Verdini si gioca la grazia dal futuro capo dello Stato

Negli ultimi due mesi è stato visto spesso nei pressi dei Palazzi romani. L’ultima volta a metà dicembre. Viaggia da Firenze a Roma, grazie ai permessi che gli consentono di uscire dagli arresti domiciliari che sta scontando nella sua villa di Pian de’ Giullari dopo la condanna a 6 anni e 6 mesi per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. A mangiare va a PaStation, ristorante di proprietà del figlio Tommaso in piazza Campo Marzio (a pochi passi dalla Camera), e lì incontra leader di partito, parlamentari e amici di vecchia data. Alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica, Denis Verdini sa che per contare qualcosa deve ricominciare­a frequentare il Palazzo.

Lavora per il genero, Matteo Salvini, fidanzato con la figlia Francesca. I due si parlano, si confrontano e si vedono. Prima Verdini ha garantito a Silvio Berlusconi che i voti per lui, nel Gruppo Misto, “verranno fuori”. Ma adesso l’ex macellaio di Fivizzano sa che l’elezione del leader di Forza Italia è quasi impossibile e quindi lavora per un piano B con Salvini. “Se Draghi vuole fare il capo dello Stato sarà difficile opporsi – ha detto Verdini a chi ci ha parlato – ma in questo Parlamento così frammentato tutto è possibile: alla fine anche Casini o Amato potrebbero essere eletti”. Il dottor Sottile, d’altronde, nel 2015 era il candidato del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi officiato proprio da Verdini, mentre il fondatore dell’Udc sta salendo nelle quotazioni degli ultimi giorni: è il nome che hanno in testa Salvini e Renzi e di cui hanno parlato anche nel colloquio in Senato nella notte tra il 23 e il 24 dicembre mentre si votava la legge di Bilancio. Chi conosce Verdini però sa che l’ex sherpa berlusconiano non è così attivo solo per avere lo scettro del kingmaker (occulto) del prossimo capo dello Stato. Ci sarebbe anche una ragione più concreta: cercare la grazia. Una prerogativa che spetta al presidente della Repubblica. Verdini, raccontano due fonti qualificate, per com’è fatto, non la chiederebbe mai direttamente. Ma non sarebbe esclusa l’ipotesi di una grazia concessa motu proprio dal prossimo inquilino del Quirinale. L’ex senatore di FI e di Ala fino a oggi ha scontato un anno e due mesi, su 6 anni e 6 mesi della pena per bancarotta: 3 mesi li ha passati a Rebibbia mentre da gennaio è ai domiciliari nella sua villa di Firenze. Chi (e se) potrebbe concedergli la grazia è ancora presto per dirlo. Ma un candidato di cui Verdini ha molta stima e con cui si è sentito negli ultimi giorni è Casini.

II fondatore dell’Udc, eletto nel Pd e oggi senatore delle Autonomie, da mesi si muove per cercare appoggi trasversali. Anche se pubblicamente è sparito dalla scena pubblica, Casini ha telefonato ai segretari di partito per degli auguri di Natale molto speciali. Ha sentito Salvini, Matteo Renzi e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con cui i rapporti sono ottimi: i due si confrontano spesso sui principali dossier di politica internazionale. Casini in questo momento potrebbe contare sull’appoggio di Lega, Italia Viva e il Pd non potrebbe opporsi visto che “Pierfurby” è stato eletto proprio con i dem a Bologna. Oltre all’ostacolo Berlusconi però Casini deve scontare anche l’ostilità di Giorgia Meloni: nella scorsa legislatura, la leader di FdI non ha condiviso la gestione della commissione Banche da lui presieduta e per questo oggi farebbe molta fatica a votarlo al Colle. Nel frattempo il centrodestra è paralizzato dalle ambizioni di Berlusconi. Entro inizio gennaio, sia Meloni che Salvini gli chiederanno garanzie sul pallottoliere. Senza i numeri, punteranno su un altro cavallo.

