Sui rifiuti il primo flop Pd. Impianti, Gualtieri nicchia

“La mia non era una promessa, ma un impegno. La città è più pulita di prima, sebbene vi siano ancora molte criticità. È un punto di inizio”. Roberto Gualtieri si è presentato ieri mattina in conferenza stampa nel tentativo di brandire un bicchiere mezzo pieno. Ma le foto con i cumuli di rifiuti ancora presenti a macchia di leopardo in città e i mini-allagamenti seguiti alle piogge intense degli ultimi giorni hanno comunque fatto il giro del web. Di fatto, la pulizia straordinaria “entro Natale” annunciata sull’onda euforica dell’elezione in Campidoglio, è stata un mezzo flop. “Mezzo” perché l’impegno massiccio di risorse – 40 milioni di euro – e lo sforzo di due mesi intensi, con il personale Ama a pieno servizio (ferie rinviate, malattie sospese, ecc.) qualche frutto doveva pur darlo: negli ultimi 7 giorni la società Ama Spa ha raccolto 18.800 tonnellate, contro la media di 16.700 di due mesi fa. Circa 300 tonnellate in più ogni 24 ore, contro le 1.000 lasciate ogni giorno in strada. “Per il 2022 aumenteremo le risorse per far diventare ordinario lo straordinario, non molliamo di un centimetro”, ha promesso ancora il sindaco. Senza dare cifre, in realtà, e con il bilancio di previsione già approvato. Resta il fatto che lo stesso Gualtieri abbia dovuto ammettere “l’insufficienza degli sbocchi”, fattore che non gli ha permesso di mantenere “l’impegno”.

Che il problema riguardasse (solo) la raccolta, fa parte di una certa narrazione anti-raggiana di cui probabilmente è stato vittima anche il neo sindaco. Il quale però prende di nuovo tempo sugli impianti. E prova (ancora) a non rispondere alla domanda che gli viene posta dall’inizio della consiliatura: il Comune indicherà un sito all’interno del perimetro cittadino dove realizzare la discarica, come chiede(va) da 5 anni la Regione Lazio e come previsto dal Piano regionale dei rifiuti di Zingaretti? “La precedente amministrazione aveva individuato delle aree bianche, poi l’iter è stato sospeso. Va ripreso quel lavoro e poi sulla base della procedura di legge la discarica va individuata all’interno di quelle aree bianche”. Per i non tecnici: le aree bianche sono quelle zone, già stabilite dalla Città Metropolitana, in cui in teoria è possibile realizzare impianti di smaltimento rifiuti. Ma il 15 luglio scorso, durante un tavolo tecnico al ministero della Transizione ecologica, è emerso dalle cartografie che non vi sono aree bianche senza vincoli all’interno del Comune di Roma. L’unica soluzione, insomma, è uscire dal Grande Raccordo Anulare. Per questo in Campidoglio attendono con fiducia la conclusione dell’iter per l’approvazione della discarica di Magliano Romano, gestita dalla Berg Spa, società partecipata a maggioranza da Acea Spa.

Lo stesso giro di parole Gualtieri lo ha utilizzato anche sugli impianti di trattamento da utilizzare in attesa di quelli finanziati dal Pnrr. “Abbiamo aumentato gli sbocchi, abbiamo cercato di aumentare le disponibilità esistenti, sia dentro sia fuori la Regione. L’obiettivo è accorciare la filiera”. Prova così ad aumentare la suspense l’assessora Sabrina Alfonsi: “Non vogliamo essere evasivi, ma non tardi ci ritroveremo qui per presentare il nuovo Piano industriale di Roma relativo ai rifiuti. L’obiettivo di consiliatura è chiudere il ciclo dei rifiuti”, assicura.

L’altro nodo non sciolto resta quello su eventuali partnership private. “Faremo lavorare le nostre società o quelle dove siamo soci di maggioranza”, ha detto Alfonsi, alludendo ad Acea Spa. Nei giorni scorsi la giunta capitolina ha dato mandato ai proprio rappresentanti nel cda della multiutility – che vede come socio di minoranza anche il Gruppo Caltagirone – di trasferire in Acea Ambiente la maggioranza delle quote di Aquaser srl, società del gruppo che si occupa di “raccolta e trasporto rifiuti urbani e speciali” e “impianti di generazione da fonti rinnovabili”. Chissà se è indizio o una coincidenza.

L’Oms parla e gli Stati poi fanno il contrario

Le istituzioni sanitarie nazionali degli Stati e internazionali sono state profondamente divise su alcuni punti centrali della strategia contro la pandemia. L’Organizzazione mondiale della sanità attacca senza mezzi termini la “strategia israeliana”, cioè la linea dei richiami a oltranza: “Dosi booster generalizzate prolungano la pandemia invece di porvi fine”, e ancora “i vaccini che abbiamo rimangono efficaci contro entrambe le varianti Delta e Omicron”, “non ha senso vaccinare i bambini in Occidente, quando ci sono gruppi ad alto rischio nel mondo che andrebbero vaccinati”. Le parole del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus (nella foto), vanno spesso in direzione opposta a quelle delle autorità sanitarie e degli esperti degli Stati.

Il presidente della Società italiana di virologia, Arnaldo Caruso, ha un’opinione molto vicina a quella dell’Oms: “Quarta dose? Il vaccino a raffica non è sostenibile”.

Israele dopo aver apertamente lanciato la campagna sulla quarta inoculazione, ha subito dopo fatto un passo indietro – sostenendo che Omicron sia meno preoccupante delle altre varianti –, per poi tornare sui suoi passi e rilanciare la quarta dose (e un probabile prossimo lockdown, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post). La strategia è incerta, lo dicono anche i numeri: in Israele circa il 25% della popolazione non ha aderito al terzo richiamo, e così ha perso il pass.

