Il Mibac stoppa la scuola di Bannon: “Niente requisiti”

Niente requisiti, nessuna comprovata esperienza né personalità giuridica e per giunta non pagavano neanche l’affitto: il Mibac chiude i millenari portoni dell’Abbazia di Trisulti all’Accademia del sovranismo di Steve Bannon. Il ministro M5S, Alberto Bonisoli, visto il parere dell’Avvocatura di Stato, ha fatto sapere di aver avviato l’iter di revoca della concessione dell’antica certosa in provincia di Frosinone alla Fondazione Dignitatis Humanae Institute (Dhi), vicina all’ex braccio destro di Donald Trump. L’obiettivo della fondazione, guidata dal britannico Benjamin Harnwell, era appunto quella di ospitarvi una scuola internazionale di formazione politica di impronta sovranista. Ma dalle ispezioni del Mibac sono emerse numerose mancanze di requisiti e inadempienze: la Fondazione, tanto per cominciare, non aveva tra i suoi scopi statutari la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, né nel quinquennio precedente, aveva avuto alcuna esperienza nella gestione di un immobile culturale. “È una vittoria della legalità e del buonsenso“ commenta il leader di SI, Nicola Fratoianni, che nei mesi scorsi aveva presentato diverse interrogazioni parlamentari contro l’assegnazione.

“Noi ambientalisti e liberi, fatti fuori dagli impiegati del potere”

L’alfa e l’omega. “Il più grande danno che ci ha potuto fare Gianroberto Casaleggio è di aver fatto credere che tutti potessero ambire a tutto. Ce l’hai il sacro fuoco? E allora domani sarai anche tu deputato. Ha innescato un processo inarrestabile di travisamento della realtà e come effetto collaterale un infantile e cruento gioco di ambizioni personali che, liberate da ogni controllo, hanno prodotto danni enormi di reputazione, di responsabilità”. L’alfa è lui: Davide Gatto, organizer del Meetup di Salerno, glorioso e nobile gruppo grillino, il quarto nato in Italia. Luigi Di Maio aveva quindici anni quando a Salerno si tenevano le prime riunioni.

La questione, vista con gli occhi di Luca Di Giuseppe, 21 anni, studente di Giurisprudenza, però si capovolge: “Per un ragazzo la cosa straordinaria è vedere le sue idee rispettate quanto quelle di un adulto. Dove avrei potuto parlare, proporre, dire quel che penso con uguale libertà e soprattutto con uguale attenzione? Trovami un partito che ti offre una considerazione così alta. Al massimo ti chiedono di portare le sedie, e ascoltare”.

Salerno è il luogo geografico in cui i Cinquestelle sono esplosi grazie al carburante dell’associazionismo un po’ anarcoide, all’assemblearismo libero da ogni vincolo, a una gerarchia azzerata. Nessun leader, ma solo un guru: Beppe Grillo. E soprattutto grazie a Vincenzo De Luca, il sindaco-padrone. La sua effigie, il linguaggio anche violento col quale teneva sotto controllo la città, e le opere simbolo come il Crescent, un marmoreo blocco cementizio sul mare, hanno regalato al movimento coesione e forza attrattiva, il monopolio dell’opposizione, la possibilità di porre a sviluppo le tematiche più care e identitarie: la crescita armoniosa con l’ambiente. Acqua pulita, no all’inceneritore, no alla cementificazione. Il Meetup e i suoi cinquanta attivisti fomentavano come pazzi l’opinione pubblica. E più cresceva il potere di De Luca più si dilatava la loro capacità penetrativa, più si facevano abili questi ragazzi a cui la politica non aveva mai saputo parlare e della quale avevano massima diffidenza. “Nel Movimento sono nato e cresciuto. Adesso sono ingegnere e mi occupo di energia solare. Ma al Meetup non rinuncio”, dice Salvatore Milione.

