragili calli di Venezia. Ma non ci sono solo i passeggeri, ci sono anche tremila petroliere, portacontainer, navi da carico, che raggiungono Porto Marghera. In totale, calcolando l’andata e il ritorno, quasi ottomila viaggi dentro la laguna, un ecosistema delicato, la cornice di una città fragilissima. Il rischio e il brivido, il paradosso dei bestioni d’acciaio accanto ai masegni, i grattacieli del mare più alti delle chiese. In questo gioco da roulette con il destino, il ruolo più importante ce l’hanno i rimorchiatori, piccoli natanti che conducono i pachidermi dentro la cristalleria, cercano di controllare i Gulliver che calpestano, al loro confronto, una Venezia in miniatura.

Vivere con le Grandi Navi. Ogni giorno. Davide Calderan, nato 54 anni fa a Venezia, ma cresciuto in Venezuela, è il presidente di Rimorchiatori Uniti Panfido che gestisce il colossale viavai. Spiega l’incidente di domenica senza giri di parole. In mare non ci sono bizantinismi. “Quando Msc Opera è stata all’altezza del Redentore aveva il motore bloccato, con timone verso dritta, ma in spinta. La velocità aumentava, da 5,5 nodi è salita a 6,9 nodi alle Zattere. I rimorchiatori hanno cercato di frenarla, ma la nave continuava ad accelerare, fino a quando il cavo di traino dell’Angelina è stato tranciato dall’impatto con la plancia del battello turistico, fermo al molo”.

Calderan svela i segreti di un lavoro poco conosciuto, ma vitale per la salvezza di Venezia. “La nave entra a San Nicolò, noi andiamo a prenderla alle Dighe del Mare. Con due rimorchiatori se la nave è sopra le 40 mila tonnellate, altrimenti ne basta uno. Ogni rimorchiatore ha una stazza di 400-800 tonnellate, un motore che può raggiungere i 9 mila cavalli”. Cosa significa prenderla? “Agganciare il cavo e cominciare il traino, quasi sempre con il rimorchiatore che si posiziona davanti per tirare, mentre il secondo è dietro, per agevolare le manovre e frenare. Ogni rimorchiatore ha un comandante, un direttore di macchina e un marinaio. Ma a bordo della nave salgono due piloti del Porto, che dialogano con il comandante del transatlantico”.

È un mondo poliglotta. “Si parlano per radio in italiano. Ma i piloti si rivolgono al comandante anche in inglese o in spagnolo. Se è napoletano parlano in napoletano, se è un chioggiotto in chioggiotto”.

Comincia il percorso più affascinante (per i turisti che dall’alto scattano fotografie) e più pericoloso per Venezia. “La durata dell’operazione è di un’ora e mezza, il tragitto fino a Marittima di 3-4 miglia. Davanti ai Giardini si attacca il secondo rimorchiatore. La nave entra con i motori diesel a propulsione elettrica al minimo. I rimorchiatori la conducono, la fanno girare. La velocità massima è di 6 nodi”.

Il momento più delicato è l’approdo, una specie di danza, un bilanciamento di spinte e controspinte. “Entra il rimorchiatore davanti, quello dietro serve per frenare, attutire, impedire la botta contro la riva”. Un lavoro che richiede occhio ed esperienza. “Manovrare quelle navi in canali stretti richiede un lavoro di precisione, bisogna essere abituati a farlo. Per questo i nostri comandanti vengono addestrati per anni prima di entrare in azione”.

Non operano solo in centro storico, perché bisogna condurre a Porto Marghera le grandi navi commerciali. “Lungo il Canale dei Petroli non ci sono rive e case, ma la larghezza è più o meno la stessa. Ma sia lì che a Venezia non ho ricordo di altri incidenti”.