Conte insiste sul no a Draghi, ma per i 5S c’è l’incubo Amato

L’avvocato cammina sul ciglio di un burrone, quello chiamato voto segreto. Ma per vedere come andrà a finire deve innanzitutto arrivarci, alle urne per il Colle. Così, per non cadere di sotto, Giuseppe Conte prova innanzitutto a tenere buoni i gruppi parlamentari, facendo circolare qualunque nome per il Quirinale – di donna, nel dettaglio – tranne quello di Mario Draghi, che per gli eletti a 5Stelle fa rima con voto anticipato. “Lui non si può spostare da Palazzo Chigi” si sono in sostanza ridetti ieri l’ex premier, i ministri e i vicepresidenti del Movimento in una lunga riunione, alla quale era però assente il giocatore più attrezzato, Luigi Di Maio, in visita ufficiale in Tunisia. Gli altri, Conte e parecchi maggiorenti, hanno teorizzato che, con i contagi da Covid che corrono all’impazzata e le imprese piagate dal caro bollette, non è proprio il caso di traslochi da un Palazzo all’altro. Anzi, sarebbe molto meglio che al Colle rimanesse Sergio Mattarella, che i grillini non smettono di invocare come un amuleto contro la malasorte. Il resto è soprattutto paura. A partire da quella di una mossa di Silvio Berlusconi, “perché alla fine lui si potrebbe sfilare per far convergere tutto il centrodestra su Draghi, e a quel punto noi come faremmo a non votarlo?” già si macerano nel M5S. Anche per questo, Conte e il Movimento sanno – e temono – di dover ragionare anche su nomi che fino a qualche mese fa sarebbero parsi lunari: Giuliano Amato, che “per ora non è contemplato” giurano, ma tra qualche giorno chissà, o Luciano Violante, risalito nel borsino nelle ultime ore.

Perché sempre da lì bisogna ripartire, dal centrodestra che già adesso ha più numeri in Parlamento, e figurarsi tra qualche giorno, quando si aprirà la corsa a pescare nel Gruppo Misto.

“E allora nomi come Amato e Violante, se condivisi da molti partiti, potrebbero essere comunque meglio di altre soluzioni” ragiona fuori verbale e fuori della riunione un veterano. Ma per il corpaccione del M5S sarebbe comunque faticosissimo votarli. Lo sa anche Conte, che pure stima Amato “come costituzionalista”, come raccontano anche dal M5S. E a cui suoi interlocutori abituali (Goffredo Bettini) o saltuari (Massimo D’Alema) non parlano certo male dell’ex premier socialista. Una carta sul tavolo, a cui Di Maio non sarebbe di sicuro ostile. È presto, per capire se e quando ci si arriverà. Nell’attesa, Conte vuole mostrarsi in partita, attivo nel cercare un’alternativa a Draghi, anche assieme al centrodestra. Per questo insiste sull’opzione di una donna per il Quirinale, rilanciata ieri anche dalla vicepresidente vicaria Paola Taverna: “L’Italia sarebbe matura per vedere salire al Colle una figura femminile di altissimo profilo”.

Profilo ancora senza un vero nome, anche se uno o due big in queste ore hanno buttato lì il nome di Letizia Moratti. Mentre è certo che nella riunione prima di Natale, Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza avessero concordato di partire da Anna Finocchiaro come candidata di bandiera del centrosinistra, dem gradita a diversi senatori del M5S (ma non ai deputati). Un patto che la strategia di Conte di aprire alle destre potrebbe aver incrinato, per i mugugni di diversi dem. Ma per l’avvocato vale provare ogni strada, pur di evitare Draghi al Quirinale, o almeno per mostrare che questo è l’obiettivo. Sempre per questa ragione, nelle ultime ore avrebbe avuto contatti con Matteo Salvini, per ragionare sul da farsi. Mentre tra i 5Stelle ha destato impressione il malessere di diversi del Pd nei confronti di Letta, reo di sembrare quasi rassegnato all’ascesa al Colle del premier. “Sembra in difficoltà perfino lui, che ha sempre goduto di buona stampa…” era il commento diffuso ieri.

