Dazi, il castigo di Trump si abbatte sul Messico

Doveva essere il mese del “Piano Marshall” per il Centroamerica il patto sul quale Andrés Manuel López Obrador, presidente del Messico aveva puntato la sua leadership americana: un investimento statunitense di 10 miliardi di dollari per lo sviluppo dei paesi americani. Invece, nel giorno dell’inizio dei negoziati del Trattato T-Mec fra Messico, Stati Uniti e Canada, il presidente, Donald Trump, come in copia carbone di quanto successo con la Cina, ha annunciato ieri un castigo per il Messico: dazi progressivi sui prodotti esportati. Si va dal 5 per cento a partire dal 10 giugno, fino ad arrivare al 25 per cento entro il 1° ottobre, “finché il Messico non fermerà il flusso di immigrati illegali”.

Gli Stati Uniti sono stati un “salvadanaio dal quale tutti hanno attinto. Ora però difendiamo gli interessi americani”, ha tuonato The Donald rimarcando la minaccia “abbiamo fiducia nel fatto che il Messico agirà e lo farà rapidamente per aiutare gli Usa a mettere fine a questo pericoloso problema. Noi siamo stati buoni con il Messico per molti anni – ha ricordato – ora chiediamo che faccia la sua parte per fermare l’utilizzo del suo territorio come mezzo attraverso cui l’immigrazione illegale arriva nel nostro paese”. Per poi tornarci su qualche ora dopo adducendo come motivo della sua trovata il traffico di droga. “Il 90% della droga che arriva negli Stati Uniti passa attraverso il Messico e il confine meridionale. Lo scorso anno sono morte 80.000 persone, 1 milione di persone sono andate in rovina”. Fatto sta che l’effetto economico dell’annuncio di Trump è immediato. Il peso è crollato del 2 per cento, in ribasso le borse europee. Piazza Affari ha chiuso al -1,6 per cento trainata dal titolo Fca. A risentire maggiormente dei dazi, infatti, sarà proprio il settore automobilistico, dato che le maggiori compagnie europee, compresa Fiat-Chrisler producono gran parte in Messico. Ma Wall Street non ha fatto eccezione. Il Down Jones ha perso l’1 per cento, il Nasdaq l’1,24. Alto è il prezzo dei dazi anche per gli Usa che nel 2018 hanno importato dal Messico 346,5 miliardi di dollari di prodotti, il rincaro del 5 per cento annunciato da Trump vale più di 17 miliardi di dollari, per arrivare a 86 miliardi con il 25 per cento. La risposta del Messico è stata graduale quanto i dazi, anche se al ribasso. Prima il sottosegretario per l’America settentrionale, Jesús Seade ha assicurato che il Messico dovrà rispondere energicamente, con dazi a specchio. Dichiarazione ricalibrata qualche ora dopo dal presidente Amlo, che ha chiesto un incontro a Trump inviando già dalle prime ore dell’alba una delegazione negli Usa preceduta da una lettera di appello al dialogo. La minaccia degli Usa arriva in una giornata difficile sul piano dell’immigrazione. Si parla del collasso del sistema di accoglienza dei migranti alla frontiera sud a causa dell’arrivo in massa di famiglie con bambini. Le autorità Usa hanno fermato ieri un gruppo di più di mille migranti, finora il più grande ad attraversava illegalmente il confine con il Messico a El Paso, in Texas.

Secondo i dati dell’agenzia di frontiera, da ottobre sono stati individuati 180 gruppi di oltre 100 persone, contro i 13 dell’anno precedente. L’ultimo era composta da 934 persone, 63 minori non accompagnati e 39 adulti soli.

Mentre gli adulti soli possono essere detenuti fino a che si non si esamina la loro situazione – se sono messicani vengono rimpatriati subito – i bambini possono essere trattenuti nei centri di accoglienza non più di 72 ore, poi devono passare sotto la custodia dei servizi sociali per essere alloggiati in case-famiglia, o dati in affidamento negli Usa. Questa situazione sta rendendo sempre più difficili le pratiche, mandando in tilt i centri. Secondo il Washington Post dei 2 mila minori detenuti dalla polizia di frontiera, la metà ha superato il limite di detenzione. Trump deve aver pensato che rendere più tese le relazioni con il Messico potesse essere risolutivo. “È un disastro”, ha fatto sapere Seade.

