Falsi scienziati e giornalisti: le fake news di Monsanto

Falsi giornalisti, falsi scienziati, falsi studi, falsi contadini…: il produttore di glifosato e di Ogm Monsanto, inglobato da Bayer, è disposto a tutto, e da diversi anni, pur di controllare l’informazione che lo riguarda. I due processi che Monsanto ha appena perso negli Stati Uniti non sono solo costati alla multinazionale 80 milioni di dollari per il primo e 2 miliardi di dollari per il secondo, e non solo hanno provocato il crollo in Borsa di Bayer, che ha acquisito Monsanto nel 2018. Hanno anche fatto emergere i comportamenti dubbi dell’azienda. Il 18 maggio, l’agenzia France Presse ha riportato alcuni fatti: durante il processo che lo scorso marzo ha opposto la multinazionale ad un utilizzatore dell’erbicida a base di glifosato Roundup, un’impiegata della Fti Consulting, un importante studio di consulenza e relazioni pubbliche, si è fatta passare per una giornalista free lance di alcune testate come la Bbc e The Inquirer. Sul suo sito web, la Fti Consulting presentava la giovane donna come un’“ex giornalista hi-tech” e aggiungeva: “L’eccellente ed esperta redattrice è all’origine di molte delle nostre campagne”. Secondo Fti, citata da Le Parisien, “la missione affidata all’impiegata era di assistere al processo solo per prendere appunti sui dibattiti”.

Non è un caso isolato. Quando è scoppiato lo scandalo dei “Monsanto Papers”, nell’ottobre del 2017, il quotidiano Le Monde ha rivelato che diversi articoli del biologo americano Henry Miller, pubblicati dal magazine Forbes, erano in realtà stati scritti quasi interamente da dipendenti di Monsanto, con lo scopo manifesto di contrastare i lavori dell’International Agency for Research on Cancer (Iarc), per i quali il glifosato è un “probabile carcerogeno” per l’uomo. Le Monde ha riportato: “Uno dei dirigenti della compagnia contattò per mail Miller, che aveva già scritto più volte sull’argomento, chiedendogli: “Non è che sarebbe disposto a scrivere di nuovo sull’Iarc, sul suo modo di procedere e sulla decisione controversa che ha preso? Ho tutte le informazioni, se necessario possono fornirgliele”. Miller accettò, ma ad una condizione: di “partire da una bozza di qualità”. Il testo che alla fine è stato pubblicato dal sito di Forbes era la bozza iniziale solo leggermente modificata. Già nel 2012, il Corporate Europe Observatory (Ceo) aveva dimostrato che Monsanto si è appoggiata al sito Science Media Center, basato a Londra, per cercare di demolire lo studio prodotto allo stesso tempo dal professore Séralini sugli Ogm. Il sito in questione è finanziato al 70% da alcune aziende, “tra le quali figurano i grandi nomi dell’industria di biotecnologia, Basf, Bayer, Novartis, CropLife International”, spiegava all’epoca il portale di informazione Basta!. Gli stessi giornalisti, quelli veri, sono tra l’altro nelle mire della multinazionale, come rivelato il 9 maggio scorso da Le Monde e France 2. Tra più di 200 personalità schedate in funzione del loro atteggiamento nei confronti del glifosato, la metà è costituita da giornalisti. Il registro – a cui si aggiunge un secondo registro con 80 nomi – comprende anche membri di Ong, politici e sindacalisti. Diverse denunce sono state presentate. Quando far pubblicare articoli compiacenti sulla stampa non basta più, Monsanto cerca di piazzare degli studi fasulli nelle riviste scientifiche. In questo caso si parla di ghostwriter (“autori fantasma”). La questione era già stata trattata da Marie-Monique Robin nel documentario Le monde selon Monsanto. Poi i “Monsanto Papers” hanno confermato che la multinazionale aveva fatto ricorso in modo sistematico a questo tipo di frodi scientifiche. Le cose stanno così: dei dirigenti dell’azienda producono uno studio piuttosto riduttivo, destinato per esempio a dimostrare che un prodotto non è nocivo. Quindi si contatta uno scienziato di fama al quale vengono proposti dei soldi in cambio della sua firma. Secondo Le Monde, gli stessi dirigenti di Monsanto usavano il termine ghostwriting nei loro scambi di mail. E comunque, come ricorda sul suo sito Robin, il gruppo non è sempre riuscito a pervenire ai suoi scopi. “Nel 1999 – ha scritto la giornalista – Monsanto chiese al britannico James Perry di confrontare gli studi realizzati all’interno dell’azienda e quelli pubblicati dalla letteratura scientifica. Perry, specialista della genotossicità riconosciuto a livello mondiale, concluse però che il glifosato risulta “clastogeno” (ovvero che attacca il materiale genetico). La vicenda mandò su tutte le furie Monsanto, che rimpianse di aver pagato lo specialista e si affrettò a riporre il suo rapporto nel cassetto”.

