Col decreto Salvini n. 113 del 4 ottobre 2018 si abolisce la protezione umanitaria che affiancava l’asilo e la protezione sussidiaria. Si amplia fino al furto aggravato l’elenco dei reati per cui gli stranieri perdono il permesso anche prima della condanna definitiva, si escludono i richiedenti asilo dall’accoglienza negli Sprar, si prolunga da due a sei mesi la detenzione amministrativa ai fini del rimpatrio e si prevede per reati gravissimi la revoca della cittadinanza italiana ottenuta dallo straniero. L’effetto è l’espulsione dal sistema di accoglienza di 60 mila stranieri (erano 171 mila nell’aprile 2018, 112.900 ieri) e la trasformazione in irregolari di decine di migliaia di stranieri già in Italia 40 mila al marzo 2019 secondo stime Ispi). Aumenta insomma l’esercito dei senza diritti (3/400 mila secondo le stime più accreditate) che possono solo lavorare in nero o delinquere. Quasi impossibili i rimpatri senza costosi accordi con i Paesi d’origine: 2530 al 19 maggio; erano stati 7383 nel 2017 e 7981 nel 2018.
Festa sul balcone, poi il governo costretto a mezzo dietrofront
Non fosse per la festa sguaiata sul balcone di Chigi e la frase “abbiamo abolito la povertà” (Di Maio), il Def di settembre aveva una sua ragionevolezza: abbandonare le fallimentari politiche di consolidamento fiscale e provare a ridurre il peso del debito sul Pil via crescita (il famoso deficit al 2,4%). In realtà già quel Def era un compromesso tra i desiderata di Lega e M5S e quelli del ministro Tria (e del Colle): il disavanzo saliva per un anno, promettendo poi di ridurlo. Com’è noto, il governo dopo un lungo scontro con Bruxelles ha dovuto cedere e accettare un deficit 2019 al 2%, una serie di tagli lineari alla spesa e la messa nero su bianco che – in assenza di interventi – l’Iva aumenterà dal 2020 (cosa che tutti escludono): alla fine poco per spingere la crescita, ma abbastanza per scatenare un conflitto che ha fatto fibrillare i mercati e spinto le imprese a temporeggiare in attesa di capire cosa sarebbe successo. Quest’anno si replica, ma nel frattempo la frenata della crescita mondiale ha inguaiato anche l’Italia.
Niente chiusura, ma c’è lo stop all’impunità e una nuova Aia
Sull’Ilva, M5S ha affrontato un feroce bagno di realtà. In campagna elettorale ne aveva promesso la riconversione, poi i quasi 14 mila dipendenti, i rischi per un pezzo dell’industria l’hanno spinto al dietrofront. Dopo aver contestato, non senza ragioni, la gara imbastita dal predecessore Carlo Calenda, alla fine Luigi Di Maio ha ceduto alla vendita ad Arcelor Mittal strappando un accordo migliore, sia sugli esuberi che sul piano ambientale, con l’ulteriore anticipazione degli interventi. Il piano, però, va a rilento. Arcelor ha gestito senza trasparenza le assunzioni e fermato l’aumento della produzione, che contava di portare a 6 milioni di tonnellate nel 2020, per far fronte a difficoltà del mercato. Oggi al M5S resta la gestione di decisioni prese anni fa e il contraccolpo mediatico. Che oscura anche i risultati ottenibili, come la fine del “salvacondotto” penale e l’avvio dell’iter che porterà a una nuova Autorizzazione integrata ambientale più stringente, peraltro concordati con Arcelor.
Bene la prima reazione, poi sono arrivati problemi e retromarce
Gli applausi al governo durante i funerali di Stato delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi a Genova furono il riconoscimento che la prima reazione fu quella giusta: chi ha in gestione da molti anni una infrastruttura pubblica – Autostrade, cioè Atlantia, cioè i Benetton – deve come minimo occuparsi della sua sicurezza e ne è responsabile. Tener fuori Autostrade dalla ricostruzione e imporgli di ripagare i danni è dunque cosa buona e giusta, ma annunciare con sicumera la revoca della concessione e poi far finta di nulla avviando un carteggio infinito con l’azienda sa molto di “vorrei ma non posso” (lo stesso, senza le vittime, che sta capitando col gruppo Toto e le autostrade abruzzesi). Quanto alla ricostruzione del ponte, il decreto per Genova – che ha nominato il sindaco Bucci commissario – è arrivato con qualche ritardo, ma stanzia fondi sufficienti: ora, però, sono iniziati gli inevitabili problemi tecnici e la consegna – contrariamente a quanto promesso – potrebbe slittare al 2021.
