Per una volta l’Italia resiste al golpe Usa in Sudamerica

Acosto di far arrabbiare sua maestà Donald Trump (ma meno che per la firma del memorandum con la Cina), l’Italia ha mantenuto una posizione autonoma e ragionevole sulla crisi venezuelana e questo grazie al M5S (Salvini è appiattito sulle richieste Usa). A gennaio, com’è noto, il Parlamento di Caracas ha proclamato Juan Guaidó presidente per 30 giorni (il tempo di indire le elezioni) e dichiarato decaduto Nicolas Maduro, rieletto in elezioni giudicate regolari dagli osservatori internazionali solo pochi mesi prima: la manovra dell’opposizione – in accordo con la destra conservatrice americana – era quella di far sollevare l’esercito contro Maduro con l’aiuto sul campo, se del caso, degli Stati Uniti (un classico golpe sudamericano). I Paesi Nato, anche quelli Ue, si sono schierati con Trump nel dare inutili ultimatum al governo venezuelano, l’Italia ha preso una posizione più moderata: accordo tra le parti per convocare nuove elezioni, rifiuto di ogni ipotesi di intervento militare.

Una grande misura anti-povertà, ma limiti e problemi sono molti

Il M5S lo aveva promesso e l’ha realizzato: con oltre 7 miliardi stanziati è la più grande misura anti-povertà mai introdotta in Italia (se ne discuteva dal 1996, primo governo Prodi). Il numero di persone coinvolte, sulla base dei dati disponibili, dovrebbe essere intorno ai 2,5 milioni. Le card e i pagamenti sono arrivati nei tempi promessi, tre mesi dopo l’approvazione. Però i problemi non mancano. Tutta la parte di “politiche attive” per riqualificare e trovare un lavoro ai beneficiari non è ancora partita e ci vorranno diversi mesi. Molti sono rimasti negativamente sorpresi dall’entità della somma ricevuta. Fin dal primo progetto di legge, nel 2013, è sempre stato chiaro che il sussidio sarebbe stato un’integrazione al reddito fino alla soglia di 780 euro. Ma i 5 Stelle hanno ripetuto così spesso che valeva 780 euro che in tanti si erano convinti di aver diritto a quella somma. La struttura del provvedimento, inoltre, è sbilanciata a favore dei single mentre penalizza le famiglie numerose e quelle di soli stranieri.

Una finestra per la pensione: le adesioni sono 1/3 del previsto

La legge Fornero sulle pensioni, nonostante le promesse in particolare di Salvini, è ancora lì, ma è stata approvata la cosiddetta “Quota 100”: in sostanza dal 1° aprile 2019 alla fine del 2021 potrà andare in pensione “anticipata” chiunque, avendo compiuto 62 anni, ne abbia versati almeno 38 di contributi (62+38=100). Il problema è che – vigente la legge Fornero – l’assegno risulta assai basso (più si è “giovani”, peggio è). Dal 2022, secondo le intenzioni del governo, ci sarà “quota 41”: vale a dire che con 41 anni di contributi si potrà andare in pensione anticipata a prescindere dall’età anagrafica. Le domande finora non sono state quelle attese: la platea dei “quota 100”, secondo la Cgil, alla fine sarà di circa 325 mila persone, circa un terzo di quella stimata dal governo (e con bassi tassi di sostituzioni da parte delle imprese). Se così fosse, dei quasi 21 miliardi in tre anni stanziati per le pensioni nella legge di Bilancio, verrebbero spesi meno di 14 miliardi.

