Tetti di spesa e pochi fondi Perché l’Italia non ha medici

Un pressing per riuscire, almeno, a far approvare lo sblocco del turn over nella Sanità per le Regioni commissariate e, quindi, vincolate ad un obbligatorio piano del rientro: può essere letta anche così la notizia di questi giorni legata alla carenza di medici in Molise, che si ipotizza possa essere colmata dai medici militari per evitare la chiusura di alcuni reparti.

Il problema però esiste e lo sanno anche al ministero della Salute: il sistema sanitario è in carenza di medici specialisti e di base. I dati più aggiornati sono stati pubblicati tra gennaio e marzo dal sindacato di medici Anaoo Assomed e tengono conto anche degli effetti della riforma pensionistica “quota 100”: si stima che nel 2025 ci saranno 16.700 medici specialisti in meno mentre ad i posti scoperti sarebbero circa 10mila. Le specializzazioni più critiche sono medicina d’urgenza (i pronto soccorso)pediatria, anestesia, rianimazione, chirurgia generale, medicina interna e cardiologia.

Uno degli aspetti che ha determinato il disallineamento tra le necessità nei servizi e le effettive disponibilità dei medici specialistici è il fatto che fino a un mese fa esisteva un vincolo assunzionale introdotto nel 2009, poi prorogato nel 2012, che fissava per le Regioni come tetto di spesa per il personale quello sostenuto nel 2004 diminuito dell’1,4 per cento. Pur avendo le disponibilità economiche, in pratica, dovevano fermarsi una volta raggiunto questo limite. Così, per aggirare il problema, gli amministratori hanno fatto ricorso ad un’altra voce, quella per Beni e Servizi, esternalizzando il personale attraverso cooperative e bandi con contratti a tempo determinato. Nelle Regioni commissariate come Molise, Lazio, Campania e Calabria il blocco del turn over ha aggravato la situazione.

Il ministero della Salute sta però correndo ai ripari: un emendamento al decreto Calabria, che è stato approvato nei giorni scorsi alla Camera e che questa settimana è in discussione in Commissione al Senato, prevede che per il personale si possa prendere come riferimento la spesa del 2018 e che le Regioni, purché abbiano equilibrio di bilancio, possano aumentarla del 5 per cento aggiungendo anche la spesa sostenuta per le esternalizzazioni. Anche in questo caso resta il nodo delle Regioni in disavanzo per le quali bisognerà valutare caso per caso. Lo sblocco del turn over, se approvato, potrebbe essere già un primo passo ammesso che non pregiudichi il percorso di risanamento.

Altro punto riguarda la formazione del personale. Secondo associazioni e sindacati, la programmazione dei fabbisogni delle Regioni non sarebbe stata fatta in modo adeguato. Di sicuro mancano le risorse per assicurarla a tutti i laureati in medicina e chirurgia. Ogni anno si laureano infatti circa diecimila studenti ma quest’anno ci sono stati 6.200 contratti di formazione specialistica, a cui si aggiungono altre 1.800 borse. Un numero, spiegano dal ministero, che non si era mai visto e nonostante il quale resta un buco di duemila laureati non specializzati. Di base, l’iter funziona così: si partecipa al concorso nazionale, ci si colloca e poi si firma un contratto con università, Regione e lo specializzando. La specializzazione può durare 3 – 4 o 5 anni e il trattamento è di 25mila euro nei primi due anni, 26mila dal terzo anno, a carico dello Stato. Dopo, si può partecipare al concorso per essere assunti a tempo indeterminato dal Ssn. Problema: quest’anno sono arrivate 18mila domande per il concorso nazionale di specializzazione, ma il massimo di borse a cui si riesce ad arrivare – considerando anche quelle regionali – è 10mila.

Intanto sono state previste, già nella legge di Bilancio di quest’anno, misure che consentono agli specializzandi dell’ultimo anno di partecipare ai concorsi e, se idonei, di finire in una graduatoria separata da cui poi vengono assunti quando conseguono il titolo. In questo modo si recupera un anno. Nel decreto Calabria invece c’è una norma che consente a chi è in questa graduatoria di essere assunto con contratto a tempo determinato e di iniziare già a lavorare. Un’accelerazione, certo, ma di cui non si potrà giovare prima di due o tre anni.