Il “sequestro” della nave militare e il falso “porto sicuro” in Libia
La strategia dei porti chiusi comincia con le navi delle Ong, però il punto di massima forzatura si raggiunge quando il ministro Salvini fa negare l’attracco a una nave militare italiana, la Diciotti della Guardia costiera. In genere, l’accesso alle acque territoriali e ai porti è gestito dalle Capitanerie e dal ministro dei Trasporti, ma in base a una circolare del 2015, quando ci sono migranti a bordo, per motivi organizzativi (identificazioni, richieste d’asilo, ecc.) le Capitanerie devono chiedere al Viminale il cosiddetto Pos, place of safety, il “porto sicuro” previsto dalle convenzioni internazionali. Secondo Salvini i migranti dovrebbero essere riportati in Libia, ma la Libia non è sicura. O a Malta, ma Malta è piccola e fa di tutto per evitarlo. La prima volta, a luglio, passano giorni prima che la Diciotti possa far sbarcare a Trapani 67 migranti. Ad agosto la nave viene tenuta in mare oltre una settimana, poi bloccata in porto a Catania con 177 naufraghi. L’ok arriva il 25 agosto: segue un’inchiesta per sequestro di persona.
Su intercettazioni e carceri due stop alle “riforme” del Pd
La riforma intercettazioni voluta dall’ex Guardasigilli Orlando, e contestata da pm e avvocati, non è mai entrata in vigore. Il suo successore Bonafede ha “bloccato” il decreto attuativo. La polizia giudiziaria resta tenuta a redigere un “brogliaccio”, un riassunto delle intercettazioni in modo che pm e avvocati possano avere sotto gli occhi a grosse linee tutto il materiale e valutare se ci siano registrazioni utili anche in un momento successivo. Fosse passata la riforma, la polizia giudiziaria avrebbe potuto scrivere solo data e ora delle intercettazioni che riteneva irrilevanti e che sarebbero finite in un archivio sotto responsabilità dei procuratori ledendo il diritto di difesa e rendendo più difficile per i cronisti pubblicare notizie. Il governo giallo-verde ha anche modificato la cosiddetta “Svuota carceri” del governo Renzi: ha azzerato il decreto attuativo che ampliava le possibilità di ricorso alle pene alternative ed eliminava gli automatismi nell’esecuzione della condanna.
Aumenta il lavoro stabile, anche se il mercato è stagnante
Tra le prime decisioni del governo c’è stato il decreto che fissa a tre il numero massimo di proroghe per i contratti a tempo determinato e reintroduce le causali obbligatorie dal secondo rinnovo, dando più potere a chi decide di fare causa al proprio datore di lavoro per ottenere una stabilizzazione. I primi risultati sembrano confermare gli auspici del governo: si registrano più stabilizzazioni e meno contratti a termine, nonostante le previsioni di sventura pompate da Confindustria e grandi media. Il tutto, però, avviene in un mercato del lavoro stagnante, che ha smesso di espandersi. Alle stabilizzazioni contribuisce peraltro anche il boom di tempi determinati negli anni del governo Renzi, dopo la riforma Poletti del 2014 che finì per rendere poco attraente persino il Jobs act che aveva abolito: le imprese che hanno tenuto per 2-3 anni un lavoratore, arrivate al limite dei rinnovi devono decidere se tenerlo o abbandonarlo, perdendo l’investimento fatto su di lui. Si moltiplicano anche i casi di intese a livello aziendale tra imprese e sindacati per fare ricorso al cosiddetto “articolo 8” (di un decreto del 2011). Se le due parti sono d’accordo, si può derogare a quanto prevede la legge sui limiti ai tempi determinati.