Il down, il drammatico uppercut col quale sono finiti a terra, è stata la prova di governo. Un anticipo di quel che sta accadendo a Roma, un conflitto interno provinciale, perciò più polveroso e anche primitivo. I grillini avevano dato filo da torcere a De Luca intestandosi non solo la battaglia politica ma anche quella legale. Avevano bussato alla porta, trovandola aperta, di un coriaceo avvocato amministrativista, Oreste Agosto, che riassumeva, nei suoi ricorsi, la vitalità pentastellata. “Venivano da me tutti, e io fungevo da propulsore. È stata una grande stagione, piena di passione e di lotte vittoriose. Noi abbiamo vinto la battaglia per la decadenza di De Luca, il poltronista (sindaco e sottosegretario nel governo Letta ndr) e abbiamo guadagnato i primi punti nella lotta ambientalista contro il Crescent”.

Era venuto il momento di votare, di formare le liste, di raggiungere finalmente il palazzo di Città. E che succede? Ricorda Agosto: “Mi chiesero di candidarmi a sindaco, mi fecero raccogliere le firme, mi fecero andare in assemblee interminabili, mi fecero fare anche la cosiddetta ‘graticola’, quella specie di esame collettivo. Al momento della candidatura, fui bloccato. Sbucò un secondo candidato, Nicola Provenza. Raccolse dodici voti. Poi non capii niente, mi dissero che la nostra lista non era stata certificata. Non aveva ottenuto il bollino di Grillo”.

A Salerno venne inibito il simbolo infatti, e per quanto paradossale, la città che più aveva covato sforzi e liberato energie si ritrovò in panchina per sospetti brogli interni.

Ricorda Carla Cioffi: “Ero una delle candidate. Fummo bloccati dal fanatismo e dal complottismo, due malattie che porteranno alla tomba il movimento. Ho due lauree, una militanza in Greenpeace, nella cittadinanza attiva. Un po’ di senno, di capacità di discernimento le posseggo e le uso. Ricordo quel tempo. Era incredibile vedere che i deputati salernitani per tutelare il proprio potere personale immolavano una libera espressione della base. Ci boicottarono, fottendosene della città, del nostro lavoro, del rispetto che si deve al voto”.

Fu Angelo Tofalo, ora sottosegretario alla Difesa, ad alzare il primo muro di sbarramento. Agosto: “Non gli garbavo e fece di tutto per buttare all’aria la mia candidatura a sindaco. Tirò dentro Nicola Provenza, figlio di un sindaco dc della città, fino a imporlo nel maggioritario alla Camera. Oggi è deputato, ma la democrazia è andata a farsi fottere. E questo è il problema principale che oggi abbiamo. Darsi delle regole e non lasciare a piccoli impiegati pubblici, come i parlamentari, il dominio assoluto del destino altrui. Nuovi capataz, magari senza arte né parte”.

Cosa fare? “Il Meetup può divenire un Rotary, ininfluente aggregatore di cittadini volenterosi. Oppure il luogo dove si esercita un minimo di collegamento, si attiva una relazione organica con gli eletti. Se Di Maio pensa che dobbiamo riorganizzarci allora la prima cosa da fare è dare al Meetup il diritto di usare il simbolo. Noi adesso non lo possiamo esibire, abbiamo bisogno di un portavoce, che è il deputato e in alcuni casi può trasfigurarsi nel padroncino e scambiare il movimento per la sua botteguccia”, dice Davide Gatto.

“Funzionavamo benissimo quando stavamo all’opposizione, col governo qualcosa non quadra”, aggiunge con un sorriso Salvatore.

