Ancora un selfie imbarazzante per Salvini

E “Matteo rideva..”. Ancora una volta la malattia del selfie colpisce il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma tra i tanti scatti fatti ieri a Piazza Venezia, in occasione della Festa della Repubblica, ce n’è uno che merita di essere raccontato perché parte da lontano. “Matteo rideva perché gli stavo raccontando dello straordinario risultato in Calabria”. Lo scrive Vincenzo Porpiglia che su facebook pubblica anche la foto di lui e Salvini sorridenti.

Enzo Porpiglia è il padre di Francesca Anastasia Porpiglia, la 27enne candidata con la Lega alle politiche del 2018 e alle Europee del 26 maggio raccogliendo poco più di 10mila voti. Fin qui è solo il selfie di un padre orgoglioso della figlia e desideroso di far sapere a Salvini che lo “straordinario risultato in Calabria” è anche merito suo. Ma Enzo Porpiglia è pure il funzionario part-time della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio che, nel 2017, era stato segnalato in Procura dal giudice Ornella Pastore davanti al quale si sarebbe dovuto celebrare il processo “Gotha” contro i vertici della ‘ndrangheta.

Trasferito d’ufficio, l’indagine nei suoi confronti è stata archiviata perché non “c’erano fatti penalmente rilevanti”. Resta comunque inopportuno se un funzionario del Tribunale ha tentato di avvicinare il giudice “perorando le ragioni di Paolo Romeo”, l’avvocato già condannato per concorso esterno e oggi accusato d’essere una delle teste pensanti della ‘ndrangheta reggina. “Non può essere ritenuto mafioso per sempre” avrebbe detto Porpiglia al giudice parlando di Romeo, “il suo dominus nonché compagno di partito”.

Nello stesso processo, Porpiglia è finito tra i testi a favore dell’imputato Antonio Idone, condannato in primo grado a 2 anni di carcere per associazione segreta. Prima ancora, il funzionario del Tribunale è stato intercettato mentre mediava per risolvere alcuni problemi legati a un’operazione immobiliare che riguardava un parente di Domenico Repaci, cognato acquisito di Porpiglia ma anche ritenuto intraneo alla cosca Garofalo di Campo Calabro e pregiudicato per associazione mafiosa, truffa e bancarotta fraudolenta.

“Enzo, non ti ho chiamato perché Elio è stato giovedì a Roma”. La voce intercettata con Porpiglia era di Antonio Idone che al giudice ha spiegato: “L’onorevole Belcastro era stato nominato sottosegretario al ministero dell’Ambiente e il Porpiglia mi aveva richiesto se potevo parlare con lui, perché potesse andare a fare parte della sua segretaria”. Era l’agosto 2011 e al governo c’era Berlusconi.

La crociera finisce male: 4 feriti. Rissa Lega-5Stelle

Paura ieri mattina nel canale della Giudecca a Venezia. Il transatlantico Opera, della compagnia Msc con a bordo tremila persone, si è schiantato contro un lancione con 110 passeggeri che, mentre stavano facendo colazione, si sono visti arrivare addosso un bestione da 65 mila tonnellate completamente fuori controllo. Quattro sono finiti in ospedale, senza gravi conseguenze nonostante l’ imbarcazione più piccola sia stata letteralmente stritolata.

É solo l’ultimo episodio di un romanzo infinito che ha come protagonisti una città delicatissima e le grandi navi, emblema di un turismo di massa incurante di equilibri ambientali e artistici. Le compagnie di crociera lucrano portando milioni di passeggeri ogni anno. Gli amministratori locali difendono le attività economiche di una realtà a vocazione turistica totale. Gli ambientalisti combattono un’ardua battaglia. E le autorità di governo non sono riuscite in sette anni a prendere alcuna decisione.

É infatti del 2012 il decreto dei ministri Corrado Clini e Corrado Passera che bandì (ma solo sulla carta) le navi di più di 40 mila tonnellate. Divieto di transitare per il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca, con italianissima deroga, che dilazionava l’esecutività in attesa di trovare una soluzione alternativa praticabile. E così le Grandi Navi hanno continuato a sfiorare Palazzo Ducale e la Punta della Salute.

Nel giorno dell’incidente, il sindaco Luigi Brugnaro e il governatore leghista Luca Zaia dicono che la soluzione è bella e pronta. Basta praticarla. Prevede di scavare il canale Vittorio Emanuele per portare la navi a Marittima (in centro storico) e le più grandi a Porto Marghera (terraferma di Mestre). Lo ribadisce anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusando il ministero dei Trasporti di star bloccando la soluzione. Il ministro Danilo Toninelli è in effetti al lavoro per valutare altre ipotesi. Sul tavolo del ministero giacciono 14 progetti. A febbraio alle compagnie della crocieristica il ministro aveva confermato la sua idea: tenere le grandi navi a Venezia, ma fuori o ai margini della laguna. E aveva previsto tre mesi per elaborare uno studio di fattibilità tecnico-economica su tre soluzioni: spostare il traffico a Chioggia, al Porto di Malamocco o a quello di San Nicolò. Allora il ministro aveva anche fornito una road map: consultazione pubblica sui tre progetti e poi decisione finale, in condivisione con i territori e i soggetti interessati”.