Ma c’è poco da stupirsi, in questa fase così vischiosa. “Piuttosto ci vorrebbe una vera strategia” morde un dimaiano. Per ora c’è soprattutto una speranza, che accomuna Conte e Di Maio: ossia che a esplodere sia proprio il centrodestra, incapace di reggere la voglia di Quirinale di Berlusconi. “Non reggeranno la sua candidatura” ripete da giorni nei colloqui privati Di Maio, predicando calma a ogni 5Stelle che incontra. Ma di calma se ne vede pochissima, da quelle parti.

Le bugie migliori

Il 28 dicembre 2020, un anno fa a ieri, il tasso di positività dei tamponi era al 12,4% contro il 7,5 di ieri. I morti erano 445, contro i 202 di ieri. I ricoverati in terapia intensiva 2.565 (-15 sul giorno prima) contro i 1.145 di ieri (+19) e nei reparti ordinari 23.932 (+361) contro i 10.089 di ieri (+366). I dati di ieri sono poco meno della metà rispetto a un anno fa. Ma un anno fa i vaccinati erano quasi zero (si era partiti simbolicamente col Vaccine Day il 27 dicembre), mentre oggi sono l’89,5% con una dose, l’85,6% con due e il 56,2 con tre. Quindi i vaccini hanno evitato una strage biblica e (per ora) un altro collasso degli ospedali, ma contro i contagi servono a poco. E il Green pass per lavorare, unico nel mondo libero, manda in giro milioni di vaccinati potenzialmente infettivi, ma convinti di non esserlo, spesso più insidiosi dei No Vax “tamponati” ogni due giorni. Un anno fa stampa, destre & Iv attribuivano a Conte la seconda ondata, peraltro peggiore nel resto d’Europa. Ora nessuno addossa a Draghi la quarta, neppure noi: la colpa è del Covid, non del governo. Ma Draghi non può dire di essere stato colto di sorpresa e avrebbe dovuto fare cose che non ha fatto (più mezzi pubblici e più aule scolastiche per garantire le distanze, un piano per la ventilazione nei luoghi chiusi) ed evitarne altre che ha fatto (il Green pass per lavorare, lo smantellamento dello smart working nella Pa, il caos nella comunicazione e l’occultamento dei dati sulle scuole). Ma soprattutto non avrebbe dovuto mentire, cosa che invece fa con allarmante frequenza.

Lo fece il 22 luglio: “Il Green pass è una misura che dà la garanzia di ritrovarsi con persone che non sono contagiose”. Un messaggio falso, antiscientifico, populista e molto dannoso, visti gli attuali dati dei vaccinati contagiati e ricoverati (e si sapeva da maggio, con Israele quasi tutto vaccinato con doppia dose, ma già travolto dai contagi). Anche nella conferenza stampa del 22 dicembre ha mentito due volte sapendo di mentire. Sulla riforma Irpef: “In termini percentuali, i maggiori benefici si concentrano sui lavoratori con 15mila euro di reddito” (ma l’Ufficio parlamentare di Bilancio l’aveva già sbugiardato: 368 euro di riduzione media d’imposta per i redditi sopra i 38mila euro contro i 162 previsti per quelli più bassi). E sul Pnrr: “Abbiamo raggiunto tutti e 51 gli obiettivi” (ma l’ha smentito l’indomani la relazione del suo governo sui vari target concordati con l’Ue incompiuti e sulla “ancora parziale funzionalità del sistema informativo unitario ReGiS” del Mef che deve monitorare e rendicontare i progetti). Brutta cosa le bugie, specie per il migliore presidente del Consiglio che vuol diventare il migliore presidente della Repubblica.

