Il Dig festival

È durato quattro giorni, e si concluderà oggi, il Dig Festival, il concorso internazionale di video-giornalismo d’inchiesta che si tiene da anni a Riccione. “Personal Matters”, il filo conduttore delle proiezioni e degli eventi – tra seminari, spettacoli e mostre – a cui hanno partecipato 8mila persone. La giuria, presieduta dalla giornalista e saggista Naomi Klein, ha selezionato i finalisti per le sezioni “inchieste”, “reportage” e “progetti da sviluppare” tra 302 lavori, provenienti da oltre 20 Paesi. Ericailcane, lo streetartist, ha firmato la locandina della manifestazione reinterpretando il ‘watchdog’, il cane da guardia della democrazia simbolo del giornalismo d’inchiesta. Elio Germano ha portato invece in scena “Segnale d’allarme”.
Il Dig Festival è promosso dall’Associazione Dig, e da Comune e Regione, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna

“Per salvare il pianeta ci vuole un Green New Deal universale”

Il suo primo libro, No Logo, è uscito nel 2000 ed è diventato subito il manifesto mondiale del movimento no-global. Vent’anni e tre libri dopo (tra cui Shock Economy e Una rivoluzione ci salverà), dopo essere stata definita dal Guardian la star della nuova sinistra americana, Naomi Klein è stata la presidente di giuria del Dig Awards, il concorso internazionale dedicato al giornalismo d’inchiesta video, a Riccione. Il 17 settembre uscirà il suo nuovo libro On Fire, The Burning Case for a Green New Deal.

Naomi Klein, a settembre torna con un nuovo libro: ancora una tappa del suo viaggio intellettuale e politico su capitalismo e disuguaglianze ambientali?

È una collezione di saggi che racconta l’attuale sovrapposizione delle crisi che ci sono nel mondo: quella ecologica, quella economica e, come conseguenza, quella migratoria. Sono interconnesse: sempre più persone saranno costrette a trasferirsi a causa della distruzione del clima e della siccità– che si interseca con le guerre e i conflitti di tutti i tipi – e le prime a doverlo fare saranno quelle che hanno contribuito meno a questa distruzione. E che paradossalmente sono le più esposte, povere e vulnerabili perché vivono di ciò che produce la terra. In questo contesto, credo che il Green New Deal possa essere un modello valido per tutti. In Italia, ad esempio, la sinistra è in crisi da decenni e questo è un grande problema. Si è creato un vuoto che è stato riempito da Salvini e dal M5s.

Cosa prevede questo programma?

È una visione su come cambiare l’economia, non solo il clima. La lotta al surriscaldamento globale è collegata e si deve inserire nel ripensamento di in un sistema economico che riduca le disuguaglianze. Per troppo tempo c’è stata questa idea che per rispondere alla crisi ambientale dovesse aumentare il costo della vita per la classe lavoratrice, già vessata. Questo perché il tipo di politiche climatiche in Europa e in Nord America hanno di fatto aumentato le bollette e al tempo stesso permesso alle compagnie petrolifere di proseguire con i loro business. Il Green New Deal ha un framework completamente diverso. Chiede a chi inquina di pagare per creare una maggiore sicurezza, anche economica, per milioni di persone.

Che ne pensa di Greta Thunberg?

Rappresenta i diritti universali. È una figura incredibile per la sua chiarezza morale, c’è qualcosa nel modo in cui esprime se stessa che elimina le regole della finzione classica. Il disturbo dello spettro autistico che ha le permette di vedere il mondo bianco o nero. Chi ha questo tipo di disabilità non è interessato al gioco sociale, non si lascia distrarre dall’opinione degli altri, per lei non c’è qualcosa di più importante del fatto che il nostro mondo vada a fuoco. E credo che così stia cambiando il mondo.

In questo contesto, qual è il ruolo dei movimenti sociali di massa?

Guardiamo all’Italia in questo momento: ci sono due trend diametralmente opposti. Da un lato c’è l’onda della destra, con Salvini e una apertura – che include anche i più giovani – alle espressioni del fascismo, in cui l’ethos è “viviamo in un tempo di ristrettezze, quindi dobbiamo proteggere noi stessi” generando avidità e la sensazione di poter stabilire quali vite sono importanti e quali no. E poi c’è il movimento del Friday to the future, questa ondata di migliaia di giovani che scendono in strada. La filosofia che lo guida riguarda il diritto di tutti, indipendentemente dalla nazionalità, alla condivisione e alla difesa delle risorse. Sono due forze che si sollevano nello stesso momento ed entrambe rispondono alla stessa crisi.