La Germania ha adottato una strategia da alcuni auspicata anche in Italia, il lockdown per non-vaccinati, senza ottenere risultati rilevanti dal momento che la discesa dei contagi aveva dato le sue avvisaglie già nell’ultima settimana di novembre (30 novembre: 68 mila contagi, 1° dicembre 75 mila; 2 dicembre: 72 mila contagi; 3 dicembre: 62 mila; 4 dicembre: 43 mila; 5 dicembre: 22 mila; 6 dicembre: 18mila; 7 dicembre: 93 mila; 8 dicembre: 27 mila), ovvero prima delle restrizioni selettive iniziate a dicembre (come rilevato dal Center for System Science, Johns Hopkins University). La conferma dell’impatto non significativo del lockdown selettivo arriva anche da un secondo aspetto, il calo dei contagi simile anche nei Paesi vicini alla Germania: Olanda, Belgio, Polonia, Ungheria, Slovenia, Croazia e Austria hanno visto decrescere a picco i contagi in modo sovrapponibile alla Germania (come mostrano i dati epidemiologici elaborati dall’Università di Oxford).

L’Organizzazione mondiale della sanità, anzi, è certa che la strada percorsa porterà a fallimenti inevitabili, come il mancato obiettivo di vaccinare contro Covid-19 il 40 per cento della popolazione in ogni Paese del mondo entro fine anno, con ritardi particolarmente gravi in Africa. La metà dei 194 Paesi membri dell’Oms non raggiungerà l’obiettivo in tempo e in una quarantina di Stati la percentuale dei vaccinati contro la malattia provocata dal SarsCov2 è addirittura ancora inferiore al 10% della popolazione. L’Oms ha dato la colpa all’accaparramento di vaccini da parte di una manciata di Paesi Occidentali, che stanno già somministrando le terze dosi, e pianificando le quarte.

Nel mondo ad oggi sono state somministrate 8,6 miliardi di dosi di vaccini anti-Covid, ma per lo più in Paesi ad alto reddito che disponevano delle risorse per assicurarsi contratti con le case produttrici. Dozzine di altri Paesi sono invece dipendenti dalle forniture di “Covax”, il programma di condivisione dei vaccini sostenuto dall’Onu, che mira a vaccinare la popolazione dei Paesi a basso reddito. I Paesi ricchi vengono criticati aspramente dall’Oms perché non fanno abbastanza per sostenere l’equità vaccinale a livello globale attraverso “Covax”. Tuttavia, nelle ultime settimane le spedizioni di vaccini nell’ambito del programma sono aumentate. Entro l’ultima settimana di dicembre, “Covax” avrà consegnato 722 milioni di dosi.

I dati forniscono però un quadro impietoso: per l’Oms, mentre in Germania sono state somministrate 171 dosi di vaccino ogni 100 abitanti, in Madagascar ne sono state iniettate solo 2,7 ogni 100 abitanti e nella Repubblica democratica del Congo 0,32. Nella maggior parte dei Paesi africani il numero di dosi per 100 abitanti è a due cifre, ma nella fascia bassa.

L’industria farmaceutica è convinta che lo squilibrio non sia dovuto alla mancanza di dosi. Secondo l’associazione delle aziende, l’Ifpma, circa 1,4 miliardi di vaccini sono stati prodotti nel solo mese di dicembre. Piuttosto, sostiene, lo scetticismo sui vaccini è elevato in molti Paesi e parecchi Stati hanno problemi nella distribuzione.

L’Oms ribatte che i Paesi sarebbero pronti, se ricevessero le dosi in modo organizzato e puntuale. Molti Paesi ricchi hanno promesso collettivamente oltre un miliardo di dosi, come donazioni. Tuttavia, secondo l’Oms, le consegne spesso impiegano molto tempo per materializzarsi. Alcune dosi riportano una data di scadenza entro poche settimane, cosa che rende la distribuzione nei Paesi più poveri particolarmente complicata.

Dal Sudafrica: “Omicron è la fine della pandemia”

Omicron sarà il punto di svolta per la fine della pandemia? Comincia a esserci più di un indizio, studi che si accumulano e prendono consistenza perché si confermano combinati tra loro, dati e numeri che fanno ben sperare. Il primo elemento: nel Regno Unito, la vigilia di Natale, si contavano oltre un milione di nuovi casi negli ultimi dieci giorni con “solo” 842 persone finite in terapia intensiva. Abbiamo già dato conto su questo giornale dei due studi, uno scozzese l’altro dell’Imperial di Londra, che stimavano la riduzione del rischio di ospedalizzazione con Omicron di due terzi (67%) e del 40-45% per più di un giorno rispetto alle altre varianti.

La novità, incoraggiante, arriva da uno studio sudafricano firmato dall’Health Research Institute di Durban: “La variante Omicron si sostituisce alla variante Delta e genera l’immunità che neutralizza la Delta, rendendo meno probabile una reinfezione di quella variante”. La ricerca va presa con le molle perché ha riguardato un piccolo gruppo di 33 persone infettate da Omicron in Sudafrica, ma di queste tutte hanno sviluppato una immunità alla variante Delta, in modo particolare chi tra loro era stato vaccinato.

Quindi l’infezione da Omicron combinata ai vaccini potrebbe decretare in un prossimo futuro l’uscita dalla pandemia? Per la scienza non può ancora essere una certezza, ma appunto gli indizi stanno cominciando a sommarsi. Sempre in Sudafrica l’ondata di Omicron ha raggiunto il picco ospedaliero due settimane fa, probabile che a inizio gennaio il Regno Unito seguirà la stessa strada. Antonella Viola, immunologa e docente dell’Università di Padova, ha affermato a Otto e mezzo su La7: “Non possiamo dire che Omicron sia meno grave, so che sta passando questa comunicazione, ma c’è un errore di fondo: porta meno ricoveri perché colpisce persone che sono state già vaccinate o che hanno già superato infezioni da varianti precedenti, quindi persone che hanno già una immunità, dal punto di vista clinico non c’è questa grossa differenza”.

Qualche giorno fa, il professor Guido Silvestri dell’Emory University di Atlanta ha affidato ai social, però, attraverso la sua pagina Pillole di ottimismo, altre considerazioni confortanti: “Rispetto a un anno fa si contano un sesto dei morti, un quarto dei ricoveri in terapia intensiva e Omicron, al momento, ha una letalità – ossia la proporzione di decessi che si verificano in una popolazione infetta – di 0,26% in una popolazione di non-vaccinati (le altre varianti in Sudafrica si attestavano tra 2,5 e 4%). La vaccinazione di richiamo, booster, innalza l’efficacia anche contro la variante Omicron a oltre il 90%, e quindi a livelli paragonabili a quelli studiati in sede di approvazione dei vaccini contro il virus originale”. E ancora Silvestri spiega: “Se Omicron si confermerà essere più infettiva ma anche meno patogenica l’idea di contenere il Covid separando le persone a tempo indeterminato sta prendendo sempre più le sembianze di un delirio (un po’ come l’idea di fermare la diffusione di Hiv abolendo il sesso)”.