Nemmeno i gialloverdi sono sfuggiti alla via crucis bancaria

Dopo aver promesso “basta soldi alle banche”, il governo gialloverde è ripartito da dove erano rimasti i predecessori. Ha stanziato 3 miliardi per garantire la liquidità e 1,3 per un’eventuale nazionalizzazione della traballante Carige, commissariata dalla Bce. Dopo la fuga dell’unico compratore ventilato, BlackRock, il salvataggio modello Mps sembra l’unica via, ma Francoforte e Bruxelles sono contrari. Per questo si cerca di spingere il settore a tassarsi per soccorrere l’istituto (senza successo) o solleticare potenziali compratori con la leva fiscale (ma serve l’ok Ue). Le pene più severe per i banchieri non sono mai finite nel decreto e finora il “cambiamento” s’è visto in una mini-revisione della riforma delle Bcc, utile solo agli istituti trentini, uno scudo anti-spread per le piccole banche e l’istituzione di una nuova bicamerale d’inchiesta, che però richiederà tempo. In legge di Bilancio sono arrivati anche 1,5 miliardi per rimborsare i 300 mila piccoli investitori travolti dai crac bancari.

Norme dure contro le mazzette e più trasparenza per la politica

Introduce delle vere e proprie novità: Daspo per i corrotti, sconto di pena per chi collabora, carcere senza pene alternative per i condannati, agente sotto copertura, regole stringenti per le donazioni a partiti e annessi. E blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado sui reati commessi dal 1° gennaio 2020. Il Daspo è il divieto a vita di contrattare con la P. A. e dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i corrotti condannati almeno a due anni di pena. Per la corruzione impropria, aumentate le pene. Finalmente si prevede l’agente infiltrato, finora previsto solo per alcuni reati come il traffico di droga. Cadono i paletti per l’uso del Trojan (captatore informatico) nelle intercettazioni, se il reato prevede una pena massima “non inferiore a 5 anni”. Dovrebbero diventare più trasparenti i contributi elettorali, le donazioni a partiti e fondazioni. Obbligatorio pubblicare online i nomi di chi dona più di 500 euro all’anno. Pensando a Mafia Capitale, c’è pure il divieto di finanziamento per le coop sociali.

In sostanza è un binario morto, ma Toninelli alla fine ha ceduto

Il Terzo Valico, 52 km di alta velocità ferroviaria da Genova a Tortona, è la dimostrazione plastica dell’imbuto chiamato grandi opere in cui si sono ritrovati i 5 Stelle. È la prima sottoposta all’analisi costi-benefici, che l’ha giudicata uno spreco di denaro pubblico. Eppure il ministro Toninelli ha dato lo stesso il via libera perché l’analisi tecnico-giuridica mostrava il rischio di pagare “penali” per 1,2 miliardi. Che l’opera sia inutile, però, lo sanno tutti. Costa 6,2 miliardi, ma senza collegamento per Milano è un binario morto: sono altri 100 km che porterebbero il conto a 20 miliardi (finora ne hanno spesi 1,5). M5S, da sempre contrario, ha ceduto alla Lega, da sempre pasdaran dell’opera, forse nella speranza di ottenere in cambio lo stop al Tav. Gentilezza non ricambiata. E così una grande opera inutile si farà solo perché costa fermarla. Ma il vero motivo è che colpirebbe i costruttori Salini-Impregilo e Condotte, aziende assai amate dai politici, ricambiati con affetto. Un legame che neanche il M5S ha saputo spezzare.

Nomi a bagnomaria per mesi: sui “servizi” ci voleva prudenza

Oltre ai retroscena giornalistici, ci sono le cose serie di cui si occupa la politica, come la sicurezza nazionale. Per lunghi mesi, da agosto, il governo gialloverde ha lasciato sull’uscio i vertici dei servizi segreti, Alberto Manenti dell’Aise (l’agenzia per l’estero) e Alessandro Pansa del Dis (il coordinamento a Palazzo Chigi), entrambi prorogati di un anno dal governo di Paolo Gentiloni e in scadenza ad aprile 2019, ma sostituti il 21 e il 22 novembre dopo la conferenza di pace per la Libia di Palermo. Il premier Giuseppe Conte ha tenuto per sé la delega all’intelligence, ma non l’ha esercitata appieno nella gestione delle nomine di Aise e Dis che, a differenza del chiacchiericcio che imperversa in politica, richiedono equilibrio e prudenza. Il pessimo approccio si ripete con la scelta dei nuovi vice di Luciano Cara (Aise) e Gennaro Vecchione (Dis): se ne parla da settimane (senza smentite ufficiali) con il concreto pericolo di indebolire la struttura e chi è in carica.