Per ingannare il pubblico o i media, Monsanto ha abusato anche di un’altra tecnica. Il 3 novembre 2018, Greenpeace e il quotidiano britannico The Independent hanno rivelato che la multinazionale aveva creato dei falsi gruppi di contadini in otto paesi europei. Si chiamavano Freedom to farm in Gran Bretagna, Agriculture et liberté in Francia o ancora Raum für Landwirtschaft in Germania. The Independent ha segnalato che la campagna Agriculture et liberté era stata particolarmente attiva. Il falso gruppo di contadini ha avuto infatti uno stand al Salone dell’agricoltura di Parigi del 2018, un sito web, un profilo Facebook e un account Twitter. Dietro questa operazione c’erano l’agenzia Red Flag Consulting, basata a Dublino, e un’altra agenzia, legata alla campagna di Donald Trump negli Usa, chiamata Lincoln Strategy. Queste due agenzie non figuravano sul sito francese, così come non figurava il nome di Monsanto. In sua difesa, il responsabile per i media di Bayer ha affermato che questo progetto “è stato gestito da Red Flag e sostenuto da una coalizione di utilizzatori e fabbricanti di glifosato e di altri prodotti fitosanitari, tra cui Monsanto. Uno sforzo – ha precisato – sostenuto anche da migliaia di agricoltori di diversi paesi europei che hanno alzato la voce in favore di un accesso permanente a questo strumento essenziale per un’agricoltura moderna e sostenibile”. Ha poi aggiunto, più prudente: “Per quanto riguarda il futuro del programma: il processo di integrazione di Monsanto all’interno di Bayer è iniziato solo a fine agosto 2018. In questo contesto, tutte le iniziative già avviate da Monsanto saranno esaminate e valutate nei prossimi mesi, alla luce dei principi direttivi di Bayer in materia di trasparenza e dialogo”.

