Sentinelle di Cologno: 12 persone presidiano il comune contro i clan

“Se scrivi di me usa, per favore, il mio nome di battaglia: Antonello”. Detto fatto. Perché i nomi sono importanti. Sta scritto Rosaria ma chiamami Rosy. Salvatore ma chiamami Salvo. Giuseppina ma è Giusy. C’è una generazione di giovani meridionali che hanno così cercato di liberarsi dell’effetto dinastia, l’obbligo di imporre al piccolo il nome del nonno o della nonna. Nomi che sapevano di antico e di santi. Forse anche Antonio D’Arrigo, nativo di Furci Siculo, provincia di Messina, e protagonista di questa storia, ha vissuto lo stesso problema. Certo è che se parla di nome di battaglia non mente. Perché gran parte della sua vita non più brevissima l’ha dedicata alle migliori cause civili. In Sicilia prima, poi in Lombardia dove è arrivato a 27 anni, e dove è diventato segretario generale dei comuni di Cinisello Balsamo e Nova Milanese. Frequentando quelle cause – Costituzione, legalità, antimafia – l’ho incrociato più e più volte nei decenni sapendo di lui solo che non era di Milano ma di Cologno Monzese.

Attento, gentile, competente. Pronto ad alzarsi alla fine di ogni dibattito dalla sua sedia per andare a chiedere con santa pazienza ai relatori che più gli erano piaciuti se erano disposti ad andare a parlare “in una scuola di Cologno” o “una sera a Cologno”. Sembra niente. Che ci vuole, d’altronde? Eppure molto di ciò che è cresciuto di buono in Italia, e che la politica continua a dilapidare, lo dobbiamo a questa pratica semplice, umile e poco gratificante (si ricevono “non posso” in serie…), che donne e uomini sconosciuti esercitano con tenacia per portare in provincia e nei luoghi meno attrattivi una cultura che non sia la fatuità televisiva. Nel caso di Antonello per sospingere un’associazione che si chiama “Libera casa contro le mafie – Associazione per l’educazione alla legalità ed alla giustizia”. Di Cologno Monzese, appunto. Una dozzina di attivisti dai 16 ai 70 anni. “L’abbiamo costituita nel 2010, anche a seguito delle elezioni amministrative del 2009.

Allora capitò una cosa che a me e ad alcuni amici apparve incredibile. In una lista riformista di ex socialisti che appoggiava l’amministrazione del sindaco Soldano del PD venne candidato Leonardo Valle, esponente del clan calabrese dei Valle. Restammo sgomenti. Anche per la reazione di tutta la città: sporadiche e timide condanne e molti complici silenzi. Ma qual era il senso civico su cui Cologno poteva contare? Perciò decidemmo di rimboccarci le maniche. Facemmo venire giudici come Davigo e Spataro, o lo storico Enzo Ciconte. Che sapessero, i cittadini, il mostro che stavamo allevando in casa. In questi anni abbiamo lavorato molto nelle scuole di ogni grado cercando di valorizzare il meglio della società civile in tre direzioni. Fare memoria, far conoscere la criminalità organizzata, specialmente quella del Nord Italia, educare al rispetto delle regole e alla ricerca di giustizia”. “Quest’anno”, continua Antonello, “abbiamo realizzato due progetti nella scuola primaria. Il primo, ‘Camminare con le gambe degli uomini’, è partito dalla lettura del libro di Luigi Garlando ‘Perchè mi chiamo Giovanni’ per fare conoscere ai ragazzi la figura di Giovanni Falcone. Il secondo, ‘Viva la Costituzione’, aveva invece lo scopo di farli avvicinare ai principi della Costituzione”. “Poi c’è il progetto ‘C’è chi dice no!’ con cui abbiamo offerto ai ragazzi delle superiori le conoscenze di base della criminalità organizzata. Cerchiamo di non fare da soli. Siamo associati a Libera, siamo in rapporto con l’Anpi, la fondazione Fava e l’associazione culturale ‘Il sipario’ di Cetraro’. Siamo un po’ ‘le sentinelle di Cologno’, con occhi su sale gioco e flussi di denaro anomali”.

Poi c’è un altro impegno, legato agli affetti antichi. Accadde nel 1980, a Bologna. Nel boato terrificante della stazione quel 2 agosto morì un compagno di classe di Antonello. Si chiamava Onofrio Zappalà, era di Santa Teresa di Riva, Messina. A lui è dedicata dunque l’ “Associazione Amici di Onofrio Zappalà – Per non dimenticare”, che opera anch’essa nelle scuole, ricordando quella strage e assegnando borse di studio a studenti della scuola superiore di Onofrio. E anche un Premio Zappalà – Incontro alla vita. Sembra tutto semplice, facile. Senza eroi e senza scorte. Ma l’Italia deve a queste persone sconosciute la forza che le ha consentito di reggere agli attacchi criminali. Ne avrà bisogno ancora a lungo. Del loro entusiasmo e dei loro nomi di battaglia. Antonello, o cento altri.