Concorda l’immunologo Giovanni Di Perri, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’Università di Torino, sentito da ilfattoquotidiano.it: “La nuova variante sta velocemente sostituendo la precedente, e dobbiamo sperare nella conferma dei dati sulla sua minore virulenza per concentrarci su vaccini rimodulati e continuamente aggiornati. È un momento di grande sofferenza, perché negli ospedali facciamo ancora i conti con la Delta, ma con tutta probabilità avremmo visto proprio in questi giorni la cupola della sua curva e l’inversione di tendenza. Se i dati dovessero confermare che alla maggiore contagiosità di Omicron corrisponde davvero una minore capacità di generare la malattia, potremmo concentrarci su una nuova strategia”.

E su questo aspetto convergono altri tre importanti studi, provenienti da università e centri ricerca di Cambridge e Hong Kong (test di laboratorio in vitro) e Giappone (condotto su modelli animali), come spiega Eric Topol, direttore dello Scripps Research Translational Institute di San Diego, California: “Tre studi indipendenti di laboratori al top, incluso uno condotto su un modello in vivo ben considerato, mostrano tutti una ridotta infettività polmonare rispetto a Delta. È importante perché questo si aggiunge potenzialmente al muro immunitario costruito da vaccinazioni, richiami e infezioni precedenti: il virus stesso può essere, quindi, meno patogeno”. Anche la mappa elaborata sulla base dei casi tracciati a Londra tra ottobre e dicembre è incoraggiante: i sintomi più comuni riportati e archiviati dall’app “Zoe Covid” sono stati: naso che cola, mal di testa, stanchezza con dolori muscolari, starnuti e mal di gola. Rispetto al Covid-19 come lo abbiamo conosciuto finora, in particolare nella forma grave della variante Delta, mancano segnalazioni di perdita di olfatto e gusto, sintomi “spia” della malattia nelle precedenti ondate, i tempi di incubazione sono ridotti, c’è più capacità di bucare parzialmente il vaccino ma provocando conseguenze simili a un malanno stagionale, almeno nei vaccinati, con una durata relativamente breve, in particolare se è stata somministrata anche la terza dose.

Da Speranza all’Unione Europea, i voti ai protagonisti anti-virus

 

Speranza

Si applica, però deve fare meglio

Roberto Speranza ha tenuto la barra in situazioni non semplici, da marzo in un governo fin troppo attento alle pretese di Confindustria, della Lega e di altri che davano il virus per morto. Ha riorganizzato un ministero della Salute stremato da decenni di tagli e di subalternità ai privati, punta a una riforma dell’assistenza territoriale. Però non basta. Anche Speranza, benché ridimensionato, risponde di una politica limitata al “vaccinatevi e non disturbate”. Manca la farmacovigilanza attiva, è stato consentito a troppe Regioni di smantellare il tracciamento, intollerabili i malfunzionamenti della piattaforma green pass.

VOTO: 6

 

Arcuri

Ha avviato (bene) la campagna

Il suo 2021 da commissario straordinario per il Covid si è fermato alla prima decade di marzo, fino ad allora però Domenico Arcuri aveva avviato il programma vaccinale in condizioni assai difficili, con i ritardi nelle consegne dai produttori protetti da contratti capestro. E a gennaio l’Italia era il primo grande Paese Ue. Non gli han perdonato nulla, men che meno il vezzo delle Primule. L’unico errore fu di non cominciare a vaccinare gli anziani fin da gennaio insieme al personale sanitario, come fecero altri Paesi europei salvando diverse migliaia di vite in più, ma fu una scelta di governo e Parlamento, non di Arcuri.

VOTO: 6,5

 

Figliuolo

Qualche merito e molte gaffe

Una volta Santa Rita, un’altra l’immunità di gregge a settembre, qualche numero tirato per i capelli, annunci esagerati e battute fuori luogo come sulle code per il Black Friday e per i tamponi. Per molto meno, il suo predecessore finiva sulla graticola. E invece al generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario all’emergenza dal marzo scorso, si perdona tutto, perfino il bluff dei militari per salvare le scuole. Ma con il generale i vaccini sono arrivati dove dovevano arrivare e l’immagine delle forze armate ne ha beneficiato. Figliuolo poteva essere più reattivo sulle terze dosi, ma era in ottima compagnia.

VOTO: 6+

 

Locatelli

Obiettivo: draghi va accontentato

In un certo senso il Comitato tecnico scientifico è lui. Nominalmente Franco Locatelli ne è solo il coordinatore, ma di fatto il Cts è stato notevolmente ridimensionato da Mario Draghi, che si fida soprattutto di lui, lo consulta spesso, lo considera il suo più autorevole interlocutore in materia sanitaria. E il professor Locatelli fa il gioco di Draghi, evita accuratamente di scontentarlo. A volte gli va bene, come con il “rischio ragionato” delle riaperture della scorsa primavera; a volte meno, come sulle scuole che, senza un maggiore investimento di risorse, difficilmente reggeranno alla marea crescente dei contagi.

VOTO: 6

 

Brusaferro

L’iss ne sbaglia davvero troppe

All’inizio di dicembre, leggendo le tabelle dell’Istituto superiore di sanità, il Fatto Quotidiano ha scritto che tra fine mese e gennaio gli ospedali di diverse Regioni si sarebbero trovati in difficoltà, costretti a rinviare altre prestazioni per reggere l’urto del Covid-19. Puntualmente è accaduto. Non siamo sicurissimi che il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss, avesse spiegato quei numeri a Mario Draghi con la dovuta enfasi. L’Iss è sotto stress da due anni ma può fare un po’ meglio: dall’indagine sugli anticorpi al monitoraggio nelle scuole, dal sequenziamento alla tempestività e alla qualità dei report.