Poco dopo le ultime rivelazioni, decine di agricoltori – veri, questa volta – hanno preso le difese dell’iniziativa Agriculture et liberté firmando una petizione lanciata da Denis Fumery e pubblicata sul sito del quotidiano Les Échos. Tra i firmatari c’era anche Vincent Guyot, il quale però, come è emerso in un reportage di Envoyé spécial di giovedì 16 maggio, sembra ora meno convinto del suo gesto. Guyot, che ha firmato la petizione in favore del glifosato 18 mesi fa, riconosce oggi di non essere tra gli autori di quel testo che, in realtà, era stata trasmesso da Agriculture et liberté. In una prima versione della tribuna pubblicata da Les Échos, compariva nella firma il nome di Julie Dramard, una comunicante del gruppo. France 2 ha poi rivelato anche il caso di un’altra firmataria, Armelle Fraiture, presentata come agricoltrice, ma che in realtà era una studentessa che aveva lavorato sullo stand di Agriculture et Liberté al salone parigino. La tv ha segnalato anche altri nomi che figuravano in calce alla lista di persone che apparentemente non erano neanche al corrente della cosa. Che dire delle istituzioni? Se logicamente Monsanto non utilizza i nomi di falsi commissari o falsi deputati europei, sembra che l’azienda riesca a intervenire a suo vantaggio anche su questo piano. Nel luglio 2017, quando il dibattito sul glifosato era ancora molto acceso, nell’attesa di sapere se l’Europa avrebbe o meno deciso di rinnovare la licenza, la Commissione europea si era detta favorevole citando un rapporto dell’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Ma, come riportato da The Guardian e dallaStampa, uno dei principali passaggi di questo rapporto non è altro che un copia e incolla di un documento prodotto nel 2012 da Monsanto a nome della Glyphosate Task Force, un consorzio di circa 20 azienda che commercializzano in Europa dei prodotti a base di glifosato. “Le sezioni del rapporto dell’Efsa che riesaminano gli studi sul potenziale impatto del glifosato sulla salute umana sono stati copiati, quasi parola per parola, dal dossier presentato da Monsanto”, ha scritto La Stampa. La questione non riguarda solo l’Europa. Nei “Monsanto Papers” è emerso anche che Jess Rowland, il responsabile del processo di revisione del glifosato all’interno dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti (Epa), è stato in legame costante con Monsanto. Sul suo sito, Robin, elencando i “colpi bassi” di Monsanto, ha enunciato anche il ricorso ai trolls che “si accaniscono su internet contro gli ‘oppositori’ del glifosato diffondendo false informazioni o avanzando ‘argomenti’ forniti da Monsanto”. La multinazionale potrebbe andare incontro a nuove sconfitte in tribunale, causando nuovi crolli in Borsa ancora più onerosi, ma è poco probabile che il gigante decida di cambiare i suoi metodi.

(traduzione Luana De Micco)

“Fu giusta la repressione di piazza Tienanmen”

La repressionedelle proteste degli studenti del 1989 di piazza Tienanmen fu la giusta decisione. “Si trattò di una turbolenza politica e il governo centrale prese le misure decisive e i militari presero le misure per fermarla e calmare il tumulto. Questa è la strada giusta. È la ragione della stabilità del Paese che è stata mantenuta”, ha detto durante un forum a Singapore il ministro della Difesa, generale Wei Fenghe, alla vigilia del 30° anniversario del massacro (330 morti ufficiali, alcune migliaia nella realtà)

Facce di casta

 

Bocciati

Illuminaci o Pillon. A Simone Pillon non bastava essere balzato agli onori della cronaca meno felice per il suo decreto sull’affido condiviso che ha fatto accapponare la pelle a moltissime donne: il senatore leghista ha voluto assicurarsi un’ulteriore razione di sdegno collettivo per essere sicuro che i posteri non dimentichino le sei lettere del suo cognome e i suoi estrosi papillon. Così due giorni dopo la morte di Vittorio Zucconi ha pubblicato questo post su Facebook: “Ho appreso la notizia della morte di Vittorio Zucconi. Prego per lui, perchè al di là delle inutili e faziose celebrazioni di Repubblica, si salvi l’anima. Ora, dove si trova, vede tutto molto più chiaramente”. L’antefatto tra il relatore di punta del Congresso di Verona e il grande giornalista ebbe luogo in una trasmissione radiofonica in cui Zucconi pretendeva di sapere da Pillon cosa lo spingesse ad avercela tanto con l’autonomia delle donne e con la loro facoltà di decidere se portare o meno a termine una gravidanza: quando il leghista replicò che non si trattava di una domanda seria, il giornalista chiuse il collegamento. Ed ecco che il senatore ha deciso di rifarsi sull’avversario post mortem, inserendosi nel solco dei rosari e delle Madonne chiamati a testimoni di una parte politica, la parte che “sa vedere” cosa è giusto anche in vita e non ha bisogno di arrivare nel Regno dei Cieli per essere illuminata. Ma non erano le élite di sinistra quelle messe alla gogna per il loro connaturato senso di superiorità? Pillon può star tranquillo: le cose le vediamo chiaramente anche noi che siamo ancora qui giù con lui, e l’inopportunità del suo post ci si disvela in tutta la sua (dis)grazia.