E se quest’anno sono stati investiti 100 milioni per le borse, ora si punta comunque ad avere qualcos’altro nella prossima legge di Bilancio. Intanto, il fabbisogno di specialisti stimato dalle Regioni è di 8.523 contratti: se le stesse dovessero confermare le borse messe a disposizione lo scorso anno, circa 600, con le 8mila statali si dovrebbe andare in pari e la crisi dovrebbe rientrare in qualche anno. Intanto, nell’urgenza – dal Piemonte al Veneto – ci si assicura che ci siano dei professionisti pronti a intervenire: pensionati, stranieri e militari.

Foglio d’Inchiesta: “Salvini è grande”

Prosegue l’amicizia affettuosissima tra la giornalista salottiera del Foglio Annalisa Chirico e il ministro dell’Interno Matteo Salvini. La nostra, che già in passato aveva prestato la penna alla sua profonda ammirazione per il Salvini uomo e politico, è la stessa che poi lo invita – ospite d’onore – alle sue cene di gala da 6 mila euro a coperto per sostenere la sua fondazione che lotta per una giustizia giusta. Ieri Chirico è tornata a dedicare le sue attenzioni all’amico leghista. Una ricca, voluminosa paginata tutta per lui, un pezzone da 10 mila caratteri o giù di lì. Per sciogliere un mistero: “La sua ascesa pare irresistibile ma sulle ragioni della sua ascesa non c’è unanimità. Quali sono i veri ingredienti del successo saviniano”. Chirico interroga sull’argomento il gotha della stampa italiana. Tutti i direttori dei più solenni giornali del Paese consultati, in fondo, per confermare il presupposto di partenza: Matteo è bravo, bravissimo. Non lo dice mica lei, il sospetto ce l’avevano fatto venire milioni e milioni di italiani alle urne. E quindi, già nella titolazione, mettiamole in fila le qualità del Capitano: “La semplificazione massima del linguaggio e la concretezza. Il dominio delle piazze, fisiche e virtuali. La capacità di farsi interprete di un sentire profondo e reale”. Amen.

Meloni vede le urne: “Basta con i tecnici, adesso tocca a noi”

Giorgia meloni torna alla carica. Ascoltato il discorso del premier Giuseppe Conte, dichiara: “Basta con i giochi di palazzo, se l’esecutivo non riesce a governare bisogna tornare alle urne”. La leader di Fratelli d’Italia, a Castel Volturno (Caserta) per sostenere il candidato sindaco Luigi Petrella, che la prossima domenica andrà al ballottaggio contro il “civico” Nicola Oliva, spera nella rottura tra Lega e Cinque Stelle per lanciare l’alleanza con Matteo Salvini: “Il governo è alle prese con il ‘gioco del cerino’ tra Conte, Lega e M5S per vedere a chi affibbiare la responsabilità di far cadere il governo prima di dover affrontare la legge di Bilancio. Lo avevamo previsto”. La Meloni chiede al primo ministro e ai partiti al governo di spiegare come reperiranno i 40 miliardi di euro necessari a varare la prossima legge di Bilancio. E si chiede: “Come intendono impedire l’aumento di Iva e accise?”. “Niente governi tecnici – ha poi concluso la leader di Fratelli d’Italia – le Europee hanno dimostrato che un’altra maggioranza è possibile”. E conclude: “Noi siamo pronti per le urne”.

“Ora M5S deve diventare (quasi) come un partito”

La definisce una fotografia “impietosa”, ma necessaria per capire lo smarrimento del Movimento 5 Stelle dopo le Europee: “Nel 2014 nelle quattro Regioni del centro Italia – Marche, Toscana, Lazio e Umbria – abbiamo presentato 169 liste per le Comunali. Lo scorso maggio erano 80”. Fabio Massimo Castaldo, eurodeputato del M5S, non nasconde i problemi. Su Facebook ha scritto un lungo post – molto popolare – diviso tra richiami alle origini e istruzioni di sopravvivenza per il futuro. Con un messaggio: per ritrovare i propri elettori, bisogna rimettersi in gioco.