L’onda della destra, però, spaventa.

Il centro è collassato. L’ ho scritto sin dal mio primo libro: questo sistema economico è un fallimento. Figure forti come Salvini, Bolsonaro, Trump rispondono al collasso di questo sistema, al tradimento del salario e delle disuguaglianze. E lo fanno convogliando la rabbia verso le persone più vulnerabili: c’è chi si scaglia contro i trafficanti di droga, chi contro i mussulmani, chi contro le donne, chi contro gli omosessuali. Tutti, ad esempio, usano il gender come arma. Si ispirano l’un l’altro, traggono idee l’uno dall’altro, adottano linguaggio come Fake Newse Gender Ideology, si osservano l’un l’altro per capire cosa funziona e cosa no. Non è tanto Steve Bannon che dice a tutti cosa fare, sarebbe troppo semplice. C’è però una connessione profonda tra tutti questi personaggi.

Perchéi migranti spaventano così tanto?

In Italia e in Nord America, il sentimento antimigranti si sviluppa spesso in quelle parti del Paese dove la migrazione non viene vissuta direttamente, dove arrivano storie e narrazioni ma non la loro realtà.

I politici sfruttano queste “leggende”?

A loro non interessa dei migranti: per loro sono un sentiero verso il potere. Siamo in un momento in cui le persone sono spaventate e arrabbiate. Quella rabbia ha bisogno di andare da qualche parte: può andare verso l’alto, verso di loro, in alto per chiedere un sistema economico migliore e sostenibile oppure – come succede – può essere veicolata verso le persone più vulnerabili, dai rom ai migranti sui confini.

Che correlazione c’è oggi tra capitalismo, social network e democrazia?

I social media sono ipercapitalizzati. Potremmo avere le stesse tecnologie ma basate su diversi valori e obiettivi. Invece l’iperconnessione e la necessità di estrarre il maggior numero di dati spinge la crescita più della qualità. Così, se il coinvolgimento maggiore arriva dall’invidia e dalla rabbia anche gli algoritmi vi si adeguano, tenendo le persone in uno stadio perenne di invidia e rabbia (penso a Instagram e Twitter). Ovviamente questo sta tirando fuori il peggio.

Vede una alternativa per la nostra sinistra?

Servirebbe una visione chiara di come affrontare questo mondo in crisi. Il Green New Deal potrebbe essere una soluzione internazionale.

Iraq, “sobborgo” di Teheran: i curdi alle strette

Le esplosioni di ordigni rudimentali avvengono ancora di frequente in Iraq, soprattutto nella provincia di Mosul dove lo Stato Islamico aveva stabilito la propria capitale, riconquistata dall’esercito iracheno assieme alle milizie curde e iraniane sciite quasi due anni fa. Ma la serie di esplosioni che hanno colpito l’altro ieri alcuni negozi della città di Kirkuk, uccidendo cinque persone e ferendone una ventina, non sono state rivendicate da quel che rimane dell’Isis.

Nonostante la sconfitta ufficiale dell’organizzazione guidata dal califfo Al Baghdadi – datata luglio 2017 con la capitolazione di Mosul – un nutrito gruppo di tagliagole è rimasto attivo nel nord dell’Iraq compiendo imboscatecontro le forze governative irachene e i peshmerga curdi. I terroristi islamici sopravvissuti vivono nascosti sulle montagne di Hamrin nel nord-est, che si estendono dalla provincia di Diyala al confine con l’Iran, attraversando la provincia settentrionale di Salahuddin e il sud di Kirkuk. Se venisse stabilito che gli autori di questi attacchi sono i jihadisti del califfo, sarebbe la prima volta (dopo il violento raid del 2016) in cui osano entrare fin nel cuore della città petrolifera capoluogo della omonima regione, la più ricca di petrolio dell’Iraq. Kirkuk è un luogo cruciale non solo sotto il profilo economico ma anche socio-politico essendo la città più multietnica dell’intero Paese dove vivono, in quartieri ben distinti, curdi, arabi sunniti, arabi sciiti, arabi cristiani, turkmeni sunniti e sciiti. Di curdi è considerata, per ragioni storiche, la propria Gerusalemme.