Truffe amorose su internet. Dopo la Prati, le confessioni: “Io, adescata da una lesbica”

Cara Selvaggia, non ne ho mai parlato, la vergogna di essere stata così cogliona ha bruciato a lungo. Mai stata una miss, ma cazzo, almeno intelligente sì! O forse è questo il target della vittima? Andavano di moda le chat, c’era una stanza chiamata “loggia filosofi”: si parlava di politica, musica, letteratura. Persone di tutte le età e io, solitamente così sospettosa, ho abbassato la guardia. Ci si scambiava il contatto messenger e chattavi solo con le persone più affidabili e interessanti. La faccio breve: ci scriviamo tanto sul pc, ci scambiamo il numero, ma tranne un paio di telefonate a voce bassissima, comunichiamo solo via sms anche perché… Povero, gli si ammala il padre. Inizia a inventare scuse per non incontrarmi; il cliché della crocerossina fa il resto e io mi affeziono a tale Riccardo Caracini di Cingoli, Macerata. Sparisce per 2 di mesi, il papà è morto. Torna perché è innamorato, e stavolta dobbiamo fidanzarci. Non lo so se ero innamorata, Selvaggia, o se ero malata. Però per più di 2 anni ho inseguito il fantasma di questa persona che subito dopo ha portato avanti la storia del suo tumore al cervello, quindi zero chiamate, le vieta il medico! Solo messaggi. Guarisce. Gli dico che vado io! Ma vediamoci! Siamo innamorati, giusto?! Volano paroloni, promesse di matrimonio, figli, cani e vita in camper nella natura (testuali parole). Non può… Si ammala la madre. E sai cosa fa più male? Un giorno suona il telefono e… Oddio mi sta chiamando?! Non ci credo, rispondo e… È una donna, Laura, amica di Riccardo. M’informa che mesi fa Riccardo s’è stufato di noi e le ha rifilato il suo telefono. Fino a quel momento avevo creduto a tutto. Tutto. Avrei creduto qualunque cosa. Da quel giorno ho aperto gli occhi, ma ho impiegato mesi a togliermela dalle palle. Morbosa. Gelosa. Bugiarda e malata, soprattutto. Che parentesi brutta della mia vita. Lesbica, sì, e ho avuto il forte sospetto di non essere l’unica fessa che teneva in pugno. Forse continua a farlo ancora ora. Di sicuro, si innesca una routine viziosa che ti stacca dalla realtà. Ho saputo leggendo l’articolo sul Fatto delle vittime in Australia e del suicidio di una delle due… Non so cosa avrei fatto se fossi stata meno forte. Tutto qua. Lei esiste ancora, spero solo non prenda per il culo altre ragazze a causa del suo problema: non accettare la sua omosessualità. Sai quante volte, saputo tutto, si giustificava con frasi tipo “ci si innamora a prescindere dal sesso” e “ero io che mi messaggiavo con te, quindi tu ora ami me!”. Credo di avere ancora qualche foto, sfocata e chissà di chi… Ma conservo la rabbia per aver permesso ad una stronza psicopatica di rubarmi 3 anni di vita. Con la sola richiesta dell’anonimato, di questa storia puoi farne ciò che credi. Voglio solo mettere in guardia altre ragazze fragili. È stato un piacere dopo dieci anni buttare fuori tutto. Ciao Selvaggia, e grazie.

L.

Cara L., ho ricevuto almeno trenta storie simili alla tua, alcune davvero ai confini della realtà, con donne che hanno creduto non solo a morti fulminanti dei loro quasi mariti inesistenti, ma perfino a resurrezioni come nella migliore tradizione alla Beautiful. È ormai evidente che il caso Prati un merito ce l’ha: ha dato coraggio a tante ragazze che avevano vissuto l’esperienza del “love scam” di parlare e, soprattutto, di non sentirsi sole e le più fesse della galassia. Il fattore interessante è che dietro questa follia c’è sempre una donna con un’omosessualità irrisolta. Gli uomini non lo fanno quasi mai, del resto non si accontenterebbero di un relazione platonica, sentimentale, giocata sull’emotività e su un eterno corteggiamento. Verrebbe quasi da dire: evviva i maschi viscidoni che ti mandano l’augello non richiesto in chat. Fanno schifo, sì, ma almeno non si corre il rischio di fraintendimenti.