Onorevole, il M5S deve farsi partito?

Abbiamo sempre rifiutato la struttura verticistica di un partito e continuiamo a farlo, però bisogna valorizzare la grande intuizione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che imponeva un forte radicamento nei territori fatto di liste civiche, meet up e coinvolgimento degli attivisti.

Cosa vuol dire, in concreto, ritornare nei territori?

Ho girato molto il centro Italia (la circoscrizione in cui è stato elett, ndr), mi sono confrontato con i nostri consiglieri comunali e mi sono reso conto che spesso si sentono abbandonati. Ho organizzato incontri per dare loro una preparazione tecnica sui fondi europei e ho provato a non farli sentire soli. Ma questi sforzi non possono esser lasciati all’iniziativa dei singoli: servono eventi di alta formazione sistematici sui vari temi, e un migliore coordinamento anche creando un raccordo intermedio, se serve.

Può servire allearsi con liste civiche, come aveva abbozzato Di Maio dopo le Regionali di fine febbraio?

Questa è una riflessione che può essere svolta, ma restando ben saldi sui nostri principi: nessun passo indietro sulla presenza di condannati e sui punti che ci caratterizzano, quelli delle cinque stelle nel simbolo (acqua, ambiente, trasporti, connettività, sviluppo, ndr). Se qualcuno ci sta, allora ben venga.

Nel suo post ha citato dati allarmanti sul numero dei candidati nel centro Italia. Influisce anche il vincolo del secondo mandato? Qualcuno magari non vuole bruciarsi l’ultima occasione sul territorio e aspetta un’elezione nazionale.

Può avere influito. È legittimo che chi ha svolto un mandato da consigliere comunale possa ambire a una carica a livello regionale, nazionale o europeo. Mettere sullo stesso piano mandati municipali o comunali con quelli superiori mi sembra una forzatura. Proporrei di scomputare dal calcolo i mandati locali, che anzi devono essere un elemento premiale, quando ben svolti, per chi vuole fare esperienza in un contesto più grande.

Va ripensato il ruolo della Rete? Alcune votazioni online partono con un forte orientamento dato dai vertici.

Non credo sia così. Sul caso Diciotti, per esempio, abbiamo semmai dimostrato di essere polarizzati. Sono d’accordo però che la base debba sentirsi più partecipe anche online: ci sono ampi margini per allargare la partecipazione tramite le nostre piattaforme.

Di Maio ha chiesto una nuova legittimazione della Rete dopo le urne. Serve ripensare anche la leadership?

Ha fatto bene a mettersi in gioco se ne ha sentito l’esigenza. Ma il percorso di ritorno ai territori, venuto in parte meno in questi anni, prescinde dalla sua leadership che non è in discussione.

Quattro cariche – leader politico, due ministeri, vicepremier – non sono troppe?

Di Maio ha dimostrato di poter svolgere i suoi ruoli con competenza e dedizione. Deve essere lui soltanto a valutare serenamente se portare avanti queste cariche.

Roberto Fico ha detto di non sapere più “che cos’è il Movimento”. Esiste un problema di identità?

Roberto ha espresso un’opinione legittima. La nostra identità sono le cinque stelle presenti nel simbolo, che ci differenziano da tutti gli altri perché dimostrano che il nostro faro sono i temi: questo è il nostro zoccolo duro e su questo ci rilanceremo.

Sospetti e strategie, adesso Fico il Rosso finisce sotto assedio

Il presidente troppo diverso si sente strattonato, da sinistra. Assediato, da destra e dal suo Movimento, da dove lo accusano di essere l’assediante. Più o meno quello che vuole accelerare la crisi gialloverde per prendersi il M5S detronizzando Luigi Di Maio, il capo che è il suo contrario, e magari pure altro, perfino un nuovo governo molto “rosso”. Ora Roberto Fico è questo, l’incognita sulla bocca di tutti. Perché può essere il papa straniero per la sinistra, l’alternativa al Di Maio sprofondato nel burrone del 17 per cento e il nemico perfetto per la destra che è sempre più destra e quindi sogna un avversario rosso fuoco.