Le compagnie e il Comune di Venezia spingono però sul quarto progetto: far arrivare le navi a Marittima, per evidenti ragioni di appeal turistico, e Porto Marghera. Ma per quest’ultima ipotesi serve la costruzione di un terminal crocieristico, una banchina lunga 800 metri, con un costo preventivabile in 63 milioni di euro, di cui 60 milioni a capitale privato.

Fuorida queste logiche c’è il Comitato No Grandi Navi che punta su una soluzione off-shore, al largo del Lido, per salvaguardare non solo il centro storico, ma l’intera Laguna. Il messaggio dei manifestanti di fronte al porto e alla Prefettura, ieri, è stato ripetuto in modo ossessivo. La decisione spetta ora al governo. Il ministro Toninelli ha detto che verrà presa, non quale sarà. “L’incidente è la dimostrazione che le grandi navi non devono più passare dalla Giudecca. Dopo tanti anni di inerzia, finalmente siamo vicini ad una soluzione definitiva per tutelare sia la laguna che il turismo”. Che non si possa aspettare oltre lo richiede anche l’Unesco, che da due anni minaccia di mettere Venezia nella lista nera dei siti patrimonio dell’umanità a rischio. All’Unesco il Comune ha risposto spiegando che si sta andando nella direzione di Porto Marghera ma ieri sera Toninelli ha frenato con un post su Facebook: “È troppo vicino alle petroliere”.

I 3 generali anti-Trenta e il muro di gomma contro la verità a Ustica

Ustica: è questo il filo rosso che unisce i generali capifila della rivolta contro la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. A dare il via al pronunciamento sono stati tre generali in pensione, Mario Arpino, Leonardo Tricarico e Vincenzo Camporini, con la loro lettera in cui annunciavano che non avrebbero partecipato alla tradizionale parata militare di ieri 2 giugno e in cui rimproveravano alla ministra le sue “dichiarazioni di vuoto pacifismo” e la volontà di “tagliare le pensioni militari” (d’oro).

I tre generali appartengono tutti all’Aeronautica militare e sono stati tutti e tre, in successione, capi di stato maggiore dell’arma. Tricarico è anche il presidente dell’Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) presentata nel 2009 dalla strana coppia Marco Minniti (Pd) e Gianni Letta (Forza Italia), con la benedizione di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica con il culto di servizi segreti, operazioni coperte e strutture riservate. Del comitato scientifico dell’Icsa fa parte anche Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa con il ministro Ignazio La Russa.

Ustica. I tre generali sono quelli che hanno garantito che il muro di gomma facesse rimbalzare ogni tentativo di scoprire la verità sulla notte del 27 giugno 1980, quando un Dc-9 Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo si inabissò con 81 persone a bordo nel Tirreno, al largo di Ustica. Trentanove anni dopo, ancora non sappiamo che cosa sia successo. Sono state a lungo discusse le ipotesi del “cedimento strutturale” o della bomba a bordo, ma più probabilmente quella notte avvenne nei cieli italiani una battaglia aerea in cui velivoli militari dei Paesi della Nato tentarono di colpire velivoli libici, colpendo per errore il Dc-9 civile italiano. Le inchieste giudiziarie e i processi che seguirono si sono conclusi con assoluzioni dalle accuse di alto tradimento per i vertici militari italiani, ma con condanne per un’ottantina di militari dell’Aeronautica per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. “Il disastro di Ustica”, scrivono i giudici, “ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini”. Queste sono state ostacolate “specialmente attraverso l’occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l’inchiesta”, con l’intento di impedire “il raggiungimento della comprensione dei fatti”.

Depistaggi, dunque, inquinamento e sottrazione delle prove: “L’opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull’ovvia sua finalità: impedire l’accertamento della verità”. Concludono i giudici: “Non può esserci alcun dubbio sull’esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura e i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell’intento per anni”.

L’ultima indagine, svolta dal giudice Rosario Priore, ha concluso che “l’inchiesta è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell’ambito dell’Aeronautica militare italiana sia della Nato”, com “l’effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto”. Priore conclude così la sua ordinanza-sentenza: “L’incidente al Dc-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il Dc-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti”.

Mario Arpino, Leonardo Tricarico e Vincenzo Camporini non hanno, naturalmente, alcuna responsabilità penale individuale in questa vicenda in cui ciò che è successo continua a essere oscurato in nome di segreti da mantenere e alleati internazionali da coprire. “Ma sono stati i massimi garanti, al vertice dell’Aeronautica militare”, dice Andrea Benetti, dell’associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, “del muro di gomma che impedisce ai familiari di 81 persone di ottenere giustizia e ai cittadini italiani di conoscere la verità”.