“Un vuoto d’aria” e di memoria: Mondadori riesuma Bordini e un po’ bara

Ricorderete forse le feroci polemiche negli anni Sessanta tra Pier Paolo Pasolini e la neoavanguardia del Gruppo 63. Pasolini invitava a disertare quel gruppo, altrimenti, come mi disse in una lettera che è comparsa nel libro appena uscito (Pier Paolo Pasolini, Le lettere, Garzanti), i giovani poeti sarebbero diventati tutti mostri. Dimenticare l’avanguardia, predicava. Edoardo Sanguineti firmò un coccodrillo dopo il massacro di Pier Paolo, in cui si rallegrava della sua scomparsa (“ce lo siamo tolti dalle scatole”). Per Pasolini il neo-capitalismo voleva sterminare la cultura di sinistra e la neoavanguardia si era prestata al gioco. Dopo il successo del romanzo di genere di Umberto Eco del 1980, le polemiche si placarono.

Ogni tanto rinascono però sotto traccia. Per la stampa postuma del libro di poesie Un vuoto d’aria di Carlo Bordini (1938-2020), appena uscito da Mondadori con la prefazione di Guido Mazzoni e la cura di Francesca Santucci, su Facebook si è riaccesa l’antica polemica. Ormai sui giornali si scrivono quasi solo soffietti, mentre sui social i post sono spesso più animati e sinceri. Ha cominciato Andrea Di Consoli attaccando il prefatore del libro, il quale sarebbe all’oscuro di quasi tutto l’itinerario poetico di Bordini. Il suo peccato è quello di non aver citato i tanti amici e critici di Bordini e di essersi fermato alla ripresa dell’interesse per il poeta di Strategia con i rimasugli della neoavanguardia ancora attivi, da Mazzoni stesso ad Andrea Cortellessa.

Presentai il primo libro di Bordini a Enzo Siciliano che ne scrisse. Divenne il deuteragonista del mio romanzo Filo da torcere (Feltrinelli 1982). Fu citato da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nell’antologia di successo Il pubblico della poesia, nonché nella mia antologia sulla scuola romana di poesia, che andava da Corazzini a Magrelli. Insomma, lo sperimentalismo di Bordini era di vecchia data. Mazzoni dunque ne fa un affiliato alla neoavanguardia, nonostante il parere di Franco Fortini, Filippo La Porta e dei succitati Siciliano, Berardinelli, Di Consoli e tanti altri. Ed è stato come se i tre quarti della vita artistica di Bordini fosse stata affossata per sempre. Nelle poesie postume di Un vuoto d’aria ho ritrovato il poeta sornione di sempre, ironico e bastevolmente cinico, trotskista di vecchia data e cane sciolto a vita: “Da molto tempo non ho più idee./ Sono capace solo di guardare”, scriveva accorato prima di morire. Quella dello Specchio di Mondadori è sembrata a molti un’operazione disonesta. Bordini d’avanguardia? Puah. In altri tempi avremmo assistito a un duello in piena regola.

Benvenuti nel Wasteocene, l’impero della spazzatura

Non ce ne siamo accorti: siamo convinti di essere nell’Antropocene – l’era geologica in cui l’uomo domina indisturbato sul pianeta –, ma in verità siamo già sprofondati nel “Wasteocene”, come spiega lo storico ambientale Marco Armiero nel suo saggio su L’era degli scarti (Einaudi). Tuttavia questo neologismo non è una “raffinata etichetta accademica” per lamentarci dei rifiuti, oppure una “familiare nostalgia ambientalista”: l’autore l’ha coniato – dall’inglese waste, rifiuto – per indicare l’epoca in cui lo scarto diventa il paradigma “socio-ecologico” su cui si basa l’intera società.

“Regola numero uno: non lasciare mai la parte di mondo alla quale appartieni; regola numero due: non chiederti dove vanno a finire i resti indesiderati del tuo benessere”. Lo si chiami come si vuole – “violenza lenta, Scartocene o Capitalocene” –, questo periodo storico non guarda in faccia a nessuno. Il “Wasteocene svela gli effetti del capitalismo sulla vita”, creando “muri tra gli ‘altri’ che si possono scartare e un ‘noi’ rassicurante da proteggere a ogni costo”, ghettizzando persone, ricordi e luoghi non graditi. Ecco così che la disuguaglianza diventa il prezzo che l’umanità paga all’opulenza.

