L’altra Ustica: a Livorno l’aereo caduto nell’oblio

“Se non avrò giustizia, restituirò la bara di Giuseppe allo Stato”. Caterina Iannì aveva 13 anni quando suo fratello è morto. Il caporale maggiore Giuseppe Iannì era uno dei 46 paracadutisti della Folgore che il 9 novembre 1971 erano a bordo di “Gesso 4”, l’Hercules C130 del Regno Unito impegnato nell’esercitazione Nato che si doveva svolgere in Sardegna. Il nome in codice era “Cold Stream”. Prima dell’alba, uno alla volta, i dieci aerei della Raf (Royal Air Force britannica) partirono da Pisa con a bordo i militari italiani. Dieci minuti dopo il decollo, “Gesso 5” comunicò alla torre di controllo di aver visto un’improvvisa fiammata in mare. Partì l’appello via radio al quale tutti i velivoli risposero con il proprio nominativo di riconoscimento, quel numero scritto a mano sulla fiancata. Tutti tranne uno, “Gesso 4”, sparito nelle secche della Meloria. In quel tratto di mare davanti a Livorno, morirono i parà italiani e i 6 militari inglesi dell’equipaggio.

La scatola nera non è mai stata recuperata e tra “segreti di stato” e atteggiamenti ostili da parte delle istituzioni, non c’è ancora una verità su cosa sia accaduto quella notte a “Gesso 4”. In un primo momento si è parlato di incidente: hanno accusato addirittura i piloti inglesi di essere stati ubriachi (circostanza poi smentita). Ma anche di una forte esplosione in cielo come se l’aereo fosse stato abbattuto. L’unica certezza è che si era in piena guerra fredda e la Nato si addestrava in previsione di un’invasione da parte dell’Unione Sovietica e degli Stati del Patto di Varsavia. Per non essere intercettato dai radar, il C130 volava a bassa quota prima di essere inghiottito dal mare e con lui i 46 paracadutisti in servizio di leva della sesta compagnia “Grifi”.

I loro corpi sono stati recuperati dopo giorni di ricerche disperate in cui perse la vita pure un sommozzatore, il sergente maggiore Giannino Caria. L’indagine della Procura di Livorno non portò a nulla. Stesso risultato della Commissione d’inchiesta su quella che può essere definita una “strage di Ustica dimenticata da tutti”, comprese le istituzioni dello Stato. Eppure dai tempi della seconda guerra mondiale, è stata la più grande sciagura dell’esercito italiano. Undici parà non sono mai stati trovati. Gli altri corpi furono riconosciuti dal numero di matricola impresso nella divisa. Anche quello del caporale maggiore Giuseppe Iannì. Aveva solo 20 anni quando salì su quell’aereo. I genitori sono morti a Reggio Calabria senza sapere cosa è successo al loro unico figlio maschio.

Le sorelle, Caterina, Melina e Giusy, da anni stanno chiedendo i benefici che spettano ai familiari delle “vittime del dovere”. Benefici riconosciuti al termine di una lunga causa civile contro il ministero della Difesa. La Cassazione, però, ha deciso che devono restituire tutto. Nel luglio 2018, infatti, la Suprema Corte ha revocato il diritto all’assistenza psicologica delle sorelle, “in quanto familiari non conviventi o a carico”. “Ma non è vero. – si sfoga Caterina – Questa sentenza dice una cosa sbagliata. Lo vedi il certificato storico della mia famiglia? Nel 1971 vivevamo assieme. Forse il documento andava depositato nel processo, ma il dato è quello e non si può discutere”. Caterina non ce la fa a parlare. Giusy se ne accorge: “Quella del familiare superstite non è una vera vita”.

Melina era quasi coetanea di Giuseppe: parla di un “dolore indescrivibile. Nessuna sentenza ci farà riavere nostro fratello, ma fino alla fine lo difenderemo da questa ingiustizia”. “Il paradosso sai qual è?”. Caterina ha gli occhi lucidi: “Ci sono familiari di soldati morti nella stessa tragedia che beneficiano di questi diritti, noi no. La sentenza è definitiva ma abbiamo chiesto alla Cassazione di riaprire il processo”.

Per gli avvocati Giuseppe Guerrasio e Giosué Domenico Megna, infatti, siamo di fronte a “un’evidente situazione di iniquità e diseguaglianza, rispetto ai familiari degli altri paracadutisti”. Oltre al danno la beffa: molti di quei militari oggi sono stati inseriti nell’elenco delle “vittime del dovere”. Non Giuseppe Iannì che compare solo come “vittima del dovere equiparata”. “È inaccettabile. Devono togliere la scritta ‘equiparato’ di lato al nome di mio fratello che ha avuto pure i funerali di Stato. Io la chiamo ‘schizofrenia del ministero della Difesa’”. A proposito, dieci giorni fa le sorelle Iannì sono state negli uffici del ministro Elisabetta Trenta. “Abbiamo parlato con la consigliera del ministro. Ci ha detto che adesso studieranno il caso e ci faranno sapere”. Un’attesa che sta snervando Caterina: “Se non vedrò mio fratello inserito a pieno titolo nell’elenco delle vittime del dovere, libererò il loculo, provvederò diversamente alle spoglie di Giuseppe e restituirò tutto allo Stato: quella bara pagata 48 anni fa dal ministero della Difesa e lo stesso farò con la bandiera italiana in cui è avvolta. Il tutto sarà restituito alle persone che dovrebbero fare qualcosa. A partire dal presidente della Repubblica, dai ministri della Difesa e dell’Interno, dai prefetti di Livorno e di Reggio Calabria”.

