“Caro Pd, apriamo il dialogo con M5S”

“Rompi la diga che hai alzato e dialoga con i Cinque Stelle”. Roberto Speranza, segretario di Articolo 1 manda questo messaggio al Pd. Mentre il governo gialloverde appare politicamente sempre più debole, da più parti si comincia a ragionare su come costruire nuove alleanze e nuove politiche.

Onorevole Speranza, si deve andare a votare?

Questo governo è ormai al capolinea, non è più in grado di rispondere alle esigenze di questo Paese. E non ha mai un disegno strategico condiviso. Stanno esplodendo le distanze tra Lega e Cinque Stelle. Sulle date e sugli esiti della crisi, solo il Presidente può decidere. Faccio una valutazione politica: è stato un errore grave da parte del Pd aver consentito questa saldatura. Ora bisogna lavorare per romperla.

Voi siete pronti?

Se si va al voto, lavoreremo per costruire un’alternativa. Il primo passo sono state le Europee. Rivendico la scelta di non aver ulteriormente frammentato il campo progressista, aderendo alla lista unitaria lanciata di Zingaretti e legata alla famiglie del Pse, che è quella di Pedro Sanchez e Jeremy Corbyn. Noi rivendichiamo la nostra autonomia di Articolo 1, ma vogliamo continuare a coltivare il processo costituente di un nuovo centrosinistra. Perché quello che c’è ancora non basta. E la destra non è mai stata così forte. Fratelli d’Italia e Lega fanno il 40%: un dato terrificante, che dipende da ragioni politiche e sociali. Non basta dire “al lupo, al lupo”. Dipende anche dalla sinistra che ha smesso di fare il suo mestiere, di stare dove doveva stare. Serve una svolta, servono delle politiche economiche e sociali per i più deboli e per i ceti medi che hanno perso la loro sicurezza.

Il centrosinistra deve dialogare con i Cinque Stelle?

Partiamo da un dato. Il Movimento ha perso 6 milioni di voti, e quasi nessuno arriva al Pd. Perché avviene questo? È chiaro che se ogni giorno insulti gli elettori e i dirigenti del M5s alzi una diga che poi non permette a chi smette di votarli di credere nella tua proposta politica. Bisogna riaprire il dialogo con coraggio. Non sto parlando di giochetti parlamentari che sarebbero fuori tempo massimo. Ma di recuperare una credibilità rispondendo alle domande sociali che hanno portato milioni di elettori a credere nei Cinque Stelle.

Può succedere che un asse nasca prima delle elezioni? Magari perché questo governo cade e ne nasce uno tecnico, appoggiato da Pd e Cinque Stelle?

Questo Parlamento è spostato molto a destra. Io pongo un tema politico: chiedo di abbassare la diga, perché per me la priorità è costruire un’alternativa alla destra a trazione lepenista. I Cinque Stelle sono troppo compromessi oggi con questo governo. Ma bisogna dialogare e costruire un fronte alternativo. Voglio essere chiaro: non penso a giochi di Palazzo, ma a una svolta che rimette al centro la questione sociale. Solo questo può permettere al nuovo centrosinistra di parlare a chi il 4 marzo ha votato per i Cinque Stelle e ora è stanco di vederli fare il servo sciocco di Salvini.

Si può partire da qualche iniziativa concreta?

Si dovrebbe. Perché non si riprende in Parlamento la carta dei diritti della Cgil? O perché non approvano la mia proposta di legge sulla sicurezza sul lavoro che è una vera emergenza nazionale?

De Magistris chiama Fico: “Tu sindaco, io governatore”

Luigi De Magistris manda un messaggio ai Cinque Stelle, senza tanti giri di parole: “Non vi chiudete, ritornate al civismo. Pensate alla possibilità di far nascere coalizioni civiche locali, poi magari anche nazionali. Io sono pronto a impegnarmi per un vero schieramento di rottura. Loro si stanno lasciando fagocitare dalla Lega, prima o poi dovranno fare una riflessione seria”.

Sindaco, la discussione nel Movimento c’è stata e ha confermato Di Maio.