Selvaggia Lucarelli

 

“All’asilo Mariuccia si lavora, non infangatelo”

Cara Selvaggia, ho letto il suo ennesimo articolo sempre ben scritto, puntuale e preciso, ma che come quello di molti altri giornalisti contiene una enorme inesattezza. Lei cita l’Asilo Mariuccia con l’accezione di luogo dove si passa il tempo dedicandosi a sciocchezze, a cose di poco conto. E come lei, sono in tanti a dargli questo significato. Che è ingiusto. Perché noi, che lì ci lavoriamo, nel nostro Asilo Mariuccia non perderemmo mai tempo per delle simili fesserie. Perché il tempo è importante e spesso ne abbiamo poco. Perché i problemi dei ragazzi che abbiamo in carico sono ben più impellenti e importanti di una trasmissione tv. Insomma, all’Asilo Mariuccia ci sarà pure un gran casino, ma quantomeno proviamo a fare qualcosa di buono. So che è un modo di dire molto diffuso e l’ultimo in ordine di tempo a citarlo è stato il ministro Salvini, sempre per indicare una situazione di confusione e infantilismo. Non mi ha sorpreso detto da lui ma da una donna e giornalista preparata e attenta come lei, sì. Le parole sono importanti e per tanti ragazzi e ragazze quel luogo, l’Asilo Mariuccia, è casa. E non è bello sentire parlare in questi termini del luogo dove, per un periodo della propria vita, si vive.

F.

 

Gentile F., nutro il massimo rispetto per chi lavora nell’Asilo Mariuccia e per chi ci vive e lo frequenta. Detto ciò, mi perdoni, ma la sua mi sembra una questione di lana caprina. E spero che gli allevatori di capre camosciate delle Alpi non si offendano.

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano, 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Il Sud spera nel Carroccio come ribellione ma sarà deluso

Caro Coen, ho un desiderio. Vorrei avvicinare uno ad uno i 964 abitanti di Cassano Irpino, piccolo e gradevolissimo borgo stretto tra i monti Picentini e il fiume Calore, e porgli una domanda semplice semplice, spiegatemi perché alle ultime elezioni avete tributato un piccolo ma significativo plebiscito a Salvini e alla sua Lega del “prima gli italiani”. Il 60%. Prometto che mi limiterei solo ad ascoltare. Lo scopo è quello di capire perché i meridionali, non quelli metropolitani, ma quelli che vivono nel Sud remoto, interno, spopolato, hanno affidato le loro speranze ad uno come Salvini che li ha sempre platealmente schifati. Perché – hanno risposto gli abitanti di Cassano ai giornalisti – bisogna smetterla con l’immigrazione selvaggia e i neri. Ora, premesso che a Cassano Irpino vivono 36 stranieri, e di questi 20 sono cittadini comunitari, presumibilmente europei dell’Est, si capisce che non ci sono i numeri per parlare di invasione. E allora dobbiamo cambiare schema di analisi, e dire che quel Sud abbandonato, destinato a morire di spopolamento (Cassano nel 1951 contava 1967 abitanti), si sente ormai periferia d’Europa e d’Italia. E si ribella a modo suo, piegandosi su se stesso e urlando, come in una sorta di ultimo atto di disperazione e dolore, le parole più feroci della politica. Anche a Favignana, paradiso delle Egadi, nelle sei sezioni elettorali Salvini è diventato primo col 29,11% dei voti. Certo, la percentuale dei votanti è stata bassissima (24,36), ma conta chi entra nell’urna. E la Lega ha trionfato. Benefici? Eccone uno, archiviato il voto, il Ministero dell’Agricoltura ha rivisto la “quota tonno” abbassando i livelli di pesca e di trasformazione assegnati all’isola. Appena 14 tonnellate, poche rispetto alle almeno 100 necessarie per far funzionare la tonnara recentemente riaperta e ora destinata alla chiusura. Ancora una volta, il Sud si prepara a vivere la sua ennesima delusione.

Matteo il leghista tracotante come “il macellaio” Bava Beccaris

Sulla pagina Fb “il razzismo non ci piace”, ho letto un sagace post: “Tra i santi invocati da Salvini mancava San Vittore”, che è mica male come battuta. Temo però che tra poco l’accigliato ducetto del rosarietto se la piglierà anche con Internet, dopo aver attaccato Gad Lerner e aver mandato “un bacione” a Roberto Saviano, minacciando “nuovi criteri per le scorte”. La sua tracotanza mi ricorda tanto quella del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Quando scoppiò la rivolta del pane a Milano, nel maggio del 1898, il governo proclamò lo stato d’assedio e lo nominò commissario straordinario con pieni poteri per la provincia di Milano. Noi meneghini lo ricordiamo come il “Macellaio di Milano”. Perché per sedare le proteste – c’era lo sciopero generale, le fabbriche chiusero tutte e la gente scese per le strade – mise Milano a ferro e fuoco, massacrando 400 persone, donne e bimbi compresi. Per ottenere “ordine e sicurezza”, aveva mobilitato 38 battaglioni di fanteria, 13 squadroni di cavalleria e 9 batterie. Poi Bava Beccaris puntò i giornali d’opposizione: Il Secolo, L’Italia del Popolo, L’Avanti. Decine, i direttori e i giornalisti arrestati. Persino l’avvocato Eliso Rivera, fondatore e condirettore della Gazzetta dello Sport. I reazionari ottusi lo ritenevano un eversore: socio di una Casa del Popolo, voce libera del giornalismo, disposto a dialogare con repubblicani, radicali, anarchici. Don Davide Albertario, prete animoso, direttore dell’Osservatorio Cattolico gridò ai militari che l’ammanettavano: “Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo”. Gli arrestati furono costretti a sfilare per le vie di Milano, a piedi, in catene, a due a due, coi soldati e gli sbirri di fianco, pistole in mano, pronti a far fuoco. Il torinese Domenico Oliva, deputato della destra, divenne direttore del Corriere della Sera. Fautore della linea dura contro operai e contro chi si batteva per i poveri, denunciò “la tolleranza incredibile verso i nemici dello Stato, della patria, della civiltà”. Caro Enrico, non ti ricorda qualcuno?