Il “Wasteocene” funziona come una dittatura: plasma il presente e riscrive il passato. Il superfluo diventa una “narrazione tossica” da isolare, com’è successo dopo il disastro del Vajont nel 1963. Il dolore della tragedia non è bastato a salvare Longarone dal trasformarsi in “un esempio da manuale della logica dello spreco”. Nel 2003 il cimitero di Fortogna, dov’erano sepolte le vittime, è diventato un monumento alla memoria. Risultato: il vecchio cimitero è stato raso al suolo e le tombe sono diventate blocchi di marmo tutti uguali. Anche “il lutto deve essere addomesticato”. Anche altri luoghi del mondo sono emblematici, come Napoli, “la città con vista sul Wasteocene”. Qui le epidemie di colera hanno strappato il velo allo sviluppo economico: lo spazio urbano è stato diviso tra quartieri salubri e ambienti inquinati. Con tragiche sperequazioni.

Ma tutto il mondo è paese: il Wasteocene impera ovunque; perciò va combattuto con una “narrazione contro-egemonica”. E se non si riesce a vincere, occorre almeno resistere finché i fiori non sbocceranno intorno al “fuoco (tossico)” della discarica. Armiero lo spiega con il suo saggio, gli Assalti Frontali con il loro hip hop: “In mezzo ai mostri de cemento/ St’acqua mo riflette er cielo/ E la natura che combatte / Questo quartiere è meno nero!”.

“Disegno i volti del male”

Il suo lavoro è sedersi in prima fila quando la storia scorre e disegnarla. Jane Rosenberg è la disegnatrice che ha seguito tutti i più grandi processi americani degli ultimi anni nelle aule giudiziarie dove ai fotografi è vietato l’accesso. Sul banco degli imputati e sotto la punta della sua matita sono passati tutti, dal boss “El Chapo” al produttore Harvey Weinstein, fino ai poliziotti che hanno ammazzato George Floyd. Spiccato accento newyorchese, voce risoluta come i suoi tratti incisivi, risponde al telefono da Manhattan, New York, dove la Corte sta processando la fidanzata del tycoon pedofilo Jeffrey Epstein. Mentre Jane la disegnava, Ghislaine Maxwell ha cominciato a ritrarla a sua volta: “Era distante solo dieci passi da me”.

Ha provato angoscia quando la Maxwell la ritraeva?

Una come lei non mi fa paura per niente. Comunque è stato fantastico: mi stava dritta di fronte, e nella mia professione, se un soggetto è vicino, è il massimo, perché di solito i disegnatori della Corte sono seduti alla fine dell’aula. La Maxwell è stata vivace: si chinava verso l’avvocato, si girava verso il fratello, molti imputati si siedono e basta e tu rimani senza dettagli per i disegni. Questo processo ha ritmi serrati: a volte non riesco nemmeno a lavarmi le mani dai colori.

Lei è stata inviata ai più grossi processi americani degli ultimi 40 anni.

Se non lo fossero, non mi pagherebbero per disegnarli.

Che mi dice di “El Chapo”?

Sua moglie era seduta proprio dietro di me, lui si girava e agitava le mani per mandarle baci. La mia visuale era fantastica.

E Weinstein?

Non si muoveva, lo vedevo solo di profilo ed ero in terza fila.

Il soggetto più difficile da disegnare?

Dipende tutto dalla sedia. Se non vedi, c’è solo la tua memoria. Al processo dell’attentatore della maratona di Boston non riuscivo a vedere niente se non la nuca dell’imputato.

Lei si considera anche una giornalista?

Ovvio.

Quando ha deciso di diventare un’artista?