Kim e lo strano caso dei diplomatici spariti dopo il flop con gli Usa

S

e è vero, e per ora non si sa, è un clamoroso infortunio dell’intelligence statunitense, che non ne avrebbe saputo nulla, oltre che l’atto efferato d’un cinico dittatore, cui il presidente Donald Trump ha conferito statuto e credibilità da leader internazionale. Kim Jong-un, presidente della Corea del Nord, avrebbe epurato e fisicamente eliminato funzionari a suo giudizio responsabili del fallimento del secondo vertice con Trump a fine febbraio ad Hanoi, in Vietnam. La purga sarebbe stata decisa e attuata poco tempo dopo il vertice “abortito”: Trump lasciò il tavolo di lavoro quasi subito dopo i convenevoli di rito del secondo giorno, affermando che non c’erano i presupposti per continuare a discutere. Di epurazioni e fucilazioni parla Chosun Ilbo, il più diffuso quotidiano della Sud Corea, citando fonti dell’intelligence di Seul. L’operazione voluta dal supremo leader non avrebbe risparmiato neanche l’onnipresente sorella minore Kim Yo-jong, protagonista nelle varie fasi di riavvicinamento fra le due Coree e presente anche a Singapore e Hanoi: a lei, sarebbe “stato consigliato di tenere un basso profilo”.

Il capo negoziatore Kim Hyok-chol, inviato speciale del dittatore nordcoreano per le trattative nucleari, sarebbe stato fucilato a marzo, insieme a quattro funzionari del Dipartimento degli Esteri, mentre Kim Yong-chol, ex braccio braccio del leader Kim Jong-un, assente da settimane da eventi pubblici, sarebbe finito in un campo di lavoro e di rieducazione ideologica. Kim Yong-chol, un gerarca di 72 anni, aveva preparato il Vertice discutendo col segretario di Stato Usa Mike Pompeo, nel frattempo dichiarato “persona non grata” al tavolo dei negoziati con la Corea del Nord, e aveva pure incontrato Trump alla Casa Bianca, portandogli una lettera di Kim. Hyok-chol, un diplomatico di carriera, era già stato al centro dell’attenzione mediatica: nel 2017, era stato espulso dalla Spagna, in segno di protesta per i lanci di missili nord-coreani, prima di divenire figura chiave dei negoziati tra Pyongyang e Washington. A Madrid a febbraio ci fu un episodio mai chiarito del tutto: un attacco all’ambasciata, condotto da sedicenti oppositori del regime e, forse, orchestrato dalla Cia. Ancora a marzo, quando probabilmente era già in disgrazia e forse era già stato eliminato, El Confidential, ne tracciava un ritratto da oscuro diplomatico a capo negoziatore. Dopo il fallimento del Vertice di Hanoi, che Trump ha incassato senza farne grossi drammi, e anzi mantenendo l’apertura di credito nei confronti del dittatore, Kim ha invece ripreso a lanciare missili – tre a inizio maggio – e a provocare, in qualche modo, gli Stati Uniti e i loro alleati nella Regione, Giappone e Corea del Sud. Il leader nord-coreano ha pure ostentato le sue frequentazioni con Russia e Cina, con Putin e Xi. E, a dar credito all’intelligence sud-coreana, avrebbe ripristinato i plotoni d’esecuzione per punire alti funzionari del suo regime sleali o inefficienti nel preparare l’incontro con Trump.

Il secondo della serie, è venuto una maionese impazzita. Mentre il primo, a Singapore, nel giugno 2018, era andato bene, a giudizio dei due protagonisti, pur se non ne era scaturito nulla di concreto (la stampa Usa l’aveva contestato al magnate presidente): Trump metteva l’accento sul fatto che Kim avesse accettato il principio di una denuclearizzazione della penisola coreana; Kim s’attendeva che Trump levasse, o almeno allentasse, le sanzioni che gravano sul suo Paese. Cosa che non è mai successa. L’equivoco del “prima tu; no, prima tu” è venuto al pettine ad Hanoi, un appuntamento che aveva colpito gli osservatori internazionali per la repentinità dell’annuncio e dell’allestimento.