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Strike. Per riuscire ad offendere così tante persone tutte insieme con due sole frasette, ci vuole il talento di chi è riuscito a scalare il partito democratico, raccogliere il 40% alle Europee e in soli 2 anni mandare tutto per aria. “Se il governo dovesse cadere, una parte significativa del gruppo parlamentare del M5s chiederebbe il reddito di cittadinanza all’Inps. Perché molti di loro non sanno che fare nella vita”: missione compiuta. Matteo Renzi, per argomentare quanto i parlamentari Cinque Stelle siano attaccati alle poltrone, è riuscito ad offendere tutti coloro che hanno fatto domanda per avere il reddito di cittadinanza, dando loro degli inetti: un ex segretario democratico in disarmo che riesce a inimicarsi oltre un milione di persone tutte insieme, che tra l’altro dovrebbero far parte di quel famoso elettorato da recuperare, entra nel guinness dei primati. Sinceri complimenti.

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Promossi

Già fatto centro. All’ipotesi di un’urgenza per i democratici di aprirsi al centro per guadagnare voti, replica Massimo D’Alema: “Dicono: dovete conquistare i moderati. Ma i moderati votano già per noi. O vogliamo sostenere che stanno con Salvini? Noi perdiamo nelle periferie. Questo discorso vecchio aveva un senso quando la sinistra rappresentava la classe operaia e doveva allargarsi verso il ceto medio. La società è cambiata ed è smarrita. Ha bisogno di messaggi forti, identitari”. Gli si può dire tutto, ma l’analisi politica più lucida è la sua. E lo studio dei flussi elettorali lo conferma.

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La settimana incom

 

Bocciati

Di tutto, di più. Il ministro dell’Interno si occupa su Facebook di Rai: “Il cambiamento si tocca con mano quasi dappertutto, dico quasi perché se penso alla Rai, ahimè, tocco un tasto dolente: dalla settimana prossima torna in video Gad Lerner con cinque trasmissioni. Se la Rai del cambiamento passa attraverso il ritorno di Gad Lerner… E Fazio, e Saviano, e Gad Lerner… manca Michele Santoro e poi abbiamo chiuso il cerchio. Poi dicono che siamo noi a controllare la Rai. Mi viene da sorridere. Questo è il cambiamento? Lo chiedo all’amministratore delegato della Rai. Mi limiterò a chiedere quanto costa, quanto prende, con quanta gente arriva a lavorare Gad Lerner”. Ora, è pur vero che l’Italia è tra i pochi Paesi democratici al mondo dove è la politica (Commissione parlamentare di Vigilanza) a vigilare sull’informazione e non il contrario, come dovrebbe essere. Però il vicepremier leghista non deve esagerare: perché davvero non cambia nulla se dalla Rai, come accadde con altri leader (Berlusconi, Renzi) spariscono tutte le voci in dissenso. Uno spettacolo indegno (e attenzione: controproducente).

Promossi

Picchio forever. Tutti pazzi per Favino (persin la sottosegretaria Bergonzoni, che non non ha tempo per leggere libri ma per guardare i film evidentemente sì). L’attore romano trasforma in oro tutto quel che tocca, da Sanremo all’ultimo biopic su Tommaso Buscetta, osannato a Cannes. A Fiorello ha raccontato i retroscena del suo ingaggio: “Bellocchio non era convinto dal mio primo provino. Dopo il primo provino, il regista era sparito, pensavo: ‘Forse non gli sono piaciuto…’. Quando ho terminato le riprese di ‘A casa tutti bene’, ne ho fatto un altro. E lui sparisce di nuovo. Fino a quando la sera dei David di Donatello 2018 vengo a sapere dalla mia agente che sono stato scelto per il ruolo. Guardavo gli altri prendere i premi ed era un po’ come se li prendessi anche io…”. “Cosa si prova per la standing ovation di 13 minuti?”, chiede Rosario. Risposta: “Dolore ai reni, devi stare in piedi tutto quel tempo…”.