Nell’ottobre 2017, in seguito alle tensioni create dal referendum secessionista indetto dal governo della regione autonoma curda, Kirkuk, sotto il controllo dei peshmerga dal 2014, è ritornata a rispondere al governo centrale iracheno che, di fatto, è ormai una “appendice” di quello iraniano. A sfilare Kirkuk dalle mani dei curdi non sono stati infatti i soldati iracheni, bensì le milizie sciite Ashd al Shabi controllate dai guardiani della rivoluzione iraniani, i pasdaran che il mese scorso gli Stati Uniti hanno bollato come terroristi. Data la dipendenza dell’esecutivo di Baghdad da quello di Teheran, le crescenti tensioni tra quest’ultima e Washington stanno aumentando le frizioni etniche tra i curdi iracheni e gli arabi iracheni. Nelle ultime settimane, le milizie arabe irachene di religione sciita, secondo fonti curde e internazionali, hanno incendiato centinaia di ettari di grano curdo e raccolti di orzo nel tentativo di cacciare i curdi dalle loro terre. Il governo locale di Kirkuk rimane in silenzio mentre i due principali partiti curdi – l’Unione patriottica del Kurdistan (PUK) e il Partito democratico del Kurdistan (KDP) – litigano per la piccola politica partigiana. Per la prima volta dal 2003, i curdi hanno perso il potere militare, politico ed economico su aree che, sebbene contestate, sono storicamente rivendicate dai curdi come una parte inseparabile della patria ancestrale del Kurdistan.

Da un punto di vista militare, i curdi hanno perso il controllo sulle istituzioni militari e di sicurezza che hanno sede in queste aree. Sotto l’aspetto economico hanno perso il controllo sui giacimenti petroliferi di Kirkuk, che sono stati un’ancora di salvezza per il governo curdo. Sul fronte demografico, si stima che un milione di curdi, temendo le violenze dell’esercito iracheno e delle milizie sciite manovrate dall’Iran, abbiamo lasciato l’area e siano diventati sfollati nella regione irachena del Kurdistan, specialmente a Erbil.

America armata, ennesimo giorno di ordinaria follia

Vanno di nuovo “di moda” i luoghi di lavoro, per le sparatorie negli Stati Uniti: una location scontata, che, però, negli ultimi tempi, aveva ceduto il passo alle scuole o ai luoghi d’intrattenimento, quasi che gli americani si caricassero di rabbia più al liceo o in una discoteca che in ufficio. Quando ci sono di mezzo luoghi di culto, invece, la matrice è sovente terroristica. L’ultimo set della carneficina continua è un edificio municipale di Virginia Beach, grosso centro turistico-balneare sull’Atlantico, forse quanto l’America ha di più simile a Rimini.

Il bilancio, come sempre in questi casi, può ancora aggravarsi: 13 le vittime accertate – 11 erano dipendenti del Comune, colleghi dello sparatore; quattro le donne –, mezza dozzina i feriti. Nell’azione, l’assalitore è stato abbattuto in un conflitto a fuoco con la polizia. Il responsabile è DeWayne Craddock, 40 anni, che lavorava nel dipartimento dei servizi pubblici e che negli ultimi anni era stato il punto di contatto per le informazioni sui progetti stradali. Ancora ignoto il movente: “Abbiamo più domande che risposte”, dice il capo della polizia, James Cervera: gli inquirenti scavano nel passato di Craddock per ricostruirne la personalità e gira voce che avesse motivi di risentimento in ufficio.

L’America assorbe la notizia più assuefatta che sconcertata. Il magnate presidente Donald Trump se la cava con telefonate di cordoglio e un tweet senza pathos: “Il governo federale è lì e ci sarà per qualsiasi cosa quella grande comunità abbia bisogno. Dio benedica le famiglie e tutti!”.

Un anno fa, dopo la strage a metà febbraio nel liceo di Parkland in Florida – 17 vittime, un ragazzo il killer –, c’era stata una mobilitazione. Organizzata dagli studenti, la March for our Lives, cioè la Marcia per le nostre vite, si svolse il 24 marzo a Washington e in altre 800 località degli Usa e del mondo: due milioni di persone, la seconda maggiore protesta d’ogni tempo nella storia americana, dopo la Marcia delle Donne su Washington il 21 gennaio 2017, in seguito all’insediamento di Trump. Sembrò fosse la scossa per vincere l’apatia dell’America sul tema delle armi, il presidente proibiva le vendita dei congegni che trasformano armi ordinarie in armi automatiche. Ma, poi, erano arrivate le vacanze; i ragazzi del liceo sono andati al college, all’università; e quest’anno ci sono state meno stragi a scuola e più sui luoghi di lavoro. Trump non perde una convention della Nra, la lobby delle armi, fortissima in un Paese di 330 milioni di abitanti dove circolano ad uso privato oltre 400 milioni di armi.