Trump, però, non ha mai ammesso pubblicamente d’avere dato troppo credito a Kim, terzo rampollo dell’unica dinastia comunista sulla faccia del pianeta, passando dalla fase degli insulti reciproci, che ne aveva caratterizzato i rapporti fino all’inverno 2018, quando il dittatore nord-coreano era “ciccio bomba” o “rocket-man”, a quella degli elogi per il presidente che “tutela l’interesse del suo Paese”. A inizio settimana, in missione in Giappone, Trump non aveva neppure esitato a prendere a prestito le parole di Kim, appena attenuate, per denigrare Joe Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama, che guida il folto gruppo di aspiranti alla nomination democratica alla Casa Bianca. Una mossa che aveva indignato buona parte della stampa Usa: il presidente, che di questi tempi ha il litigio facile, s’era persino sentito in dovere di fare un tweet di spiegazione. Il Chosun Ilbo e l’intelligence sudcoreana non hanno un record immacolato, in materia di scoop sulla Corea del Nord. È successo, ad esempio, che la stampa sud-coreana, “imbeccata” dagli “spioni” di Seul, desse per spariti o giustiziati personaggi della nomenklatura nord-coreana, poi ricomparsi: fu così per una cantante, che sarebbe stata per un certo tempo la “favorita” del dittatore, e per un capo delle forze armate. Altre volte però ci hanno azzeccato: l’arresto e l’esecuzione di Jang Song-thaek, lo zio di Kim, accusato nel 2013 di tramare con i cinesi, ha poi trovato conferme, anche se il fatto che sia stato sbranato dai cani resta “ai confini della realtà”.

Recanati, la Leopardiland che benedice l’Infinito

L’Infinito di Leopardi compie 200 anni. Mo’ me lo segno, direbbe Troisi, e farebbe bene. Che saranno mai due secoli per l’infinito? Meno di due selfie per Salvini. Ma in questo millennio asfittico e bulimico ogni occasione è buona per celebrare il passato. Mostre, letture in Piazza Sabato del Villaggio, scampagnate al Colle dell’Infinito; ormai la Leopardiland di Recanati ha poco da invidiare al Carnevale di Viareggio. Dopo questo precedente altri vorranno veder celebrati i loro cavalli di battaglia. E I sepolcri? E Il 5 maggio? E La spigolatrice di Sapri?

Perché poi, tra tanti canti immortali, proprio l’Infinito? Lo spiega sul Corriere della Sera Alessandro D’Avenia, autore di Come Leopardi può salvarti la vita: “C’è un’arte di vivere che è l’arte di essere fragili” Ma che davero? Davero davero: “La bellezza ha l’ultima parola e non il nulla”. Excusatio non petita… Ora, non c’è testo leopardiano (Infinito incluso) in cui non si sostenga l’esatto contrario e si irrida ai positivisti della domenica; eppure i nuovi Gino Capponi, i D’Avenia e i Martone (autore del polpettone Il giovane favoloso) tirano dritto. Così l’autore del Dialogo di Tristano e di un amico è rieducato, arruolato al servizio della politically correctness (e in fondo se l’è cavata a buon mercato, a Bizet hanno perfino cambiato il finale della Carmen). Quel cuorcontento di Leopardi, fragilino ma innamorato della bellezza tipo Jovanotti. Ecco come può salvare la vita a noi: cambiando i connotati a lui.

Ma anche Gesù era “comunista” come questo papa?

“Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”

(dalla prima Esortazione apostolica “Evangelii gaudium” di papa Francesco, promulgata il 24 novembre 2013)

C’è soltanto un metro per giudicare legittimamente, da credenti o non credenti, questo Papa “venuto dalla fine del mondo” e sottoposto ormai a critiche più o meno velate, dall’interno o dall’esterno della Chiesa, sul web e perfino sui social network. È quello di valutare i suoi atti, le sue scelte e i suoi comportamenti in rapporto al Vangelo e alla predicazione di Cristo. È in quei quattro libri, scritti da Matteo. Marco, Luca e Giovanni, che sono impressi a caratteri indelebili i canoni della fratellanza umana, della solidarietà e della giustizia sociale.