No Clooney, no party. George Clooney ha lanciato un concorso mettendo in palio un pranzo in compagnia sua e della bellissima moglie Amal a Villa Oleandra, il loro buen ritiro sul Lago di Como. L’appuntamento è fissato per metà luglio e possono partecipare solo due persone. L’iniziativa è a scopo benefico, in favore della Fondazione Clooney per la Giustizia, ed è stata presentata dall’attore con un video ironico: “Ciao, Sono il marito di Amal Clooney, George, e vorremmo invitarvi a venire con noi al Lago di Como”. L’attore poi ha citato John Fitzgerald Kennedy che durante un viaggio in Francia da presidente degli Stati Uniti disse: “Io sono l’uomo che accompagna Jacqueline a Parigi”. What else?

Il mondo in guerra dei sovranisti: “La mia verità ucciderà la tua”

L e verità si combattono, si deridono o convivono? È il tema di un libro che arriva in tempo sull’unico binario che davvero non si può attraversare. La riflessione che porta è destinata a contare per molti in questi anni. In cui ogni idea (o anche solo spunto, variazione, suggerimento) sembra (o viene fatta apparire) come costruita sulla rovina dell’altra. Giancarlo Bosetti, con La verità degli altri (Bollati Boringhieri) indica il percorso impossibile (impossibile ai giorni nostri) di proporre la civiltà della convivenza invece dell’impulso irrevocabile alla distruzione.

La scelta di Bosetti ricorda la rischiosa decisione di John Kennedy, giovane senatore harvardiano che stava per diventare candidato presidenziale contro il “mostro” imprendibile Richard Nixon (“l’uomo che entra in una porta girevole dopo di voi e ne esce per primo”). Proprio in quella circostanza Kennedy ha scritto Profili nel coraggio, storie di politici che, a rischio della loro sopravvivenza politica, hanno preso decisioni necessarie ma avversate e impopolari. Kennedy candidato è stato salvato dal Premio Pulitzer, che è stato assegnato al suo esordio letterario. Quasi mai tocca a un primo libro e mai era toccato a un politico. Il rischio di Bosetti non è politico. Però si scontra con una realtà cieca in cui alcuni (non pochi) sono avversari di tutti e li tengono lontani con il disprezzo e il filo spinato.

La proposta di Bosetti è legittima e sensata, ma si tratta di due valori che non sono disponibili, perché circolano invece le Madonne e i rosari usati come strumento di maledizione, o, nelle situazioni più miti, come garanzie di fortuna, tipo corno e ferro di cavallo. Il fatto è che la folla spaventata, aizzata, deliberatamente male informata e lanciata sulla politica nella speranza che ci scappi il linciaggio del rom, del nero, del diverso o del giornalista, non riconosce nessuno che porti informazione e anche solo spiragli di cultura. E proprio per questo è grande l’anonimo cittadino italiano che da giorni incolla poesie di Leopardi e di Shakespeare sugli imbrattati muri di Fiumicino. Per dire che al di là del sovranismo c’è altra vita e sarebbe possibile viverla insieme secondo il codice di Bosetti.

Ma il sovranismo (parola che comprende e rappresenta tutto il versante malato della visione degli altri) ha spaccato il mondo, e nega che si possa, che si debba convivere. Il sovranismo, infatti, ha collocato al centro di ciascuna vicenda esemplare un posto di blocco fatto di filo spinato come quello che avete visto nella passeggiata dei due gerarchi Orban e Salvini, che sembravano tratti da un cinegiornale del 1940. Non importa niente che non siano fascisti secondo il parere di chi rilascia licenze sul passato. Importa che si vedano, con il loro disprezzo, la loro folla stravolta. E il loro schifo istintivo per la cultura e per la storia. E purtroppo, data la loro natura, e la profondità della disinformazione in cui sono immersi, non sapranno mai che ci sono strade di rispetto e di pace.

Il limbo disperato dei cinquantenni: a Sud, morto il posto fisso, è emergenza

Chi diventa anziano se lo ricorda quell’orizzonte di strade nei paesi con negozi faticosamente appesi al 27 di ogni mese – il giorno dello stipendio con cui i clienti del ceto impiegatizio avrebbero saldato i conti – e di quella volta che una ragazza, invitando gli amici per il proprio compleanno, confidò di aver corso il rischio di essere battezzata col nome di Ventisette, giusto giubilo del proprio papà deciso a omaggiare la data dell’allegrezza. Ogni tanto fa capolino la realtà.