Si parla di proposte per tenere le Grandi Navi fuori Venezia. L’ipotesi Chioggia? “In porto facciamo fatica ad entrare anche noi, vista la profondità di 7 metri. Figuriamoci le Grandi Navi. E poi, come le portano tremila persone a Venezia? Con gli autobus lungo la Romea?”

Il Canale Vittorio Emanuele? “Era usato fino a non molti anni fa, ma non è stato ripulito. È profondo 8 metri, bisognerebbe scavarlo, perché i transatlantici pescano sui 9-10 metri. Invece il Canale dei Petroli è profondo 12 metri”. Ma lì non si rischia la collisione tra navi passeggeri e petroliere? “No, perché si procede a senso unico. Prima si entra, in fila, a distanza di sicurezza. Poi si esce”. Al massimo, rischiano un tamponamento.

A Udine il convegno “Identitas” di Franz con Dugin e Fini

Identità oggi, da diverse prospettive. Questo il tema scelto per il convegno dal titolo “Identitas: uguali ma diversi” che si terrà sabato 15 giugno a partire dalle 16.30 al Castello di Udine. Organizzato dal filosofo Emanuele Franz direttore della casa editrice Audax. L’incontro è promosso in collaborazione con l’associazione Historia e Limes Club Pordenone/UdineVenezia presieduta da Guglielmo Cevolin. Interverranno, tra gli altri, il filosofo russo Aleksandr Dugin, Diego Fusaro, Massimo Fini, Edoardo Sylos Labini, oltre a Paolo Paron, fondatore della Società Tolkieniana italiana. L’iniziativa ha ricevuto il beneplacito di Noam Chomsky che non ha escluso un suo collegamento multimediale. L’identità nella tradizione, nei costumi, nella società, nella lingua, nei popoli ma anche dal punto di vista delle scienze sociali, la famiglia, la sessualità, la psicologia e l’antropologia. Questioni diverse per rispondere alla domanda su cosa significhi avere un senso di appartenenza oggi, in un mondo sempre più incline a rendere sostituibili gli individui. Ulteriori informazioni: www.audaxeditrice.com oppure scrivere a audaxedizioni@yahoo.it.

“Il boss D’Agata fece arrestare Santapaola per salvargli la pelle”

Il boss era stato pericolosamente “posato”, come si dice in gergo mafioso, cioè abbandonato, messo da parte. I corleonesi volevano uccidere lo storico padrino di Cosa Nostra catanese, Nitto Santapaola, perché considerato moderato dagli stragisti. È per questo che il fedelissimo boss Marcello D’Agata pensa bene, col consenso del nuovo capo di Cosa Nostra catanese Aldo Ercolano, di rivolgersi ad Antonio Manganelli, allora capo dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia) e indicargli il luogo dove Nitto Santapaola si nascondeva per farlo arrestare.

La rivelazione clamorosa sull’arresto del boss catanese, avvenuto il 18 maggio 1993, arriva dal pentito Maurizio Avola che ai magistrati di Reggio Calabria e Caltanissetta sta raccontando le sue nuove verità che, se riscontrate, potrebbero sconvolgere la geografia giudiziaria antimafia degli ultimi decenni. Due settimane fa è stato sentito dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel processo “’ndrangheta stragista”: “D’Agata con l’accordo di Aldo Ercolano prese contatti con Manganelli per salvare la vita a Santapaola – ha raccontato Avola ai giudici –. Io posso dire che già in precedenza Santapaola era sfuggito alla cattura perché avvisato prima, e in quella circostanza D’Agata ebbe a dirmi che era meglio lasciarlo stare dov’era e non informarlo del blitz”. All’epoca, nella geografia di Cosa nostra catanese, D’Agata era il capo di Avola.

Ma perché uccidere Santapaola? Perché uccidere un mafioso di rango che per dimostrare la propria fedeltà alla causa, racconta sempre Avola, due anni prima aveva messo il proprio figlio Vincenzo a disposizione del gruppo di fuoco che uccise il giudice Scopelliti? Santapaola, secondo il pentito, pagava la sua moderazione e il suo continuo opporsi ai delitti eccellenti nella zona etnea e, in generale, alla linea stragista. Per Nitto le azioni eclatanti disturbavano i grandi affari dei clan.