VOTO: 5,5

 

Lombardia

Sembra di essere su scherzi a parte

Le code chilometriche per i tamponi sono l’ultima immagine del disastro lombardo sulla pandemia. La Regione più ricca del Paese che aveva puntato sull’eccellenza sanitaria, per lo più privata, era stata travolta dalla prima ondata nel 2020. E il presidente leghista Attilio Fontana rischia il processo per l’incredibile vicenda dei camici venduti alla Regione dall’azienda di suo cognato. Intanto però la Lombardia ha recuperato qualche posizione sostituendo l’improbabile assessore Giulio Gallera con Letizia Moratti, al centro di innumerevoli conflitti di interessi ma anche più capace. Il capitombolo sui tamponi non ci voleva.

VOTO: 4

 

Sanitari

C’è chi continua a combattere

Abbiamo scelto il professor Massimo Antonelli, direttore delle terapie intensive del Gemelli di Roma, in omaggio al suo impegno in ospedale e nel primo Comitato tecnico scientifico, quello che nel marzo 2020 andava a caccia di ventilatori perché nessuno ci aveva pensato nella fase di allerta. È il volto di centinaia di migliaia di medici, infermieri e altri operatori sanitari per i quali il 2021, almeno all’inizio, non è stato meno pesante del 2020. E purtroppo ci risiamo, perché la coperta del nostro sistema sanitario è sempre troppo corta, anche oggi che i numeri sono lontani da quelli della prima e della seconda ondata.

VOTO: 7

 

Unione Europea

Dalla parte dei più ricchi

Se nel 2020 la Commissione europea aveva negoziato contratti assai sfavorevoli con i produttori dei vaccini anti Covid-19 allora in fase di studio, nel 2021 è riuscita a pagarli di più. E si è schierata con Germania e Francia contro la sospensione dei brevetti che consentirebbe ai Paesi a basso e medio reddito di ottenere vaccini a condizioni ragionevoli. Più di recente, di fronte all’aumento significativo dei contagi, l’esecutivo Ue guidato da Ursula von der Leyen si è concentrato sulla difesa della libera circolazione delle persone – e in realtà degli interessi collegati – criticando le restrizioni sui viaggi disposte a livello nazionale.

VOTO: 4

 

Oms

Ottimi intenti, ma i risultati?

Sapevamo dell’inevitabile subalternità dell’Organizzazione mondiale della sanità ai governi dei Paesi più forti che pagano le quote maggiori per il suo funzionamento, ma anche a donatori privati come la Bill & Melinda Gates Foundation. Purtroppo, nonostante la sua potenza di fuoco, neppure nel secondo anno di pandemia, l’Oms ha saputo assumere in modo autorevole il ruolo di guida per gli Stati. E anche quando difende cause giuste, come quella dell’accesso ai vaccini per i Paesi a basso e medio reddito, l’Oms rimane lontanissima dagli obiettivi prefissati.

VOTO: 5

 

Big Pharma

Ora aggiornate quei vaccini…

Sono Pfizer, Biontech e Moderna i grandi vincitori del secondo anno di pandemia da Covid-19. Perché hanno realizzato i vaccini a mRna su cui il mondo ricco ha puntato e li hanno venduti alle loro condizioni. Oggi Pfizer, il colosso Usa (nella foto il ceo Albert Bourla), registra utili nell’ordine di 8 miliardi di dollari solo nel terzo trimestre 2021 grazie a un vaccino che vale più di prodotti come Viagra e Xanax. Del resto, già da marzo i vertici parlavano agli investitori della terza dose, Israele già parte con la quarta e la Germania l’ha annunciata. Gli impegni sugli aggiornamenti per le varianti? Ci sono, chissà se sono vincolanti.

VOTO: 8

Molecolare in poche ore a 160 euro. Test rapidi a 7 nel ristorante cinese

“Era meglio quando c’era Gallera, non funzionava un cavolo uguale, ma almeno ogni tanto si rideva…”. È la battuta che circolava ieri tra le decine di milanesi in coda alla farmacia di via Ravizza. Disperati in cerca di un tampone. Un’odissea trovarlo in una regione allo sbando. Come testimoniano le almeno 75 mila persone segregate in casa durante le feste solo a Milano (il calcolo è del Corriere), 1 su 18, molte già giunte oltre il limite della quarantena, ma che non possono liberarsi perché non riescono a tamponarsi.

Un esercito di reclusi destinato a crescere: ieri i nuovi casi hanno toccato quota 28.795, il tasso di positività il 12,8%; le terapie intensive i 193 pazienti (+6); le non intensive i 1.698 (+159) e i morti sono stati 28.

Una disfatta, alla quale l’assessore Letizia Moratti tenta di rispondere con i dati dei vaccinati e con l’immancabile task force. Che lunedì ha partorito l’idea di aprire altri due centri tampone (nei prossimi giorni, però), di aumentare alcune linee in un hub; di chiedere a medici di famiglia e pediatri di tamponare i positivi. Il presidente Attilio Fontana dal canto suo propone di diminuire la quarantena a chi ha la terza dose, perché “è più difficile che si contagi”.

Ciò che Moratti non ammette, è il fallimento del sistema lombardo: sia di previsione, sia di gestione. Basti pensare al portale di prenotazione dei tamponi di Ats in tilt da giorni che impedisce ai medici di famiglia di prendere appuntamenti. Per un molecolare con Ats si deve attendere il 5 gennaio. Certo, c’è il privato: all’hub di Malpensa con 160 euro ti fai il molecolare e hai il risultato in due ore. Ma non tutti possono permetterselo. E anche il privato inizia ad essere pieno zeppo.

Così si va per tentativi. Spesso infruttuosi: “Alcune strutture sanitarie stanno mandando via cittadini che vogliono farsi il tampone nonostante abbiano la prescrizione del medico. È un fatto grave”, tuonava ieri Roberto Carlo Rossi, il presidente dell’Ordine dei Medici. Nei giorni scorsi, Rossi per ovviare alle bizze del portale, aveva ottenuto dalla Regione che bastasse presentarsi nelle strutture sanitarie con un foglio di ricettario o email del medico per avere il test. Evidentemente non tutti i sanitari lo sanno.

Enormi disagi stanno vivendo anche i contatti di positivi – molti all’interno della stessa famiglia –, costretti a vivere in stanze separate, perché non ci sono i Covid Hotel. Tanto che molti non si denunciano più ad Ats, per evitare di entrare in un circolo burocratico che non funziona più. Tanto in casa ci stanno ugualmente. L’assenza delle Usca impone invece ai positivi con febbre alta di fare le file al freddo.