Nella processione contro i “sodomiti” anche un finto prete che fa il mago

L’onda del clericalismo di destra monta sempre di più e una delle nuove trincee dei militanti cattolici salviniani è la processione di riparazione pubblica. Nato qualche anno fa, il fenomeno si appalesa in concomitanza con le sfilate dei Gay Pride nelle città italiane. I tradizionalisti italiani chiamano gli omosessuali tout court “sodomiti” e li considerano spesso una conferma della “vittoria demoniaca” in questo tempo di Apocalisse.

I vertici della Chiesa tollerano queste processioni, talvolta facendo finta di condannarle, senza dimenticare però che secondo il codice di Diritto canonica solo i vescovi possono autorizzare questo genere di riti. L’ultimo corteo di credenti in preghiera contro “l’affronto” dei Gay Pride si è tenuto sabato scorso a Modena, annunciato nei giorni precedenti con l’autorevole sostegno del ministro leghista all’Omofobia Lorenzo Fontana.

In tutto trecento persone a recitare il rosario e tra loro anche un finto prete, già spogliarellista e partecipante all’Isola dei Famosi (fu cacciato). Si chiama Davide Fabbri, cioè “padre David”, ed è persino pronipote di Benito Mussolini. Protagonista di vari gesti beceri, come rivendicare il lancio di banane contro la ministra Cécile Kyenge, “padre David” ha cosparso di acqua santa e sale di Cervia il percorso della processione, attirando le telecamere delle tv locali.

Sul sito, intitolato al suo soprannome, “Viking”, Fabbri si presenta come diacono, esorcista, cavaliere della Milizia dell’Arcangelo e ricercatore esoterico, cioè mago, con tanto di numero di telefono per eventuale consulto. Spiega che “il prete va iniziato alla magia e il mago riportato ai valori della Chiesa di Cristo”.

Un’eresia che sconfina nella blasfemia questa del prete mago, laddove negli Atti degli Apostoli si racconta dell’incontro tra Simon Mago e l’apostolo Pietro. Simone “vedendo che lo Spirito veniva conferito con l’imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro”. Pietro lo respinse: “Il tuo denaro vada con te in perdizione”. Ecco, ci mancava anche il ritorno di un nuovo Simon Mago. Attenti alla simonia.

Prima i Ct italiani: così il calcio muore

Con tutto il rispetto per la buonanima di Vittorio Pozzo, Fulvio Bernardini e Nereo Rocco, tre dei più grandi allenatori (i primi due anche commissari tecnici) che il calcio italiano abbia mai avuto, la mozione che sarebbe il caso di presentare, discutere e votare, alla Scuola Allenatori del Centro Tecnico di Coverciano, è la seguente: “Dalla stagione prossima si rende obbligatorio un anno di Erasmus, per ogni allievo allenatore, in giro per l’Europa”. E a chi si chiedesse il perché di questa stramba pensata, forniamo subito la risposta: che è una domanda sul calcio inglese che nella stagione da poco conclusa ha dato scacco matto a tutti. Quanti allenatori inglesi siedono, in Premier League, sulle panchine dei club piazzatisi nei primi 5 posti, e cioè M. City, Liverpool, Chelsea, Tottenham e Arsenal (quattro dei quali freschi finalisti in Champions e Europa League)? La risposta è facile: zero. Guardiola è spagnolo, Klopp tedesco, Sarri italiano, Pochettino argentino, Emery spagnolo. Buffo no? Così ci è venuta voglia di andare a vedere quanti allenatori spagnoli e tedeschi guidano i club piazzatisi ai primi 5 posti della Liga di Spagna e della Bundesliga di Germania: e ne abbiamo trovati 3 in Spagna (Barcellona, Valencia e Getafe) e 2 in Germania (Lipsia e Moenchengladbach). Ma anche qui al Real Madrid abbiamo trovato un francese (Zidane), all’Atletico un argentino (Simeone), al Bayern un croato (Kovac), al Dortmund uno svizzero (Favre) e al Leverkusen un olandese (Bosz). Così siamo andati a vedere com’è la situazione in Italia: dove il calcio, ne abbiamo avuto prova quest’anno, sembra essere rimasto all’Età della Pietra. Ebbene, tenetevi forte.