L’Italia che invecchia frena economia e conti pubblici

L’Italia è il secondo Paese più anziano del mondo, preceduta solo dal Giappone per numero di cittadini con oltre 60 anni di età. L’invecchiamento nei prossimi anni avrà impatti sempre più rilevanti non solo sulle famiglie e sui conti dello Stato, ma anche sull’economia e sugli investimenti. Proprio la casa, il bene rifugio per eccellenza, sarà al centro di tensioni sempre più forti.

Secondo l’Onu, nel 2017 nel mondo il Giappone era al primo posto con il 33,4% della popolazione con oltre 60 anni, seguito dall’Italia con il 29,4%. Le persone con 60 anni o più passeranno da 962 milioni nel 2017 a 2,1 miliardi nel 2050: il Giappone sarà sempre primo con il 42,4%, l’Italia solo ottava con il 40,3%. Ma se 2017 la popolazione di 60 anni o più in Italia era di 17,43 milioni di persone, nel 2050 sarà di 22,2 milioni. Di questi, le donne sole saranno il 37,9% e gli uomini il 16,5%, quelli che vivranno con il solo coniuge saranno il 34,3% delle donne e il 49,5% degli uomini. L’invecchiamento procede spedito soprattutto nelle aree urbane. Tra il 2000 e il 2015, nel mondo il numero di persone con più di 60 anni è aumentato del 68% nelle aree urbane a fronte del 25% delle aree rurali. Nel 2015, a livello mondiale il 58% degli over 60 abitava delle città rispetto al 51% del 2000. La concentrazione nelle aree urbane è ancora più alta per gli ottantenni: fatti 100 a livello mondiale, quelli che vivevano in città erano il 56% nel 2000 e nel 2015 erano il 63%.

Questo macrotrend avrà profondi effetti non solo sugli individui, ma soprattutto sulle famiglie le comunità e i governi. La domanda di assistenza domiciliare e di nuove soluzioni abitative aumenterà, mentre saliranno i costi per le pensioni, la sanità pubblica e le prestazioni assistenziali. Secondo l’analisi 2018 della Ragioneria generale dello Stato, il rapporto fra spesa pensionistica e Prodotto interno lordo è previsto in calo fino ad arrivare al 15,1% tra il 2019 e il 2021, ma nel decennio successivo sarà in graduale aumento attorno al 15,3% fra il 2024 e il 2030 per poi crescere con maggiore intensità fino al 16,2% nel 2044. Solo per effetto dell’invecchiamento, il rapporto fra spesa sanitaria pubblica e Pil crescerà invece dal 6,6% del 2017 al 7,7% del 2070.

Quanto all’impatto sociale, secondo il rapporto sulla domiciliarità presentato da Auser e Spi-Cgil il 24 luglio 2018 la famiglia svolge ancora un ruolo centrale nel lavoro di cura ma non è affatto detto che in futuro sarà in grado di sostenere l’impegno dell’assistenza agli anziani, che pesa soprattutto sulle donne. Se il tasso nazionale di occupazione femminile passera dal 48,1% attuale alla media europea del 61,5%, al lavoro di cura familiare mancherà il contributo di 2 milioni e mezzo di donne, mentre calerà il numero delle famiglie in grado di pagare i badanti. Inoltre, la precarizzazione del mercato del lavoro continua a ridurre la possibilità delle persone di farsi carico degli oneri derivanti dalle cure di cui potrebbero avere bisogno in futuro. Però in Italia tra il 2009 e il 2013 sono calati del 21,4% a meno di 150mila gli anziani che hanno usato il servizio di assistenza domiciliare.

Il fenomeno impatterà anche sulla finanza e gli investimenti: mentre durante la loro vita lavorativa gli individui tendono a investire per la pensione, quando vanno a riposo vendono azioni, obbligazioni e immobili per mantenere il proprio tenore di vita. Non si è ancora in grado di determinare se l’invecchiamento si tramuterà in una “semplice” pressione ribassista sui mercati finanziari e causerà la “stagnazione secolare” dell’economia o se farà invece scattare l’implosione di intere classi di investimenti. Uno studio di qualche anno fa della Banca dei regolamenti internazionali su 22 Paesi stimava che l’invecchiamento farà calare ogni anno del 3% il valore degli immobili. Case, specie le seconde e soprattutto quelle di vacanza, che spesso gli anziani non sono più in condizione di gestire economicamente. Ecco perché le vendono o le svendono, come succede sempre più spesso anche ai loro eredi. Da qui la spinta di molte istituzioni a studiare progetti finanziari per consentire agli anziani che vivono in città di godere di soluzioni adatte alle loro mutate esigenze domiciliari. Ma l’invecchiamento spopola soprattutto i piccoli centri, dove le case perdono valore in modo più veloce. Un problema di difficile soluzione che ha già cambiato il volto dell’Italia rurale.