La disfatta è testimoniata dalla nota inviata dalle scuole il 23 dicembre scorso, con la quale si diceva che gli studenti risultati positivi o “sospetti positivi” il 22 dicembre (ultimo giorno di scuola) erano esentati dal tampone. Una misura pensata per non sovraccaricare il tracing, ma che certo non ha contenuto il contagio.

E, nel delirio, ci si arrangia: chi comprando mascherine per strada (ieri la Polizia locale ha sequestrato 1.050 Ffp2 vendute in una bancarella in via Dogana, in pieno centro a Milano), chi cercando sul mercato “parallelo” gli introvabili test fai da te. Come F.R., appena liberata dalla quarantena, ma con ancora due figli positivi e un marito negativo, sparsi per le stanze di casa: “Ho un amico ristoratore cinese che riesce a procurarsi stock di test a China Town. Sono gli stessi nasofaringei che vendono in farmacia a 18 euro l’uno. Lui me li fa pagare 7!”. Un mercato che vola: “La settimana scorsa mi aveva procurato 15 tamponi singoli, ma li abbiamo finiti noi Così li abbiamo ricomprati lunedì, ma erano rimaste solo confezioni da 25. Ne ho prese due, perché nel frattempo ce li hanno chiesti amici e parenti. Mi ha procurato anche 20 Ffp3 a 1 euro l’una. In pratica abbiamo speso più in tamponi che nel cenone di Natale!”.

Italia, 80mila casi e 202 morti. Numeri record in tutta Europa

L’Italia ieri ha fatto il record di tamponi (per la prima volta oltre un milione: 1.034.677) e il record di contagi (78.313 con un aumento di quasi il 50% dai 54 mila di Natale). C’è da attendersi che questi record durino poco se, come dice Fabio Ciciliano del Comitato tecnico scientifico, i contagi probabilmente avvenuti nei giorni di Natale determineranno un “incremento che vedremo tra qualche giorno, perché a differenza della variante Delta, dove è necessario più tempo, gli effetti della Omicron si vedranno prima”. Record anche in Francia: oltre 180 mila nuovi casi, quasi il doppio dei 100 mila di Natale. In Gran Bretagna mancano i numeri di Scozia e Irlanda del Nord, la sola Inghilterra ha registrato 117 mila infezioni in 24 ore. Va meglio, come sappiamo, in Germania. Frenano i contagi anche in Belgio e, più lentamente, nei Paesi Bassi.

In Italia il bollettino quotidiano registra anche 202 morti (il totale supera 136 mila) e un aumento di 366 pazienti nei reparti ordinari (in tutto sono 10.089) e di 19 nelle terapie intensive, dove i nuovi ingressi in 24 ore sono stati 119 (in totale 1.145 ricoverati). Quasi tutti dovrebbero risalire a contagi avvenuti con la variante Delta, che la Omicron dovrebbe aver superato negli ultimi giorni ma è ancora presente nel Paese. I primi studi di cui riferiamo a pagina 6 rassicurano: è certamente più contagiosa ma provoca danni meno gravi, quindi potrebbe anche accompagnarci all’uscita di quest’incubo. Una rapida crescita e una altrettanto rapida discesa, con un aumento contenuto dei ricoveri e della mortalità.

Oggi il governo ascolterà il parere del Cts e poi dovrebbe decidere le probabili modifiche dei tempi di quarantena per i vaccinati che hanno avuto contatti con persone positive. Almeno per chi ha fatto tre dosi (e forse due dosi ma da meno di 150 giorni) potrebbe scendere dagli attuali sette a cinque giorni, se non tre, con tampone negativo in uscita. Il problema, segnalato da esponenti del mondo scientifico e dalle Regioni, è che ci sono 2,5 milioni di persone in quarantena, c’è il rischio di arrivare a 10 milioni e di paralizzare così buona parte del Paese. All’attenzione del governo c’è anche la ripresa delle scuole che si annuncia problematica il 10 gennaio e l’eventuale estensione dell’obbligo vaccinale a settori del pubblico impiego che hanno mansioni di front office. Ma la decisione non è attesa oggi.

Intanto la responsabile Pfizer per la Svizzera, Sabine Bruckner, ha fatto sapere che l’azienda americana sta verificando l’efficacia del vaccino sulla variante Omicron. Potrebbero aggiornarlo, come sollecitato da molti, per la prossima primavera. “Se dovesse essere necessario si potrebbe produrre nell’arco di tre mesi”, ha detto Bruckner al giornale svizzero in lingua tedesca Blick.

Roma: M5S all’opposizione di Gualtieri, ma nella ex Provincia sta con il “sindaco”

Stesso sindaco, stesso gruppo politico, posizione diversa. Fra pochi giorni basterà percorrere i 550 metri che separano il Campidoglio, sede del Comune di Roma, da Palazzo Valentini, dove si riunisce il consiglio dell’ex Provincia, per vedere un M5S da una parte “fermamente all’opposizione” e dall’altra per metà organico alla maggioranza a sostegno di Roberto Gualtieri. È l’effetto distopico creato dalle elezioni della Città Metropolitana, evento che da quando nel 2014 è entrata in vigore la riforma Delrio, vede far votare i rappresentanti in aula ai consiglieri comunali in quel momento eletti nel territorio, con coefficienti diversi a seconda del numero di abitanti. Così, il gruppo pentastellato di Roma Capitale – dove milita anche l’ex sindaca Virginia Raggi – ha votato il capitolino Paolo Ferrara e si era accordato per far eleggere Angelo Capobianco, consigliere di Monterotondo, per completare l’opposizione a Gualtieri. Peccato che il consigliere metropolitano in pectore sia stato superato al fotofinish da Cristian Falconi, altro pentastellato in carica a Guidonia, grazie al voto di un consigliere romano del Pd. Proprio a Guidonia, infatti, il sindaco M5S Michel Barbet qualche mese fa aveva accolto in maggioranza il Partito democratico. Il risultato è che – salvo sorprese – Falconi passerà in maggioranza, lasciando il solo Ferrara a fare opposizione a Gualtieri insieme alla destra. M5S di lotta e di governo, insomma. Stavolta nel vero senso della parola.