Sulla panchina dei primi 5 club della serie A ci sono solo allenatori italiani: Allegri, Ancelotti, Gasperini, Spalletti e Simone Inzaghi. Ma a dirla tutta si farebbe prima a dire quanti allenatori stranieri sedevano sulle 20 panchine di serie A: esattamente due, Mihajlovic a Bologna e Tudor a Udine, oltretutto a tutti gli effetti italianissimi avendo trascorso gran parte della loro vita nei nostri spogliatoi.

E insomma: non sarà che a furia di dirci che l’Italia è la terra della tattica e dei maestri del calcio e che la serie A è il campionato più difficile del mondo, ci ritroviamo oggi con una scuola di Coverciano che sforna asini e col campionato più brutto e sorpassato del mondo? Come mai sembriamo non aver bisogno di imparare niente da nessuno e poi Allegri, con i suoi strapagati campioni, viene umiliato da un giovane olandese (Ten Hag, Ajax), Di Francesco messo sotto da un portoghese (Conceiçao, Porto), Spalletti da un austriaco (Hutter, Eintracht), Gattuso da un portoghese (Martins, Olympiakos) e ci fermiamo qui per amor di patria? Qui abbiamo appena assistito alla partita più oscena della storia del calcio, Fiorentina-Genoa 0-0, in cui le due squadre, dirette da un ex c.t. azzurro, Prandelli, e da un ex allenatore di club gloriosi come Roma e Milan, Montella, mica due pincopalla, si sono rifiutate di giocare preferendo ascoltare la radiocronaca di Inter-Empoli. Ebbene: se non in politica, almeno nel calcio un po’ più di Europa non guasterebbe. Con 18 allenatori italiani su 20 e i due stranieri più italiani di Toto Cutugno, il nostro calcio comincia a puzzare. E come il pesce, puzza dalla testa.

Il rosario di Salvini rassicura un Paese senza più certezze

Matteo Salvini di questi tempi sbaglia poche mosse. Viene quindi da pensare che se sgrana il rosario ed evoca il “Sacro Cuore di Maria” in tv e nei comizi deve aver calcolato un tornaconto elettorale. Nel nostro Paese la religione cattolica è in ripresa? Tornano di moda i difensori della morale tradizionale, quelli che considerano l’omosessualità una malattia e che pensano che lo Stato debba aiutare solo le coppie sposate in chiesa?

Ci aiutano a chiarire questi dubbi i numeri dell’annuale Rapporto sulla secolarizzazione di Critica Liberale, il periodico laico e indipendente diretto da Enzo Marzo. Sono dati interessanti soprattutto se osservati con uno “sguardo lungo”, cioè nella loro evoluzione decennale. Nel 1995, il primo anno del Rapporto, si sposavano in Italia circa 290.000 coppie. Di queste, ben 232.000 lo facevano con “rito concordatario”, in chiesa, e solo 58.000 con quello civile. Dopo dieci anni, nel 2005, il numero totale dei matrimoni era sceso a 247.000, la quantità di quelli religiosi calata a 166.000 e quella dei civili salita a 81.000. Nel 2015, si sono sposate in totale in Italia meno di 200.000 coppie, esattamente 194.000, e di queste solo 106.000 l’hanno fatto in chiesa; il numero di matrimoni civili è cresciuto ancora, superando quota 88.000. Dunque, nel 1995, l’80 per cento degli italiani si sposava in chiesa, mentre vent’anni dopo, nel 2015, ha compiuto questa scelta solo il 54 per cento delle coppie.

Certo, a determinare questo trend, ha contribuito l’aumentata presenza, nel nostro Paese, di persone di religione non cattolica e la probabile crescita delle “seconde nozze”, cioè dei matrimoni tra divorziati, ma comunque il dato complessivo rappresenta un indizio chiaro del fatto che una parte crescente della popolazione si sia distaccata dalla tradizione cattolica. Vanno nella stessa direzione anche altre cifre del Rapporto, ad esempio, quella sui bambini nati fuori dal matrimonio: nel primo anno di rilevazione, il 2001, erano 53.000, quattordici anni più tardi, nel 2015, erano quasi triplicati, 139.000. Nello stesso intervallo di tempo, i nati da coppie sposate sono diminuiti di parecchio, passando da 481.000 a 346.000.