Ma il Vangelo è un testo troppo rigoroso e impegnativo per essere applicato ogni giorno e in ogni momento dal popolo dei cristiani, compresi i prelati, i vescovi, gli arcivescovi e i cardinali. Tant’è che la stessa dottrina cattolica contempla il percorso del peccato, del pentimento e del perdono, attraverso il sacramento della confessione. E tuttavia, perfino nell’accezione più comune e più laica, il Vangelo resta – per così dire – lo Statuto della comunità cristiana, il Verbo che non si può contraddire o contestare. La Parola del Signore.

Chi critica dunque papa Bergoglio per i suoi continui e pressanti richiami a quei valori fondamentali, fino al punto di bollarlo come un “comunista”, si colloca fuori o contro il Vangelo. E chi, nelle segrete stanze della Curia romana, ordisce piani o complotti per delegittimarlo e indurlo alle dimissioni, rinnega di fatto la predicazione di Cristo. Anche lui, allora, era come Francesco un “comunista”, un rivoluzionario, un sovversivo?

Bisogna leggere il saggio fresco di stampa di Marco Politi, pubblicato da Laterza sotto il titolo La solitudine di Francesco, per rendersi conto di che cosa sta accadendo intorno alla sua figura nel mondo cattolico e in quello politico, dopo le riforme di Bergoglio, la difesa dell’Ambiente in nome di un nuovo modello di sviluppo economico-sociale, la “guerra santa” alla pedofilia e agli abusi dei vescovi omosessuali. Già il sottotitolo del libro Un papa profetico, una Chiesa in tempesta riflette una situazione a dir poco tesa e inquietante. È proprio in questo quadro che s’inseriscono certe polemiche politiche contro Bergoglio: tanto più rilevanti perché, a quanto risulta da una recente indagine di Ipsos Italia, alle ultime Europee un cattolico praticante su tre ha votato per la Lega, passata in un anno da quarto a primo partito tra i frequentatori abituali della messa.

Ora, come dice il Vangelo, scagli la prima pietra chi è senza peccato. E non sarà un ex alunno dei Gesuiti a fare una difesa d’ufficio del primo Papa in tutta la storia della Chiesa che proviene da quella Compagnia. Ma si fa fatica a riconoscere nella retorica e nella propaganda di Matteo Salvini lo spirito evangelico della predicazione “umanista” di Cristo. Di colui cioè che difendeva i poveri e gli “ultimi”, scacciava i mercanti dal tempio e perdonava l’adultera o la prostituta.

C’è solo da consolarsi all’idea che, se sono esatti i dati dell’Ipsos, due cattolici su tre non votino per il Carroccio. Ma intanto chi va a messa la domenica deve sapere di essere circondato ormai da elettori e fedeli leghisti. “Scambiatevi un segno di pace”, dice il sacerdote prima della comunione eucaristica. Sarà opportuno farlo sempre più con maggiore sobrietà.

Cannabis light, vietare aumenta le dipendenze

La mossa di Salvini, chiedere la chiusura dei negozi che vendono cannabis light, giovedì avvalorata dal pronunciamento della Cassazione, obbedisce a un duplice scopo. Da un lato sposta l’attenzione oltre la siepe per distogliere l’attenzione dalle buche nel giardino vuote di reali proposte politiche nel merito. Al contempo gli permette di mettere in pratica una politica che alimenta e cavalca ondate neoproibizioniste con venature religiose le quali hanno facile presa su di una nazione mai realmente liberata da dogmi confessionali (si pensi alla vicenda Englaro).