Stasera Conte dà la “scossa” per “stanare Matteo e Luigi”

Oggi dopo le 17, a Borse chiuse per evitare contraccolpi sui mercati, il premier Giuseppe Conte parlerà agli italiani. Ma affinchè i due vicepremier intendano. Detterà a Lega e 5Stelle le sue condizioni per continuare a guidare un governo già sbrindellato in campagna elettorale e non più pervenuto dopo le Europee. Luigi Di Maio e Salvini, a parte le photo opportunity del 1° giugno al Quirinale, non si parlano da quasi due mesi. E Conte intende riunirli a Palazzo Chigi entro la fine della settimana (“martedì parto per tre giorni per il Vietnam per il congresso euroasiatico, così i due alleati avranno il tempo di smaltire l’uno l’euforia e l’altro le tossine elettorali”), perchè mettano sul tavolo le proprie intenzioni. L’alternativa è semplice: o il governo va avanti almeno fino alla legge di Bilancio, ma alle sue condizioni, o è meglio votare subito, secondo il calendario concordato con Mattarella (Camere sciolte a luglio, elezioni a settembre e Finanziaria affidata a chi le vince). Ieri, mentre stendeva il testo del discorso, Conte non nascondeva con i suoi collaboratori che al momento le elezioni sono l’opzione più probabile. Di Maio non le vuole, ma nel M5S cresce la pressione per staccare subito la spina, prima che Salvini cannibalizzi quel che resta del Movimento e lo trascini al 10%. Anche Salvini, negli ultimi colloqui informali col premier, è apparso molto combattuto: la vecchia Lega preme per rifare il centrodestra, con la Meloni se non anche con B. Perciò Conte vuole “stanare Di Maio e Salvini”, parlando al Paese prima di convocarli: “Prima do loro una bella scossa e poi vedo come reagiscono”. Un passaggio molto duro sarà riservato alla fuga di notizie sulla lettera alla Commissione Ue. Un fatto che il premier giudica “gravissimo”, tanto da aver suggerito a Tria di rivolgersi alla Procura. Conte non ha gradito né il tentativo di Salvini di condizionare il ministro dell’Economia da parte di Salvini con l’irruzione (“un’occupazione militare”) nel suo ufficio per dargli la linea; né le polemiche del M5S per un “inciso”, peraltro ancora “provvisorio” e neppure ancora letto e approvato da lui, sull’uso dei risparmi di Reddito e Quota 100 per ridurre il deficit. Due mosse “irresponsabili”, visto il nuovo rischio di procedura d’infrazione contro l’Italia, scongiurata già a dicembre proprio da Conte “con un miracolo difficile da ripetere”. Il premier farà appello alla “responsabilità” dei due azionisti giallo-verdi, affinchè ritrovino la lucidità e facciano sapere se vogliono governare o votare. Seguiranno, dal week end prossimo, una serie di incontri tematici sui vari pomi della discordia: lì Conte proporrà il suo “metodo di lavoro” e vedrà “se esistono le condizioni per proseguire senza logoramenti”. Poi riparlerà al Colle e agli italiani per sciogliere la riserva. A stretto giro, perchè “l’Italia non può restare in questa incertezza per più di un’altra settimana”.

Ma mi faccia il piacere

Renzadamus. “Salvini è arrivato velocemente e altrettanto velocemente se ne andrà. Il conto alla rovescia per lui è già iniziato. È come accendere una candela su entrambi i lati, si scioglie molto velocemente” (Matteo Renzi, senatore Pd, 25.5). Fassino, è lei?

Nasi comunicanti. “Il mio naso Dc sente un successo di @forza_italia oltre le previsioni” (Gianfranco Rotondi, Nuova Dc, Twitter, 26.5). Fassino, di nuovo lei?

Lecca-lecca. “Ha un’idea su ogni cosa, alleanze, America, Cina, Russia, e alla fine è l’unico che parla di Europa. Elogio dell’euro Cav” (Salvatore Merlo, il Foglio, 23.5). Slurp!

Chi non muore si rivede. “Governo, conti, futuro. Siri ci spiega il piano di Salvini per avere una flat tax” (Il Foglio, 30.5). Un’altra bancarotta fraudolenta.

Sorpasso in retromarcia. “Zingaretti esulta. I renziani: ‘Peggio di Bersani’” (il manifesto, 28.5). E persino di Renzi.

La testa. “Ringrazio chi mi ha confermato la fiducia, chi si è astenuto e chi ha votato contro. Non mi monto la testa” (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro M5S, dopo il voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau che lo conferma all’80% capo politico del Movimento, 31.5). Tranquillo, nessuno potrebbe mai sospettarlo.

Calendate. “Pronto a fondare un partito alleato del Pd. Sono iscritto ai dem e lavoro con Zingaretti, ma serve un soggetto di centro liberal-democratico” (Carlo Calenda, ex Sky, ex Confindustria, ex Ferrari, ex Italia Futura con Montezemolo, ex Lista Monti, neo-europarlamentare Pd, Repubblica, 29.5). Sono tre giorni che sono stato eletto nel Pd, e già il Pd mi sta sul cazzo.

Una prece. “Berlusconi: ‘Resto in campo’” (il Giornale, 31.5). Santo.