Così il commento del presidente della Camera sul 2 giugno, “una festa dedicata ai migranti, ai rom, ai sinti, che sono qui in Italia e hanno gli stessi diritti”, a molti è suonato come l’ennesima via per smarcarsi da Matteo Salvini a cui non è parso vero poter soffiare sulla differenza: “Quella di Fico è una mancanza di rispetto verso tutti gli italiani che danno l’anima per la patria”. E dal leghista era prevedibile: anche da Fico. Forse però neppure lui immaginava l’insorgere di Di Maio: “Io e Roberto su queste questioni siamo molto diversi e non è una novità. Io non avrei mai alimentato questa polemica di distrazione di massa sui migranti il 2 giugno”.

Sincero, il vicepremier, lo stesso che aveva salutato con “un prima i romani, poi i rom” la sindaca di Roma Raggi quando si era calata nell’inferno di Casalbruciato. Però soprattutto diffidente, verso il presidente di Montecitorio. Perché Di Maio e il suo stretto giro temono che Fico voglia ribaltare rotta politica ed equilibri in un Movimento slabbrato. E il presidente avverte quello sguardo e nota gli effetti dei cattivi pensieri. Quando si è presentato a sorpresa all’assemblea congiunta dei 5Stelle, mercoledì, ha giurato che il capo politico non andava messo in discussione. Però ha detto anche molto altro. Cioè che non voleva il referendum sul capo politico allestito sul portale web Rousseau, il plebiscito, e che quindi non avrebbe votato. Per poi insistere sull’identità del Movimento, “perché non si capisce più chi siamo”.

Però mercoledì notte sono uscite solo agenzie abbastanza rassicuranti sul suo intervento. Così il giorno dopo Fico ha chiarito su Facebook: “Dalla riunione sono emerse alcune dichiarazioni riportate dalla stampa, che però non corrispondono totalmente a quello che ho detto”. Righe che raccontano un timore, quello di essere stato edulcorato da fonti interessate, appositamente per l’ultima edizione dei quotidiani. Congetture, forse. O forse no. D’altronde lo stato delle cose tra i due maggiorenti a 5Stelle trabocca anche da altro. Per esempio, dal fatto che Di Maio e Fico, dopo il frontale sul 2 giugno, domenica sera si siano chiariti solo tramite messaggi. Con il vicepremier che ha ripetuto le sue perplessità sulle frasi del presidente di Montecitorio. Mentre l’altro ha assicurato di aver solo manifestato il suo pensiero, senza ulteriori fini. Gli sms però non hanno fermato i sussurri a mezza bocca dalla pancia dimaiana, sul Fico che guarderebbe al Pd e al neo-segretario Zingaretti.

Così non ha aiutato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che in un’intervista al Fatto domenica ha invitato l’ortodosso del M5S a rovesciare il tavolo con la Lega, con tanto di patto: “Non sarebbe male che lui si candidasse a sindaco di Napoli e io a governatore della Campania”. Ma da ambienti della presidenza smentiscono tutto: “Scenari irreali, Fico non ha mai pensato a cose del genere e vuole solo rafforzare il Movimento”. Insomma niente strategie e niente scalate, “tanto più che dopo il 26 maggio sull’esito ha parlato solo in assemblea”.

Però i sospetti restano lì, perché i lealisti hanno notato l’astensione dal voto su Rousseau di tutti i parlamentari vicini a Fico come in una scelta di filiera. E tanti raccontano di averlo sentito dire all’ex presidente della Camera, Laura Boldrini: “Se si vuole costruire qualcosa di nuovo a sinistra bisogna partire da Fico”.

