Salvini provoca e vuole la rottura: no ai vincoli Ue

È sull’atteggiamento da tenere con l’Europa che potrebbe saltare il banco, ovvero il governo. Matteo Salvini è pronto ad andare alla guerra con Bruxelles, proprio mentre domani la Commissione europea potrebbe decidere di aprire la procedura per debito eccessivo contro l’Italia. E questo nonostante la precisa volontà del premier Giuseppe Conte di mediare con l’Europa. E poi, c’è già il casus belli perfetto: lo sblocca-cantieri, visto che la Lega insiste sulla moratoria del codice degli appalti. Tanto che ieri il rifiuto di ritirare gli emendamenti fa fallire la riunione a Palazzo Chigi.

Più delle parole, contano i segnali. E non finisce neanche di parlare Conte, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, quando Salvini inizia la diretta Facebook. Affida a un post la sua reazione: “Noi non abbiamo mai smesso di lavorare e gli italiani ce lo hanno riconosciuto con 9 milioni di voti”. Poi detta l’agenda: “Flat Tax e taglio delle tasse, riforma della giustizia, decreto Sicurezza bis, autonomia regionale, rilancio degli investimenti, revisione dei vincoli europei e superamento dell’austerità e della precarietà, apertura di tutti i cantieri fermi”. Conclusione scontata: “Vogliamo andare avanti, la Lega c’è”.

La strategia è quella inaugurata la notte delle Europee: il Carroccio non si intesta la rottura, ma impone la sua agenda. Se il Movimento segue, si va avanti, altrimenti si rompe.

Sì, ma fino a quando? Perché il gioco è sempre più logoro e Conte ha affondato nel tentativo di stanare il leader leghista. Per questo l’affermazione di Salvini più incisiva è quella che consegna, a chi glielo chiede, a Porto Mantovano, dove si trova per un comizio: “Conte dice che si rispettano i vincoli Ue? Il voto europeo è stato significativo, gli europei hanno parlato”. Come ha ripetuto per tutta la campagna elettorale.

La rottura non è conclamata, ma tantomeno scongiurata. Tanto è vero che nessun incontro con Conte e Luigi Di Maio viene concordato. Salvini dà una disponibilità di massima per giovedì o venerdì. Poi, nel primo Cdm a disposizione (forse venerdì), ha intenzione di portare la flat tax e il decreto Sicurezza bis. Cosa tutt’altro che pacifica, visto che a Palazzo Chigi c’è la consapevolezza che le cose da correggere in quel testo sono parecchie.

Se si va tra le pieghe del post Fb, diventa ancora più chiara la volontà leghista di non abbassare il livello dello scontro: al punto da pensare a una corsia preferenziale per le infrastrutture (in totale conflitto con il M5S).

Insomma, Salvini non fa neanche mezzo passo indietro. Di più. Conte gli rimprovera chiaro e tondo di voler avocare a sé tutti i poteri. E lui continua a farlo, parlando di Europa ed economia, di migranti e infrastrutture. E dunque? Gli uomini del vicepremier assicurano che lui è “tranquillo”, “convinto di andare avanti” e che “non aprirà la crisi”. Ma il dilemma è reale. Perché il ministro dell’Interno deve rapidamente decidere come capitalizzare il successo delle Europee e quando passare all’incasso con il voto. L’ideale sarebbe non fare la prossima manovra. Ma Sergio Mattarella non ha intenzione di permetterglielo.

Ai piani alti della Lega, si parla di due possibili date per il voto: una è a settembre (presumibilmente il 29); un’altra è nella prossima primavera. Tutto sta a capire come ci si arriva. Salvini continua a non voler essere quello che rovescia il tavolo. E poi la certezza assoluta che – in caso di crisi adesso – il Quirinale scioglierà la legislatura non ce l’ha. Allora, i dirigenti leghisti immaginano verifiche di governo, che possano garantire che l’agenda – condivisa e sottoscritta – diventerà la loro. Strada complicata. Ma domani (anzi oggi) è un altro giorno. E Salvini lo inizia con una presenza a Rtl di buon mattino. La campagna elettorale non è mai finita.