È quella di un coetaneo – ultracinquantenne – che chiede lavoro, reclama aiuto, cerca perfino l’umana comprensione perché lo spavento immediato è quello di ritrovarsi senza soldi, di non avere più forze e di non sapere cosa dare a sé stesso. Lavorava, meglio: aveva un impiego. Adesso non più. Sono venuti meno i soldi pubblici, l’azienda chiude e questo coetaneo – ultracinquantenne – è senza più stipendio. E come lui, in tanti. In tante altre aziende inventate apposta per dare pane a tutti. Con la morte del pubblico impiego l’emergenza sociale, al Sud, è conclamata.

La povertà forse, come dice Luigi Di Maio, è cancellata ma la disperazione – oggi – è sempre più forte. La cancellazione del ceto medio ha determinato un mutamento sociale e antropologico. Quella di questo coetaneo non è neppure la vita agra dell’esodato; è bensì quella del “cancellato”. Un tempo qualcuno, comunque, faceva qualcosa: lo stradino, il netturbino, l’impiegato in qualsiasi ente di parastato, di partecipata o di municipalizzata. E a ciascuno – specchiandosi in ognuno, nel presepe chiamato Meridione – era allora riconosciuta la dignità di un “posto”. Il reddito di cittadinanza di una volta era il “pane del governo”, quasi come una lotteria generosa con tutti, forse troppo, in ogni modo necessaria – e se ne faceva carico la politica, il famoso ammortizzatore sociale – per risarcire quei territori svuotati di anime dalla Grande Emigrazione.

Chi ha superato i cinquanta ed è di paese (e poteva restarci), i primi viaggi turistici se li faceva andando a far visita ai coetanei andati via: a Milano, a Torino, a Stoccarda. Quella dei cinquanta – e figurarsi di più – è anche l’età in cui tantissimi si ritrovano soli. Privati della famiglia d’origine, atomi a-sociali, molti si ritrovano gettati nel troppo tardi per costruirsi una vita, nel troppo presto per confinarsi nell’apnea della pensione. Troppo vecchi per seguire il destino dei più giovani – cui è negato il futuro nei luoghi dove si è nati – troppo indietro rispetto alle competenze, troppo in periferia se tutte quelle donne e tutti quegli uomini non hanno un santo vicino cui votarsi. Non c’è, dunque, qualcuno che possa assegnare il “pane del governo”.

La “politica” non ha più radicamento nel territorio e quando fa capolino la realtà – quando se ne sente la voce, dalle lontananze dei luoghi – c’è sempre quest’assenza a gravare su tutto. Chi chiede aiuto non ha un indirizzo – c’erano una volta le segreterie politiche – dove destinare la propria speranza, fosse pure quella clientelare. E la disperazione è più forte della povertà perché la politica è ormai un feticcio usurato.

Il mio coetaneo – un amico di sempre – mi parla e mi ricorda i giorni e gli anni in cui si disegnavano il mondo e il futuro con l’attivismo, l’impegno e la socialità. Echi d’illusioni. Chiamati a far capolino sulla realtà.

Il cugino antimafia di Messina Denaro, musa di Mario Venuti

Le canzoni hanno un’anima segreta, decisamente. Un ragazzo cavalca fiero nel video, senza tentennamenti, di Il pubblico sei tu, uno dei nuovi brani di Mario Venuti. “Si chiama Giuseppe Cimarosa”, spiega il cantautore siciliano, “ed è cugino di Matteo Messina Denaro. Anni fa suo padre Lorenzo, imprenditore colluso con la mafia, divenne un pentito. In molti finirono dentro”.