La tendenza alla secolarizzazione e all’indebolimento dell’attaccamento degli italiani alla religione viene confermata anche se ci si allontana dal terreno della famiglia per passare a quello del clero. Le nuove ordinazioni di preti sono in caduta verticale. Nel 1995, la Chiesa Cattolica aveva sfornato 533 nuovi sacerdoti; vent’anni dopo, nel 2015, le nuove ordinazioni si sono quasi dimezzate: 342. Il clero è sempre più anziano e ridotto nelle dimensioni. Faticherà quindi moltissimo nei prossimi anni per mantenere in vita le circa 25.000 parrocchie italiane. La sua presenza sul territorio si farà meno visibile e necessiterà, per mantenersi su livelli accettabili, di massicce importazioni di clero immigrato. Quella del prete potrebbe diventare, tra non molto, una “professione etnica”, come quella della badante o del mungitore. Con tutte le conseguenze facilmente immaginabili, soprattutto di questi tempi.

Altri indicatori sembrano indicare una secolarizzazione meno accentuata. Per esempio, il numero di battesimi è un po’ diminuito negli ultimi vent’anni (nel 1995 riguardava il 91 per cento dei nati vivi), ma è da un decennio stabilmente attestato tra il 75 e l’80 per cento. Un discorso analogo vale per prime comunioni e cresime, anch’esse calate negli ultimi anni, ma ancora molto numerose e popolari. La ragione della difformità va ricercata nel fatto che prime comunioni e cresime, oltre a rappresentare splendide occasioni per festeggiamenti luculliani, sono sacramenti relativamente “light”, poco impegnativi. Quella di sposarsi in chiesa o di farsi ordinare prete è una decisione che ha conseguenze serie e importanti per la vita di chi le compie, mentre la cresima è definita con amarezza dagli stessi preti il “sacramento dell’addio”, il momento nel quale si conclude, con tanto di solenne certificato, la partecipazione dei giovani alla vita della Chiesa. La premessa dell’abbandono, spesso definitivo, della comunità cristiana.

In definitiva, possiamo dire che il Rapporto ci conferma che, pur in modo solo progressivo, tra molte contraddizioni e non certo con la rapidità prevista dai sociologi atei dell’Ottocento, le istituzioni religiose stanno perdendo rilevanza nelle nostre società.

Ma allora, penserà qualcuno, Salvini stavolta si è sbagliato e su crocifissi e madonne ha preso finalmente una cantonata. Non è così. Malgrado il trend sfavorevole, il cattolicesimo e i suoi simboli rivestono ancora un’enorme importanza per molta parte della popolazione italiana, ma soprattutto perché il cambiamento sociale in atto, la secolarizzazione e la laicizzazione della società italiana, generano, in molti strati sociali, paura e risentimento, smarrimenti profondi e rigurgiti reazionari. É a questi elettori che si rivolge il capo leghista agitando i simboli di un cristianesimo elementare e popolare. É quello che fa anche su altri terreni, primo tra tutti quello dei migranti. Al momento sembra una strategia vincente. Nel futuro la partita è, per fortuna, ancora aperta.

Rissa tra ragazzini con le pistole: i Carabinieri non riescono a fermarli

È successo sabato sera in piazza dell’Immacolata a Napoli: l’ennesimo scontro tra giovanissimi per futili motivi ha portato al fuggi fuggi generale quando alcuni dei contendenti hanno tirato fuori delle pistole e minacciato di sparare ai rivali. Tra le urla generali, qualcuno ha avuto la lucidità di chiamare subito i carabinieri che però quando sono giunti in piazza con tre autopattuglie hanno potuto solo raccogliere qualche testimonianza dal momento che i ragazzi coinvolti nella rissa erano già scappati. Due settimane fa, dopo un’altra rissa in piazza Immacolata, i residenti avevano chiamato la polizia con lo stesso esito.

Inglesi umiliati, calciatori nei lager: la leggenda Casale

Nella foto a Roma Mandelli stava sdraiato vicino a lui sull’erba spelacchiata del Campo Nazionale. Si teneva su la faccia come per vincere la noia e aveva appena conquistato un campionato di calcio nel più grande stadio d’Italia. Alessio non aveva mai pensato al fatto che i suoi compagni potessero morire in guerra. Continuava a vederli ogni giorno eterni”.

Nel romanzo Aiutavo il destino (Robin Edizioni), scritto dall’avvocato Corrado Bertinotti, il protagonista Alessio, un giovane tenente che combatte sul Pasubio nella Grande Guerra, è uno dei calciatori del Casale, i famosi nerostellati, che ha vinto il campionato italiano di calcio del 1913-14. Nella vita reale, e nella memoria, a modellare il personaggio di Alessio è Giovanni Bertinotti (1894-1987), il nonno dell’autore del libro. Era l’ala sinistra di quella compagine sportiva leggendaria, che, un anno prima dell’entrata in guerra dell’Italia, si aggiudicò lo scudetto battendo la Lazio per 7-1 e per 2-0, nel luglio del ’14, nelle due finalissime di Casale Monferrato e di Roma.