Salvini sa di governare un Paese nel quale, anche nelle città amministrate dalla sinistra, è assai in voga il lessico proibente: vietare, limitare, nascondere, ridimensionare qualcosa di “illecito” e perturbante la morale perché segretamente oggetto delle brame dei cittadini stessi. Dal gioco d’azzardo alla droga, sino alla prostituzione. Il Carroccio, messo dapprima culturalmente in scacco dall’alleato pentastellato che ha pensato e prodotto, forse in maniera imperfetta, diverse azioni legislative laiche e prive di pruderie madonnare, si prende la sua rivincita giocando le carte migliori che possiede: non bere, non giocare, non ti drogare, non ingrassare, non fumare, non fare il bullo. Prega. Salvini, come già Renzi, però non sa, o finge di non sapere, che il lessico politico mescolato con quello clinico porta sovente a risultati non felici. L’uso della legge per vietare un comportamento ritenuto dal senso comune “dannoso” ma gratificante per il soggetto, quello che si definisce godimento, ottiene l’effetto di renderlo più allettante. Lo psicoanalista Francois Leguil dice: “Proprio perché fa male al suo corpo berrà di più, ed è ciò che ha di umano. È lì che i medici si sbagliano: ciò che l’uomo ha di umano sono i suoi eccessi, il modo in cui nuoce alla salute”. Chi si occupa di clinica, ha ben chiara una cosa: nessuna dipendenza, quando è così legata alla contemporaneità, può essere contrastata ex lege, andando alla ricerca di chi ne “istiga” lo sviluppo favorendo la vendita di sostanze psicotrope, ancorché depotenziate come nel caso della cannabis light. Anzi, venderla dal tabaccaio era forse uno dei pochi tentativi di erodere i colossali guadagni che la malavita fattura grazie al monopolio delle sostanze psicotrope. Un governo che si erge a “buon padre di famiglia” avrebbe dovuto intravedere in queste piccole crepe del proibizionismo quel pertugio da allargare per poter strappare alle mafie qualche spicciolo dei loro guadagni. Ma ci sono altre regioni da espugnare nei prossimi mesi.

Rifondare la sinistra per riempire le urne

Esattamente come nel 2014, il dato più rilevante che emerge dalle urne delle Europee viene sistematicamente rimosso dal dibattito e, ciò che è più grave, dalla coscienza politica e dal senso comune: l’astensione. Come allora per l’effimero “trionfo” di Renzi, oggi per quello di Salvini e per la presunta resurrezione del Pd, tutte le stime vanno esattamente dimezzate. E anzi: se nel 2014 l’astensione fu pari al 41,3% (circa 20,3 milioni di elettori), e fu il record negativo di sempre in Italia, oggi siamo arrivati al picco del 43,7 % (non hanno, cioè, votato, 21 milioni e mezzo di cittadini), con punte oltre il 60% in Sicilia e in Sardegna.

Tutto questo significa che sul 100% reale degli aventi diritto al voto, la Lega ha il 19% dei consensi (Renzi nel 2014 ne aveva il 23,3%), il Pd il 12, il Movimento 5 Stelle il 9: questi i numeri che si dovrebbero citare quando si parla del consenso presso “gli italiani”. Mai il primo partito d’Italia aveva avuto così “pochi” voti. Ed è qui forse la chiave per interpretare il risultato. Non per ridimensionare lo choc del successo della destra estrema razzista e venata di esplicito neofascismo di Salvini, cui si devono sommare i voti ai Fratelli, per ora separati, d’Italia: in un blocco complessivo di 10.901.397, che include cioè un italiano su 4,7.

Al contrario, per contrastarlo parlando alla stragrande maggioranza che non li vota: anzi, che non vota proprio. E cioè per provare a riavvicinare l’Italia al resto d’Europa, dove non hanno affatto vinto le destre (nonostante l’impresentabilità dell’establishment e delle politiche europeistiche popolari e socialiste), ma semmai i Verdi (con 70 seggi contro 58 all’Europarlamento).

Vista da sinistra, la domanda è: esiste una forza in grado di contrastare questa destra con una visione davvero alternativa, e con la capacità di costruire consenso, riportando al voto almeno un 10% di coloro che si sono astenuti domenica scorsa? La risposta è no: attualmente non c’è.

Ed è questa assenza, non le dimensioni dell’attuale consenso (potenzialmente volatile), la vera assicurazione sulla vita di Salvini. Né il Movimento 5 Stelle né il Partito democratico sono stati in grado di proporre una visione dell’Europa, dell’Italia o di alcunché che riuscisse a tener testa alla distopia nera di Salvini. Perché la visione di futuro che ha quest’ultimo è certo mostruosa, ma c’è: mentre dall’altra parte non si trova nulla, se non la consacrazione dell’orrendo stato delle cose (Pd), o un confuso balbettìo che dice tutto e il suo contrario (5 Stelle).