La minaccia. “Rotondi avverte l’alleato Berlusconi: ‘Con Salvini non ci stiamo’” (il Giornale, 3.5). Terrore nella Lega.

Lezioni d’amore. “E ora un libro sull’amore con il Cav” (Francesco Alberoni, sociologo, candidato a 90 anni con Fratelli d’Italia alle elezioni Europee e trombato dagli elettori, La Verità, 27.5). Con una escort pieghevole in allegato come segnalibro.

Smetto quando voglio. “Lascio quando voglio, dal Pd troppi sbagli. Forse mi dimetto dopo le Europee, ma prima viene la mia salute” (Catiuscia Marini, governatrice Pd dell’Umbria, indagata per concorsi truccati o pilotati nella sanità pubblica, dopo aver dato le dimissioni e poi aver votato per respingerle, il Messaggero, 20.5). Ecco, con comodo, ci faccia poi sapere.

Renz Corn. “La mia tattica del popcorn ha dato una nuova possibilità al partito” (Matteo Renzi, Repubblica, 29.5). Inteso come Lega.

Peli superflui. “Bonino e la Sinistra pagano il ‘voto utile’” (Repubblica, 27.5). E prendono quello inutile.

Il fine analista. “Autonomia, il Sud ha punito i 5Stelle” (Gianfranco Viesti, il Messaggero, 28.5). Infatti sono arrivati primi solo al Sud.

Tutto d’un prezzo. “Che cos’è per lei la coerenza?”. “Beh, è più importante essere fedeli a una bandiera o a un comportamento, che nel mio caso è sempre stato corretto, onesto, trasparente? Le ideologie nella realtà locale non sono così importanti, specie in questa epoca fluida” (Alberto Tramontano, ex Ds, ex Udeur con Mastella, ora neoeuroparlamentare della Lega, Repubblica, 17.5).

Pericolo mortale. “Nel 2018, dopo le elezioni politiche scorse, il Pd ha rischiato la fine” (Maurizio Martina, deputato Pd, 23.5). É stato proprio quando Maurizio Martina diventò segretario reggente del Pd. Poi se ne andò e il partito si riebbe un pochino.

L’allegro chirurgo. “La mia storia insegna che dopo un’assoluzione piena si dovrebbe abolire l’appello” (Ignazio Marino, ex sindaco Pd di Roma, il Dubbio, 22.5). Ci aveva già provato B. con la legge Pecorella: purtroppo la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale. Ma Marino, anzichè il giurista, non potrebbe fare solo il chirurgo?

Il titolo della settimana/1. “C’è un’altra Italia” (titolo della festa “La Repubblica delle Idee”, giugno 2019). Già. E purtroppo vota Salvini.

Il titolo della settimana/2. “Oggi al voto per cambiare Ue e Italia. Ultima chiamata per i liberali” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 26.5). Fuggite!

Cercansi profeti disperatamente: la Juve indecisa tra Guardiola e Sarri

Con la Champions 2018-19 conclusasi ieri con la finale di Madrid, la Champions delle imprese impossibili e dei miracoli diventati quotidianità (come dimenticare le inenarrabili rimonte compiute da Ajax, Liverpool e Tottenham?), perché volere è potere e giocare bene è vincere, la certezza è che anche da noi, nell’Italietta diventata teatrino di avanspettacolo dopo essere stata per decenni Scala, Opéra e Metropolitan allo stesso tempo, nulla potrà più essere come prima.

Era tempo, diciamocelo. A certificare l’inizio della Nuova Era – e non poteva essere che lei, visto che in Italia fa il bello e il cattivo tempo da otto stagioni – è la Juventus: che dopo avere testardamente predicato la religione del “Vincere non è importante, è la sola cosa che conta” ed essersi ritrovata, in una sorta di tragico contrappasso, a non vincere mai la sola cosa che davvero conta, e cioè la Champions League, nemmeno affidandosi alla mossa della disperazione dell’estate scorsa, quella dell’acquisto di uno dei giocatori più forti del mondo, Cristiano Ronaldo, costato a 33 anni e mezzo la bellezza di 358 milioni (110 al Real più 62 di ingaggio lordo per 4 anni), la Juventus, dicevamo, ha reso noto a tutti, col benservito dato al suo guru Massimiliano Allegri, quello che definiva Circo il bel gioco, che il Big Ben ha detto stop. E lo ha detto anche alla Continassa dove la Juve ha il suo quartier generale e dove Pavel Nedved, novello Salomè, tra lo stupore degli astanti ha chiesto al suo sovrano Andrea Agnelli la testa del guru Allegri vedendosela recapitare, tra gli oh! di sbigottimento, su un piatto d’argento.