La squadra della provincia piemontese aveva così interrotto il predominio, ai vertici del campionato di A, della nemica Pro Vercelli. Dalla “casacca nera con grossa stella bianca – come scrive Antonio Ghirelli nella sua Storia del calcio in Italia – giunse in due o tre anni a straordinaria popolarità”. La forza del Casale, continua Ghirelli, “stava nel gioco gagliardo e animoso di tutti i suoi uomini; per la qualità dello stile si raccomandavano invece il mediano Barbesino e il famoso trio d’attacco Mattea-Gallina II-Varese”. Ne seppero qualcosa gli inglesi del Reading, battuti sul campo casalese Priocco nel maggio del 1913. Fu la prima formazione britannica di football a essere sconfitta da una italiana. L’impresa del Casale fece scalpore, ha ricordato Giancarlo Ramezzana, cultore delle gesta dei nerostellati, “ed ebbe una grande risonanza in Inghilterra e in Europa perché una squadretta italiana, in un ‘orticello di campagna’ li aveva umiliati”.

Liberamente ispirato dalla vita del nonno Giovanni, e con un giusto dosaggio fra finzione narrativa e fatti veri, il bel romanzo di Corrado Bertinotti, una storia di guerra e d’amore scandita dalla passione per l’opera lirica (e per Giacomo Puccini) e da un verso di Gabriele d’Annunzio, rende omaggio nel contempo a quell’epopea calcistica romantica che, almeno fino agli anni Venti, venne costruita dai club del cosiddetto “Quadrilatero” del Vecchio Piemonte. Un’area calcistica di provincia dove sfavillarono la mitica Pro Vercelli dei sette scudetti, il Casale, la gloriosa Novese (tricolore del 1921-22) e i tanti campioni cresciuti con i “grigi” dell’Alessandria così come nel Novara.

Si narra nel volume Firmamento nerostellato, edito anni fa dal periodico Il Monferrato, che Giovanni Bertinotti, “scomparso a 92 anni nel 1986, è stato per anni l’ultimo testimone in vita dei nerostellati campioni d’Italia nel 1913-14”. In occasione del suo novantesimo compleanno, il campione del 1914, che aveva smesso di giocare negli anni Venti e che divenne poi un dirigente della società, aveva rievocato quell’impresa: “L’abbiamo infilata subito giusta, quell’anno dopo aver vinto la Coppa Negretti per 14-0: otto gol alla rappresentativa della Lombardia, sei al Novara. Quando cominciò il campionato, iniziammo a vincere, nel girone ligure-piemontese (le avversarie più forti erano il Genoa e il Torino), e arrivammo fino alla finale”. Non c’era un allenatore. “La formazione – rammentò Bertinotti – la decideva il capitano Barbesino, che poi arrivò anche in nazionale, e morì nella Seconda guerra mondiale. Ma d’altra parte eravamo 11 sacrosanti, e la formazione cambiava pochissimo. Non c’erano riserve e durante la partita non si potevano fare cambi”. Come compenso per il trionfo, nel luglio del ’14, l’ala nerostellata e i suoi compagni ricevettero “11 medaglie d’oro della Federazione. Allora il professionismo era proibito. Poi le cose sono cambiate: di fronte a certe somme, non so cosa dire”.

Il nipote del campione del Casale comincia il suo romanzo con i nerostellati impegnati nella fine del campionato. Il 5 luglio del 1914, al campo Priocco della capitale monferrina, tra “afa e zanzare”, i ragazzi di capitan Barbesino affrontano la Lazio nella finale-scudetto d’andata. L’ultimo pallone, allo scadere dei 90 minuti, lo calcia proprio Alessio (o Giovanni Bertinotti). Poi l’arbitro “in giacca grigio fumo e foulard bianco fischiava e terminava la partita, tra gli applausi– riferirono le cronache –dell’imponente pubblico di casa che gremiva le tribune e assediava ogni angolo del campo. Per la squadra romana, sconfitta 7-1, un ricco gonfalone”.

La leggenda del Casale porta con sé delle pagine tragiche. Raffaele Jaffe, il professore di origine ebrea dell’istituto tecnico cittadino Leardi, che a scuola aveva fondato il club nel 1909 per contrapporsi in modo esplicito ai “bianchi” della Pro Vercelli, fu arrestato dai fascisti il 16 febbraio del 1944, nel corso di un rastrellamento. Deportato nel lager diAuschwitz, vi morì il 6 agosto. Il capitano Barbesino, più volte in Nazionale e allenatore della Roma negli anni Trenta, cadde in volo con il suo aereo, un Savoia Marchetti, nell’aprile del 1941, mentre stava effettuando una missione durante la Seconda guerra mondiale. Decollato da Sciacca, in Sicilia, per individuare delle navi nemiche, e diretto a Kerkenna, in Tunisia, si inabissò in un tratto di mare non lontano da Malta, forse colpito da un caccia Hurricane inglese oppure per un’avaria ai motori.