La strategia renziana del pop corn ha funzionato, ma in modo diverso dal previsto: la scelta del Pd di mandare al governo i grillini e i leghisti ha ucciso i primi (è vero), ma ha premiato Salvini, non il Pd. Un vero capolavoro. Di tutte le panzane post-elettorali quella più incomprensibile riguarda proprio la presunta “resurrezione” dei Democratici: che perdono non solo oltre 5 milioni di voti rispetto alle Europee del 2014, ma addirittura altri 116.000 rispetto al tragico 4 marzo 2018. Non c’è stato, dunque, nemmeno il “rimbalzo del gatto morto”: la metafora giusta è semmai che, arrivati al fondo, si è cominciato a scavare. Il che significa che la “calendizzazione” del simbolo e della identità del partito di Zingaretti è stata l’ennesimo suicidio annunciato.

I 5Stelle hanno pagato in un epocale bagno di sangue (oltre sei milioni di voti in 14 mesi) la loro spaventosa virata a destra: da argine si sono fatti fiume, e di fronte ai servi sciocchi di Salvini, gli elettori di destra del Movimento hanno preferito votare direttamente il padrone. E il grottesco miniplebiscito su Rousseau che dovrebbe aver rimesso in sella Di Maio è il più evidente segno di una definitiva perdita di lucidità che rischia di essere fatale non al capo politico (già, nei fatti, finito), ma al Movimento.

Della cosiddetta Sinistra, già morta il 4 marzo 2018, non mette conto parlare: ha preso meno voti delle schede nulle, e se questo ceto politico di sabotatori non si decide a trovarsi un lavoro fuori dalla politica, rimane solo da spargere il sale su macerie già da sole, comunque, infeconde.

In conclusione, credo si avvicini il momento in cui dovrà nascere a sinistra un partito radicalmente nuovo, capace non di parlare agli attuali votanti, ma di riportare alle urne un popolo che pensa e fa “politica” di sinistra ogni giorno, ma non vota più. Un partito capace di infilare una lama nella contraddizione della Lega, che prende i voti dei poveri ma sostiene per intero il dogma liberista che li terrà poveri per sempre. Un partito che riattivi un conflitto sociale ricchi-poveri, togliendo terreno a quello tra poveri bianchi e poverissimi neri costruito da Salvini.

Un partito che lotti per poche cose: ambiente, patrimoniale, diritto alla salute, al lavoro vero e all’istruzione. Un partito che (per ora) non c’è.

Non è un Paese per Verdi:
senza leader non si vince

È singolare che, a stretto giro di posta, due dei segretari/portavoce dei Verdi Arcobaleno (l’inizialmente radicale Rutelli) e dei Verdi unificati (il Lottacontinuaro Manconi) intervengano a giustificare l’insuccesso di cui sono artefici. Osservatori oggi, responsabili di vertice ieri. Mancano solo il demo-proletario Edo Rochi (uno che, tuttavia, qualcosa come ministro ha saputo fare), l’inquisito (radicale) Pecoraro Scanio (chissà com’è finita), e la wweffina Grazia Francescato (gli elettori sono ignoranti).

Non è purtroppo possibile richiamare in vita Ripa di Meana, ex socialista, forse uno dei migliori.

L’insuccesso dei Verdi in Italia è tutto in questi inadeguati responsabili, cui ne potremmo aggiungere altri: a cominciare dal lottacontinuaro, socialista, radicale Marco Boato, ancora oggi devastante ispiratore delle politiche elettorali ambientaliste, interpretate in scena da Angelo Bonelli o dal comico portavoce Giobbe Covatta.

Intendiamoci, tutte persone eccellenti per storia e profilo personale. Ma che poco avevano, nè hanno mai avuto a che fare, con il mondo ambientalista militante: quello che sui territori agisce, mette la faccia, combatte ogni giorno, istruisce ricorsi al Tar per tutelare l’ambiente.

Quelle persone sono state incapaci di stabilire un rapporto vero con la base ambientalista.

Semmai lo hanno fatto con i vertici, proponendo loro le candidature nell’illusione di cogliere così anche il consenso dei militanti. In tanti sono saliti sul carro dei Verdi quando sembrò capace di andare avanti.

Sono loro che lo hanno fermato e poi abbandonato, e ne sono scesi.

Riconfermando i loro fallimenti e pronti a intercettare nuovi carri di salvezza personali.