Di Maio ha fatto un capolavoro… ha avuto la capacità di polverizzare un consenso clamoroso, quello del 4 marzo. Specie al Sud quello per i 5Stelle era un voto fresco, pulito, di gente che voleva dire basta a Renzi e Berlusconi.

E poi?

Poi col contratto di governo e con quello che ha combinato quest’anno, Di Maio ha ripulito l’immagine di Salvini. Ha fatto dimenticare che il leghista – politicamente parlando – è uno dei più vecchi uomini di partito in Italia. E invece ora sembra uno nuovo. Di Maio ne è stato lo sgabello: il capo della coalizione è il leghista.

In campagna elettorale però l’ha attaccato ferocemente. Non basta?

Anche sulla questione morale il discorso non regge. Nei comizi Di Maio ha detto che bisogna scegliere tra chi prende tangenti e chi è onesto, ma è difficile essere credibili. Non solo perché anche i 5Stelle a livello locale hanno avuto i loro guai, ma soprattutto perché continuano a tenere in vita il contratto con un alleato opaco, che ha sottosegretari e ministri coinvolti in indagini, gente accusata di tangenti… Se Di Maio pensa quello che ha detto deve rompere il contratto. E dire: “Ci fermiamo qui, noi siamo altro”.

Al Sud i Cinque Stelle sono ancora forti.

Il 4 marzo hanno avuto un consenso enorme e in parte il loro bacino elettorale è ancora nel Mezzogiorno. Ma hanno deluso: pensiamo ai beni comuni, all’Ilva, alla Tap. Hanno consegnato il Paese al ministro più anti-meridionale della storia d’Italia. Salvini ora si traveste da leader nazionale, ma resta quello che faceva i cori contro i napoletani.

È chiaro che lei si rivolge a Roberto Fico per cambiare il M5S e trovare un’intesa.

Io mi rivolgo allo spirito originario del Movimento, a quello che diceva di voler essere. Per Fico in questo momento è più semplice, da presidente della Camera è più libero di smarcarsi da un’alleanza che non condivide e sa non essere condivisa da molti militanti. Bisogna vedere fino a che punto Fico possa cambiare i loro equilibri interni. E poi anche noi dovremo fare le nostre valutazioni. Io non riuscirei a fare una coalizione regionale con i Cinque Stelle ma poi fare un comizio con Di Maio che nel frattempo è alleato di Salvini.

Sta invitando i Cinque Stelle a cambiare leader?

Penso che debbano rompere il contratto con Salvini e allearsi con forze politiche coerenti e credibili. E non sto parlando certo del Pd.

Si è incontrato con Fico di recente?

Ci siamo visti diverse volte in contesti istituzionali. Ritengo che nelle prossime settimane un incontro con lui sia nell’ordine delle cose. Siamo tutti e due napoletani, abbiamo espresso posizioni molto spesso simili su questioni locali e nazionali. Le prossime settimane saranno decisive per il governo nazionale. E poi c’è la Campania, dove si vota tra un anno. Le destre in autunno probabilmente vinceranno in Calabria ed Emilia Romagna. La Campania potrebbe essere l’ultimo baluardo, come la linea del Piave o le quattro giornate di Napoli. Potremmo sconfiggere Salvini e De Luca, costruire un modello politico diverso.

Uno scenario con Fico sindaco di Napoli e lei presidente della Campania è fantapolitica?

È una domanda ricorrente in città, tra gli osservatori politici ma anche tra i cittadini. Oggi può sembrare fantapolitica, se lo chiede a Fico le dirà che non è possibile, Di Maio meno che mai. Ma se lo chiede al cittadino napoletano e campano le dirà che non sarebbe poi tanto male…

Lei vede praterie nel deserto della sinistra italiana…

La proposta della sinistra alle Europee non era convincente. Noi a Napoli abbiamo creato un laboratorio: fare cose di sinistra ma parlare a un mondo molto più largo; molto movimento e poca ingessatura, capacità di governo e rottura di sistema. E poi serve un leader forte e credibile.

Zingaretti è credibile?