A Virginia Beach, Craddock è entrato in azione venerdì, verso la fine dell’orario di lavoro: ha aperto il fuoco “indiscriminatamente”, su più piani. Quando si sono sentiti i primi spari, c’è chi s’è chiuso in stanza e chi ha cercato di nascondersi: “Ho chiamato il numero di emergenza”, racconta Megan Banton, che lavora nel palazzo attaccato e che si è barricata dietro una porta.

È arrivata la polizia e l’Fbi, come in un telefilm. La zona è stata isolata mentre quattro agenti ingaggiavano un conflitto a fuoco con l’assalitore, che sarebbe stato armato di una pistola semi-automatica e di un fucile, entrambi legalmente acquistati.

Tienanmen 30 anni fa: “Io, Tiziano e l’illusione cinese della democrazia”

Il 24 maggio di 30 anni fa a Pechino iniziarono le proteste degli universitari cinesi che tra il 3 e il 4 giugno vennero massacrati in migliaia a piazza Tienanmen dall’esercito della Repubblica Popolare. Per seguire l’inedita rivolta, che nel corso dei giorni si andò espandendo fino a lambire altre città, Tiziano Terzani – già scrittore e inviato del Corriere della Sera – dovette entrare via Shanghai con un visto turistico ottenuto in Giappone, dove al consolato della Repubblica Popolare non lo conoscevano. Terzani allora viveva con la moglie Angela Staude e i due figli a Tokyo dopo essere stato espulso dalla Cina nel 1984, dove era stato residente dal 1980, a causa dei suoi coraggiosi reportage sulle condizioni disastrose del gigante asiatico e sulle magagne del PCC, il Partito Comunista, depositario e motore del potere.

La passione di Terzani per la Cina risaliva al 1968 quando alla Stanford University decise di imparare la lingua cinese per comprendere meglio la Rivoluzione culturale di Mao . Racconta al Fatto Angela Staude Terzani, scrittrice e grande conoscitrice dell’Oriente per aver seguito il marito nelle sue annose trasferte in tutta l’Asia: “Mentre stava preparando la sua borsa Tiziano diceva: ‘Quale imperatore ha mai rinunciato al potere? Non lo farà neppure Deng Xiaoping”. Una previsione, quella dell’inviato che si rivelò purtroppo corretta a proposito della reazione alle proteste dell’allora leader della Cina. Terzani nell’articolo “Il dio due volte fallito” (che in seguito entrò a far parte del suo libro In Asia), scritto per commentare la strage di Tienanmen, sottolineò che mentre “Mao aveva imposto alla Cina un regime tutto fondato sull’ideologia a scapito dei risultati economici, Deng ha rovesciato la politica, mettendo da parte l’ideologia e puntando tutto sullo sviluppo, nell’illusione di poter liberalizzare il sistema economico, mantenendo immutato il sistema politico”. Ciò che Tiziano Terzani, come del resto tutti i sinologi di allora, non riuscì a prevedere fu il successivo enorme sviluppo del Paese nonostante l’offesa inferta al tessuto sociale cinese dall’eccidio di Tienanmen. Angela Terzani ricorda che mentre in Cambogia il comunismo di Pol Pot, sostenuto dalla Cina, era stato spietato, sotto Mao all’inizio non lo fu, ma la situazione peggiorò a causa delle lotte per il potere all’interno del Partito comunista cinese. “Queste faide intestine fecero degenerare la situazione nella terribile rivoluzione culturale (1966- 1976) da cui nel 1980, quando noi ci trasferimmo a Pechino, il Paese era appena uscito. L’economia però era nel disastro, la Cina rasentava la bancarotta. Fu Deng Xiaoping per l’appunto, nel 1982, a invertire la rotta e a salvare il Paese economicamente mettendolo sulla via del capitalismo di stato al quale deve oggi i suoi stragrandi successi economici”. Capitalismo di stato vuol dire sistema economico capitalista sotto il controllo del sistema comunista: ossia capitalismo senza libertà individuali. “I fatti di Tiananmen del 1989 sono avvenuti in seguito alla falsa speranza da parte degli studenti che la liberalizzazione e la modernizzazione della Cina sotto Deng Xiaoping avrebbe portato all’introduzione anche della democrazia, cioè alla libertà di pensiero e di parola, a un sistema democratico e giusto che loro invidiavano a noi occidentali”. Una aspirazione nobile e idealistica che fu schiacciata nel sangue davanti agli occhi del mondo intero. “Aver ammazzato migliaia di persone per una richiesta così legittima e naturale è stato il crimine di Deng. Ma Deng non pensava ad altro che a rendere la Cina forte economicamente mentre una sua democratizzazione, frammentando il partito comunista, avrebbe rallentato la ripresa economica. Era sul Partito comunista, il partito unico e in quanto tale anti-democratico e autoritario, che Deng e Mao prima di lui fondavano il loro potere e la loro politica” puntualizza la scrittrice.