Anche Raggi sedotta dal lusso: Gucci ai Musei Capitolini

Le foto che ritraggono Virginia Raggi e Matteo Renzi mentre assistono, eleganti e beati, alla sfilata di Gucci nei Musei Capitolini (“poi tutti al party a palazzo Brancaccio!”, cinguetta l’Ansa) servono a spiegare il trionfo di Matteo Salvini più di un trattato di politologia. Quanto il capo della Lega è bravo a costruire la retorica di una sua prossimità (ovviamente del tutto falsa e strumentale) alla moltitudine di poveri cui è ridotto il ventre del Paese, altrettanto il vertice del M5S (nonostante il tentativo del reddito di cittadinanza) e ovviamente quello del Pd sono ‘bravi’ nell’apparirne remotissimi, persi nelle stanze di un lusso ‘esclusivo’ (cioè che esclude…). D’altra parte, l’assassino torna sempre sulla scena del delitto: e nel momento in cui anche il più antico museo pubblico occidentale subisce l’umiliazione della privatizzazione commerciale, temporanea ma dall’elevatissimo valore simbolico, Renzi non poteva che essere presente. Perché il format dei brand del lusso che espugnano i monumenti è un’invenzione fiorentina: simboleggiata da quella sera del luglio 2013 in cui un club di ferraristi chiuse Ponte Vecchio per imbandirci una sontuosa cena. L’anno prima il sindaco Renzi aveva presieduto una sfilata di moda agli Uffizi, nella quale – per celebrare il tema degli abiti ‘neocoloniali’ (quando si dice Firenze baluardo della sinistra!) – era stata fatta sfilare una tribu di Masai, portati appositamente dall’Africa (e poi velocemente rimpatriati: aiutiamoli a casa loro!).

Stavolta è stata Virginia Raggi in persona a voler trasformare in una boutique di stralusso il più simbolico dei beni comuni che le sono temporaneamente affidati. Si mormora che Gucci avrebbe versato una cifra così ragguardevole da poterci restaurare tutta l’area della Rupe Tarpea. Ma non si capisce perché, nel momento in cui si decide di ‘alienare’ un bene comune, la collettività non abbia almeno il diritto di sapere esattamente qual è il prezzo del disonore. E rimane il fatto che i Musei Capitolini sono stati chiusi al pubblico per un giorno e mezzo: una cosa inconcepibile in qualunque altro museo del mondo, dove quando questi esecrabili eventi hanno luogo, non sottraggono al pubblico nemmeno cinque minuti del sacrosanto diritto di visita, così profondamente inseparabile dal concetto stesso di museo.

Nessun danno sembra esser stato arrecato alle collezioni: e non ne dubito, conoscendo la scrupolosa serietà della neo-soprintendente capitolina Maria Vittoria Marini Clarelli, che si è trovata a dover gestire questa degradante serata. Ma il danno è immateriale, e colpisce profondamente l’idea stessa che abbiamo, e che dovremmo, trasmettere del patrimonio culturale. E non certo perché la moda non sia degna di stare insieme alle opere d’arte del passato: anche se forse è un tantino grottesco dire (come ha fatto l’entusiasta Dario Nardella) che Alessandro Michele di Gucci sia “un moderno Michelangelo”. Il vero punto è che se l’interesse verso la moda fosse genuinamente culturale, invece di usare i musei come location a noleggio, avremmo già creato quel museo della moda che in Italia, clamorosamente, non esiste. E invece no, la moda stessa è pensata solo come una merce qualunque da piazzare mediaticamente, facendola salire sulle spalle dei giganti. Due anni fa Gucci ci aveva provato con l’Acropoli di Atene, ma la Commissione Archeologica greca cui spettava la decisione respinse l’offerta di due milioni di euro, perché “il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo”. E il direttore del Museo dell’Acropoli Dimitris Pantermalis aggiunse: “Non abbiamo bisogno di pubblicità. Il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come ‘sfondo’ per una sfilata di moda”.

Allora il poeta greco Pantelis Boukalas spiegò che “il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. … L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto”. Parole auree, che inutilmente si cercherebbero sulle labbra e nei pensieri di qualcuno tra i governanti italiani: ed è ben triste che, anche in questo, i pentastellati si rivelino del tutto indistinguibili dai piddini. Mai come in questo momento avremmo bisogno di sottrarre i beni comuni simbolici alla dittatura del mercato; di far capire la differenza tra pubblicità e cultura; di usare i musei per produrre conoscenza e cittadinanza: e dunque eguaglianza, e non legittimazione del lusso estremo.

Mai come ora avremmo bisogno che i palazzi civici (come il Campidoglio) fossero restituiti, anche sul piano simbolico e della comunicazione, al popolo: e non sequestrati dall’unico vero potere, quello del denaro. Mai come oggi avremmo bisogno di sindaci e politici che lottino nelle periferie, mettendosi accanto alla massa dei diseredati: e non impegnati a imbucarsi nel jet set. Ma pare inevitabile: quando la nave affonda, le luci e i suoni dell’orchestra sono irresistibili.