Conte sfida i gialloverdi: “Finitela o mi dimetto”

Prima che la sera porti le ombre della crisi, l’avvocato che fa il premier indossa la cravatta viola delle sue grandi occasioni e assicura che non vuole appartenere a nessuno, “ho giurato nell’interesse esclusivo della nazione e i 5Stelle non li ho mai neppure votati”. Rivendica di essere stato più bravo rispetto alle previsioni ed elenca risultati e progetti, assicura che per il governo “non è stallo”. Però lo stallo lo descrive, Giuseppe Conte, quando ammette che “così non possiamo lavorare”, perché “siamo in campagna elettorale permanente”, e snocciola il rosario degli eccessi gialloverdi, cioè “le provocazioni con veline quotidiane”, “le freddure a mezzo social” e “le sparate a mezzo stampa”. Ma ora basta, invoca il presidente, adesso Lega e Cinque Stelle devono tornare “alla leale collaborazione”, perché c’è da lavorare a una manovra finanziaria “che si preannuncia complessa”, insomma bisogna far quadrare i conti: “Altrimenti non mi presterò a vivacchiare per prolungare la mia presenza a Palazzo Chigi, molto semplicemente rimetterò il mio mandato”.

Eccolo l’ultimatum di Conte ai vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Mette le dimissioni sul tavolo, e lo fa dopo aver consultato il Quirinale, con cui si sente quasi ogni giorno, e non a caso ringrazia Mattarella “per il sostegno e i consigli”. Cala l’avviso, senza data di scadenza. “Ma tanto vedremo presto” riassume. Risponde ancora alle domande, quando il leghista entra subito a gamba tesa (“sui vincoli europei ha parlato il voto”), come chi ha stravinto. Mentre il Di Maio che ha straperso chiede un vertice di governo già per oggi, impossibile agende alla mano. Ed è un modo per ricordare che è Salvini a essere sempre in giro per comizi, “mentre noi invece noi siamo qui a lavorare”, anche da sconfitti. Conte invece non si sente battuto, “però ho sottovalutato l’impatto della campagna elettorale” concede dentro la sala stracolma a Chigi, la stessa dove Enrico Letta pronunciò l’ultimo discorso da premier parlando anche lui di fase 2, e tra i cronisti è tutto un ironizzare. Invece il capo del governo non ride, bastona i discoli Salvini e Di Maio: “Non viene rispettata la grammatica istituzionale”. L’elenco di doglianze è lungo, “dai ministri che invadono le competenze altrui” ai partiti che “partecipano alle riunioni e poi cambiano idea”.

Conte cerca di distribuire in parti uguali lodi e bacchettate, vuole mostrarsi terzo. E cita la ferita più fresca, quella sulla lettera sul debito alla commissione europea: “Se un premier e un ministro (quello all’Economia, Tria, ndr) sono impegnati in un’interlocuzione con l’Europa, le forze politiche non intervengono ad alterare il quadro con provocazioni”. Quindi, ed è il cuore del discorso, Conte chiede un nuovo mandato, dopo quello con cui chiuse la trattativa con la Ue sulla passata manovra: “Il problema è la forte coesione e collaborazione: senza difficilmente si possono affrontare sfide così alte con possibilità di successo”. Per questo pretende “una risposta inequivocabile e rapida dai due leader dei partiti di governo, perché il Paese non può attendere”. Altrimenti tutti a casa, anche se avrebbe voglia di fare tanto altro, anche di dire no al Tav, “perché io ad oggi non lo farei”, e infatti difende l’analisi costi-benefici. Però il precipizio è vicino. “Non voglio continuare come il premier di un governo di ultra-destra” ha fatto sapere giorni Conte fa ai vertici dei 5Stelle.

Non vuole la deriva di Salvini, il contraente ora fortissimo, e lui non può che ammetterlo (“i pesi nel governo si sono ribaltati con il voto”). Al contrario, Di Maio è fragilissimo. Così gioca di contropiede, dicendo che la flat tax va fatta e che i vincoli europei si possono rivedere. Ma serve solo a chiamare allo scoperto l’altro leader, ad esortarlo a tirare fuori coperture e numeri. “Vediamo cosa sa fare” dicono dal M5S, mentre Di Maio sarebbe anche disposto a sacrificare uno o due ministri, per reggere.

Però in serata la riunione sullo Sblocca cantieri finisce malissimo, con il premier che si alza furibondo di fronte alla Lega che fa muro. E Conte ora deve decidere che fare. Questa mattina sarà a Torino, e nel pomeriggio dovrebbe partire per il Vietnam, per tornare venerdì. “Ma adesso il presidente dovrà valutare” dicono da Chigi. Perché la crisi è a un passo. Come le dimissioni dell’avvocato che non ne può più.