È una persona con cui si può dialogare, un democratico. Ma è un uomo di sistema, di apparato. Penso alla Campania, dove si appoggia acriticamente a De Luca. Come può rappresentare una novità?

A proposito di sinistra e leader… il “comandante” Sarri se ne va alla Juventus?

È un grande dolore. So che è un professionista, ma da tifoso e militante di Sarrismo e rivoluzione (la pagina Facebook dedicata all’allenatore, ndr)… fa davvero male. Molto più del tradimento di Higuain. Sarà difficile superarlo, è una gastrite calcistica.

Ballottaggio Livorno: il Pd rifiuta il 14,3% della lista di sinistra

Succede a Livorno, dopo cinque anni di amministrazione 5 stelle con Filippo Nogarin sindaco, che i grillini non abbiano centrato il ballottaggio, fermi al 16,3% della candidata Stella Sorgente. A contendersi la poltrona di sindaco, fra una settimana, saranno il dem Luca Salvetti (34,2%), in foto, e Andrea Romiti (26,6%) per la Lega e il resto del centrodestra. Quarti sono arrivati, con un ottimo risultato che ha replicato quello già ottenuto cinque anni fa, i ragazzi di Buongiorno Livorno, capaci con la loro lista più Potere al popolo di conquistare il 14,3% per il candidato sindaco Marco Bruciati. Buongiorno Livorno, scorgendo il pericolo di una possibile vittoria delle destre, ha proposto a Salvetti l’apparentamento. Ma il candidato del Pd non ha rinunciato a qualche poltroncina. Buongiorno Livorno, incassato il rifiuto, ha comunque promesso i suoi voti al Pd per scongiurare una vittoria della Lega. “L’apparentamento – spiegano – ha ricevuto il netto no di Salvetti, sulla base del fatto che il numero dei consiglieri del Pd sarebbe diminuito all’interno di una maggioranza di 20 seggi garantita per legge. Con grande rammarico ne prendiamo atto. Ciononostante rinnoviamo l’indicazione di voto per il candidato del Pd”.

Aspettando il Godot di governo, è Francesca e Virginia show

L’unico brivido lo dà l’indimenticato Mario Monti dalla canuta chioma. E con questo abbiamo detto tutto. Giusto per dare un’idea del clima di sospensione tra il moscio e lo snervante che ha dominato la festa della Repubblica nei giardini del Quirinale. Si diceva, dunque, dell’ex premier tecnico. Monti incrocia Di Maio all’ingresso e gli fa una battuta per la serie “il governo non sta tanto bene”. La risposta del vicepremier è secca e lascia basito il Professore: “Pensi alla sua di salute”. Prosit.

Il rinnovato capo del Movimento 5 Stelle incede a passo celere scortato dalla fidanzata Virginia Saba – ricoperta di pizzo nero con sottoveste rosa – colei che qualche giorno fa ha comparato il suo amore ad Aristide il Giusto contro quel cattivone di Temistocle Salvini. Roma come Atene e viceversa. Il quale Matteo Temistocle è dentro già da parecchio e deambula mano nella mano con Francesca Verdini rampolla del famigerato Denis, l’uomo del renzusconismo e di tante altre cose. Le croniste danno una mano ai colleghi maschi per la descrizione del vestito della nuova lady del salvinismo: “Tubino corto nero, con una balza in pelle e una scollatura sulla schiena. Scarpe alte color oro e solo un filo di trucco”. Matteo e Francesca si siedono a un tavolino e si baciano a favore del pubblico guardone. Si avvicinano due deputate leghiste, Barbara Saltamartini e Pina Castiello, e si accomodano. Indi la ministra Giulia Bongiorno e il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano.

Matteo Temistocle è decisamente la star di questa festa repubblicana vissuta come sospesa, aspettando il Godot di governo. Dura o non dura? Cade o non cade? Da un capannello che mischia giornalisti, poteri forti e qualche cariatide politica: “Ha detto qualcosa sulla tenuta del governo?”. Il soggetto è Salvini, of course. Esattamente un anno fa, in questi giardini strabilianti sul colle più alto della città eterna, si celebrava il giuramento dell’esecutivo marziano e gialloverde di Giuseppe Conte. Così tra la folla dell’establishment spiccava la curiosità un po’ snob un po’ ruffiana per le nuove creature populiste.