Mia madre diceva che pasticciavo tutto il tempo con i pastelli e da allora non è cambiato molto: sono ancora con le matite tra le mani. Ho studiato arte al liceo e al college. Quando ero all’università mi dicevano che il realismo non era più di moda, era finito, era passé, tutti abbracciavano l’astrattismo. Io invece rimanevo a casa, mi mettevo davanti allo specchio e mi ritraevo, continuando a fare quello che amavo: disegnare le persone. Dopo l’università ero una struggling, starving artist, una artista che moriva di fame e lottava per sopravvivere. Copiavo i Rembrandt, vendevo per strada ritratti e illustrazioni ai turisti e non pensavo che l’arte un giorno avrebbe potuto davvero darmi da vivere. Poi ho incontrato un altro disegnatore giudiziario, mi sono guardata allo specchio e ho detto: “I am going for it”, vado a prendermi questo lavoro.

Che anno era?

Il 1980. Nel 1983 in Alabama ho seguito il processo a John Evans, una condanna a morte su sedia elettrica. Brutale, orribile, un compito emozionale per me. Ogni giorno non sapevamo se la sentenza sarebbe stata emessa. Sono rimasta in prigione tutto il tempo, a mangiare il rancio dei prigionieri.

Qual è la dote imprescindibile per un court artist?

I talenti che non puoi non avere sono attenzione e una sharp memory, una memoria precisa. Devi osservare quanti più dettagli puoi per cinque minuti e fare una bozza che, se completi successivamente, devi riempire con i particolari esatti. Bisogna affrontare la deadline, la consegna per i giornali. La mia più grande paura è non fare le cose immediatamente. O che non osserverò le cose in tempo. Dio, su questo faccio perfino gli incubi di notte e sono brutti sogni che solo un court room artist può fare: che mi diano la sedia sbagliata dietro un muro o una tenda, da cui non vedrò l’imputato. Oppure che dimentico matite e fogli a casa. La sedia perfetta è quella accanto al giudice, che vede tutto: ovviamente non l’ho mai avuta.

Ci racconti una delle sue ultime prospettive difficili.

Quando al processo Maxwell hanno portato in aula il tavolo dei massaggi di Epstein stavo ritraendo altro e ho subito abbandonato il disegno per cominciarne uno nuovo. Poi hanno esteso il tavolo e ho dovuto ricominciare tutto daccapo. Le cose succedono di corsa e devo fare il meglio che posso col tempo che ho. Poi devo fotografare i disegni e spedirli subito.

Lei ama disegnare anche lontano dalle corti giudiziarie: è una paesaggista en plein air.

La mia arte “all’aperto” soffre perché la court room art occupa la maggior parte del mio tempo e poi la pandemia ha cambiato New York. Non mi sento più sicura a perdermi per la città insieme alla mia tavolozza, per le strade il crimine è aumentato, quindi devi prestare più attenzione a ciò che ti circonda che a quello che disegni. Di solito andavo al Village, a Central Park o rimanevo nel mio quartiere, nell’Upper West Side, ma col Covid tutto è cambiato. Credo di dovermi innamorare di nuovo, artisticamente, di Manhattan.

Cosa metterà su tela quando pandemia e processi saranno finiti?

Alla mia finestra c’è un panorama che mi interessa abbastanza da ridipingerlo over and over again, ancora e ancora. Però poi guardo il foglio e dico “qui ci starebbero bene delle persone”.

“Siamo tutti uguali” e l’alibi perfetto

Senza il supporto di evidenze scientifiche chiare, all’inizio dell’emergenza furono prese alcune decisioni, come la chiusura delle scuole. Si sapeva poco del virus, e quindi occorreva decidere e fare in fretta. Ma questo schema di comportamento si è ripetuto anche nell’autunno 2020, con la seconda ondata.

Hanno ricominciato a chiudere le scuole sostenendo che non ci fossero dati sufficienti o affidabili per mantenerle aperte, estrapolando analisi da dati del passato nonostante ci fossero già dati disponibili: ma con il passare del tempo, non avere dati ha iniziato a essere un alibi perfetto.