Ma gli anziani sono anche una risorsa: secondo i dati di Bankitalia rielaborati dall’Abi, al 20% della popolazione con 65 anni o più appartiene il 73% della ricchezza nazionale, pari a oltre 7,1 miliardi di euro, di cui oltre il 61% (4,3 miliardi) è investito in immobili. Secondo una recente indagine di “Itinerari previdenziali”, il loro livello di spesa privata supera i 200 miliardi l’anno, a fronte di pensioni per 202 miliardi cui si assomma l’utilizzo del patrimonio. A livello mondiale, il valore dell’economia legata agli anziani è di 15mila miliardi di dollari l’anno, di cui mille nella sola sanità.

Paese tutto rosso: Pd al 92% e comunisti all’opposizione

C’è un paese nel cuore dell’Appennino forlivese dove la Lega e il Movimento Cinque Stelle non esistono, il Partito Democratico è al 92% e l’opposizione la fa Potere al Popolo. Benvenuti a Santa Sofia, il comune più rosso d’Italia: un sogno o un incubo, a seconda dei punti di vista. Qui il comandante “Libero” costituì la prima repubblica partigiana d’Italia, detta il “dipartimento del Corniolo”, proprio nella terra di Benito Mussolini. Una storia di cui tanti vanno ancora orgogliosi, perché tante furono le famiglie che pagarono un ingente tributo di sangue per quei venti giorni di governo libero. “C’è sempre stata una grande partecipazione, la componente anarchico-socialista e poi quella comunista hanno fatto la differenza” spiega il sindaco, appena riconfermato con larghissimo margine, Daniele Valbonesi, 42 anni “sempre del Pd, mai renziano”.

Quattromila anime, che lavorano in gran parte al macello, alle porte del paese, rilevato e rimesso a pieno regime dal gruppo Amadori dopo un periodo di crisi. A ferragosto le presenze raddoppiano per il Buskers Festival, la tradizionale manifestazione con gli artisti di strada. Il 12% dei residenti è straniero, meno di una ventina i richiedenti asilo, tutti impiegati in attività non retribuite come spalare la neve, dopo averla vista per la prima volta nella loro vita. Nel 2018 Santa Sofia salì all’onore delle cronache locali proprio a ‘causa’ loro. Convinto che viaggiassero a scrocco, un anziano decise di bloccare l’autobus che collega il paese a Forlì per controllare personalmente il biglietto. Per l’umarell furioso una conclusione amara: stranieri tutti in regola e una denuncia per interruzione di pubblico servizio. “La componente anziana è molto vivace, sono tutti ex Pci o ex Psi, al massimo ex Dc. La mia lista ‘Consenso Comune’ aveva un’età media di 36 anni, credo che serva un passaggio generazionale, bisogna costruire una nuova classe dirigente. Il Pd parla molto di lavoro ma non sempre capisce o sa come è cambiato questo mondo”, sottolinea Valbonesi. Forse anche per questo il simbolo del partito sulla scheda non c’era.1989 i voti raccolti pari al 91,83%, un plebiscito praticamente.

A fargli opposizione, “dura e pura”, sarà Potere al Popolo che con l’8,17% elegge quattro consiglieri, tra cui il candidato sindaco Mario Felice. Il miglior risultato di queste amministrative per il movimento nato dal centro sociale “Je so’ pazzo” di Napoli, che ha scelto di non presentarsi alle Europee dopo una sfiancante discussione durata mesi. “Se ci fossimo concentrati di più sulle piccole realtà comunali avremmo portato a casa un risultato più corposo ma va bene così, siamo orgogliosi di rappresentare la vera sinistra e da qua partiremo per conquistare la Romagna e chissà magari anche l’Emilia”. Scherza ma non troppo Valentina Rossi, 42enne, cuore di PaP in terra forlivese. A lei si deve la riuscita dell’operazione politica, capace di convogliare i comunisti duri e puri di montagna in una lista senza falce e martello, così come quella presentata alle scorse amministrative. Un’impresa unica per la Romagna, da sempre terra di conflitti in cui le sigle e i simboli contano ancora molto. “A Forlì e Cesena ci sono state battaglie aspre contro PaP da tutti i partiti di sinistra, polemiche sterili che ostacolano il nostro progetto, l’intellettualismo ha ucciso la sinistra, abbiamo fatto una campagna elettorale a suon di tortelli di zucca, porta a porta per spiegare che un’alternativa rossa esiste”.