Dodici mesi dopo, lo stesso giorno, c’è un generale calo del desiderio pronto a scadere nel funereo andante. Dice Nicola Morra, bravissimo presidente della commissione Antimafia nonché voce non proprio in linea con il governismo dimaiano: “Come va? Per me le elezioni non sono un problema e sono pronto ad andare a casa per i due mandati”. Non male.

Ma chi non molla la vis polemica, per dirla con un eufemismo, è l’influente sottosegretario agli Affari regionali Stefano Buffagni, pentastellato di alto rango. L’altra sera se n’è uscito con una frase durissima a uso interno, sul pasticcio della lettera di Tria all’Ue divulgata da una manina misteriosa. “Colonnelli incapaci” ha detto, alludendo a qualche suo collega grillino. Petto in fuori, saldamente in piedi con un bicchiere in mano il barbudo Buffagni non arretra: “Ma come, il presidente del Consiglio dice che chiederà alla magistratura di fare luce e tu ci metti pure il timbro con un’agenzia?”. Esplicito il riferimento alla viceministra Laura Castelli, sua collega di movimento.

Dinnanzi a questo spettacolo, Matteo Temistocle si gode le baruffe grilline coi popcorn renziani in mano. Ma Luigi Aristide e la cara Virginia, con sprezzo del pericolo, scelgono un tavolo a meno di dieci metri da quello di Matteo e Francesca. S’ignorano per un’ora abbondante, le due coppie. Poi tocca a Di Maio beccarsi una rispostaccia politica come quella data da lui a Monti. I due sono destinati a salutarsi e Luigi Aristide chiede a Matteo Temistocle: “Ci vediamo lunedì o martedì?”. Il rude padano diventato nazionalista replica: “Ci sentiamo, ci vediamo…”. Salvini torna a deambulare e si offre a selfie e foto. Francesca, talvolta, è riluttante. “Fai tu solo”. Lui la strattona con amorevole dolcezza: “Tu stai qua, ci devi stare, vieni qui”.

Il duello a distanza tra le due “second ladies” è l’arma di distrazione di questa noiosa sospensione. Gli altri capannelli sono Ancien Régime. Zingaretti e Gentiloni. Casini e Rutelli. I soliti Vespa e Minoli. Accanto a Mattarella, durante l’esecuzione dell’inno, ricompare pure Giorgio Napolitano, l’unico politico che porta ancora il cappello. Nei giardini del Quirinale si appalesa, con il blu istituzionale delle grandi occasioni, quel potere romano che tutto risucchia e smussa e normalizza in modo gattopardesco. Anche per questo, forse, come già l’anno scorso, Salvini appare meno abbordabile del democristiano Di Maio. A volte, attorno a lui, c’è il vuoto. Come se incutesse soggezione fisica. Qualcuno azzarda un paragone con Bettino Craxi. In ogni caso, anche altri due leader della destra come Berlusconi e Bossi avevano allergia per questo rito del primo giugno e non sono mai venuti.

Alle otto di sera, la luce del giorno volge al tramonto e molti chiedono: “Ma Conte dov’è?”. Ecco, appunto, c’è anche Conte. Comparsa sobria e dignitosa. Salvini lo abbraccia e dice: “Ci vogliamo bene”. Ma è poca roba, davvero poca.

Nardella deve rifare la nuova giunta: troppe poche donne

Nemmeno il tempo di insediarsi che la giunta di Dario Nardella è già stata cambiata. Venerdì il sindaco di Firenze riconfermato al primo turno ha presentato in pompa magna a Palazzo Vecchio i dieci assessori, ma nella tarda serata dagli uffici comunali qualcuno si è accorto dello scivolone: la nuova giunta non rispetta la legge 56 del 2014 sulla riforma degli enti locali (governo Renzi) secondo cui nei Comuni sopra i tremila abitanti il 40% della squadra di governo deve essere composta da donne. E invece Nardella ha nominato sette uomini e tre donne, mentre nella giunta precedente il rapporto era di 50 e 50. Ieri pomeriggio quindi il sindaco ha silurato il nuovo arrivato alle relazioni internazionali e cooperazione Marco Del Panta Ridolfi (che siederà comunque in consiglio comunale) e al suo posto ha nominato Alessia Bettini. Venerdì Nardella aveva presentato la sua nuova squadra inaugurando anche nuove deleghe molto particolari: la bellezza, la città della notte, la lotta alla solitudine, l’agricoltura urbana e la cultura della legalità e della memoria. Peccato che ci sia già stato bisogno del primo rimpasto.