“Giuseppe e sua madre non fruirono del programma di protezione, e restarono a Castelvetrano. Per lui il boss latitante è un imbecille, e lo ha rinnegato anche in tv. Solo dopo aver scritto questo pezzo ho incontrato Giuseppe, che è un grande nome del teatro equestre. La sua storia offriva ulteriori significati a quel che volevo raccontare. Lui a cavallo, in una rivendicazione di libertà, orgoglioso della propria integrità morale. Ho promesso a Cimarosa che in estate farò un concerto a Castelvetrano, dove gestisce un centro ippico”. Una vita con la schiena dritta vale la pena di essere vissuta, suggerisce Venuti. “Mai smarrire il contatto con se stessi, soprattutto in un’era ossessionata dal plauso altrui. Siamo drogati dalla necessità di accumulare like e follower sui social. Temo che il cervello dei più giovani sia ‘infettato’ in modo irreversibile dall’ansia di piacere. Ormai crediamo che il mondo sia dentro uno schermo. E non coltiviamo l’arte del confronto a viso aperto”.

Che è invece il fil rouge del nuovo album di Mario, Soyuz 10, dodici brani così raffinati e curati da parere quasi anacronistici. “Beh”, ride, “l’approccio è stato da vera band, con molti strumenti suonati davvero e meno utilizzo dell’elettronica. Ci abbiamo messo sudore e cuore, spingendoci ai limiti del citazionismo nel pescare qui e là dal soul, dal pop anni Sessanta, da certe suggestioni di Battiato, dai Beatles di Revolver. Un progetto dall’approccio positivo, nato dall’istinto. Non avevo bisogno, stavolta, di mostrare lati oscuri. Quanto al titolo, Soyuz è il nome di un microfono, ma la traduzione dal russo è ‘incontro’: ci sta l’allusione ai viaggi siderali”.

Se Venuti venisse lanciato in orbita nella Soyuz, chi vorrebbe trovare sulla stazione spaziale? “Individui con una visione del mondo distante dalla mia. Solo così potremmo andare avanti”. Ma se a bordo ci fosse Salvini? “Accetterei il dialogo, sperando nella reciprocità. Anche se non mi convincerebbe mai delle sue tesi. Salvini ha conquistato il potere giocando sporco, inventando capri espiatori per la crisi economica. Difficile credere che le difficoltà siano colpa degli immigrati, ma purtroppo l’Italia tende a destra. Fai un buco nel fiume carsico del fascismo e i demoni tornano a galla. Colpisce che a Lampedusa la Lega abbia raccolto oltre il 40% dei consensi: ok, gli isolani vanno capiti, li hanno sempre lasciati in prima linea. Vedremo cosa saprà fare di concreto Salvini, dove troverà 30 miliardi per una flat tax. Non potrà ripararsi in eterno dietro sbarchi e pistole”.

Diversamente da troppi colleghi paraculi, sui social Venuti non la manda mai a dire. “Combatto, anche se talvolta mi assale la stanchezza e vorrei rifugiarmi negli affetti familiari. Sono vecchio, ho 55 anni, ahahah”. No, non si tirerà indietro, giura. “Ho una responsabilità, come artista. Voglio cantare di un futuro che non ci faccia paura. Dobbiamo ritrovare un pensiero più profondo. Ragazzi, mollate gli hashtag e affrontate Proust”.

Tutti pazzi per le escape room: “Grazie per 60 minuti di terrore”

C’è chi si esalta per essere stato sepolto vivo per due ore – “Ero chiuso in una bara, adrenalina a palla e limiti mentali da superare”- e chi ringrazia per essere stato “terrorizzato tantissimo, un’avventura da cardiopalma”. Altri notano come l’accoppiata di logica e suspence “sia perfetta per far girare il cervello a mille”, mentre tutti concordano: “La prima volta non si scorda mai”. Sul serio: non c’è forse esperienza sul web recensita con tanto eccitato entusiasmo – e senza nessuna pur minima critica – quanto le cosiddette escape room, realtà nata pochi anni fa e diventata ormai virale (sono centinaia in Italia, migliaia nel mondo). Si tratta di stanze a tema, generalmente di avventura o di orrore (ma anche “firmate” Disney, Star Wars, Harry Potter), nelle quali si viene rinchiusi in più giocatori, generalmente amici. Sessanta minuti il tempo previsto per riuscire a fuggire – attraverso giochi e indovinelli logici – da un castello infestato o un monastero maledetto, da un bunker pieno di zombie o una prigione piena di torture, dalla tomba di un faraone o il caveau di una banca. Concesso, in caso di impasseestrema, un aiutino esterno, anche se c’è chi alla fine fallisce e resta intrappolato.