Troppe promesse, ma alla fine il M5S deve cedere sul gasdotto

Igrillini con forte radicamento al Sud, soprattutto in Puglia (vedi ministro Lezzi), avevano promesso di fermare il gasdotto Tap, una volta al governo. Ma nel giro di pochi mesi, il premier Conte si è convinto che non era possibile. Incoraggiato anche da Donald Trump, interessato a ridurre la dipendenza dell’Italia dal gas russo, Conte ha schierato il governo sulla posizione della continuità. Non tanto per le penali miliardarie agitate da molti. Quanto perché l’accordo intergovernativo tra Italia, Grecia e Albania del 2013 non lascia possibilità di interrompere un progetto già avviato e contestato soltanto nel suo sbocco finale, a Melendugno. Che il contesto fosse quello era noto, ma i 5 Stelle pugliesi avevano promesso di fermare comunque l’opera. Non è andata così. Il governo ha confermato il progetto e rinnovato il mandato a Marco Alverà che con Snam, partecipata dal Tesoro, è tra gli azionisti del consorzio Tap. La scelta del governo non sembra aver lasciato strascichi duraturi (almeno fuori dalla Puglia).

Effetto contenuto e “furbetti”: la tassa al 15% per le partite Iva

Voluto dalla Lega, viene inserito nella legge di Bilancio l’ampliamento dell’imposta forfettaria al 15% agli autonomi con redditi sotto i 65 mila euro. Salvini spiega che professionisti e imprenditori che beneficeranno del regime saliranno dal 19 al 36% nel 2019, fino al 44% nel 2020. Ma il trattamento di favore ha creato iniquità, incentivato l’evasione e ha avuto poco successo. Nel primo trimestre 2019 sono state aperte 19 mila partite Iva in più, ma molte sembrano solo una “riconversione” alla più vantaggiosa partita Iva individuale: ex soci di studi professionali, ad esempio, che si sono messi in proprio per godere della flat tax. Non si tratterebbe, quindi, di nuove energie imprenditoriali sommerse che avrebbero colto l’opportunità del nuovo sistema di tassazione: basti citare l’aumento delle partite Iva tra ex dipendenti e over 65. L’elemento più iniquo, però, è un altro: i redditi da partita Iva, se inferiori a 65mila euro, non si cumulano con gli altri da lavoro e pensione e sono tassati comunque al 15%.

I “piccoli” danno 21 miliardi, ora però Salvini vuole “maxi-sconti”

Il decreto fiscale d’autunno verrà ricordato per il caso della “manina”: Di Maio accusa Salvini di aver inserito all’ultimo momento delle norme sul condono e sullo scudo fiscale per i capitali all’estero. Conte blocca tutto e nella nuova versione salta anche la dichiarazione integrativa speciale che consentiva di dichiarare fino al 30% in più di quanto già comunicato al Fisco, con un tetto massimo complessivo di 100 mila euro di imponibile per anno d’imposta su 5 anni. Teoricamente erano regolarizzabili posizioni fino a mezzo milione di euro. Il messaggio resta però lo stesso: no alle “manette agli evasori”, sì a una misura dalle maglie e dalla platea larga, tanto che la pace fiscale e le varie rottamazioni (cartelle, multe, saldo e stralcio) dovrebbero far arrivare nelle casse dello Stato circa 21 miliardi di euro in 5 anni, mentre la rottamazione ter è in attesa della riapertura dei termini. Ora, al grido di “pace fiscale”, Salvini ha fatto sapere di essere intenzionato a riproporre un maxi-condono al 20%.