Che ci azzecca?

Più leggiamo le cronache del nuovo scandalo Toghe Sporche, e più ci sorge spontanea una domanda: ma che ci azzecca il nuovo procuratore di Roma? Può darsi che le carte ancora segretate dell’indagine della Procura di Perugia, che indaga per corruzione sul potente pm romano e leader di Unicost Luca Palamara, nascondano orribili mercimoni per condizionare la nomina del successore di Giuseppe Pignatone alla guida dell’ufficio giudiziario più cruciale d’Italia. Ma al momento non abbiamo letto una sola riga di verbale men che commendevole su quella nomina, né tantomeno sul favorito ad aggiudicarsela: Marcello Viola, ex pm antimafia di Palermo, poi procuratore a Trapani e ora Pg a Firenze. Quel che abbiamo letto finora è che Palamara, insieme a imprenditori amici e forse corruttori legati all’Eni, avrebbe usato la sua influenza di capo della maggior corrente togata per piazzare a Gela e Perugia procuratori fedeli o corrotti e così depistare le indagini sull’Eni e innescarne una sul pm romano Paolo Ielo, che con Pignatone aveva correttamente trasmesso a Perugia le accuse sul suo conto. Uno scenario vomitevole, il più grave scandalo giudiziario dopo il caso Toghe Sporche del ’96 su B., Previti, Squillante, Metta&C. Ma sulle trattative per la Procura di Roma, che han portato allo scrutinio in commissione (4 voti a Viola, 1 a Creazzo, 1 a Lo Voi), al momento non risulta nulla. A parte il fatto che magistrati, membri del Csm e politici ne parlavano per favorire amici e sfavorire nemici: nella migliore, anzi peggiore tradizione.

Naturalmente nessuno è nato ieri e tutti sappiamo come si procede (da sempre) in questi casi: i membri laici e togati valutano non solo i curricula dei candidati, ma anche le convenienze dei rispettivi partiti (i laici) e correnti (i togati). I procuratori uscenti ambiscono a scegliersi il successore e infatti Pignatone sponsorizza l’amico Lo Voi. E il Quirinale gioca la sua partita: lo faceva spudoratamente Napolitano, lo fa più discretamente Mattarella (anche lui pro Lo Voi). Purtroppo per loro, la commissione del Csm ha deciso diversamente e ha premiato, dei tre favoriti, il meno implicato in giochi correntizi: Viola, tiepido iscritto a Magistratura indipendente, preferito a un membro più attivo della stessa corrente (Lo Voi) e a un esponente storico di Unicost (Creazzo, compagno di corrente di Palamara, ma anche di Pignatone). La cosa non è piaciuta. Infatti – combinazione – l’indagine vecchia di un anno su Palamara viene improvvisamente accelerata e guastata in tempo reale, con la divulgazione delle intercettazioni addirittura mentre sono in corso.

Occhio alle date. L’accusa principale la mette a verbale l’ex pm corrotto Giancarlo Longo che, interrogato a Messina 11 mesi fa, dice di aver saputo da un terzo che Palamara incassò 40 mila euro per piazzarlo, peraltro invano, alla Procura di Gela. È questa accusa de relato di corruzione che, trasmessa a Perugia, consente di intercettare Palamara col Trojan previsto dalla nuova Spazzacorrotti (in vigore dall’11 gennaio). Il Trojan il 9 maggio immortala una riunione fra Palamara e altri tre: il deputato-imputato renziano Pd Luca Lotti (coinvolto nell’inchiesta Consip), il deputato renziano Pd Cosimo Ferri (ex magistrato, ex segretario di MI, ex sottosegretario alla Giustizia con Letta, Renzi e Gentiloni, che anche dal governo e dal Parlamento ha continuato a tirare le fila della sua corrente) e Luigi Spina (membro del Csm in quota Unicost, dimessosi perché indagato con Palamara). I quattro parlano della corsa per Roma e di un esposto al Csm su presunti conflitti d’interessi familiari di Pignatone e Ielo (inviso tanto a Palamara per aver innescato l’indagine a Perugia, quanto ai renziani per il caso Consip). Basterebbe aspettare un altro po’ per ascoltare, in diretta dal Trojan, gli sviluppi delle presunte trame: invece i pm di Perugia scoprono subito – il 30 maggio, appena 20 giorni dopo la riunione – le carte, trasmettendole al Csm e perquisendo Palamara, che così sa di essere intercettato e può cambiare telefono.