Eppure anche qua soffia il vento leghista, anche se ancora non si è tramutato in tempesta come nel resto d’Italia. Non c’è una sede ufficiale e non c’è mai stato nemmeno un candidato leghista, ma a Santa Sofia il partito del Capitano ha comunque raccolto, alle Europee, 900 voti, il 40% delle preferenze. “Si vergognano di presentare una lista in paese, ma nel segreto dell’urna invece tutto è accettabile. È colpa del Pd, sono loro che sdoganando Berlusconi hanno permesso l’avvento di Salvini, per l’elettore votare uno o l’altro non ha più differenza -attacca Rossi- a noi ci hanno votato i padri e non i figli, persone che anche alle Europee hanno confermato di essere di sinistra oppure non si sono espresse”.

D’altronde, rivendica con orgoglio, Mario Felice neo eletto consigliere comunale “la mamma di Marco Rizzo è nata qua”. Un primato quantomeno discutibile.

Nei tanti bar del centro a mezzogiorno si pasteggia con Sangiovese (2 euro a bicchiere) e tartine di patè di fegato ma non si parla di politica, a tenere banco è la pioggia che ingrossa il fiume Bidente. Nessuno ammette di aver votato Lega, quando si fa il nome del ministro dell’Interno gli occhi si abbassano, ma i voti parlano ugualmente. “Questa è l’unica vallata in cui non c’è calo demografico, non c’è una forte esclusione sociale o sacche di povertà estreme ma se la metà degli operai del macello vota Lega vuol dire che un problema esiste, c’è un disagio che si fatica a leggere, una paura del diverso irrazionale che va capita e analizzata, non possiamo fare finta di niente”, chiude il sindaco. Già. Anche perché tra pochi mesi, forse già a novembre, in regione si voterà per il Presidente e un passo falso potrebbe costare caro al Partito Democratico. Stefano Bonaccini, attuale governatore, nel 2015 fu eletto battendo Alan Fabbri che oggi corre, per la Lega, come sindaco a Ferrara: il ballottaggio sarà il 9 giugno, al primo turno il leghista è stato votato dal 48,44%.

Del Movimento Cinque Stelle nessuna traccia a Santa Sofia, salvo i 206 che li hanno votati alle Europee. Più rari che la lince (rara) avvistata nella riserva l’estate scorsa.

Per il 2021 riecco il piano del “canale della Lega”

Un prodotto e abbonamento unico per il tifoso, a prezzi minori. Più soldi e possibilità per i presidenti. Ma anche tanti dubbi e rischi da correre. Col mercato tradizionale in crisi la Lega calcio ripensa al canale della Serie A. Non ora, solo nel 2021 quando scadranno gli attuali contratti. Magari proprio con l’aiuto degli spagnoli di MediaPro, che si sono recentemente affidati all’ex manager di Sky Matteo Mammì e ascoltano sempre i consigli di Marco Bogarelli, l’eminenza grigia dei diritti tv, tornato alla ribalta dopo l’esilio (e ormai ascoltato anche in Figc da Gabriele Gravina). Il futuro si intreccia col passato, i diritti tv non sono mai stati così importanti: la Serie A si basa quasi solo su questi soldi.

Un anno fa l’asta fu un disastro: i giochi al ribasso di Sky e Mediaset, il commissariamento del Coni di Malagò, lo sbarco in pompa magna di MediaPro che aveva fatto il passo più lungo della gamba promettendo oltre un miliardo, i pagamenti mancati, la rottura, il ritorno da Sky e dalla sua nuova “stampella” Dazn. Ora si riparte da lì, perché il 2021 è più vicino di quanto sembri. E perché la Lega ha ancora in cassa i 64 milioni trattenuti agli spagnoli, oggetto di contenzioso legale ma anche di un nuovo, sorprendente dialogo.

L’idea è che la Lega diventi editore di se stessa, attraverso una nuova società che già esiste, la Lega service. MediaPro sarebbe un partner commerciale e industriale, che mette a disposizione mezzi, competenze. E capitali, garantendo la parte più a rischio del famoso miliardo annuo, che i club sognano come quota minima per i diritti tv. La proposta spagnola si spinge addirittura su due trienni. Costruito il proprio prodotto, si tratta di andare a trovare i soldi sul mercato: pay-tv (Sky potrà continuare a trasmettere il calcio, ma con business minore), OTT (a partire proprio da Dazn), Telco (compagnie telefoniche). Tutti distributori di un prodotto già confezionato, senza esclusive. Per i primi studi così i ricavi potrebbero crescere fino a 1,5 miliardi. È uno schema nuovo, che ha il vantaggio di allargare un mercato asfittico. Certo, c’è un rischio industriale più alto, circa 150 milioni di costi operativi a stagione. Una scommessa su se stessi che gli avidi presidenti della A non hanno mai voluto fare. Ma il piano è nel cassetto del nuovo ad Luigi De Siervo, che viene da Infront, scelto proprio per valorizzare i diritti tv. Anche l’intervento dell’Agcm, che ha vietato ulteriori esclusive online a Sky per la sua “posizione dominante”, impone una riflessione: senza concorrenza sarà difficile puntare al miliardo.