Così insieme ad altri scienziati abbiamo deciso di studiare l’argomento, riunendo database provenienti da fonti differenti. Abbiamo lavorato partendo dagli scambi sui social, con aggregazioni spontanee di diversi studiosi, giuristi, sociologi, e abbiamo collaborato con parlamentari e ministri, per poter dissipare la cortina di fumo su quanto stava accadendo. Un lavoro volontario, enorme, di parecchi mesi di raccolta e analisi di dati che ci hanno condotto a una conclusione: le scuole erano e sono uno dei luoghi più sicuri e, soprattutto, il bilancio rischi/benefici era, ed è, tutto a favore della scuola in presenza. Questa attività scientifica ha avuto conseguenze giuridiche con diversi ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, tutti vinti. Siamo riusciti, dunque, a far riaprire le scuole, ma con il nuovo governo tutto si è nuovamente fermato: misteriosamente il nuovo esecutivo ha – ne ignoriamo la ragione – smesso di trasmetterci i dati dei contagi nelle scuole, fondamentali per le nostre analisi.

Dopo l’emergenza della prima e della seconda ondata di SarsCov2, abbiamo avuto quella legata alla variante inglese (che, a detta di alcuni, vanificava tutte le nostre analisi), poi è arrivata la Delta: ora è il momento della Omicron, e la situazione sembra ripetersi. Ogni volta tutto il sapere acquisito viene rimesso in discussione, forse alla rincorsa del rischio zero. Attualmente i media enfatizzano l’aumento dei contagi tra i più giovani, meno vaccinati rispetto agli adulti, ma in Italia la malattia grave e la mortalità nei bambini sono rimaste estremamente basse, sia con la Delta che con la Omicron, come ha chiarito anche il professor Zuccotti recentemente. Siamo in una continua, infinita conta di “casi” di cui non si sa il significato. Il tampone positivo, soprattutto dopo che si è vaccinati, è davvero preoccupante? Ha senso continuare a fare screening negli asintomatici? In uno studio condotto allo IEO in corso di pubblicazione abbiamo mostrato recentemente che se gli anticorpi sono elevati il rischio di essere contagiati e di contagiare è significativamente più basso: perché non se ne tiene conto? A questo occorre aggiungere che “positività” non indica malattia, soprattutto nei giovani e nei vaccinati.

Aggiungo che la retorica della necessità di rendere la scuola “sicura”, che ha trovato terreno fertile e ampio spazio in tanta sinistra di governo, ha portato solo alla coercizione vaccinale senza produrre nessun altro cambiamento reale nelle scuole. Vaccino e ancora vaccino, ulteriore distanziamento, ulteriori mascherine, ulteriore screening sugli asintomatici, in una rincorsa verso il contagio zero che perde di vista i ragazzi, il diritto all’istruzione e che, addirittura, porta a discriminazioni e allontanamenti di insegnanti.

Pare che ogni volta ci si dimentichi che anche le misure di contenimento hanno dei costi significativi, ed effetti negativi sulla salute. Vari studi di coorte hanno mostrato aumenti significativi di depressione, ma anche tentativi di suicidio e suicidi, soprattutto negli adolescenti.

È proprio di questi giorni una pubblicazione della Società Italiana di Pediatria che lancia l’allarme sull’altra pandemia che sta colpendo in particolare i giovani e che è grave quanto la prima: sono infatti aumentati del 147% gli accessi ospedalieri per “ideazione suicidaria”, seguiti da quelli per depressione (+115%) e per disturbi della condotta alimentare (+78.4%).

A luglio 2021 Oms, Unicef e Unesco hanno lanciato un appello che non lasciava dubbi: la più grande interruzione della scuola nella storia, a causa delle misure di contrasto al Covid-19, non deve privare i bambini dell’istruzione e dello sviluppo. L’invito rivolto ai governi era di attrezzarsi perché non dovesse più accadere, e nell’appello veniva citato come unico studio proprio quello condotto da noi in Italia, che mostrava la scarsa incidenza dei contagi in ambito scolastico.