C’è uno strano episodio che fa comprendere a Marcello D’Agata che il padrino è in pericolo: un giorno, siamo nel novembre del 1992, si tiene una riunione segretissima nelle campagne di Belpasso tra boss palermitani, tra cui Gioacchino La Barbera il “Malpassotu”, il boss di Belpasso Giuseppe Pulvirenti e Santo Mazzei, il mafioso catanese arcinemico di Santapaola. Una riunione in territorio catanese senza che nessuno del gruppo Santapaola ne sappia nulla. Ma qualcuno parla ed è il genero del “Malpassotu”, che riferisce tutto a D’Agata. Bisogna subito fare qualcosa, senza fare troppo rumore però. Da lì l’idea di cercare un aggancio con Manganelli. Se il contatto è avvenuto telefonicamente potrebbe esserne rimasta traccia nelle intercettazioni dell’epoca; dovrebbe anche essere possibile ricostruire i colloqui e verificare la notizia fornita da Avola nelle relazioni di servizio che sicuramente Manganelli avrà redatto.

Ma che fine ha fatto Marcello D’Agata? Adesso ha 70 anni, un ergastolo sulle spalle e pare sia in piena crisi mistica. Come accadde vent’anni fa al boss Pietro Aglieri, pentito davanti a Dio ma per nulla intenzionato a diventare collaboratore di giustizia. Nel covo di “U signurinu” al momento dell’arresto trovarono una biblioteca di testi filosofici e religiosi trovati ai lati di una cappella privata. D’Agata invece, nel carcere di Opera dove è rinchiuso, dipinge quadri religiosi e disegna francobolli di Natale per il Papa, come ha raccontato a Famiglia cristiana nel dicembre 2018.

D’Agata non è più al 41 bis. Un altro futuro collaboratore di giustizia? Troppo presto per dirlo. Certo è che qualcosa l’ha detta. È accaduto nell’interrogatorio del 23 gennaio 2019 davanti ai magistrati della Dda di Caltanissetta. D’Agata è indagato a Caltanissetta insieme ad Avola per avere trasportato da Catania a Termini Imerese parte dell’esplosivo utilizzato per la strage di Capaci insieme a due detonatori. E D’Agata inizia il suo interrogatorio con queste parole: “Avendo avuto notizia di ciò che mi sta contestando intendo rispondere per un dovere di coscienza”. Smentisce Avola su molti punti però: “Per quelle che sono le mie conoscenze sulla strage di Capaci io dissi ad Avola che essa rappresentava la fine di tutto perché non ci si poteva mettere contro lo Stato… Per quanto riguarda ciò che è avvenuto prima io e Avola non potevamo sapere nulla perché Cosa Nostra opera per compartimenti stagno”; salvo poi aggiungere “Io e Avola eravamo incaricati a recuperare i pizzini dei palermitani lungo le autostrade, dopo il pentimento di Calderone Antonino, di cui era parente Salvuccio Marchese, esponente di Cosa Nostra di Catania che, in precedenza, svolgeva questo incarico”. Strano per un boss non pentito fare queste ammissioni.