Se vincere è l’unica cosa che conta, ma se la Champions non la vinci nemmeno comprando a peso d’oro il Super Specialista CR7, 4 coppe conquistate nelle ultime 5 stagioni, perché una squadra di ragazzotti olandesi ti scherza col bel gioco, e con la sinfonia di schemi mandati a memoria ti manda a casa spernacchiato e umiliato, allora è chiaro: è il tuo Dna che va cambiato. Ed ecco che la Juve bonipertiana diventa di colpo altro da sé, e l’Eresia diventa il Nuovo Verbo. Adesso la Real Casa vuole solo, e disperatamente, i profeti del bel gioco. E cerca Guardiola, che però se ne sta bel bello in quel di Manchester (sponda City) dove ha appena realizzato, primo nella storia, il triplete Campionato-Coppa di Lega-Fa Cup, ha due anni di contratto e non si capisce perché dovrebbe morire dalla voglia di tuffarsi nella triste serie A di Fiorentina-Genoa 0-0; e se non potrà avere Guardiola punterà Sarri, ex nemico odiatissimo (e sbeffeggiato da Allegri persino nel giorno della sua decapitazione), e sennò Ten Hag, oppure Pochettino: l’importante è che Allegri, quello che preferiva De Sciglio a Cancelo, resti solo un lontano, molesto ricordo.

E se il popolo bianconero guarda alla Nuova Era a bocca aperta, non è il solo a stupire; perché questa sembra davvero essere l’estate del calcio che impazzisce e si capovolge e tradisce origini e identità. Per dire, a Milano c’è l’Inter che sta mutando Dna introiettando le informazioni genetiche di Casa Juve (Marotta, Conte, Stellini: manca Moggi e la trasfigurazione è completa); a Roma c’è il film di Totti e De Rossi che da “Romolo & Remo” sta trasformandosi in “Caino & Abele”; e a Milano sponda rossonera c’è il Milan del nuovo boss sudafricano (Gazidis) espresso dalla nuova proprietà statunitense (Elliott) che butta a mare in un colpo Leonardo, Gattuso e (forse) Maldini, cuore e storia del club, e corteggia e lusinga nientemeno che José Mourinho, il Santo Patrono della Milano di fede nerazzurra.

La nuova parola d’ordine è: tradire. O, se preferite, trasgredire. Giusto? Sbagliato? È il calcio che cambia, bellezza!

Carapaz al Giro di boa: la corsa rosa è quasi sua

Lo Squalo ci ha provato. Ma non ha azzannato la preda più grossa, quella in maglia rosa. Le orche scatenate della spagnola Movistar lo hanno tenuto sempre a bada. Lo Squalo sognava d’essere il vincitore più vecchio di sempre al Giro. Il sogno gliel’ha infranto Richard Carapaz, 26 anni. In Ecuador è diventato un eroe. Al Giro, el Pescador. Il corridore che ha pescato Nibali.

Lo Squalo aveva fama di predatore spaventoso. Stavolta, il mito è stato ingannevole. Archiviata la delusione del secondo posto, Nibali già proietta le sue speranze al Tour de France fra un mese. Vuole conquistare la maglia a pois, il trofeo del miglior scalatore. Non ce l’ha nella sua pur ricca bacheca. Ci andrà con Damiano Caruso: in questo Giro gli è stato al fianco devotamente. Se è secondo, lo deve alla sua abnegazione. Nibali al Tour disporrà di una squadra più competitiva, rispetto a quella del Giro dove ha perso lo sloveno Kristijan Koren, sospeso dall’Uci perché coinvolto nell’inchiesta austriaca sul doping. A fine stagione lascerà la Bahrein-Merida per la Trek-Segafredo. Si porterà dietro Mimmo Pozzovivo e il fido Caruso. Quanto al fratello Antonio, cercherà di trattare per lui una sistemazione tipo Donnarumma al Milan.

Alla Trek-Segafredo troverà l’indomito abruzzese Giulio Ciccone, 24 anni, sempre all’attacco appena le strade s’alzavano al cielo. Maglia azzurra fin da Bologna, salvo un giorno, quando il compagno di squadra Gianluca Brambilla gli ha sfilato la maglia il 23 maggio, a Pinerolo. Ma già il giorno dopo se l’era ripresa. È la sorpresa del Giro: ha vinto a Ponte di Legno, la tappa del Mortirolo. Ieri, ha cercato il bis. Non c’è riuscito, ma ha terminato davanti a Nibali. Lo Squalo. E il Delfino.

L’impresa dello Squalo, ieri, non c’è stata. Solo un’onorevole difesa. Durante l’estenuante salita verso il passo Manghen (quota 2047, abbordabile Cima Coppi di riserva, vista l’impraticabilità del Gavia) proprio Carapaz e il basco Mikel Landa Meana, formalmente suo capitano alla Movistar, gli hanno fatto capire che erano loro i più forti. Si sono involati con la maglia bianca Miguel Angel Lopez. Nibali ha abbozzato. Al passo aveva 20 secondi di ritardo. In discesa, i Movistar hanno rallentato. Nibali li ha riagguantati. Poi, ha mangiato. Forse, una piccola crisi di fame. L’esperienza lo ha aiutato a superarla.