Altra stranezza: la Procura di Perugia affida le indagini su Palamara al Gico della GdF di Roma, che lavora quotidianamente con i pm capitolini guidati fino all’altroieri da Pignatone (incluso Palamara). Così Palamara, che per anni e anni era tornato utilissimo con la sua correntona per promuovere procuratori come Pignatone, trasferire magistrati scomodi come De Magistris da Catanzaro, Nuzzi, Verasani e Apicella da Salerno, Forleo e poi Robledo da Milano, tentar di punire i Di Matteo e i Woodcock, nominare vicepresidenti iperpoliticizzati del Csm come i Pd Legnini ed Ermini, diventa improvvisamente un appestato che tutti fingono di non conoscere. E si mena scandalo perché Ferri, col compare Lotti, continua a fare da deputato quel che aveva sempre fatto da sottosegretario nel disinteresse generale. La fiera dell’ipocrisia tocca il culmine con i tam-tam di chi vorrebbe azzerare il voto in commissione sul procuratore di Roma perché ha vinto il candidato “sbagliato” (Viola, anche se Unicost ha votato Creazzo); o addirittura azzerare il Csm (per eleggerne un altro con le stesse regole e mandare altri togati e altri laici a fare le stesse cose). Certo, se si scoprisse che Viola trescava con qualche corrotto o indagato per avere voti con metodi scorretti, dovrebbe farsi da parte. Ma al momento, sul suo conto, nulla risulta. E nulla emerge di illecito o inopportuno sul voto in commissione a suo favore. Eppure i giornaloni continuano a insinuare che l’inchiesta per corruzione su Palamara riguardi il nuovo procuratore di Roma. A riprova del fatto che neppure i peggiori politici e i peggiori magistrati riescono a far peggio dei peggiori giornalisti.

La voglia di condivisione anche sul posto di lavoro

Ragionare di smart mobility significa mettere in conto una serie di formule confinanti, che spesso si contaminano e rilanciano a vicenda. É un mondo vivace dove il car sharing, che ha riportato alla ribalta il noleggio, continua a cresce vertiginosamente accanto, gli resta complementare. A quasi sei anni dal lancio in Italia delle offerte di auto in condivisione, i noleggi a corto raggio sono cresciuti di addirittura il 26,5%, con 11,870 milioni di contratti contro 9,380 milioni del 2017. Scende l’età media degli utenti, a poco più di 35 anni, aumenta il pubblico femminile al 37%, l’utilizzo è ormai spalmato su tutti i 7 giorni della settimana. Soprattutto, il car sharing privato si consolida tanto da restituire al mondo delle imprese la sua agilità, con il successo delle formule di corporate sharing. Le flotte aziendali condivise oramai toccano il milione di vetture circolanti in Italia, con un sistema di facilitato dall’offerta dei maggiori player di noleggio, chiavi di accesso alle vetture digitalizzate via smartphone e la possibilità di ottimizzare al massimo l’utilizzo dell’auto a disposizione dei dipendenti, che possono sfruttarla oltre che per esigenze professionali, ma finalmente anche per quelle personali, nelle fasce orarie non operative per l’azienda o nel fine settimana. La mobilità di impresa taglia così i costi fino al 20% e i singoli risparmiano anche il 34% sul rent a breve termine, o il 29% rispetto all’uso dei taxi. Tutto questo contribuendo insieme al car sharing al decollo della mobilità elettrica a noleggio in ambito urbano, che nel 2018 ha registrato un aumento del 150%, passando da 2.000 a 5.000 nuove vetture.

Una testa di ponte verso il futuro

Ad oggi, la gran parte delle auto aziendali dispone di una motorizzazione diesel. Scelta tutto sommato logica per vetture dai chilometraggi sostenuti. Ma la nuova tendenza del green si fa sentire nel fatto che, secondo una recente rilevazione di Econometrica, la prima opzione per sostituire nei prossimi anni il gasolio, tartassato dalle ben note campagne di demonizzazione, sono le auto ibride (23,9%). Un dato che riflette alcuni orientamenti di un mercato, quello italiano, che nei primi quattro mesi dell’anno ha visto crescere la quota di vetture a doppio motore dal 3,8 al 5,3%. Se a questo aggiungiamo che i fleet manager delle varie aziende dichiarano che già ora in media circa il 20% delle vetture gestite è a emissioni zero, l’indicazione da trarre è che la tanto auspicata transizione verso l’elettrificazione sembra essere più avanti nelle flotte aziendali, che negli altri canali. Il che significa allargare l’analisi anche al noleggio a lungo termine, visto che oltre quattro auto su cinque vengono arruolate con questa formula.