Palermo, Bono, Tria e i peccati di gioventù degli inesperti M5S
Il capitolo nomine di Stato ha presto registrato l’ingenuità strategica dei Cinque Stelle, un peccato di gioventù che i leghisti, forniti di una più ampia classe dirigente e delle malizie dell’esperienza, non commettono. Il Movimento è rimasto ingolosito dall’opportunità di scegliere l’amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti che tra i grillini è ritenuta uno strumento per incentivare la crescita economica, una sorta di surrogato del Tesoro. I 5 Stelle hanno espunto dai candidati Dario Scannapieco (ai vertici della Bei e candidato del ministro Tria) in favore di Fabrizio Palermo, allora considerato il delfino di Giuseppe Bono, ras di Fincantieri, primo manager di livello a interloquire col M5S. Palermo ha cercato di emanciparsi dalla figura di Bono e dal presunto legame coi 5 Stelle; Tria – nel gioco degli scambi – ha ottenuto il “suo” Alessandro Rivera come dg del Tesoro. Lo stesso Bono, a quel punto osteggiato dai grillini, ha conquistato l’ennesima conferma ai vertici di Fincantieri grazie alla Lega. Poi è partita la lottizzazione: FS, Rai, Anas eccetera, un posto ai Cinque Stelle, un posto ai leghisti, qualcuno al Tesoro, tanti riciclati, pochi slanci. A oggi, l’unico vero “successo” è lo stop imposto alle ambizioni di Claudia Bugno, consigliera di Tria già in Etruria.
La prima misura è un classico a 5 Stelle: meno soldi alla “casta”
L’avevano promesso e l’hanno fatto subito. Uno dei primi atti concreti dei Cinque Stelle di governo è stato il taglio dei vitalizi degli ex parlamentari. Il provvedimento – promosso dal ministro Riccardo Fraccaro e realizzato dal presidente della Camera Roberto Fico – è stato approvato dal Consiglio di presidenza di Montecitorio il 12 luglio 2018, a quattro mesi dalle elezioni e a un mese dalla formazione dell’esecutivo gialloverde. La delibera Fico prevede il ricalcolo retroattivo degli assegni di 1240 ex onorevoli secondo il metodo contributivo: i vitalizi il cui ammontare era stato stabilito con il retributivo (ovvero in base all’ultimo stipendio ricevuto), vengono ricontati in proporzione ai contributi effettivamente versati durante i mandati parlamentari. Dall’abolizione dei vitalizi il Movimento 5 Stelle ha calcolato un risparmio di circa 40 milioni di euro all’anno, 200 nell’intera legislatura. I tagli più dolorosi hanno riguardato gli ex parlamentari che hanno avuto un solo mandato, come per esempio Gino Paoli (da 3.108 euro lordi a 1.088), Eugenio Scalfari (da 3.108 a 1.043) e “Cicciolina” Ilona Staller (da 3.108 a 1.385). Tre mesi più tardi, malgrado le perplessità della presidente Casellati, anche il Senato ha tagliato i suoi vitalizi.
Salvimaio ha un anno ecco cosa ha fatto
L’entrata in carica come si ricorderà, fu assai travagliata. Tre mesi di stallo post-elettorale, poi l’incarico a Giuseppe Conte il 23 maggio – seguito al “contratto di governo” tra M5S e Lega – rimesso nelle mani del capo dello Stato dopo il veto di Sergio Mattarella alla nomina di Paolo Savona all’Economia. Poi “l’infortunio” Cottarelli e, infine, il ritorno di Conte, il cui governo entra in carica il 1° giugno 2018, giusto un anno fa. Dodici mesi gialloverdi vissuti pericolosamente, che Il Fatto ripercorre qui attraverso i provvedimenti più significativi: l’elenco è parziale e molto sintetico – dal Reddito di cittadinanza a Quota 100, dall’intesa con la Cina alla nave Diciotti fino alle nomine e al decreto Sicurezza bis atteso a giorni a Palazzo Chigi – ma l’idea è dare un quadro dell’azione dell’esecutivo al di là della politique politicienne, proprio mentre quest’ultima prende – legittimamente – il sopravvento a seguito della vittoria leghista alle Europee. Ecco il primo anno di Conte, forse anche l’ultimo.