Che si vinca o si perda, il nuovo popolo degli “escaper” sembra trarre giovamento da questa pratica sempre più diffusa: tanto che ormai ci si mandano pure i bambini oppure i dipendenti delle aziende. Gli esperti confermano: i benefici di questa esperienza adrenalinica sono tanti. Anzitutto, si fa una pausa dalla routine, uscendo dalla propria “confort zone”. Fronteggiare le sfide come squadra inoltre, come spiega Art Markman, professore di Psicologia all’Università del Texas, aiuta a creare empatia tra i giocatori e sconfigge le paralisi decisionali, mentre la spinta a risolvere problemi- oltre a sviluppare il pensiero critico – produce dopamina. Non solo: essere rinchiusi in una stanza, nota lo psicologo sociale Kevin Swartout della George State University, forza le persone a creare relazioni e a condividere di più, mentre il superare momenti di crisi rafforza l’autostima. Ma soprattutto gli studiosi del fenomeno sottolineano la differenza con videogiochi e smartphone: come questi ultimi, le escape room ci permettono di dare vita a paure represse – ad esempio un aereo dirottato o una casa in fiamme – ma lo fanno in un mondo che è “analogico”, non passivo, “realistico e tattile”, dove è presente cioè sia l’aspetto sociale che quello fisico, il corpo insomma. Certo, è possibile che, divenute sempre più luogo di compleanni o annunci di nozze, le escape room perderanno il loro fascino pauroso, sgonfiandosi. O che, più che una compensazione da un eccesso di virtualità, diventeranno l’ennesima fuga dalla realtà, con i partecipanti che invece che risolvere gli enigmi faranno in modo di perdere per restare dentro, per sfuggire il capo o la moglie. Per ora, comunque, fruttano bene a chi le gestisce e rilassano chi ne fruisce. Ma occhio alle uscite di sicurezza e agli estintori: perché il brivido va bene, purché resti finzione.

Patrimoniale tra Funari e l’Amato-1

“M e stringi per favore? Sul primo piano, vieni vieni… questo regime me fa schifo! Io so convinto d’esse l’unico conduttore politico rimasto, signori è finito il salotto dei piacioni. Da questo momento in televisione si deve fare politica in maniera chiara, con frasi brevi, ispirandosi a notizie giornalistiche e alla vita del parlamento. Oggi me so sentito derubato! Il governo Amato per evitare il crack finanziario e permettere alla lira di rimanere attaccata al sistema monetario europeo, ha imposto un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari” mi blocco davanti alla televisione, mentre ascolto Gianfranco Funari, il suo sguardo si fissa nell’occhio della telecamera come se volesse dare del tu a ognuno di noi e spiega senza nessuna forma di ipocrisia cosa sia la “Patrimoniale”. Mi chiedo cosa ho visto e cosa ho capito. Perché devono prendere i soldi sul conto corrente? La chiamano patrimoniale, ma il patrimonio è mio. Oddio, patrimonio è una parola grossa perché ho solo un milione e mezzo, di cui seicento mila lire me le ha regalate mia nonna e gli altri spicci li ho fatti con dei lavoretti. Non è giusto, devo approfondire! Io vorrei parlarci con Amato, ora cerco il numero e lo chiamo “…pronto ministero dell’economia c’è Giuliano Amato? Grazie, attendo. Ah ciao Amato, come va? Tu non mi conosci, chiamo da Roma. Vorrei dirti che quello che hai fatto non è bello, tu non ti puoi permettere di mettere le mani nelle tasche degli italiani capito! Io ho solo un milione e mezzo in banca, seicento mila lire me le ha regalate mia nonna con la sua pensione e se quella si incazza… sì, mia nonna! Quella non guarda in faccia nessuno. Tu sarai anche Amato, ma qui in Italia non ti ama nessuno, pronto, pronto? Pronto Amato? Ops ha attaccato…”