Opinioni, in fondo. Ma nel M5S oggi bastano per guardarsi male e far sanguinare vecchie ferite. Nell’attesa, il presidente della Camera dovrebbe anche dare una risposta pesante proprio a lui, a Di Maio, che gli ha offerto di entrare nel comitato di big che dovrebbe ripensare regole e obiettivi del Movimento. “Roberto ha dubbi per il ruolo che ricopre, teme per la sua terzietà” spiegano persone a lui vicine. Ma non ha detto ancora no al capo. E riflette, su come non farsi bruciare dal fuoco: più o meno amico.

Lettera di Tria all’Europa, i pm cercano “la manina”

Rivelazione di segreto d’ufficio. È questo il reato per il quale indaga la Procura di Roma nell’ambito di un’inchiesta sulla “manina” che ha consegnato alla stampa la bozza della lettera di risposta del governo italiano ai rilievi della commissione europea sui nostri conti pubblici. Si tratta di un testo non definitivo, tanto che dopo la sua pubblicazione il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, è stato costretto a smentirlo. Di conseguenza è partita la caccia alla fonte dei giornalisti. Che poteva restare nell’ambito delle beghe politiche con i sospetti sulla talpa, se non fosse che Tria ha presentato in Procura un esposto in cui si fa riferimento alla “divulgazione di atti secretati e violazione di segreto d’ufficio”.

E quindi ora la vicenda diventa più seria. Infatti i pm di Roma – che hanno aperto un fascicolo e iscritto già un reato (rivelazione di segreto) – dovranno scoprire la “manina” dietro questo episodio e ricostruire i passaggi di quanto avvenuto lo scorso 31 maggio, quando la bozza della lettera destinata all’Ue è finita in agenzia. Probabilmente ci saranno anche una serie di interrogatori, forse a partire dai funzionari del Ministero dell’Economia.

Tutto quindi inizia nel pomeriggio di venerdì 31 maggio, a mercati ancora aperti. Il giorno prima il ministro Matteo Salvini si era presentato con lo stato maggiore leghista al ministero per parlare con Tria, facendo infuriare i 5Stelle. Alle 16 le agenzie battono i contenuti della bozza della lettera. Tra questi, c’è un passaggio sui risparmi previsti per “Reddito di cittadinanza” e “Quota 100” che andranno a ridurre il deficit. Al Tesoro rimangono stupefatti. Ed è solo l’inizio di un lungo pomeriggio.

Alle 16.50 il vicepremier Luigi Di Maio sbotta: “M5S non ne sa nulla, non ce ne siamo occupati noi, non è stata condivisa con noi ma non taglieremo mai la spesa sociale”. Passa un quarto d’ora ed esce un post sul Blog delle Stelle: “Questa scelta – si legge – è incomprensibile, servono spiegazioni”. Solo alle 18.08, due ore dopo i primi lanci, il Tesoro smentisce i contenuti della missiva (“non corrispondono alla realtà”) che non è ancora stata inviata a Bruxelles. Dieci minuti dopo, Di Maio rilancia su Facebook chiedendo un vertice di governo, che poi non ci sarà (ma nessuno fiata).

Il punto è che oltre al Tesoro, la bozza della lettera poteva essere arrivata solo a Palazzo Chigi. Dal Movimento filtra che è proprio qui che se ne è presa visione. Alla 19.06 comunque interviene Palazzo Chigi, che ha appena ricevuto la lettera definitiva e conferma la versione di Tria: i contenuti non sono quelli divulgati.

Qualcosa, però, succede. Alle 21.18, il plenipoteniario grillino a Palazzo Chigi Stefano Buffagni scrive sibillino su Twitter: “Non ci sono cattivi reggimenti, ma solo colonnelli incapaci: non si gioca sulla pelle del nostro Paese”.

Dopo un’ora, alle 22.22, mentre la caccia alla talpa è in corso, la viceministra Laura Castelli rilascia una nota alle agenzie dicendosi “sorpresa che Tria smentisca i contenuti: nel pomeriggio anche io ho visto una bozza della lettera che girava con quei contenuti e quel passaggio sul taglio al welfare c’era”. Proprio su questo tornerà Tria domenica in un’intervista al Corriere: “Se Castelli aveva quel testo, non lo doveva avere”, ha spiegato il ministro. Ora sulla vicenda indagano i pm. L’inchiesta è solo all’inizio: solo se verranno coinvolti ministri, gli atti verranno inviati al Tribunale dei Ministri.