Ed eccolo, lo Squalo, nell’ultimo chilometro della tappa da Feltre al Monte Avena che attraversava i boschi feriti a morte dalla tempesta Vaia, cornice dolorosa della corsa. È coi primi. Una sagra dei Paesi Baschi: Landa, Pello Bilbao Lopez de Armentia che è di Guernica, la città martire della guerra civile spagnola immortalata da Picasso, Mikel Nieve Iturralde. C’è Carapaz. Il bravo Ciccone, l’estone Tanel Kangert, il francese Valentin Madouas che aveva animato gli ultimi fremiti della tappa.

Nibali non ne ha più. Un timido allungo, poco prima, subito placcato. Madouas è sfinito. Nieve pure. Scatta fulmineo Bilbao. Lo agguanta Landa, per molti lo scalatore migliore in circolazione. Stile essenziale, anche col massimo sforzo. Il suo obiettivo è spodestare dal terzo posto Primoz Roglic. Sancire il dominio Movistar. Si mette d’accordo con l’ex compagno Nibali (correvano insieme all’Astana) per tirare e sottrarre allo sloveno più secondi possibili. Roglic annaspa.

La volata è dominata da Bilbao su Landa, Ciccone, precede Carapaz e Nibali. Più in basso, Lopez e il compagno Jan Hirt sono travolti da un tifoso idiota, pare sloveno. La maglia bianca sperava di riacciuffare il treno di Carapaz e Nibali. È furibondo. Piglia a sberle il tifoso. Il video diventa virale su Twitter. La giuria non lo squalifica. È generosa con lui, severa con Roglic che non ha rifiutato le spinte di due supporter: 10 secondi di penalizzazione. Landa e Nibali si abbracciano: “Sei stato… fedele”, dice lo Squalo. Triste destino, quello di Landa. Trova sempre qualcuno che gli toglie spazio e gloria. Nibali all’Astana. Froome alla Sky. Carapaz alla Movistar di cui era partito capitano. Oggi, crono finale a Verona. Roglic, stremato, vuole risalire sul podio. E scacciare i sospetti di frode tecnologica che talvolta lo hanno bersagliato.

Mi piace la cattiva fama

Vinicio Capossela non ha tempo; o meglio: ha un tempo tutto suo. Racconta il suo braccio destro, mentre lo attendiamo nella hall di un albergo: “Per anni mi sono preoccupato degli orari, di evitare ritardi, soffrivo nel rimandare, mi giustificavo, poi piano piano ho capito: quando finalmente arriva, accade sempre qualcosa di particolare, incontri inaspettati e importanti, situazioni meravigliose, così mi sono lasciato andare; ha un timing naturale non spiegabile, solo da vivere”.
Vinicio Capossela non va incasellato, quando parla è meglio lasciarsi andare alle sue suggestioni, le citazioni, i percorsi e gli approdi.
Magari l’ironia è dietro la malinconia, o la malinconia può sembrare evidente mentre è solo una constatazione priva delle comuni protezioni; i perché iniziali aprono differenti interrogativi e improvvisamente anche il crostaceo diventa un parametro esistenziale.

Il suo ultimo album, Ballate per uomini e bestie, è in testa alle classifiche, e per una volta – caso raro – critica e pubblico scoprono in questo ragazzo-uomo di 53 anni un punto di comune giudizio.

Appare Capossela. Caffè? “Non posso prenderlo, ma se arriva lo bevo”.

Lei ha un punto comune con il “Fatto”: il “Fuori Orario” di Gattatico.

Posto magnifico, da 17 anni ho un concerto il giorno della Vigilia. Poi sono molto legato a Parma: già da ragazzo, quando ci vivevo, amavo tantissimo suonare il pianoforte ma non ne avevo uno, quindi andavo in ogni locale della città, alla Corale Lirica di Verdi o al Parma Lirica, posti pieni di immagini di tenori, un po’ come i calciatori, ma non particolarmente conosciuti; il bello era questo ambiente popolare della lirica, intesa come aspetto cittadino.

Suona qualunque pianoforte?

Non ho necessità particolari, li vedo come degli animali randagi: con gli strumenti sono un po’ animista; oramai ho raccolto una serie di pianoforti di dubbia fama, a cui mi sono molto affezionato.

Lei e il tempo.

Amo il detto “il tempo non si è mai sposato per poter fare quello che vuole”.

Quindi…

A me interessa quello che gli studiosi definiscono “tempo verticale”; l’orizzontale è dedicato agli accadimenti, all’orologio, il verticale è del mito, delle emozioni che mettiamo da parte, a cui accediamo magari attraverso una canzone. Dove le cose non passano.

Con una canzone.

L’attività della poesia, e della musica, è di trasferirci dove la ruggine non corrode: è quello che vogliamo salvare della vita. Viviamo in un mondo in cui il tempo è totalmente desacralizzato.

Lei e gli amici.

Tutt’al più conoscenti, c’era una bella frase di Paul Éluard: “La nostra riunione è pulita come il tavolo prima del pranzo”. Secondo lui conoscersi bene poi sporca, invece quanto è bello quel momento in cui la tovaglia è pulita e c’è solo un’impressione che ci può attrarre nei confronti dell’altro.

Meglio non approfondire.