Ma, a ben vedere, la testa di ponte delle flotte non può essere solo quella verso elettrificazione e basso impatto ambientale. Chi gestisce il business sa che il trend minimalista di un tempo è un paradigma sempre meno proponibile, e dunque l’auto aziendale deve già da ora portare in dote anche altro. Per il futuro non si potrà prescindere da sicurezza (il mercato degli Adas, ausili alla guida, in Europa varrà 3,71 miliardi di euro nel 2025) e connettività. Il tutto, allo stato dell’arte.

Le flotte aziendali. La sharing economy è già realtà

Digitalizzazione dei servizi e risoluzione dei problemi, questi gli argomenti vincenti dell’auto che esce dal concetto tradizionale della proprietà per entrare nelle nuove opportunità del noleggio. Le abitudini della sharing economy che stiamo vivendo gli consegnano il nuovo ruolo di protagonista della smart mobility. Ormai un fenomeno culturale in Italia, se è vero che ogni giorno oltre 900.000 persone utilizzano i servizi del noleggio a lungo termine, 130.000 quelli a breve termine e 33.000 il car sharing. Un nuovo contenitore di servizi capace di proiettarsi anche oltre l’orizzonte delle partite Iva, cioè tra gli automobilisti privati. Siamo passati dai 25.000 contratti del 2017 ai 40.000 a fine 2018, con la soglia dei 50.000 tranquillamente alla portata del 2019.

Abbandonare la vettura di proprietà per affidarsi alla formula del noleggio è una opzione ormai sul tavolo di un italiano su 4, che punta diretto alla comodità della formula “tutto compreso”, senza l’immobilizzo di capitale o il problema della rivendita dell’auto, con quella certezza della rata fissa che permette di programmare i budget famigliari. Fatti che cambiano le geometrie del mercato, mentre la stretta attorno alle emissioni e i blocchi del traffico non fanno che accelerare il trend. Questo settore spalanca all’auto l’orizzonte delle smart cities, ovvero i nuovi ecosistemi urbani dove la gestione delle risorse e delle esigenze di movimento deve essere amministrato con attenzione all’energia e ai costi. La flotta a noleggio è digitalizzata, ogni singola vettura gestita a distanza, la connettività diffusa permette di realizzare già ora un Internet delle auto in cui la localizzazione è solo uno dei tasselli. In ballo ci sono alert diagnostici in tempo reale per migliorare l’assistenza e ridurre i fermi, dunque la manutenzione predittiva in una nuova chiave di sicurezza, e poi l’analisi dello stile di guida, in una direzione quotidianamente ecologica.

È un fatto che le vetture in noleggio oggi possono contare su emissioni decisamente ridotte rispetto a quelle del parco circolante nazionale italiano, tra i più anziani d’Europa. Meno di due terzi di monossido di carbonio, – 50% di ossido di azoto e -70% di idrocarburi incombusti. Il cambiamento qui è razionale. Le auto a gasolio si confermano ancora leader, con il 70% sul totale delle immatricolazioni, ma calano i veicoli a benzina a favore delle motorizzazioni ibride evolute, che già segnano nei primi mesi dell’anno un forte aumento salendo dal 3% al 5% e già preannunciano performance superiori grazie all’allargamento della scelta di modelli disponibili. Dominano ancora le medie compatte, ma suv e comparto premium sono in ascesa. Le nuove abitudini della sharing economy, proprio ora, non rinunciano al comfort.

Salvini e quel vincolo deficit/Pil in rotta di collissione con la Carta

Dimenticate la letterina da Bruxelles. Ignorate il Fiscal compact. Cancellate Maastricht dalle carte. L’elefante nella stanza dei conti pubblici si chiama Costituzione italiana. Per le memorie labili l’art. 81 recita così: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”. In sostanza a via XX settembre si possono firmare cambiali solo in caso di recessione. Cambiali da onorare quando la crescita economica si riattiva. Il Pil italiano ha ricominciato a crescere nel 2014. Se tra il 2014 e il 2018 la spesa pubblica fosse stata congelata, ergo senza tagli di spesa, avremmo oggi un bilancio vicino al pareggio.