Effetto Europee: nell’ultimo sondaggio la Lega cresce ancora

Secondogli ultimi sondaggi, la Lega continuerebbe a macinare consensi e a guadagnare voti anche dopo le elezioni europee. Dopo lo storico risultato alle Europee, in cui il Carroccio ha ottenuto il 34 per cento dei voti, raddoppiando di fatto la percentuale delle politiche di un anno fa, ormai avrebbe raggiunto quota 36,6 per cento. Ad affermarlo è Swg, istituto specializzato in indagini statistiche. La Lega avrebbe quindi racimolato altri 2 punti e mezzo in più a una sola settimana di distanza dalle votazioni del 26 maggio. Negative le variazioni per gli altri partiti. A risentire ancora di un calo di elettori è il Movimento 5 Stelle: nonostante la riconferma di Di Maio come leader la percentuale di voti scende al 16,5 per cento, mentre quelli raccolti alle europee era del 17,1 per cento (quasi la metà rispetto al 2018). Tuttavia, sia nella base della Lega sia in quella del M5s, un’ampia maggioranza desidera che l’esecutivo vada avanti, considerato che, insieme, le due forze politiche, possono ancora vantare il supporto del 54 per cento degli elettori.

Malnate, M5s alleato con Carroccio e FdI (ma a sua insaputa)

Diventaun caso quello di Malnate, comune di 16 mila abitanti in provincia di Varese, in cui al ballottaggio delle Comunali M5S e Lega andranno come alleati. Domenica i simboli dei due partiti compariranno insieme sulla scheda elettorale a sostegno della candidata del Carroccio Daniela Gulino. Ma l’abbinamento è stato formalizzato all’insaputa dei vertici grillini. Artefice dell’accordo Giovanni Gulino, delegato di lista per il Movimento 5 Stelle e padre della candidata sindaca del centrodestra. Immediate le polemiche e la richiesta di spiegazioni dal Movimento, a partire dal candidato 5S al primo turno Domenico Mancino, che accusa: “Hanno votato in mia assenza e questo è grave”. Non meno dura la reazione nazionale: lo strano “ibrido” di Malnate solleva la possibilità di provvedimenti nei confronti del promotore, secondo il deputato lombardo Niccolò Invidia: “Giovanni Gulino ha agito per motivi familiari e a titolo personale, non rappresentando la volontà né del M5S, che non fa apparentamenti, né della sua lista e del suo candidato sindaco. È un gesto di tradimento per il quale potrebbero esserci sia azioni legali che un’espulsione”. A sostenere Daniela Gulino, peraltro, c’è anche Fratelli d’Italia.

Perché ha convocato noi anziché quei due?

Chi ha saltato la lezione di spinning, chi ha rimandato la canasta o fatto bruciare le patate, chi, come noi, ha bevuto ogni sillaba dopo ore di tormentata attesa dall’annuncio social irrituale e allarmante, considerati l’uomo e la carica: “Ho delle cose importanti da dirvi”. Intanto, l’abito sartoriale blu notte con pochette-feticcio bianco latte ci rifanno gli occhi dopo un anno di tenute da metronotte/rapper/norcino (Salvini) e completini avvitati da venditore Tecnocasa (Di Maio). L’uomo maneggia Hegel: quel che si è fatto si aggiunge a quel che si farà se l’avverarsi della sintesi (la sperabilmente sopravveniente serietà dei due contraenti) lo renderà possibile. La domanda inevitabile, implicita, nazionale sgorga dai terminali delle dirette streaming e tv alla Sala Galeoni di Palazzo Chigi: ma perché il presidente del Consiglio ha convocato noi? Si materializza l’immagine dei due contraenti che guardano ciascuno sul suo schermo il Capo del governo di cui fanno parte che cerca di responsabilizzarli a reti unificate. “Logomachia, polemiche sterili, provocazioni a mezzo stampa, freddure sparate a mezzo social”, praticamente le principali occupazioni quotidiane dei Batman e Robin di governo, faranno fallire questo “lavoro di squadra incredibile”. La “leale collaborazione”, dice Conte, “è un concetto etico”. Ora, Conte non ha l’aspetto dell’ingenuo che presta i soldi al gatto e alla volpe; perciò la seconda domanda implicita e nazionale è: appurata la non leale collaborazione, come si può essere garanti di un contratto che uno dei due contraenti o entrambi calpestano senza onorevolmente romperlo? Abbiamo una cosa importante da dire al giurista Conte: il dilemma, insegna Cicerone, è quello in cui si confuta, in alternativa, una delle due ipotesi ammesse: “Se è malvagio, perché lo frequenti? Se è onesto, perché lo accusi?”.