La mia tendenza è quella di fermarmi alla soglia delle impressioni perché è il momento che emoziona di più.

Però…

C’è un motto che potrei scrivere sulla mia tomba: “Tutto è bene quel che non finisce mai”; vale lo stesso per le amicizie e le relazioni.

Infinite.

Tendo ad andare oltre anche la fine naturale; continuo a sentirli, a coltivare rapporti.

Tutto in piedi.

Ho il tabù della fine, in qualsiasi cosa, non riesco neanche ad addormentarmi la notte, voglio leggere, scrivere, pensare, credo sia una cosa psicoanalitica. Devo farmi vedere.

I cambiamenti.

Comportano sofferenza e il dolore è una forma di attrito (ci pensa). Ad esempio i crostacei.

Cosa?

Hanno questo guscio che li avrebbe resi invincibili: chi li avrebbe mai potuti mangiare? Invece la natura li ha obbligati alla muta, quindi per un periodo perdono quella corazza, e in quel momento sono potenziali vittime.

Detto questo?

Fa capire la sofferenza continua del cambiare.

Quando l’ha percepito?

Da subito, fin da bambino, quando capisci che quel giorno è diverso dal precedente; l’esperienza della vita è una continua cicatrice di piccole e infinite separazioni: opporre resistenza rende l’esistenza dolorosa.

Conservatore, e rischia di passare per sovranista.

I sovranisti in realtà non conservano niente, vogliono sfasciare tutto, azzerare.

Dicono di voler mantenere.

Allora lo mantenessero. E, comunque, piuttosto sarei monarchico: ci pensi il Re e mi tolgo il pensiero (posa la tazzina del caffè). In tedesco c’è una bellissima distinzione tra due parole che indicano entrambe un senso di appartenenza al mondo che ti ha generato: una più legata alla cultura, un’altra al concetto quasi sanguigno della Patria.

Quali?

Patria è un termine maschile in tedesco: Vaterland, “terra dei padri”, ed è qualcosa che crea un legame di sangue e spesso porta conseguenze sanguinose. Invece Heimat è femminile, e dà un senso di appartenenza che ognuno è in grado di definire per sé: la tua Heimat può essere il pianoforte, oppure un libro.

E la sua Heimat?

I miei genitori sono nati in un paese che poi hanno lasciato, sono emigrati, ma non si sono mai liberati: quindi io sono abituato a portarmi dietro le mie cose, in modo da avere delle “Itache”.

Quali?

Un’Itaca portatile, che uno riconosce un po’ dove trova: mi sono abituato a sentire come Patria oggetti immateriali.

Alla Van Gogh.

Anche con gli oggetti sono animista, le case meritano di essere allestite anche solo come loro ricovero: sono i residui della vita.

Viene venerato come un maestro.

No! È che quando sei un disgraziato che passa da una parte a un’altra non sanno come chiamarti: “dottore” non è possibile, “signore” non va più di moda, allora “maestro”.

Da Zalone a Emma, da Arbore a Guccini e Ligabue, i suoi fan sono trasversali. C’è chi la definisce “genio”.

L’arte è saccheggiare di continuo, e con accezioni positive e necessarie. Tom Waits diceva che la musica è come una fila interminabile di persone che si passano l’acqua per spegnare un incendio che non sanno neanche dov’è.

Quindi per lei…

È bello stare a disposizione per far circolare un po’ di idee: ho un’inclinazione a mettere nelle mie canzoni, o nei concerti, parti che non ho scritto, a cui ho aggiunto qualcosa, e non per appropriarmene. Quando godi della fiducia di qualcuno puoi donare sassolini che poi aprono altre porte: ho iniziato la mia carriera come cantante pre-biografico e confidenziale.

Tradotto?

Confidenziale perché raccontavo fatti miei; pre-biografico perché queste storie d’amore che, di solito finivano male, poi mi finivano male davvero.

E…

Ho iniziato a occuparmi di biografia collettiva, dell’uomo in sé, sono diventato più antropologo, mi hanno conquistato le metafore bibliche, mitiche. Così ti raccordi alla storia dell’umanità fino a produrre dischi pre-biografici sull’umanità stessa: ne ho inciso uno sul Medioevo e il Medioevo è arrivato.

Precursore.

Quando ho iniziato neanche lo sapevo.

Anche Nanni Moretti con le dimissioni del Papa…

L’artista deve avere un po’ il ruolo di medium, deve interpretare il suo tempo senza comprenderlo a fondo.

Da adolescente ha mai cantato sulla spiaggia?

No.

Un falò?

Da grande e per Sant’Antonio in Sardegna, e lì ho compreso il significato catartico, quando ho visto buttare nel fuoco cartelle di Equitalia, cartelle cliniche e altre scorie.

Quindi la musica non le è servita per gli approcci.

Non è andata bene neanche con i miei dischi.

Non è possibile.

Immaginate la scena: invito una donna a cena, poi le piazzo un mio brano, magari una canzone triste, e lei sicuro si addormenta.

Si è mai dissociato dal suo personaggio pubblico?