Malgrado la sanguinosa e fatale repressione degli studenti sulla piazza Tiananmen, le proteste, anche se non così eclatanti, sono continuate fino a oggi nel silenzio dei media di stato. “In Cina le proteste non sono mai terminate. Ma è proibito parlarne e scriverne, come è vietato ricordare la strage di Tienanmen. Le rivolte sono realizzate dai lavoratori, che chiedono più libertà e meno sfruttamento, e anche dagli studenti e dagli intellettuali che chiedono più libertà e democrazia. E per questo finiscono, a migliaia, nelle carceri e nei campi di lavoro. Da quando, l’anno scorso, il presidente Xi Jinping si è fatto dare il potere assoluto, la libertà si sta riducendo sempre di più per tutti. Chi non la pensa come Xi e il partito comunista viene semplicemente fatto scomparire”.

Mail Box

 

La matematica non è un’opinione, i dati elettorali sì

Gent.mo Direttore,

martedì, commentando la rassegna stampa, un giornalista di Sky ha riportato questa notizia:

“Secondo il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, il Partito democratico “avrebbe” perso dei voti rispetto alle elezioni politiche del 2018”.

Ha usato il condizionale: non so che studi abbia fatto il giornalista, ma so che le sottrazioni si insegnano in prima elementare.

Inoltre, nel Pd è confluito quel che rimane di LeU, cioè Artl, che per un piatto di lenticchie (due candidati in tutta Italia) avrebbe – e qui il condizionale è d’obbligo – riversato i propri voti nella lista di Zingaretti. LeU aveva circa un milione di voti. Una parte è convogliata nella lista La Sinistra, altri nei Verdi, ma si presume molti nel Pd, con cui hanno fatto questo misero accordo.

Altri voti che dunque mancano all’appello almeno 500.000, e che rappresentano l’ulteriore saldo negativo di un Pd che, a reti unificate, “avrebbe” vinto le lezioni insieme alla Lega.

Riccardo Tampucci

 

Caro Riccardo,

da un po’ di tempo, Sky ci riserva queste e altre graziose attenzioni, oltre ad oscurare quasi sempre “Il Fatto” nella sua rassegna stampa.

Ce ne faremo una ragione.

Marco Travaglio

 

Europee, la vittoria di chi ha paura della legalità

Domenica le elezioni non le ha vinte la Lega: le ha vinte quel popolo di corrotti, evasori, ladri, affaristi, spacciatori, imprenditori che risultano palesemente illegali. Un popolo che ha PAURA e teme la legalità. E questo si dirama dall’alto verso il basso, perché anche il più “piccolo” cittadino non vuole perdersi nemmeno il più piccolo dei privilegi.

Ha ragione Massimo Fini, hanno vinto gli squali.

Lidia Tarenzi

 

Tra le forze dell’ordine la violenza non è ammissibile

Ci deve essere qualcosa che non va nelle orze dell’ordine, se, ancora una volta, ci è toccato assistere all’esercizio di una cieca violenza nel corso di una manifestazione pubblica, in questo caso ai danni di un giornalista.

È inammissibile il comportamento di coloro che, violando i limiti di ordine pubblico imposti, hanno causato la reazione dei poliziotti. È altrettanto inconcepibile che questi ultimi si mettano a colpire selvaggiamente singole persone inermi o quando si trovino già a terra, come si è visto nel caso di Stefano Origone.

Il quale, pur riportando fratture alle mani e al costato, si è salvato da più gravi conseguenze solo per la sua suddetta qualifica.

Cosa sarebbe avvenuto se invece di un giornalista si fosse trattato di un semplice manifestante?

La funzione della Polizia è di far rispettare l’ordine pubblico evitando che ci siano scontri e violenze; se eccede, si manifesta come un’ottusa propensione alla ferocia. Fenomeno che noi cittadini non possiamo che guardare con inquietudine, anche in considerazione del momento politico attuale, in cui vengono tollerate, se non addirittura favorite, molte pulsioni antidemocratiche.