Roma peggio di Atene? Cosa dicono i dati

Le tensioni sui mercati, con Donald Trump che minaccia i dazi al Messico (mentre in Cina entrano in vigore su 60 miliardi di import americano) e i dati negativi sull’economia italiana hanno fatto salire venerdì lo spread, la differenza fra il costo del debito pubblico italiano e quello tedesco. Con un sorpasso non proprio entusiasmante dell’Italia sulla Grecia che ha spinto i giornali a sintesi ardite. Citiamo Repubblica per tutti: “L’Italia sta peggio della Grecia”. È così? Non proprio.

Venerdì lo spread tra il Btp e il Bund tedesco a 10 anni è salito fino a 294 punti base (per poi chiudere a 286) con un tasso in rialzo al 2,72% mentre quello della Grecia prosegue la sua fase calante. Nel 2012 lo spread tra Roma e Atene era a 2.700 punti base, oggi siamo a 18. Non era così basso dal 2008, prima dello scoppio della crisi greca. Sui bond di medio termine va pure peggio. Il Btp quinquennale è arrivato a offrire un rendimento più alto di quello della Grecia: 1,74% contro l’1,68%.

Le tensioni finanziare sul debito italiano si susseguono da maggio 2018, con la crisi politica e l’uscita di una bozza di contratto del governo con un riferimento a un referendum sull’euro. Da allora lo spread, complici anche le tensioni con Bruxelles sulla manovra, è salito di quasi 160 punti. Il sorpasso della Grecia resta però un dato sorprendente, e si spiega anche con la reazione dei mercati alle turbolenze finanziarie, con gli investitori che si spostano verso beni rifugio, come il bund tedesco – il cui rendimento venerdì ha toccato nuovo minimo storico a -0,23% – e i titoli sovrani con prospettive di miglioramento. La Grecia è uscita ad agosto 2018 dal terzo programma di salvataggio della Troika (Bce, Fmi e Ue) ed è tornata sul mercato dei bond sovrani pur disponendo di ingente liquidità (quasi 48 miliardi). Il Pil è salito dell’1,8% nel 2018 e – stima Bruxelles – dovrebbe arrivare al 2,2% quest’anno. Come segnala Mark Bird del Wall Street Journal il mercato secondario dei bond sovrani greci è ridotto al minimo (dai 42 miliardi di euro di operazioni mensili nel 2001-2010 ai 29 totali del 2011-2019) ed è più facile tenere bassi i rendimenti, anche se una parte rilevante delle negoziazioni avviene sui mercati non regolamentati.

Se si guarda ai conti pubblici e all’economia, però, l’Italia non sta “peggio” della Grecia. È la terza economia (se si esclude la Gran Bretagna) e la seconda potenza manifatturiera dell’Ue; ha un debito al 132% del Pil contro il 180% di Atene, che con la devastante austerità imposta dalla Troika ha perso un terzo del Pil e la disoccupazione è salita al 30% (oggi è al 20%). Dal 2021 dovrà tornare a rimborsare i creditori. Roma è finanziariamente più solida: ha un avanzo commerciale a doppia cifra e nel 2020 dovrebbe azzerare lo sbilancio della posizione finanziaria netta sull’estero, che per Atene è negativa per il 137% del Pil, un dato da Paese fallito e infatti – a differenza dell’Italia – ha un rating spazzatura. Il debito italiano è considerato sostenibile, mentre l’Fmi considera quello greco ancora a rischio.