L’intento dichiarato di Salvini & C di violare i parametri su cui poggia la stabilità della zona euro, entra in rotta di collisione non tanto con gli odiati eurocrati, ma con l’ordine costituzionale e con l’incontrovertibile fatto che le risorse sono limitate. Se al Quirinale venisse inviato un bilancio 2020 impostato sullo sfascio dei conti pubblici, violando lo spirito e la lettera della sovranissima Carta, come reagirebbe Mattarella?

Potrebbe ignorare l’art. 81 del testo a cui ha giurato fedeltà qualora l’Ufficio parlamentare di Bilancio, il Fmi, le istituzioni europee, l’Ocse attiverebbero l’allarme mondiale per la bancarotta dell’Italia? Come si concilierebbe una procedura di deficit eccessivo della Ue, magari inasprita da una multa miliardaria, con il dettato costituzionale che impone “equilibrio tra entrate e spese?”. E di fronte agli atterriti investitori (per tre quarti italiani) colpiti dal crollo dei Btp, potrebbe asserire in pubblico che la Costituzione è stata abrogata? Alle agenzie di rating che classificherebbero i titoli italiani come “spazzatura” opporrebbe la Procura di Trani?

L’art. 81 fu modificato nell’infuriare di una burrasca che stava trascinando l’Italia alla bancarotta. Era la garanzia per i risparmiatori (grazie ai quali il Tesoro paga stipendi, pensioni, sanità pubblica, scuole statali) che il sistema politico italiano fosse ancora affidabile. Senza quella modifica Draghi non avrebbe potuto mai profferire lo storico “Whatever it takes” grazie al quale l’Italia scampò al disastro. Mattarella sa benissimo di essere il Garante morale di quell’impegno. Rinnegare di fronte al mondo un solenne vincolo costituzionale sarebbe un tragico bacione salviniano. Quello della morte per l’economia italiana su cui, temo, al momento non vegli il Cuore di Maria.

Ilaria Cucchi sostiene Villa Maraini

Anche Ilaria Cucchi sostiene Villa Maraini,per la libertà di cura dei tossicodipendenti. Della battaglia dell’Agenzia Nazionale sulle dipendenze della Croce rossa avevamo già scritto. Ma forse siamo vicini al lieto fine.

Nel 2018 Villa Maraini, con sede a Roma, ha trattato 1629 pazienti tossicodipendenti: circa 300 dosi di metadone somministrate al giorno. Senza vincoli territoriali. Accogliendo residenti, fuori regione e stranieri. Negli ultimi cinque anni però la Asl Roma 3 non ha versato alla Fondazione della Croce rossa 535mila euro, trattenendo il 25 per cento delle risorse quotidiane per il metadone. La Asl contesta alla Croce rossa di farsi carico di soggetti non residenti nel Lazio o già iscritti ai Serd della Capitale. Villa Maraini replica di essere in dovere di somministrare il metadone a chi è in crisi di astinenza, anche se ha già avuto in consegna per il weekend (essendo i Serd aperti solo poche ore) la dose. Dopo due proteste, la Regione ha promesso di accreditare la struttura, sperando di poter saldare le fatture finite le verifiche.

Il telestalking resterà un incubo almeno per tutto un altro anno

Un passo in avanti che nei fatti si trasforma in un nuovo stop. Questa la parabola della nuova legge contro il telemarketing approvata un anno e mezzo fa ma che ancora non riesce a vietare le chiamate indesiderate a tutte le ore, di giorno e di notte, per estorcere contratti di cui non si hanno ben chiare informazioni, clausole e prezzi. Un martellamento da cui nessuno si salva e bollato dal garante delle Privacy come “molestia”, visto che da anni insidia la vita degli italiani costretti a subire un marketing selvaggio e aggressivo senza poter fare nulla per impedirlo. L’Autorità che vigila sulla privacy ha, infatti, dato l’ok al nuovo regolamento del Registro pubblico delle opposizioni che consentirebbe a oltre 117 milioni di utenze telefoniche – numeri fissi e cellulari – di liberarsi dalle chiamate commerciali e dalla ricezione della posta cartacea indesiderate. Ma è un sì condizionato: il testo contiene diverse indicazioni pratiche, ma sostanziali, che il ministero dello Sviluppo economico deve apportare pena l’entrata in vigore di una rivoluzione che da anni si aspetta e che dovrebbe finalmente liberare gli italiani dall’assillo delle telefonate e consentire agli addetti ai call center di lavorare con le giuste tutele, uscendo fuori dal precariato e rilanciando un settore importante per la tenuta economica del Paese, alle prese però con aziende logorate da una guerra di prezzi che è andata a scapito della qualità del servizio e degli investimenti in innovazione.