Per il tifoso vorrebbe dire un nuovo canale da vedere come preferisce, 7 giorni su 7, partite sabato e domenica e programmi tutta la settimana, 3.500 ore di contenuti a stagione. Un prodotto unico, magari declinato in maniera (e prezzo) differente a seconda delle piattaforme: il 4K e il massimo della tecnologia su satellite, offerta basic su smartphone e streaming. Prezzi minori (da circa 30 euro al mese), niente doppi abbonamenti.

È ancora presto: sono solo progetti. Sulla partnership con MediaPro ci sono tanti incontri ma nulla di deciso (anche l’udienza della causa sui 64 milioni è stata rinviata), proprio per rimandare tensioni che inevitabilmente ci saranno al momento della scelta: diversi club sono contrari e le pay-tv (cioè Sky) non rinunceranno facilmente al business del pallone. Comunque la Lega è intenzionata a fare un bando aperto a tutti. Avere un progetto già avviato, però, permetterebbe di presentarsi alla prossima asta con un’alternativa e l’asticella alta. La Serie A stavolta cerca di arrivare preparata al 2021. Anche se non lo si è mai abbastanza per la guerra dei diritti tv.

Grande fuga dalla Serie A Il tifoso spegne la tv

Il primo gol di Cristiano Ronaldo su Sky, la festa scudetto su Dazn. Ritardi, proteste, polemiche, il solito trionfo della Juventus: il campionato 2018/2019 è stato la rivoluzione del pallone in tv, con l’addio allo storico duopolio Sky-Mediaset e l’inizio di una nuova era, fatta di doppi abbonamenti ed esclusive pretese dalle pay-tv (anzi, dall’unica pay-tv rimasta). Le rivoluzioni, però, fanno sempre vittime: in questo caso i tifosi. Con un mercato saturo, alla ricerca di profitti più alti, la soluzione è stata spremere gli appassionati, costretti a pagare di più per vedere le stesse partite, spesso meno bene, neppure troppo interessanti. Così tanti sono scappati e il bilancio di fine stagione non accontenta nessuno: la Serie A ha perso 700 mila abbonati e il 30% di audience, i conti Dazn per ora non tornano e pure Sky non ha troppo da festeggiare. Altro che effetto CR7.

Già era iniziato male

Il campionato del resto era iniziato male: la corsa al nuovo abbonamento, le immagini a scatto. Alla lunga i tifosi si sono abituati (o rassegnati) alla grande novità: Dazn è entrata nell’immaginario collettivo col volto di Diletta Leotta e nelle case degli italiani. Tante, quasi tutte: fra parenti o amici qualcuno che tira fuori la password quando c’è la partita si trova sempre. La vera domanda è: chi paga Dazn? Qui la risposta è più complessa, perché tra account condivisi, mesi di prova e voucher si tratta di una platea più fluida di quella delle tradizionali pay-tv. Niente numeri ufficiali, l’azienda non ne ha divulgati nemmeno nell’ultima convention in cui ha snocciolato inutili curiosità. Qualche dato però c’è: secondo rilevazioni effettuate dalla Lega Calcio, Dazn avrebbe circa 1,3 milioni di abbonati. Ancora più difficile capire quanti di questi in comune con Sky: quelli “propri” (utenti che hanno solo Dazn) sarebbero circa 300 mila. Di qui la contrazione del mercato.

I problemi sono tanti, e non riguardano solo il gap tecnologico del Paese (su cui l’azienda ora chiede aiuto al governo). Con solo tre partite a settimana (di cui una di cartello, l’anticipo del sabato sera) Dazn non è alternativa al colosso di Comcast, al massimo complementare. Non gode nemmeno di buona reputazione: vuoi per l’avvio tribolato, vuoi per un palinsesto inferiore, secondo una ricerca Antitrust la sua offerta viene considerata di qualità media (52%) o bassa (25%). Per entrare nel mercato italiano, però, Perform (la società che controlla Dazn) ha pagato caro: 193 milioni di euro a stagione per la Serie A, altri 22 per la Serie B, poi i vari tornei minori per arricchire il bouquet. Senza dimenticare i costi della nuova struttura, tra manager, giornalisti, tanti collaboratori, la pubblicità battente. Sky ha dato una mano (e milioni) anche comprando pacchetti di abbonamenti e i diritti per i locali commerciali, a riprova di una competizione non proprio agguerrita (la formazione di un secondo polo faceva comodo). Ma con 1,3 milioni di abbonati a 10 euro al mese (non per tutti i mesi e non tutti a prezzo pieno; c’è pure l’Iva da togliere) i conti per il momento non tornano. “Vogliamo raggiungere fra 3 e 5 milioni di clienti nel medio termine”, aveva detto il Ceo James Rushton. Senza spingersi a tanto, ce n’è di strada per il punto di pareggio (almeno sopra 2 milioni). Lo sbarco in Italia è comunque un successo, perché muovere un milione di abbonati in pochi mesi è risultato notevole. Al primo anno però l’operazione è in perdita e per invertire la tendenza c’è bisogno di altro: tre partite più la Serie B (che l’anno prossimo si annuncia ancora più povera, senza grandi piazze) non bastano.