Sblocca-cantieri: la Lega non cede, il premier se ne va: “È un affronto”

Se il buongiorno si vede dal mattino, il discorso di Giuseppe Conte è servito assai poco. Il primo vertice dopo l’appello del premier alla responsabilità parte alle 20.30, ma dopo un’ora viene già sospeso. Non c’è intesa, il premier ne prende atto e chiude la riunione. Il tema è il decreto Sblocca-cantieri, impantanato al Senato e su cui si gioca una guerra tra alleati a suon di emendamenti. In teoria era previsto un secondo vertice sul decreto Crescita, ma lo scontro è tale che nemmeno si inizia. Pessimo segnale per il governo.

La riunione era stata chiesta dal Movimento, dopo che la Lega ha presentato giovedì un emendamento che sospende per due anni buona parte del codice degli appalti del 2016. È a firma della senatrice Simona Pergreffi, ma l’input è di Matteo Salvini in persona, che però non ne aveva informato Conte nel vertice tenuto poche ore prima.

A Palazzo Chigi si presentano il ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli, il titolare dell’Economia, Giovanni Tria, quello per i Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro e i viceministri all’Economia, Massimo Garavaglia e Laura Castelli. Ci sono anche relatori e capigruppo. La richiesta dei 5Stelle è di ritirare l’emendamento. Un norma, per la verità, inapplicabile. Per Salvini la sospensione del codice servirebbe a “ritornare alla sola normativa Ue”, ma questa si fonda, e in molti casi rimanda, alle norme italiane. Concetto ribadito ieri anche dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone (“il codice non può essere sospeso”). “Una norma folle, stiamo dicendo alla mafia di accomodarsi in ogni appalto”, è stato il commento della Cgil, a cui Salvini ha risposto querelando il segretario confederale Giuseppe Massafra.

Al vertice la Lega non cede. La discussione si anima. Il premier chiede che gli vengano illustrati i punti che rendono la norma così importante. Garavaglia insiste che “è dirimente”. A quel punto Conte fa notare di aver appena fatto un discorso pubblico per chiedere responsabilità agli alleati e scioglie la riunione (“andiamocene a casa”). Un minuto dopo dal ministero di Toninelli fanno filtrare una nota durissima: “Se la Lega vuole far saltare il decreto e mettere a rischio lo stesso governo, lo dicesse in maniera chiara”. Da Palazzo Chigi parlano di “affronto” e “spregiudicatezza” della Lega. L’impuntatura leghista su una norma inapplicabile fa salire i sospetti fra i 5Stelle.

Che la posta in palio fosse elevata lo conferma anche la modalità con cui i pentastellati si presentano alla riunione. Toninelli su Facebook fa sapere che per il ministero resta fondamentale il contestato emendamento presentato dai relatori (sia leghista che 5Stelle) che istituisce uno scudo giuridico – sotto forma di parere preventivo all’Avvocatura di Stato – per i funzionari ministeri che firmano atti di revoca delle concessioni autostradali. Un segnale ad Autostrade – su cui pende la procedura di revoca dopo il disastro del Morandi – proprio mentre la controllante, la Atlantia dei Benetton, è in corsa per partecipare al salvataggio di Alitalia. La norma non piace – per usare un eufemismo – al leghista Giancarlo Giorgetti. Ma ieri non c’è stato neppure il tempo di discuterla.