Quota 100 e Reddito. La battaglia delle 2 lettere

Dietro la battaglia mediatica sulla lettera con cui il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha risposto ai rilievi di Bruxelles si gioca quella reale sui fondi che saranno risparmiati sulle due misure cardine del governo gialloverde: Reddito di cittadinanza e Quota 100.

Venerdì è circolata una bozza della missiva in cui Tria assicurava all’Ue che la spesa per i due provvedimenti sarà inferiore alle stime, permettendo di ridurre il disavanzo previsto per il 2019. In prospettiva, si leggeva, “nel 2020-2022” il governo stima di poter “ridurre le previsioni di spesa per le nuove politiche di welfare”, cioè Reddito e Quota 100. Si tratta di risparmi, ma M5S ha denunciato il rischio di tagli alla spesa sociale e con un blitz ha spinto a rivedere la lettera. Il riferimento alle due misure è stato sostituito da un più neutro “l’utilizzo delle nuove politiche di welfare è, finora, inferiore alle stime della legge di bilancio 2019” e “di conseguenza, il disavanzo dovrebbe attestarsi al di sotto delle previsioni”. La sostanza, come si vede, non cambia. È saltato invece il riferimento al 2020-2022. E qui sta il nodo vero del contendere.

La manovra 2019 affida a Tria il compito di decidere la destinazione dei fondi risparmiati. Che saranno rilevanti, visto che l’andamento dei due provvedimenti è ben al di sotto delle previsioni. Al Tesoro stimano risparmi per oltre 1 miliardo nel 2019 e 2-3 l’anno per il 2020-2021: almeno 8 miliardi nel triennio. Tria vuole usarli per ridurre il deficit. M5S, invece, voleva già dirottare quelli del 2019 sul decreto Famiglia, ma la Ragioneria ha detto no (risparmi stimati non si possono usare come coperture). Con la prossima manovra, però, si possono ridurre gli stanziamenti e così quei fondi potranno essere dirottati altrove. È su questi che si giocherà la vera battaglia. Su cui, per ora, la Lega ha preferito rimandare lo scontro.

Niente vertice, Conte domani parla “al buio”

Lui, il premier che domani si prepara a parlare alla nazione, ancora usa il condizionale: “Vedremo”. Ma il vertice a tre – quello con i suoi due vice, rimasti nemici anche dopo la fine della campagna elettorale – difficilmente si terrà nelle prossime ventiquattr’ore. “Li convoco entro lunedì”, aveva lasciato filtrare il presidente del Consiglio nei giorni scorsi, prima di annunciare una conferenza stampa che non sarà certo solo un bilancio del primo anno di governo.

D’altronde, la partita del viceministro Rixi era chiusa: il leghista condannato per la rimborsopoli ligure si è dimesso un minuto dopo la sentenza e ha azzerato ogni possibile polemica degli alleati di governo. E pure le questioni interne al Movimento si sono archiviate giovedì sera alle 20, quando il blog ha annunciato l’80 per cento dei Sì alla riconferma di Luigi Di Maio come capo politico. Che altro dobbiamo aspettare prima di vederci?, deve aver pensato l’inquilino principale di palazzo Chigi. Così aveva concesso al massimo il passaggio del weekend, che ieri erano tutti al Quirinale, la domenica è sacra e magari oggi finalmente c’è pure il sole.

Ma, di fissare l’appuntamento, non sembra proprio aria. E, come prevedibile, a snobbare il confronto con gli altri due è ancora il ministro dell’Interno. “Un vertice? Io prima di giovedì sera non torno a Roma”, ha detto arrivando al Colle per la cerimonia del 2 giugno. Poi, dentro i giardini del Quirinale, seduto a un paio di tavoli di distanza dal suo collega Luigi Di Maio, si è alzato per un fugace saluto, il primo da quel dì: “Ci vediamo lunedì, martedì”, gli ha detto il leader dei Cinque Stelle. “Ci sentiamo, sì, ci vediamo”, lo ha congedato il segretario della Lega, senza mettere mano all’agenda. Il che significa che se, come sembra, Salvini non dovesse cambiare i programmi che fino alla sera del 6 giugno lo terranno lontano dalla Capitale, lui e Di Maio siederanno allo stesso tavolo come minimo undici giorni dopo il voto che ha ribaltato i ruoli tra i due. A riprova del fatto che il vincitore delle Europee, ormai, tratta il governo come fosse solo roba sua. Ieri, come nei giorni scorsi, ha dettato le priorità: “C’è lo sblocca cantieri, l’autonomia, la flat tax, la Tav, il decreto sicurezza. Io ho già deciso: vado avanti”, ha detto, senza precisare che sulle questioni già all’esame del Parlamento – come lo sblocca cantieri – la Lega ha cambiato marcia, con un emendamento che sospende il codice degli appalti per due anni.