La questione ha creato più di qualche imbarazzo nel M5S capitolino, dove già non si è vissuta bene la presenza organica di due assessori nella giunta dem della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti, a fronte di una campagna elettorale in cui Virginia Raggi si è giocata (perdendo) proprio con Gualtieri la riconferma a Palazzo Senatorio. Lunedì sera c’è stata una riunione piuttosto accesa fra il gruppo dei consiglieri romani e quello dei rappresentanti della provincia, moderata dall’ex deputata Roberta Lombardi, fra le fautrici dell’ingresso nella maggioranza regionale. Non si è arrivati a una conclusione finale, ma solo alla presa d’atto di una spaccatura che difficilmente verrà sanata a breve. Anche perché in Campidoglio, il gruppo M5S resta inamovibile all’opposizione di Gualtieri.

Emiri, russi, lobby e affari suoi: un anno di Renzi Granturismo

Per viaggiare ha rinunciato a sedute parlamentari, ha fatto acrobazie tra i divieti per il Covid, ha sfidato ogni imbarazzo dando l’impressione di partecipare a lussuose conferenze e kermesse anche solo per il gusto di provocare. Oltreché per far lievitare quel conto in banca che meno di quattro anni fa sbandierava con orgoglio in televisione, vantandosi di essere rimasto povero tra gli arricchiti della politica.

Un paio di settimane fa, abbiamo dato conto dell’ultima impresa araba di Matteo Renzi, volato negli Emirati per minacciare che un giorno, chissà, potrebbe anche “tornare al governo”. Ma riannodare i fili dell’ultimo anno consente di riguardare dall’alto un mosaico del tutto inusuale per chi ricopre incarichi politici di rilievo: Renzi ha collezionato impegni in undici Paesi diversi, senza contare gli incontri a cui, maledetto virus, ha partecipato via Zoom.

In origine fu Bin Salman, il principe saudita definito “un amico” e omaggiato da Renzi in piena crisi di governo. È il 26 gennaio: Matteo vola a Riyad per un evento del FII Institute, un organismo legato a un fondo sovrano dell’Arabia Saudita che lo paga fino a 80mila dollari lordi all’anno. Renzi dipinge un Paese-locomotiva di un “Nuovo Rinascimento”, confessa al principe Bin Salman – accusato dalla Cia di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi – di “invidiare il costo del lavoro” saudita. Tornato in Italia, rivendica tutto quanto, senza chiarire però molti aspetti dei suoi interessi personali in Medio Oriente.

I dubbi aumentano quando il 6 marzo, il senatore semplice di Scandicci atterra a Dubai per un mai chiarito fine settimana negli Emirati: Renzi giura di essersi pagato tutto da sé e assicura di non essere andato in vacanza – anche perché le normative anti-Covid lo vietano –, ma non spiega chi abbia incontrato. Di certo c’è che due giorni dopo, come rivelato da La Stampa, l’ex premier torna in Italia in aereo con l’amico di sempre Marco Carrai. L’Italia si divide tra zone rosse, arancioni e gialle, ma Renzi è una trottola. Il 22 marzo è in Senegal, dove vede il presidente Macky Sall e l’ex premier inglese Tony Blair, accompagnato da alcuni imprenditori italiani. Passa una settimana e Renzi viene paparazzato nel paddock del Gran premio di Formula 1 del Bahrein: è il 28 marzo e Matteo si gode lo show in compagnia di Jean Todt.

L’attenzione sugli spostamenti di Renzi cresce e lui preferisce calare il ritmo. O forse è solo più bravo a far perdere le tracce, fatto sta che tra la primavera e l’estate si gode le vacanze tra Ischia e la Sardegna – dove è ospite sullo yacht di un emiro del Qatar – e gira l’Italia per presentare il suo libro, anche a scapito dei lavori del Senato. Ma le conferenze sono un richiamo troppo forte. Il 12 luglio, Renzi partecipa a distanza al Free Iran World Summit, snocciolando buoni consigli sulla “fine della violazione sistematica dei diritti umani da parte del regime iraniano”. Il 22 luglio ecco invece la Turchia, dove Renzi officia i Menaa Best Brand Awards insieme a ospiti di ogni tipo: l’ex tennista Boris Becker, l’ex arbitro Pierluigi Collina, l’ex calciatore Clarence Seedorf. Ma è dopo le Amministrative di inizio ottobre che il leader di Italia Viva si dedica quasi a tempo pieno alle relazioni internazionali. Il 18 ottobre è ad Atene a un forum organizzato dall’Economist. Il 26 ottobre è in Baviera per l’Unternehmertag, un raduno esclusivo di manager, lobbisti, politici e imprenditori organizzato dalla Mountain Partners, colosso svizzero che investe in start-up in tutto il mondo. Il giorno dopo, in Italia, il Senato vota per affossare il ddl Zan sull’omotransfobia, ma Renzi ha altri programmi. Nelle stesse ore si sposta dalla Germania a Riyad, dove lo aspettano i suoi colleghi del FII Institute per un altro tuffo nel Rinascimento saudita. Mezza Italia – quella che chiedeva la legge Zan – insorge, ma lui se ne frega: “Legge affossata? La colpa è di Pd e M5S”. Neanche il tempo di tornare in Italia che Renzi riparte: questa volta va a New York perché nel frattempo si è scoperto che Matteo è entrato nel consiglio di amministrazione di Delimobil, società di car sharing con sede in Lussemburgo e attiva in Russia. L’azienda vuole quotarsi in Borsa a Wall Street e ha arruolato Renzi per il grande salto. Lui, al Racket & Tennis Club di Manhattan, fa lo splendido: “Qui chi investe è stimato, in Italia lo attaccano”. Il 6 novembre, due giorni dopo, Matteo dovrebbe intervenire al Global Baku Forum, in Azerbaigian, ma un imprevisto dell’ultimo minuto fa saltare tutto. Tra il 9 e il 10 novembre Renzi è di nuovo in aereo. Nessun nuovo incarico, ma la presentazione a Parigi e a Bruxelles del libro Controcorrente, perfetta occasione per rinsaldare i rapporti con gli alleati europei. E siamo a un mese fa. Proprio mentre il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è a Dubai in visita all’Expo, Renzi si presenta a due passi dai padiglioni per una conferenza.