Ho fatto vari tentativi prima di accettare il mio nome: ho realizzato un concerto chiamandomi Andrei Sengemini, un altro come Vinicio Gualtieri. Poi ho rinnegato il cognome.

Troppo lungo?

Quando ero piccolo e la Lega riteneva i meridionali come quelli in più, mi resi conto che i cognomi settentrionali finivano sempre con la “i”, quelli del Sud spesso con la “a”; a quel tempo, al liceo musicale, l’appello veniva cantato, allora andai dal professore e gli dissi: “C’è un errore, in realtà mi chiamo Caposseli”.

Visti capelli e barba, la scambiano mai per arabo?

Per rabbino, a volte chassidim, e ritengo la loro mise di un’eleganza unica: trovo molto civile una religione che prevede l’utilizzo del cappello.

Perché?

Intanto, togliendolo, permette di dimostrare il rispetto, e poi è un armadio portatile: manda segnali a seconda della stagione.

Quanti ne ha?

Credo 150. Ma il cappello decide lui se abbandonarti: due o tre volte mi sono commosso quando li ho visti annegare.

Che è successo?

Una volta a Genova un colpo di vento lo ha scaraventato in acqua, così a Londra sul Tamigi, o sul ponte di Lione.

Alberoni cita spesso la sua frase “Che coss’è l’amor. Chiedilo al vento”.

Prima di candidarsi con Fratelli d’Italia?

Sì.

Per me l’amore è un sentimento molto sopravvalutato, molto invadente, e per spiegare che la situazione è tragica ma non seria, ci ho messo due “esse”; una giorno una signora di Napoli ha definito l’amore come un “ergastolo”.

Più vento o più ergastolo?

Sull’amore sono più facili le domande delle risposte.

Nell’ultimo album parla anche dei social. Come reagisce ai selfie?

Li trovo un gesto di cattiva educazione; siamo in una fase completamente selvaggia, anzi primitiva a livello comportamentale: non è stato codificato un galateo, non c’è la separazione tra “in scena” e “fuori scena”.

Meglio un abbraccio.

O le parole, la scrittura, uno scambio, e non strappare un momento artificiale.

Ha un ruolo pubblico.

E prevede una maggiore responsabilità.

La sua gioventù è negli anni Ottanta, il periodo dei paninari.

Per fortuna sono cresciuto in Emilia e c’era la new wave: mi piacevano i Cure, e mi sono fatto crescere il ciuffo.

Si truccava?

Una leggera matita nera, ero carino, un po’ effeminato, con amici punk. L’unico aspetto insopportabile del periodo erano le pennette alla vodka, il vino Corvo, l’uso della panna; forse i pericoli più grossi erano enogastronomici.

Ha avuto la fama dell’inaffidabile.

Nella vita può essere, non per i concerti: sono sempre stati l’unica mia certezza, anche quando giravo molto e vivevo dentro una Volvo.

Maldicenze.

Mi piace avere una pessima fama, ma voglio guadagnarmela su aspetti reali.

All’inizio si è cimentato con il piano bar.

Ero pessimo però chiedevo poco, e la padrona del locale ci teneva a risparmiare; alla fine della prima settimana la responsabile mi rivolse una richiesta: “Le è possibile solo suonare senza cantare?”.

Risposta?

“Va bene”, eppure a quel tempo ero scarso nel suonare.

Il suo repertorio?

Cantavo con la mia ragazza di allora, suonavamo Édith Piaf, Tenco, Tom Waits, tutto un gruppo di perdenti internazionali. Ovviamente lei mi ha lasciato.

Ama i perdenti…

Hanno scritto grandi canzoni più dei vincenti.

Perché perdenti?

Forse si saranno messi a rischio della loro esistenza, e poi non credo nel lieto fine, la vita non lo prevede. La vita prevede la fine. E io sono un cantante della fine.

Cannabis light, al via sequestri e denunce contro i negozi

Erano passate poche ore dalla sentenza della Cassazione, ma alcuni comandi delle forze dell’ordine avevano già avviato sequestri e denunce verso alcuni rivenditori di cannabis light e prodotti derivati. Tra i primi a scendere in campo, la Guardia di finanza di Avellino: le fiamme gialle hanno sequestrato 72 confezioni di infiorescenze essiccate di cannabis light messe in vendita da un distributore automatico nei pressi di una scuola del capoluogo irpino. Il prodotto, 221 grammi, è stato sequestrato insieme a cartine e accendini. Il proprietario è stato denunciato a piede libero alla Procura di Avellino: nella nota della Gdf sull’intervento si richiamano espressamente la sentenza della Cassazione e “diverse circolari ministeriali”. Secondo blitz a Caserta: qui la procura di Santa Maria Capua Vetere ha emesso un decreto d’urgenza di perquisizione e sequestro preventivo nei confronti di tre negozi di cannabis light. I titolari degli esercizi commerciali sono stati denunciati. L’operazione più ampia, in provincia di Reggio Calabria: 51 cannabis shop sono stati sottoposti a controllo, sono stati raccolti 59 campioni perché vengano effettuati gli esami per stabilire il livello di thc.