Per estendere la possibilità di iscrivere al Registro delle opposizioni anche i numeri di telefonia mobile e i numeri riservati, o non presenti negli elenchi telefonici pubblici, il Garante in primo luogo ritiene che sia necessario precisare ulteriormente che l’iscrizione al Registro comporta automaticamente l’opposizione a tutti i trattamenti a fini promozionali, da chiunque effettuati, con la revoca anche dei consensi manifestati in precedenza. Su questo specifico punto, l’Autorità chiede di eliminare ogni riferimento alle categorie merceologiche degli operatori che potrebbero generare dubbi interpretativi e alimentare il contenzioso. Si potrebbe infatti dire “no” al telemarketing delle società di luce e gas e acconsentire a quelle di telefonia. La richiesta è anche di valutare l’opportunità che nel Registro possano confluire tutti gli indirizzi postali indicati dai contraenti, anche quelli non presenti negli elenchi telefonici. Poi, per rendere più esplicito l’obbligo della norma ed evitare comportamenti non corretti, il Garante suggerisce al Mise di prevedere in caso di illeciti, una responsabilità della società “non derogabile contrattualmente in concorso o in solido” con i call center che hanno effettuato e gestito la chiamata promozionale.

Una strada dell’inferno lastricata di buone intenzioni e che, soprattutto, dilata ancora di più i tempi di attuazione del Registro. Il regolamento contro il telemarketing selvaggio deve, infatti, essere riscritto per ottenere l’ok dal Garante e poi va inviato al Mise che lo trasmetterà al Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva, calcolando che fino ad ora il testo è già stato visionato dall’Agcom e dalle commissioni Lavori pubblici di Senato e Camera che lo hanno approvato. Poi, una volta approvato, il testo va trasmesso alla Fondazione Bordoni, che su incarico del ministero dello Sviluppo economico gestisce il Registro delle opposizioni, affinché riorganizzi la gestione delle iscrizioni. Insomma, un iter che in termini di tempo significa almeno un altro anno.

Nel frattempo anche l’altra novità entrata in vigore a inizio maggio è praticamente azzoppata: la possibilità di iscrivere al Registro anche gli indirizzi postali (con l’eccezione dei volantini che non sono intestati e che continueranno ad arrivare) è possibile solo per chi è già iscritto al Registro, vale a dire 1.539.070 persone. Un’arma ovviamente spuntata che ha fatto aumentare le violazioni amministrative contestate dal garante della Privacy: nel 2018 sono state 707, per lo più concernenti il trattamento illecito di dati e il telemarketing, e hanno fatto incassare oltre 8 milioni 160 mila euro, circa il 115% in più rispetto all’anno precedente.

L’ultima sanzione, in ordine di tempo, è stata inflitta l’altro ieri: si tratta di una multa di 2.018.000 euro ad una società che aveva svolto, tramite un call center albanese, attività di telemarketing e teleselling per conto di una azienda del settore energetico. La Guardia di finanza, a seguito di un’ispezione, aveva accertato che la società, oltre a non aver reso alcuna informativa alle persone contattate, non aveva richiesto come previsto il consenso al trattamento dei dati personali per finalità di marketing.

Colpo per Syriza, il centrodestra in vantaggio ad Atene e Attica

I candidati di Nea Dimokratia (centrodestra) vincono al secondo turno delle amministrative greche ad Atene e nella regione della capitale, l’Attica. Secondo le proiezioni della Singular Logic il candidato sindaco di Atene Konstantinos Bakoyannis avrebbe il 65,2% dei consensi e quello alla presidenza dell’Attica, Giorgos Patoulis, il 66,2%. La città era amministrata da un indipendente, Giorgos Kaminis, mentre l’Attica da Rena Dourou di Syriza. A Salonicco, invece, il candidato progressista, Konstantinos Zervas, avrebbe ottenuto il 67%, contro il 33% del rivale di Nea Dimokratia, Nikos Tachiaos, che era in testa dopo il primo turno.