Qui parla del “governo del futuro” e attacca di nuovo Giuseppe Conte: “Sono sicuro che Renzi sia qui per i suoi business, le sue cose, quindi non ci incontreremo”, taglia corto Di Maio. Dal Forum negano ogni pagamento all’ex premier, che però negli Emirati Arabi tornerà presto. Prima c’è ancora da sistemare qualcosa in Russia, dove Renzi vola per “un incontro di routine” – come spiegano al Fatto fonti di Delimobil – “con il dottor Vincenzo Trani, presidente e consigliere di Delimobil”. Non è finita. La Formula 1, si sa, è una vecchia passione del leader di Iv. Che infatti il 6 dicembre viene avvistato intorno al buffet per gli ospiti del Gran Premio di Gedda, Arabia Saudita. Fino all’ultimo evento, quello del 12 dicembre a Ras al-Khaima, a nord di Dubai. Qui Renzi invoca “grandi emozioni” e non esclude “il ritorno al governo”. Sempre che, con un’agenda del genere, trovi il tempo per occuparsene.

I bavagli, il “mi cacci?” di Fini, l’assist del Colle e lo shopping

2010, 25 febbraio. L’avvocato inglese David Mills, condannato in primo e secondo grado a 4 anni e mezzo per corruzione giudiziaria, si salva in Cassazione per prescrizione (scattata da appena due mesi). Ma resta colpevole di essersi fatto corrompere “nell’interesse di Berlusconi” e dovrà risarcire allo Stato italiano 250mila euro.

10 marzo. Mentre la crisi finanziaria partita due anni prima dagli Usa travolge l’Europa e soprattutto l’Italia (-3,1% di Pil, sistema bancario in tilt), governo e maggioranza continuano a occuparsi a tempo pieno degli affari di Berlusconi. Il Senato approva il ddl Alfano sul “legittimo impedimento” per sospendere di nuovo i suoi processi, ripartiti dopo la bocciatura del “lodo”: il premier e i ministri imputati potranno accampare impegni governativi per non comparire in tribunale per 18 mesi consecutivi, senza che i giudici possano verificarli (basta la dichiarazione scritta di un segretario di Palazzo Chigi). Napolitano promulga anche questa porcata. Antonio Di Pietro raccoglie le firme per abrogarla col referendum, mentre il Tribunale di Milano ricorre alla Consulta perché la dichiari incostituzionale.

12 marzo. Il Fatto rivela che Berlusconi è indagato a Trani per aver minacciato con telefonate di fuoco il suo fedelissimo all’Agcom, Giancarlo Innocenzi, affinché inducesse l’Autorità garante delle comunicazioni a fornire al fido Dg della Rai Mauro Masi le armi giuridiche per chiudere Annozero di Michele Santoro. I reati ipotizzati sono concussione e minaccia a corpo politico dello Stato. Il processo verrà trasferito a Roma, dove si chiuderà con la consueta archiviazione.

22 aprile. Dopo settimane di dissenso sulle leggi vergogna, il premier va allo scontro frontale con Gianfranco Fini nella prima assemblea del Consiglio nazionale del Pdl, in diretta tv. Fini: “A volte diamo l’impressione di voler garantire sacche d’impunità. Col processo breve e la prescrizione breve avremmo spazzato via 600mila processi”. Berlusconi: “Basta con la magistratura politicizzata! Se vuoi fare politica, dimettiti da presidente della Camera!”. Fini: “Sennò che fai, mi cacci?”. Tre finiani doc, Bocchino, Briguglio e Granata, criticano la decisione del governo di negare la protezione a Gaspare Spatuzza, il pentito che aiuta i pm siciliani a riscrivere la storia del delitto Borsellino e della trattativa Stato-mafia, accusando Berlusconi e Dell’Utri (di nuovo indagati a Firenze per le stragi del ’93). I tre vengono deferiti ai probiviri del Pdl.

29 giugno. La Corte d’appello di Palermo condanna Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni. E la Procura di Palermo indaga per concorso esterno il presidente del Senato Renato Schifani (che sarà poi archiviato). Berlusconi approfitta dell’estate per piazzare altre due leggi vergogna. Ripresenta in Senato la “legge bavaglio” di Alfano (che riprende e peggiora il ddl Mastella contro il diritto di pubblicare atti d’indagine e intercettazioni e limita i poteri dei magistrati di intercettare indagati), rinviata un anno prima per le perplessità del Colle. E spinge alla Camera sul “processo breve”, già approvato al Senato, che estinguerebbe decine di migliaia di processi (fra cui i suoi). Protestano giornalisti, editori, magistrati, Popolo Viola, centrosinistra e finiani.

1° luglio. Grande manifestazione a Roma, in piazza del Popolo, contro la legge Bavaglio. Napolitano la seppellisce: “I punti critici sono chiari. Valuterò il provvedimento al momento della firma”. Il ddl finisce sul binario morto.

5 luglio. Il primo ad approfittare del “legittimo impedimento” è il forzista Aldo Brancher, che Berlusconi ha appena nominato ministro del Federalismo per consentirgli di rinviare la sentenza sui soldi di Fiorani per le scalate bancarie. Stavolta protesta persino Napolitano e Brancher deve lasciare il governo e farsi processare (verrà condannato fino in Cassazione a 2 anni per appropriazione indebita e ricettazione). Invece nessuno si lamenta quando Berlusconi usa il “legittimo impedimento” per congelare i suoi processi per i casi Mills, Mediaset e Mediatrade.

29 luglio. Fini viene espulso dal Pdl in quanto “incompatibile” con i suoi “valori” e l’indomani fonda “Futuro e Libertà per l’Italia” (Fli), portandosi dietro 34 deputati e 10 senatori. Ma per ora non toglie l’appoggio al governo, garantendo una “fiducia con riserva”. Tv e giornali berlusconiani gli dichiarano guerra, accusandolo di ogni nefandezza per un alloggio a Montecarlo di 50 mq ereditato da An, ceduto a due società offshore e affittato a Giancarlo Tulliani, fratello della sua compagna Elisabetta. Ne nascerà un processo per riciclaggio, tuttoggi in corso.

7 novembre. Fini chiede al premier di dimettersi per allargare la maggioranza all’Udc, o Fli passerà all’opposizione. Risposta di Berlusconi: “Piuttosto che dimettermi, guerra civile”. Napolitano gli lancia l’ennesimo salvagente: non tollererà crisi di governo prima dell’“inderogabile approvazione” della legge di Stabilità.