Eppure ancora oggi, alla fine del 2021, leggiamo di appelli avanzati da numerosi sindaci che chiedono di introdurre il Green Pass per gli studenti, con la minaccia della DAD per gli altri, e alcuni presidi mettono intere classi in DAD con un solo caso di positività, “in via precauzionale”.

Inutile parlare delle conseguenze: la dispersione scolastica diverrebbe colpa dell’emergenza o degli studenti che non si vaccinano. L’ennesimo intervento che sposta la responsabilità dei problemi della gestione della pandemia ribaltandola sul cittadino, in questo caso sui giovani.

Pare oramai assodato che il GP non influenzi l’andamento epidemiologico del contagio, per il quale occorrerebbe finalmente guardare solo all’aumento delle ospedalizzazioni e delle terapie intensive, vista l’efficacia dei vaccini rispetto alla malattia grave. Il Green Pass va contestato al di là dell’efficacia e sicurezza del vaccino come una delle scelte politiche più cupe e pervasive determinatesi durante la pandemia: si basa sulla strumentalizzazione delle paure e si rinnova continuamente. E infine è una misura di cui non è chiara l’utilità, come appare evidente anche dal raffronto con altri Paesi che ne sono privi.

Per affrontare questa pandemia occorre dare attenzione alla variabilità di ciò che accade ogni giorno, mantenendo la complessità, in un’ottica di medicina e di prevenzione personalizzata. Basta fare tesoro delle differenze di rischi, evitando messaggi e regole uguali per tutti. Perché non siamo tutti uguali e non siamo tutti sulla stessa barca.

Costa Crociere dovrà risarcire il passeggero

Costa Crociere dovrà risarcire con circa 92.700 euro i danni patrimoniali e da stress post-traumatico subiti da Ernesto Carusotti, uno dei 3.216 passeggeri della Costa Concordia, la nave da crociera che la notte del 13 gennaio 2012 si incagliò e fece naufragio all’Isola del Giglio causando la morte di 27 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio. Lo ha deciso una sentenza della prima sezione civile del Tribunale di Genova che ha accolto le tesi del Codacons. Secondo l’associazione dei consumatori, gli indennizzi sinora riconosciuti dalla società ai naufraghi erano “totalmente incongrui”. Se tutti i passeggeri ottenessero risarcimenti simili, la società e le sue compagnie assicuratrici dovrebbero pagare danni totali per 300 milioni circa.

Bnl, boom di adesioni allo sciopero aziendale

Grande riuscita per lo sciopero indetto ieri in Bnl, il primo dagli anni 90. I sindacati hanno chiamato gli 11.500 dipendenti a protestare contro il piano di riorganizzazione della banca che prevede l’esternalizzazione di oltre 900 addetti, soprattutto nell’It e nel backoffice, pari all’8 % circa della forza lavoro totale. A Roma lavoratrici e lavoratori si sono riuniti in via Altiero Spinelli sotto Palazzo Europa, sede della direzione generale del gruppo Bnl Bnp Paribas. A Napoli presidio sotto la sede di via Toledo. La giornata di mobilitazione era stata proclamata il 15 dicembre da tutte le organizzazioni del settore, Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin, che non escludono altre proteste se l’azienda non considererà le loro richieste.

Resistenza, il museo Casa Cervi ora è multimediale e tecnologico

Si inaugura oggicon la riapertura al pubblico, in una veste nuova, il Museo di Casa Cervi a Gattatico (Reggio Emilia). L’inaugurazione coincide nel 78° anniversario del sacrificio dei Sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri, fucilati dai fascisti al Poligono di Tiro di Reggio Emilia. “Il nuovo museo – si legge in una nota – si presenta al pubblico con un percorso ripensato, improntato su multimedialità e tecnologia, ma ancorato alla tradizione”. Presente al taglio del nastro, alle 11.30, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Via alle visite guidate gratuite dalle 12.30.