L’esclusiva non basta

Sky così non ha più rivali. L’estate scorsa ha lottato duramente per ricacciare in patria gli spagnoli di Mediapro e avere un bando per prodotto, cucito su misura. Ha giocato al ribasso sui diritti, “spento” l’unico vero competitor, ottenuto esattamente ciò che voleva. Oggi chi vuole vedere la Serie A deve avere Sky. Di più: chi vuole vedere il pallone deve avere Sky, sommando Champions e Europa League il grado di esclusiva è altissimo. Infatti sono circa 3 milioni i clienti calcio (forse anche più, 3,2); secondo indiscrezioni di stampa a inizio 2019 quelli totali hanno superato quota 5 (l’ultimo bilancio Comcast era fermo a 4,8). Gli abbonati sono cresciuti. Forse, però, non quanto si aspettavano: se l’obiettivo era inglobare tutta l’ex clientela Mediaset per risistemare i conti, l’operazione può dirsi riuscita solo parzialmente. Il monopolio sulla Serie A non ha affatto risolto i problemi, anzi. Alle spalle ci sono tagli importanti (la sanguinosa chiusura della redazione romana), all’orizzonte pesanti impegni proprio sui diritti tv da onorare. Il traguardo dei 6 milioni di abbonati è lontano, presto Sky si troverà di nuovo a un bivio: non può fare a meno del calcio ma tenerlo costa tanto, forse troppo.

Clienti spremuti in fuga

Per ora la nuova era Sky-Dazn ha portato un solo risultato certo: la Serie A ha perso abbonati e spettatori. Dai 4 milioni medi di Sky-Mediaset si è passati a 3,3-3,5, con una riduzione di 700-500 mila abbonati secondo la Lega Calcio. Lo confermano gli ascolti tv, che fino all’anno scorso erano pubblicati sul sito della Serie A e da quest’anno non più: dai dati visionati da Il Fatto , nel girone d’andata ci sono stati 91 milioni di spettatori totali contro i 133 dell’anno scorso, meno -31% di audience cumulata (picco di -57% a ottobre). Del resto prima c’erano due grandi distributori, ora ne è rimasto solo uno. E gli ex abbonati Serie A Mediaset che fine hanno fatto? Secondo una ricerca Agcm, il 32% ha sottoscritto un’offerta Sky (o NowTv, la sua piattaforma streaming), il 15% Dazn, il 17% entrambi. Poi c’è una grossa fetta, il 36%, che non ha più niente. Nel passaggio dal vecchio al nuovo equilibrio la Serie A si è persa per strada tanti tifosi. Alcuni non guardano proprio più il pallone (c’è crisi), altri hanno trovato vie “alternative”: la pirateria, fenomeno in crescita allarmante che secondo Fapav (Federazione anti-pirateria) conta ormai 2 milioni di illegali. Tutti soldi sottratti al calcio, in particolare alle pay-tv inviperite per il furto, anche con chi non tutela il suo prodotto. Rischia di diventare ulteriore motivo di scontro.

Il calcio in tv è cambiato, forse cambierà ancora. Per ora ci sono altre due stagioni davanti così. Dazn si sta imponendo sul mercato italiano, anche se per ora a caro prezzo. Sky ha ottenuto ciò che voleva ma non il suo l’obiettivo. La Serie A non ci ha guadagnato (aumento dei ricavi minimo, perdita di spettatori) però si è garantita un altro triennio di sopravvivenza. Chi ci ha perso di sicuro, invece, è il tifoso: costretto per la prima volta dopo anni al doppio abbonamento, a spendere più e vedere meno, tra ritardi e rincari. In passato per la Serie A (almeno le 8 big) bastavano 29 euro al mese su digitale terrestre, oggi il prezzo di accesso minimo supera i 40. Qualcuno doveva pur rimetterci.

“La voce metallica del Pd, metafora di una sinistra senza più cuore”

“La sinistra è senza cuore. E io ho le prove.

Questo è un processo al sentimento.

“Infatti dovremo applicarci per far tornare l’emozione nelle parole, la passione nei pensieri, il cuore nella testa. Altrimenti restiamo quelli che siamo: una parte politica che ha perso credibilità. Parliamo ma mostriamo di non credere a quel che diciamo”.

Carlo Salvemini è il sindaco di Lecce riconfermato al primo turno nella prova d’appello. Ha 53 anni, e dà l’impressione, per via della barba e del suo amore per le camicie senza colletto, di un intellettuale iraniano in esilio. Dirige un’azienda che distribuisce libri scolastici. Aveva vinto rocambolescamente già due anni fa, ma non aveva con sé una maggioranza. E infatti era stato fatto dimettere. Salvemini, militante della sinistra classicheggiante, un cuore rosso antico cioè, e forse per questo fuoriuscito da anni dal Pd, ha rivinto, mettendo insieme un bel cartello di formazioni in cui il partito di Zingaretti è comunque stato compagno d’avventura. Ha vinto in una città dove la destra dominava quando tutto il resto d’Italia era dell’Ulivo. Figurarsi ora che il vento spira forte e in senso decisamente contrario.