Che oggi vengano a farci supponenti analisi e dare indicazioni per le prospettive dell’ambientalismo politico italiano, suona come bestemmia. Sarebbe stato meglio mantenere un dignitoso silenzio.

Melquiades

Regionalismo differenziato,
minaccia per l’Italia unita

Non è un segnale positivo che Matteo Salvini, formalmente un politico nazionale, ma sostanzialmente nordista, abbia avuto un vasto consenso anche nel Sud. Ora, forte della vittoria, comincia a fare la voce grossa e ad imporre più di prima il suo programma ai grillini.

Una delle priorità è il regionalismo differenziato, che ha già smantellato il sistema sanitario nazionale con ricadute pesanti per i cittadini meridionali, i quali, per curarsi, si spostano al Nord. Dopo i referendum, Lombardia e Veneto già reclamano competenze in altri importanti settori. Sarebbe un grosso errore sottovalutare i rischi che l’autonomia regionale comporta per l’unità del Paese, faticosamente e miracolosamente raggiunta, e per la difesa dei principi di solidarietà e di uguaglianza, base della Costituzione.

Domenico Mattia Testa Itri

M5S, il ricambio in politica richiede più tempo

L’Italia, inflazionata dai tromboni della politica, necessitava da tempo di un ricambio generazionale per vari e seri motivi. Col M5s il ricambio che c’è stato, pur con qualche risultato negativo… Non ci si poteva certo aspettare dei “falchi”! Sono convinto che si riprenderanno: l’inesperienza ha posto necessariamente dei paletti.

Inoltre, nel Movimento è entrato tutto lo scontento dell’arco costituzionale, con il caratteristico forte sentimento sociale, ormai inesistente all’interno dei partiti tradizionali. E proprio tale sentimento sarà la spinta del rientro.

Roberto Centracchio

Protesta dei pastori sardi:
meglio la gestione autonoma?

Per quanto riguarda la protesta del latte dei pastori sardi, lo Stato è ora disposto a stanziare quasi 30 milioni di euro per coprire le eccedenze della produzione di pecorino romano. Ma, se ci sono a disposizione tutti questi milioni, credo che sarebbe più opportuno e utile dare questi soldi ai pastori per creare delle cooperative gestite direttamente da loro e non dagli industriali, che fanno i loro interessi e che magari poi utilizzano latte di provenienza estera.

Questi nuovi caseifici potrebbero puntare sulla qualità e sul marchio del pecorino, che è un’eccellenza della Sardegna.

Un modello applicabile anche ad altre categorie: ad esempio, per chi produce grano in Sicilia.

Rossella Beccalossi

Con riferimento ad alcune notizie di queste ore, preciso che Fabrizio Centofanti non lavora più con me, in Acqua Marcia, dal 5 marzo 2012. In questi sette anni il gruppo Acqua Marcia, che all’epoca dava lavoro direttamente a circa 2.500 persone e indirettamente a 10.000, è stato distrutto in seguito a un’iniziativa di un pubblico ministero che si è poi rivelata completamente infondata, ma che ha causato immense sofferenze umane e danni economici, oltre che una vera e propria gragnola di procedimenti giudiziari. Con soddisfazione posso rivendicare di essere stato prosciolto in tutti i procedimenti giudiziari che si sono conclusi.

Tengo a precisare, inoltre, che non sono mai stato arrestato per frode fiscale, e tantomeno l’anno scorso, come erroneamente riportato da alcuni giornali.

Francesco Bellavista Caltagirone

Roma, Totti e DDR Mr. Pallotta non cede Ma se ci fosse lui dietro la “polpetta”?

Sono una tifosa romana e romanista. E ho una certa età per capire che quando si parla di calcio non c’entra più lo sport, ma è la finanza e la politica a decidere le sorti del pallone. Sinceramente, questa storia torbida di corvi e veleni che ha messo contro i miei due capitani, Totti e De Rossi, non riesco proprio a capirla. E ancor meno credo alla lettera che il presidente Pallotta ha scritto a noi tifosi: dovrebbe tranquillizzarci il fatto che non abbia intenzione di vendere la squadra? Penso, e mi augurerei, che un emiro la comprasse per renderci nuovamente competitivi. Non credo che la colpa sia di Monchi e non credo alla difesa di ufficio di Pallotta nei confronti dell’ex mister Di Francesco, di De Rossi e di Totti. Forse si è trattato solo di una polpetta avvelenata, perché da anni si è capito che quella benedetta palla deve rotolare sul campo di un altro stadio che non è l’Olimpico?