Facebook e Google entrano nel mirino dell’Antitrust Usa

La Silicon Valley nel mirino delle autorità americane. A lanciare l’indiscrezioni sulla possibile indagine antitrust è il Wall Street Journalsecondo cui la Federal Trade Commission si appresta a indagare sulle pratiche per la concorrenza del gruppo fondato da Mark Zuckerberg, mentre il Dipartimento di Giustizia ha messo nel mirino le pratiche di Google relative alla ricerca sul web e ad altre attività commerciali. E l’effetto è stato immediato: i tecnologici crollano ai minimi degli ultimi cinque mesi con Google che ha chiuso in calo del 6,12%, Amazon ha perso il 4,64%, Facebook il 7,51%. Non è andata meglio a Netflix e Microsoft, che hanno lasciato sul terreno rispettivamente l’1,94% e il 3,10%. Twitter è calato del 5,52%. Complessivamente le Fang – Facebook, Amazon, Netflix e Google – hanno visto andare in fumo 137 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Non è la prima volta che Google finisce nel mirino per possibili violazioni antitrust: è già accaduto in passato ma la società nel 2013 aveva chiuso il caso patteggiando con la Federal Trade Commission, l’autorità con la quale il Dipartimento di Giustizia condivide la responsabilità antitrust.

“Reparti in ginocchio, è l’unica strada”

“Il Molise è commissariata da 12 anni, è nel pieno di un piano di rientro: questo significa che non sono permesse alcune cose. Tra queste, il blocco del turn over. Questa progressiva anemia, negli anni, ha fatto andare il sistema ospedaliero della Regione in sofferenza seppur con alcune strutture di eccellenza”. Angelo Giustini è il commissario straordinario alla Sanità del Molise, nominato col governo Conte, che ieri ha lanciato l’iniziativa di farsi aiutare da quelli che definisce i “medici in divisa”.

Giustini, che succede?

Due primari di ortopedia, di Termoli e Isernia, ci hanno messo con le spalle al muro perché non ce la fanno più. Non hanno più specialisti, non riescono a garantire – tra 38 ore settimanali e ore aggiuntive – servizi e turni efficienti, con tutti i rischi che ne conseguono. I reparti potrebbero chiudere.

Quanti dottori mancano?

In tutto il Molise mancano circa cinquanta medici specialistici, tra pediatria, ginecologia, anestesia, rianimazione, chirurgia e pronto soccorso. Ma ci accontenteremo, dopo il decreto Calabria, anche della metà dei posti. Una situazione creata negli scorsi dodici anni a cui si sono aggiunti i prepensionamenti attuali.

Così avete pensato di chiamare i medici militari.

Abbiamo valutato le ipotesi. Siamo in piano di rientro: non potevamo chiedere ai medici in quiescenza né fare nuovi contratti né esternalizzazioni. Non ci restava che rivolgerci alla Difesa e ai medici militari o delle forze di Polizia. Sempre se ci possono dare una mano, visto che non ci hanno ancora dato conferma. Elenchi alla mano li stiamo sondando uno per uno. Sono medici ausiliari, già prendono una pensione e possono essere richiamati su base libero-professionale. Gli si pagano solo le spese di vitto, alloggio e rimborso. La sussistenza, ecco. Sono una sorta di ufficiale medico che è ancora parzialmente a disposizione, anche per i Comuni ma su base libero-professionale. Ecco perché abbiamo interpellato il ministero della Difesa che ha pubblicato i nomi di 105 colleghi che ora stiamo chiamando in base alle specializzazioni che servono, chiedendo loro sostegno per almeno 4 mesi.

Nel decreto Calabria c’è l’emendamento per lo sblocco del turn over anche per voi…

Certo, e spero venga approvato. Ma siamo al 4 giugno e tra poco i paesi di montagna e di mare del Molise triplicheranno la popolazione con i villeggianti e con chi torna a casa per le vacanze. Per il decreto bisognerà aspettare la pubblicazione in Gazzetta ufficiale e poi i concorsi. Tutto l’iter non si concluderebbe prima di settembre. Noi abbiamo urgenza ora, in estate. Anche per una questione di ordine pubblico: mi aspetto, infatti, a breve di avere la proclamazione dello stato di emergenza dai prefetti di Termoli, Isernia e Campobasso. Anche perché trovare chiuso un pronto soccorso, oltre che essere un problema, è anche interruzione del pubblico servizio. Solo dopo potremmo avere l’ufficialità delle iniziative intraprese fino ad ora.