Dunque, sindaco lei dice che la sinistra è vittima di una specie di malattia autoimmune. Più che Salvini è l’astenia a fregarla.

Ricordo le parole con cui abbiamo annunciato, per esempio, il reddito di inclusione. Ricordo la distrazione con la quale si elencava succintamente il provvedimento. Si intuiva che dei poveri e poverissimi poco c’importava. Abbiamo così annientato, con la voce metallica, robotizzata di un governo senza cuore, la radice quadrata della nostra identità politica. Cos’è la sinistra senza una lotta appassionata, magari disperata, contro le ingiustizie sociali?

Non è questo un effetto collaterale dell’esercizio pluriennale del potere?

È la misura di quel che non si è fatto. Non si è fatto scouting, non si è cercato di promuovere nuove figure. I segretari a Roma cambiavano ma nelle regioni tutto rimaneva uguale a se stesso. Sempre gli stessi referenti di un ventennio. E allora come puoi pensare tu Renzi che la gente ti creda che vuoi cambiare l’Italia quando in casa tua ti affidi a quelli di sempre? Dico Renzi, ma vale il discorso per Bersani, quand’era lui il titolare della ditta, e per Zingaretti adesso. E per tutti quegli altri che storpiano il nome della sinistra, lo diluiscono in sbiadite pratiche di consenso

Lei che farebbe?

Io faccio quel che so fare. Amo la politica ma non ho vissuto mai un giorno senza il mio lavoro. Ho amato la politica anche quando non sono stato eletto nel consiglio comunale, e la amerò anche quando ne uscirò

Lei.

Ho riportato in pista i trentenni e i quarantenni, due generazioni messe ai margini. E devo coltivare la loro emancipazione, costruire personalità che nel futuro proseguano il lavoro che abbiamo iniziato.

Lecce è bellissima, ma ha una periferia grigia, bruttina assai.

Il bello può narcotizzare al punto che hai la fortuna di avere un magnifico anfiteatro romano nella piazza principale, quella di Sant’Orono, e nemmeno accorgertene. È il processo di narcosi del bello. Ne siamo così pieni da dimenticarcene. Anche se la città nel suo complesso è consapevole dell’incantevole barocco che l’avvolge (fino in qualche caso eccedere con punte di presunzione).

Ma la bellezza si deve coltivare anche fuori le mura antiche.

Infatti io elimino dal vocabolario la parola periferie e parlo di quartieri. I leccesi devono capire che lo spazio pubblico è una continuazione del proprio salotto privato. C’è la casa e quel che le sta intorno dev’essere curato e bello quanto quel che è di esclusiva proprietà. Conquistare la nozione di bene comune e poi costruire un pensiero comune che lo tuteli.

Lei amministra Lecce. Se dovesse trovarsi a dare un consiglio a Zingaretti?

Non parli mai di governo. Che andiamo a fare al governo adesso? Per fare cosa? E con chi? Adesso c’è una sola urgenza: riacquistare credibilità. Abbiamo perduto l’identità e la rotta per un difetto di reputazione. Gli elettori non ci stimano. E perché non hanno fiducia in noi?.

Per la voce metallica della sinistra, mi dirà.

Per quel che non abbiamo fatto ma soprattutto per come ci siamo mostrati. Insensibili alle questioni grandi e drammatiche: la casa che in tanti non posseggono in un Paese che scoppia di case. Le file all’ospedale, le ingiustizie che si vivono nei luoghi pubblici, i buchi neri della scuola. Istruzione, sanità, emarginazione. Sono tre pilastri del dolore.

Vuole il mondo nuovo.

Voglio la verità. Dobbiamo fare un discorso di verità al popolo. Dobbiamo dire che abbiamo le pezze al culo e che i problemi sono così grandi che non li risolveremo in due mesi. Gli italiani sanno avere pazienza, ci aspetteranno. A patto però che ritorniamo ad essere credibili ai loro occhi.

E per essere credibili serve il cuore.

Rigenerazione emotiva. Ci si emoziona per un filo d’erba, perché non dovremmo emozionarci per compiere battaglie a favore degli ultimi? Perché non dovremmo appassionarci del mare pulito? Sa che Lecce ha 25 chilometri di costa, è una città di mare? Nessuno lo sa, e il mio compito è di dire agli italiani: se venite troverete il barocco e una spiaggia magnifica. Non è una grande battaglia? Non è un modo per costruire posti di lavoro? Ripulire e ricucire quartieri che hanno subìto, perché distanti dalla bellezza monumentale, gli sfregi dell’incultura, dell’approssimazione, della colpevole disattenzione.

Che altro deve fare Zingaretti?