15 novembre. Fli ritira i ministri e va all’opposizione, garantendo solo un’ultima fiducia sulla legge di Stabilità. Ora le opposizioni sono maggioranza alla Camera, dove il centrodestra scende a 305 deputati su 620. Lì centrosinistra, Udc e Fli presentano tre mozioni di sfiducia. Il Pdl risponde con una mozione di fiducia al Senato, dove conserva una piccola maggioranza, sia pur insidiata dalle fughe verso Fli.

16 novembre. Riecco il pronto soccorso Napolitano, che impone al Parlamento una road map al rallentatore che pare fatta apposta per le tattiche dilatorie di Berlusconi. La legge di Stabilità passerà nella prima decade di dicembre. Il 13 Berlusconi parlerà alle Camere e solo dopo si discuteranno le mozioni di sfiducia. Il caso vuole che proprio il 14 la Consulta abbia fissato da mesi il verdetto sul legittimo impedimento: subito rinviato a gennaio. Così Berlusconi allontana i due amari calici: la ripartenza dei processi e la caduta del governo. E guadagna un mese per scatenare la campagna acquisti fra i gruppi di opposizione e rimpiazzare i transfughi finiani, come ai tempi del Prodi-2. Stavolta il mercato delle vacche si svolge alla luce del sole, senza risparmio di mezzi e di promesse: soldi, poltrone, seggi sicuri alle prossime elezioni. I voltagabbana che passano dall’opposizione al Pdl si fanno chiamare “Responsabili”: una ventina fra ex dipietristi (Razzi e Scilipoti), ex Pd, ex Udc, qualche finiano di ritorno.

14 dicembre. Berlusconi strappa la fiducia alla Camera per 3 voti, rendendo ininfluente la fuga dei finiani. E la conta tocca proprio a Fini: 314 No alla sfiducia, 311 Sì, 3 astenuti, 2 assenti. Altri “responsabili” saliranno sul carro del vincitore nei mesi seguenti, puntellando il governo per un altro anno.

30 dicembre. Napolitano firma l’ultima porcata dell’anno: la controriforma Gelmini dell’Università. È il buon anno per i docenti e gli studenti.

 

Renzi tratta su Mario: “Un premier politico”

Il sogno di essere il kingmaker del prossimo presidente della Repubblica, Matteo Renzi ce l’ha. E non solo per questioni di utilità, ma anche per pure ragioni narcisistiche. Fu lui a far fallire l’accordo Pd-M5S subito dopo le elezioni del 2018, lui a dare il via al governo giallorosso nel 2019, lui ad aprire la strada a Mario Draghi nel 2021. Alla vigilia del voto per il Quirinale del 2022, vagheggia l’enplein. È attivissimo l’ex premier, concentrato su tutti i plurimi tavoli sui quali gioca. In questi giorni è prevalente l’opzione che lo vede lanciare Draghi al Colle. Per ora, è l’unico che può farlo: il centrodestra è incartato con la candidatura di Berlusconi, Giuseppe Conte cerca altre opzioni, Enrico Letta deve tener conto di un Pd che rema contro. Per Renzi, dunque, si apre un’opportunità. Che va accompagnata da un accordo parallelo sul premier.

Raccontano che ci sono due schemi: il primo vede Renzi candidare Draghi, poi accettare a Palazzo Chigi un tecnico, in cambio soprattutto di una legge elettorale che lo garantisca. Il secondo, il più accreditato, vede sempre Draghi al Colle, ma il premier diventa politico. Matteo Salvini resta – con il suo consenso – fuori dalla maggioranza e si va verso il proporzionale. Il dialogo di Renzi con il leader della Lega ne uscirebbe rafforzato: a Salvini non regalare l’opposizione alla Meloni serve in chiave elettorale. E non restare troppo schiacciato sulla linea di Giancarlo Giorgetti è utile in chiave interna. La maggioranza Ursula resta un pallino prima di tutto del Pd. Che peraltro potrebbe a quel punto incassare il premier: in prima fila c’è Dario Franceschini (che nei momenti clou un dialogo con Renzi lo ha sempre mantenuto), gira pure il nome di Letta (che però a Palazzo Chigi ci punta da vincitore delle elezioni). Una parte dei dem gioca ancora di sponda con il leader di Iv, come fu quando lo utilizzarono per bombardare il Conte 2: l’obiettivo era il Conte ter, arrivò Draghi. E infatti in questo frangente Renzi corteggia anche Luigi Di Maio: come premier può andar bene, non fosse che per creare qualche problema a Conte. Per quel che riguarda la legge elettorale, il proporzionale va bene a tutto il centro che Renzi coltiva, ma con il quale non conclude. Giovanni Toti aspetta ancora un incontro con lui. Carlo Calenda, per ora, sfugge all’ipotesi di ritrovarsi nello stesso contenitore. Mentre c’è chi lavora a un’operazione che tenga insieme tutti, come Gaetano Quagliariello: della serie, l’unione fa la forza. E in fondo per “Matteo” la condizione base è quella di essere rieletto senza sforzo, per tenersi l’immunità parlamentare e continuare a dedicarsi ad altro.

Draghi, nella conferenza stampa di fine anno, ha chiarito che si aspetta la stessa maggioranza di adesso fino a fine legislatura. Ma la trattativa su cosa accade nel caso che lui vada al Colle è aperta. A Palazzo Chigi sanno che qualche mediazione con il Parlamento dovrà pur farla. Il medesimo Renzi al premier ha fatto sapere che a lui la performance pre-natalizia non è piaciuta: troppo impositiva. Segnali di appoggio condizionato. Resta la tempistica per il “lancio” di Draghi. Con Berlusconi in campo, difficile che ci si arrivi per la prima votazione. Bisogna aspettare almeno la quarta. Con il centrodestra che nelle prime tre vota scheda bianca e il centrosinistra magari Anna Finocchiaro. Mentre alla quarta, se Berlusconi resta in campo, i franchi tiratori del centrodestra continuano a votare scheda bianca. Dopodiché, il nome di Draghi si può fare. La trama oggi è questa, ma con Renzi regista il film può cambiare in corsa. Con Amato o Casini che diventano protagonisti.