Loris Parpinel-Prata, Pordenone

 

Il reato di abuso d’ufficio tutela i cittadini

Salvini vuole abolire o modificare il reato di abuso d’ufficio perché impedirebbe a sindaci e presidenti di Regione di amministrare.

L’abuso d’ufficio, insieme al reato di usurpazione di funzione pubblica, esiste proprio per impedire a chi lavora nelle istituzioni di comportarsi da capo o capitano.

Il compito di un amministratore è quello di sorvegliare sull’operato dei dirigenti e, nel caso, di segnalarlo alle autorità competenti.

Secondo la Costituzione, nella Repubblica Italiana l’unico a poter comandare è sempre il cittadino, mentre il ministro, come tutte le altre istituzioni, è al suo servizio.

Se a Salvini non sta bene, faccia le valigie e vada a comandare a casa sua, compagna permettendo.

Wakan Tanka

 

La logica dell’astensione passa per la strafottenza

Perché astenersi al voto?

Tento di spiegare un motivo che forse si potrebbe estendere dal personale al generale.

Ogni persona ha una sua storia intima e sociale.

Quando collassa la stima di sé, indebolita dalla società, che di politica si nutre e che con questa interagisce senza rispettare le individualità, allora subentra una depressione o meglio una strafottenza che, paradossalmente, ti fa stare meglio.

Così, eviti di fare una coda ai seggi per emozionarti su qualcosa, e sposti la tua cosiddetta “preferenza”, ossia un imbarazzo, nel sentirti solo un utile idiota.

Roberto Calò

 

La parità di genere dipende anche dallo stipendio

Il colosso finlandese della telefonia Nokia ha deciso di eliminare ogni tipo di divario salariale tra uomini e donne. La parità di genere inizia dall’equiparazione degli stipendi. La mia speranza è che presto anche altre aziende adottino misure di questo tipo.

Gabriele Salini

Adesso però non fate piangere la catena globale del valore

Chi ha vinto le Europee? Fino a ieri rispondere pareva facile: Salvini. Invece no. Ci sono più cose in cielo, in terra e nelle catene del valore globale del CorSera che nel sito del Viminale. Tradotto: la Lega avrà pure vinto, ma in realtà ha vinto “il partito del Pil”, che – a stare ai suoi cantori – è generoso ma cretino: in Piemonte s’è fatto irretire dal “contropiede del centrodestra” sul Tav, in Veneto non ha visto “le divisioni tra la vecchia Lega sindacato di territorio (Zaia) e la nuova”. E in Emilia? Eh, lì le cose sono “più complesse”: “Dove i rapporti tra amministrazioni e associazioni imprenditoriali sono più saldi (Modena e Reggio Emilia) i sindaci del Pd hanno retto l’onda leghista”. Allora chissà che scazzo deve esserci stato a Ferrara tra Franceschini e Confindustria per portare il leghista al 49%… Insomma, le elezioni le hanno vinte gli imprenditori, che ora però si preoccupano: ma ’sto Salvini “tenterà di imporre al partito del Pil un’agenda nella quale sommare le loro rivendicazioni alla pazza idea di aumentare il disavanzo? O recepirà le cautele delle imprese che vivono di export e sono integrate nelle catene del valore transnazionali?”. La global chain ha le sue ragioni che la democrazia non comprende, però una cosa strana c’è: ma se hanno il programma di +Europa, perché non votano Bonino? Nelle ore più buie ci vien quasi da pensare che il partito del Pil sia solo una faciloneria giornalistica che celi una residualità politico-intellettuale. Ma poi ci pentiamo e preghiamo la catena globale del valore: Madre nostra, che sei al Corriere…

Caro Salvini, guardi Lerner: fu il primo a capire la Lega

 

“I giornalisti sono le più grandi puttane del pianeta”.

Hans Christian Strache parla nel video che lo ha costretto alle dimissioni da vicecancelliere austriaco

 