Raccapezzarsi nelle trame dell’ultima, cruenta, truculenta telenovela giallorossa non è per niente facile; specie se chi è chiamato a rispondere all’inchiesta di “Repubblica”, dando la propria versione dei fatti, è un presidente – Pallotta – che in forte sospetto di essere il mandante del polpettone avvelenato (“Il popolo mi ha messo in croce per l’addio di De Rossi? E io gli rovino De Rossi e già che ci sono anche Totti e mezzo mondo Roma”) prima definisce le rivelazioni di “Repubblica” cazzate e poi dice di aver letto meglio e di aver capito che no, le cose scritte non sono cazzate, molte sono vere e alcune, forse, discutibili. Manco si fosse parlato di noccioline e non di trame segrete, insubordinazioni e pugnalate alle spalle tra i massimi rappresentanti del club, visto che si parla di Fienga (Ad), Monchi, Totti, Di Francesco, De Rossi, Dzeko, Kolarov, Manolas e dei responsabili dello staff medico: la Roma a 360 gradi, insomma. I trofei della Lazio (l’ultimo: la Coppa Italia vinta contro l’Atalanta) contro gli “zero tituli” della Roma pallottiana; la rivolta popolare per l’addio a capitan De Rossi che tutto il mondo celebra; Pallotta evidentemente non ha retto. E comunque, allargando la visuale, bene che in questa pazza estate calda del calcio vengano alla luce verità indicibili e inconfessabili: Nedved odiava Allegri e ne ha ottenuto la testa da Agnelli; Leonardo odiava Gattuso – e Gattuso Leonardo – e Gazidis ha fatto rotolare le teste di entrambi (la prossima volta pensino a lavorare meglio); l’Inter detesta la Juve e si trasforma, con Marotta e Conte, in una Juve 2; e in quanto a De Rossi e Totti, dispiacerà saperlo ma non erano affatto pappa e ciccia. Tutti li amavano: loro due no.

Una legge per chi spara in casa o in negozio: il rischio Far West

Con la riforma, approvata a marzo, vengono allargate le maglie del principio di proporzionalità tra offesa e difesa e si restringe la discrezionalità del giudice che deve valutare, appunto se la difesa fosse lecita. Si riconosce “sempre” la sussistenza della proporzionalità tra offesa e difesa se chi è “legittimamente” in una casa o in un negozio “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Affinché scatti la legittima difesa, insomma, non è neanche necessario che il ladro abbia un’arma in mano, ma è sufficiente la sola minaccia di utilizzare un’arma e non è necessario che la minaccia sia espressamente rivolta alla persona che poi “spara”. Nel promulgare la legge, il presidente Mattarella ha inviato un messaggio ai presidenti delle Camere e al premier per ricordare che l’Italia non può diventare il Far West e che sono le forze di polizia a dover garantire la sicurezza.

Il “Ni” al tunnel inutile e costoso in Val di Susa: tre mesi all’ora X

Se ne parla da decenni, ma alla fine del grandioso progetto dell’alta velocità da Lisbona a Kiev è rimasto solo il buco in Val di Susa. Nel contratto di governo – essendo il M5S No Tav e la Lega Sì Tav – c’è una formula anodina, buona per ogni scelta. Il ministro Toninelli ha reso pubblico a febbraio il lavoro di una commissione di esperti sulla Torino-Lione: lo studio – criticato, ma realizzato secondo gli standard scientifici internazionali – certifica la non convenienza della costosa linea ferroviaria. In numeri, “il saldo tra i costi e i benefici risulta pari a -6,9 miliardi”. L’opera, però, non è stata bloccata: Conte si è preso il dossier con l’idea di aprire una discussione (senza sviluppi finora) con Francia e Ue. Nel frattempo, sono arrivate alla società italofrancese Telt le “manifestazioni di interesse” delle aziende che vogliono costruire il Tav: tra tre mesi dovrebbe partire la gara vera e propria, ma l’accordo è che prima si aspetti il via libera di Roma e Parigi. L’aria che tira, specie dopo le elezioni, è che si farà.