Non stare un giorno a Roma. Andare per città e paesi a trovare la sua gente. Senza comizi o assemblee affollate. Incontri a quattr’occhi. Riconoscerà i bravi, gli darà fiducia, costruirà una classe dirigente vera. Avendo davanti però non sei mesi di opposizione.

Lei proprio non vuole andare al governo?

Al governo ci si arriva dopo che hai programmi e persone, idee e alleanze. Il tutto subito è una grande debacle dell’intelligenza. Questo presentismo, voler risolvere a sera il problema che si è manifestato al mattino, è una prova dilettantesca, la misura della modestia delle nostre ambizioni. La popolarità evapora in fretta.

Lei ha vinto al primo turno.

Ho convinto i miei concittadini, ritengono che io sappia amministrare. Adesso è il momento di ricambiare ma senza quella frenesia da talk show. Bisogna lavorare con serietà e con determinazione, e dare a ciascun problema una soluzione possibilmente intelligente.

Carapaz, l’equadoriano rosa. Nibali è secondo

Il texano Chad Haga vince a sorpresa la crono conclusiva del 102esimo Giro d’Italia e piange. Piange anche Richard Carapaz, il 26enne ecuadoriano che conserva la maglia rosa dall’assalto di Nibali (9° nei 17 chilometri del percorso con traguardo all’Arena di Verona). Roglic beffa Landa strappadogli il 3° posto della generale per 8 secondi. Gli italiani vincono la maglia blu del miglior scalatore (con Ciccone, futuro compagno di Nibali alla Trek-Segafredo) e degli sprint intermedi (Masnada).

Abusi su 2 studentesse, arrestato il bidello

Arrestatoper abusi sessuali su due studentesse minorenni nello stanzino della scuola superiore in cui fa il bidello: ad incastrare il 55enne sono state le dichiarazioni di una delle due vittime, di 15 anni, confermate dal test sul Dna. Gli accertamenti, poi, hanno fatto emergere abusi anche nei confronti di un’altra studentessa. La denuncia, a settembre 2018 quando la 15enne era rientrata in classe piangendo. Poco dopo il bidello era stato aggredito in strada e aveva chiesto e ottenuto il trasferimento in un altro istituto.

Il Papa fa “mea culpa” sui Rom e loda il premier

Il papa, di ritorno dalla Romania, promuove il premier Conte, che ha incontrato, parlando con i giornalisti: “È un uomo intelligente, un professore, sa di cosa parla”. Mentre sul mancato incontro con Salvini sostiene che “l’udienza va chiesta e nessuno del governo l’ha fatto”. Il Pontefice ha fatto un mea culpa a nome della Chiesa. La richiesta di perdono è rivolta ai Rom per le “discriminazioni”, le “segregazioni” e i “maltrattamenti” subiti: porto “un peso nel cuore”, ha detto. Gesto senza precedenti per la Chiesa.

Il Fatto, i buchi di Repubblica e la buca delle lettere

Ogni tanto riceviamo lezioni di giornalismo da Carlo Bonini di Repubblica, grande collezionista di fake news (dalla sfortunata campagna contro Paola Muraro, poi archiviata, a quella sulle mazzette di Virginia Raggi, poi assolta e mai neppure indagata per vicende di soldi, per non parlare del taglia-e-cuci sulle chat Di Maio-Raggi a proposito di Marra per stravolgerne il senso). Ora questo bel tomo se la prende con Marco Lillo, la cui carriera specchiata di fuoriclasse del giornalismo investigativo parla per lui, e con il Fatto con epiteti e commenti infamanti: tipo che saremmo la “buca delle lettere” di chi vuole infangare l’Immacolata Concezione della Procura di Roma, gestione Pignatone. Il tutto perchè abbiamo pubblicato notizie vere. Una è l’esposto di un pm romano al Consiglio Superiore della Magistratura sui presunti conflitti d’interessi dei pm Pignatone e Ielo per incarichi professionali assegnati ai loro fratelli da soggetti interessati a indagini. La seconda è un’inchiesta di Lillo sulle consulenze affidate da Condotte (gruppo fallito e commissariato dal governo) a un avvocato legato allo studio Alpa (vicinissimo al premier Conte) e anche all’altro fratello di Ielo. Ielo e il fratello furono regolarmente sentiti da Lillo per fornire la loro versione dei fatti e, pubblicata l’inchiesta, si complimentarono con lui per la sua correttezza professionale. Altro che “buca delle lettere” per screditare chicchessia. Tra i vari scoop del Fatto, c’è anche la notizia del legame fra il pm Palamara e l’imprenditore Centofanti (ne parlammo quando Palamara non era indagato ed era molto utile per sostenere l’elezione del renziano Ermini a vicepresidente del Csm). Quando scoprimmo che a due delle loro cene presenziò anche Pignatone e a una la ministra della Difesa Pinotti, diversamente da Bonini, lo scrivemmo. Noi facciamo i giornalisti e diamo le notizie. Bonini che mestiere fa?