Immaginiamo un uomo politico qualunque che dopo anni e anni trascorsi ad arrampicarsi (inutilmente) per raggiungere le vette del potere improvvisamente ce la fa. Nel nuovo status scopre, piacevolmente, quanto sia diventato facile ricevere l’omaggio dei tanti che, “prima”, a malapena lo salutavano: colleghi parlamentari, finanzieri, imprenditori, avvenenti star televisive. E giornalisti. Costoro sono quelli che “prima” si sono comportati peggio: irriguardosi, saccenti, pronti a sputare veleno le rare volte che gli dedicavano una citazione. Adesso è lui che si diverte a ignorarli quando, trafelati, lo inseguono mendicando una battuta, un sospiro, un cenno di attenzione. Ma non gli basta: la sua vendetta sarà completata se li vedrà strisciare, disposti alle adulazioni più abiette, a rinnegare le precedenti convinzioni politiche pur di ottenere una promozione o la garanzia di non perdere il lavoro. Per esempio, quando nella lunga conversazione con i finti emissari russi, Strache progetta di sottomettere, a suon di rubli, il più importante quotidiano di opposizione austriaco, il suo non è solo esibito bullismo per fare colpo sulla bellona che gli siede accanto. Lui sembra arciconvinto che, realizzato il colpo, gli basterà schioccare le dita perché quelle “puttane” di giornalisti si adeguino al nuovo corso. Trasferiamoci in Italia. Anche se probabilmente la pensano allo stesso modo, Salvini non è Strache. Così come la Rai conta molto più di un giornale pur prestigioso. Fatto sta che dopo aver attaccato Fabio Fazio e Roberto Saviano, il giorno dopo il 34 per cento alle Europee il capitano leghista (nonché vicepremier e ministro degli Interni) lancia i suoi strali verso un altro giornalista non allineato: “Se la Rai del cambiamento passa dal ritorno in video di Gad Lerner…”, eccetera. Il richiamo è rivolto all’Ad di Viale Mazzini, Fabrizio Salini, reo evidentemente di non avere impedito la prossima messa in onda su Rai3 di una trasmissione di Lerner, che si chiama “L’Approdo”. Nel suo editto Salvini non parla di prostituzione ma adopera la categoria del “cambiamento” (cara al governo gialloverde) per separare le firme buone (quelle par di capire a lui devote) dalle cattive: par di capire, tutti gli altri. E i giornalisti semplicemente bravi caro Salvini dove li mettiamo? L’altra sera a “Piazza Pulita” si confrontavano due colleghi che in Rai occupano ruoli di prestigio. Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2 e Lucia Annunziata. L’uno difendeva le buone ragioni del sovranismo che si è affermato in Europa. L’altra, con una lunga storia di sinistra alle spalle, argomentava i suoi dubbi. Entrambi per il non breve passato nel servizio pubblico radiotelevisivo non appartengono certo alla categoria salviniana del “cambiamento”. Sanno semplicemente fare il loro lavoro. Così come semplicemente bravo è Gad Lerner: il primo a comprendere quale formidabile energia vi fosse nella Lega primitiva di Umberto Bossi. Ragion per cui consiglieremmo a Salvini di non perdersi una puntata dell’“Approdo”, magari per imparare qualcosa che non sa. Poiché i politici baciati da improvviso successo si dividono in due categorie. Quelli che prediligono i giornalisti lustrascarpe. E quelli che sono comunque grati ai giornalisti intelligenti (se di orientamento diverso, tanto meglio).

L’Ascensione di Cristo spinge l’universo verso la pienezza di Dio

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Luca 24,46-53).

L’Ascensione, mistero di speranza, è l’espressione piena e definitiva della Pasqua di Cristo. Nel duplice racconto di Luca, Vangelo e Atti, l’Ascensione è la conclusione trionfale della vita terrena del Signore Risorto e, nello stesso tempo, segna l’inizio della Chiesa. È un atto di grande fiducia di Gesù che affida ai suoi, ancora fragili e deboli, la cura del mondo, l’annuncio della buona Notizia da portare a tutti, la missione di essere la benedizione di Dio tra gli uomini.

La Pasqua celebra il passaggio di Gesù dalla morte alla vita; nell’Ascensione contempliamo il ritorno dalla Sua condizione terrena alla Profondità del mondo creato, nell’Intimo di tutte le cose, perché il Risorto Signore eleva il tutto, anima dall’interno e spinge l’universo verso la pienezza voluta dal Padre: di questo voi siete testimoni. Ogni esistenza, ogni realtà in Cristo asceso viene immersa nel mistero dell’amore di Dio. È questo il destino che attende ogni uomo e donna. Questo è il cielo che illumina e riscalda ogni umana esistenza.

Nel vangelo odierno, l’Ascensione è collocata nella sera stessa di Pasqua, mentre nel racconto degli Atti viene posta alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. L’evangelista insegna che la novità della Pasqua, Gesù è morto e risorto, non può essere separata dalla comunità dei discepoli che divengono soggetto, la Chiesa che nel lungo e faticoso cammino della storia è la presenza viva e santificante di Gesù Cristo. Sarà il dono dello Spirito Santo a prepararli, ad abilitarli a rendere testimonianza al Signore fino ai confini della terra, mediante la conversione e il perdono dei peccati.