Insiste, il Presidente della Repubblica, nel dire che “soltanto la via della collaborazione e del dialogo permette di superare i contrasti e di promuovere il mutuo interesse nella comunità internazionale”. Ma Salvini ha da finire la campagna elettorale per i ballottaggi – oggi comizia a Tivoli, Nettuno e Civitavecchia – e ha poco tempo da perdere con i chiarimenti. Eppure ci sarebbe anche da far luce sul mistero della bozza della lettera per Bruxelles. Roba da procure, a quanto pare: domani, fanno sapere dal Tesoro, il generale Fabrizio Carrarini, vice-capo di gabinetto del ministro Tria e responsabile della sicurezza cibernetica, depositerà una denuncia per divulgazione di atti secretati e violazione di segreto d’ufficio.

Meloni invitata, ma giù dalla tribuna “presidenziale”

Questione di posizione Giorgia Meloni dalla sua pagina Fb denuncia: “La Trenta mi esclude dalla parata del 2 giugno? Mi dispiace che un ministro confonda le sue simpatie politiche con i ruoli istituzionali e politici. Non ci sarei andata lo stesso perché non posso accettare che le forze armate, orgoglio della nostra nazione, siano derise e sbeffeggiate da un ministro che vorrebbe vedere i nostri soldati fare le torte e non fare i militari”. Dalla Difesa replicano così: “In merito a quanto dichiarato oggi dall’onorevole Giorgia Meloni si precisa che alla segreteria dell’onorevole Meloni, dietro esplicita richiesta della segreteria stessa, sono stati consegnati diversi inviti per partecipare alle celebrazioni del 2 giugno. Inviti ritirati stamani dai suoi collaboratori”. A seguire la spiegazione logistica: “Ricordiamo inoltre che la tribuna presidenziale accoglie le cariche istituzionali, non politiche. Evidentemente l’onorevole Meloni intendeva riferirsi al mancato riscontro ricevuto rispetto alla sua richiesta di sedere, appunto, nella tribuna presidenziale. Non da quest’anno, ma da anni i ‘capi dei partiti politici non ricevono più un invito speciale in virtù di esigenze organizzative”.

Zanotelli: “Macché pacifisti. Questi armano ancora di più”

Padre Alex Zanotelli missionario della comunità Comboniana commenta la “pretestuosa” protesta dei generali che oggi non parteciperanno alla parata: “Voglio ricordare ai generali del gran rifiuto che il 2 giugno è la festa della Repubblica, non quella delle Forze armate. È grave – aggiunge – che adesso i generali si sentano sminuiti o altro. Le Forze armate devono ascoltare la Costituzione che dice che l’Italia ripudia la guerra”. La sua però non è una difesa de della ministra Trenta. Sull’azione del governo il missionario affonda: “Magari fossimo davanti ad un governo pacifista. Il problema però è un altro perché questo governo è assolutamente andato avanti ad armare a più non posso”. Ha poi sottolineato: “ Non vedo un minimo di pacifismo in questo governo. Va detto che ci sono due anime nel governo: Salvini e la Lega, legatissimi alle armi”. Ha poi continuato: “Il M5S che prima parlava di Stato contro le armi e ora non fa nulla. Chi governa però ora è Salvini, non Di Maio. Dunque di che si lamentano i generali? Magari ci fosse un po’ di pacifismo, io vedo invece che si va avanti sulle armi, anche su quelle leggere, di cui si parla pochissimo”.