Secondo il libro degli Atti sono voci di angeli a far togliere il naso all’insù a quegli stupiti, nostalgici, disorientati uomini di Galilea: perché state a guardare il cielo? Pur prostrati in adorazione, pur in preghiera, pur privati del Signore, il vangelo ce li descrive di ritorno a Gerusalemme con grande gioia. In Gesù Risorto hanno sperimentato che la vita viene dall’amore di Dio, che noi non finiamo col nostro corpo, che l’uomo è fatto per un oltre: così sta scritto! E non vacilli (Eb 10,23) la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Nella magistratura c’è una questione morale da discutere

Il capitalismo italiano non vede l’emergenza giustizia. Non è un problema misurabile in euro, ma si profila come il vero cancro, ugualmente strutturale e forse più grave del debito pubblico e della mancata crescita. Nei tribunali non è in gioco solo sicurezza e libertà delle persone, spesso anche la vita delle aziende coinvolte in procedimenti con poste milionarie. La cronaca degli ultimi giorni ci mostra un panorama spaventoso che val la pena di guardare al di là delle presunzioni di innocenza o colpevolezza che daremo per sottintese: tanto se un magistrato ne arresta un altro è certo che uno dei due ha tradito la toga. Il sostituto procuratore di Roma Luca Palamara è indagato dai colleghi di Perugia per corruzione e i corruttori sarebbero l’imprenditore Fabrizio Centofanti e l’avvocato Piero Amara. Con Palamara è indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio il suo collega della procura di Roma Stefano Rocco Fava, insieme a un altro magistrato, Luigi Spina, membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Fava indaga sul sistema corruttivo che ruota intorno alla figura di Amara, insieme al procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Contro Ielo e l’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone (in pensione da poche settimane) Fava ha presentato al Csm un esposto su asseriti comportamenti anomali dei due. I rispettivi fratelli, Roberto Pignatone e Domenico Ielo, fanno gli avvocati. Il primo ha ricevuto in passato incarichi da Amara, il secondo ha svolto consulenze per l’Eni, la società per la quale Amara lavorava – e forse delinqueva.

Un caso di corruzione ipotizzato dalla procura di Perugia per Palamara riguarderebbe il suo interessamento per agevolare in sede Csm la carriera di Giancarlo Longo, pm di Siracusa arrestato lo scorso anno insieme ad Amara. Con il quale – e, sospetta la procura di Milano, con l’ex capo del servizio legale dell’Eni Massimo Mantovani – avrebbe ordito il procedimento farlocco sull’altrettanto farlocco complotto contro il numero uno dell’Eni Claudio Descalzi per ostacolare il processo di Milano sulle tangenti in Nigeria in cui lo stesso Descalzi è imputato. Longo ha lasciato la magistratura e recentemente ha patteggiato una condanna a cinque anni. Palamara si sarebbe prestato a spingere la sua nomina a Gela, dove Amara voleva un procuratore amico che guardasse con occhio benevolo i processi in corso laggiù a carico dell’Eni. Interrogato, Longo rivela che Palamara non sarebbe riuscito a piazzarlo a causa di uno stop alla nomina dato dal presidente Sergio Mattarella (ma qui gli inquirenti sono ancora lontani dal districarsi tra verità, millanterie e menzogne). Nella stessa inchiesta sul “sistema Amara” sono indagati dalla Procura di Messina altri due magistrati della procura di Siracusa, Marco Di Mauro e Maurizio Musco, mentre l’anno scorso è stato arrestato l’ex magistrato amministrativo siciliano Giuseppe Mineo. Intanto a Roma l’indagato Fava indaga (con Ielo accusato da Fava medesimo) su una serie di giudici del Consiglio di Stato, tra i quali l’ex presidente di sezione Riccardo Virgilio e Nicola Russo.

Prima osservazione: i magistrati italiani appaiono prevalentemente occupati a indagarsi, intercettarsi e arrestarsi tra loro, cosa che può suscitare legittimi dubbi sul confine tra inchiesta giudiziaria e spedizione punitiva. Seconda osservazione: l’avvocato Amara appare in grado di corrompere un numero di magistrati ragguardevole, tutto da solo: o è un mago, o la magistratura italiana è troppo esposta alla corruzione. Segue spontanea la domanda: non sono maturi i tempi per il Csm e per il suo presidente Mattarella di aprire una vera e trasparente discussione sulla questione morale nel sistema giudiziario?