Fca, l’ad Manley vende milioni di azioni dopo le nozze con Renault

L’amministratore delegato di Fca, Mike Manley, ha venduto 250 mila azioni della società automobilistica (il 25% del totale di azioni che detiene) per un importo di poco inferiore a 3,5 milioni di dollari. L’operazione è stata registrata dall’Afm olandese, l’autorità per i mercati finanziari. Una decisione che sarebbe stata presa per “coprire spese personali” e che Manley ha potuto realizzare solo il giorno successivo all’annuncio della proposta di fusione con Renault per evitare di violare le restrizioni delle norme sull’insider trading. Radiocor ha però smentito che la vendita sia correlata all’operazione con Renault e niente avrebbe a che fare con il futuro ruolo di Manley nella nuova società. Secondo i termini della proposta di nozze tra Fca e Renault, Manley potrebbe infatti essere sostituito nella carica di ceo dal numero uno di Renault Jean-Dominique Senard, mentre all’attuale ad di Fca andrebbe solo la carica di chief operating officer. Intanto il board di Renault dovrebbe approvare la proposta di fusione entro la prossima settimana. L’accordo sarebbe basato su uno scambio azionario 50 a 50 tra gli azionisti Fca e quelli di Renault, tra cui figura anche il governo francese, con un premio di circa il 10%.

E Salvini finge di non vedere le bordate di Visco

Sarà il segno del nuovo corso di governo, con la necessità della Lega di un appeasement con Bankitalia in vista del negoziato con l’Ue. O saranno motivi meno nobili, tipo il blitz sulla Popolare di Bari con l’avallo di Palazzo Koch (leggi sopra). Fatto sta che nel giorno in cui Ignazio Visco sferza il governo sui conti pubblici, Matteo Salvini cerca, il più possibile, di evitare polemiche.

“Bene la relazione di Banca d’Italia, che conferma la necessità di uno choc fiscale per far ripartire l’economia italiana. La flat tax è la prima riforma che discuteremo”, è il primo commento che il vicepremier dedica alle considerazioni finali del governatore. Nella consueta relazione annuale, Visco aveva solo evocato la necessità “di un’ampia riforma fiscale” che non si limiti a rimodulare un’imposta, ma l’intero impianto della tassazione.

Nel testo, però, c’è molto di più. Il vero filo conduttore è l’avviso al governo di evitare una manovra in deficit e avviare uno scontro con l’Ue. Incassata la partita delle nomine, dopo mesi di stallo, e con la bicamerale d’inchiesta in alto mare, il governatore si sente libero di tornare al ruolo più ambito: indicare al governo la strada da seguire sui conti pubblici in ossequio ai timori del Quirinale, che nei giorni scorsi ha fatto trapelare la paura per il rischio di uno scontro con Bruxelles. Nel giorno in cui tornano le tensioni sui titoli di Stato con la risposta dell’Italia ai rilievi dell’Ue, Visco lancia avvisi precisi: scontrarci con l’Europa può solo impoverire l’Italia (“siamo poveri anche con l’Ue, replica in serata il vicepremier); nonostante la costruzione europea sia ancora difettosa e incompleta resta “indispensabile”; tentare di spingere la crescita con più deficit non è sufficiente e rischia di creare l’effetto contrario. Visco cita “l’espansione restrittiva”, utilizzata dall’ex capo economista del Fondo monetario Olivier Blanchard per spiegare quando gli effetti espansivi delle manovre in disavanzo vengono annullate dall’aumento del costo del debito. Il vero monito, per usare un’espressione cara agli esegeti di Via Nazionale, è per la manovra di autunno. Visco spiega che non si possono sterilizzare i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva in disavanzo ma trovando coperture certe. Nelle conclusioni si spinge a sconsigliare i gialloverdi dichiarazioni che possano creare tensioni sui titoli di Stato: “Nell’oscurità le parole pesano il doppio”, spiega citando il Nobel per la Letteratura Elias Canetti.

Come lo scorso anno, Visco non fa accenno alle colpe in vigilando di Bankitalia ma segnala, a futura memoria, i rischi reali dietro la crisi bancaria che l’Italia rischia di rivivere. A gennaio aveva segnalato la necessità di permettere salvataggi pubblici di banche in difficoltà. Mesi dopo, il messaggio a Bruxelles resta lo stesso: “Bisogna evitare che per le crisi di intermediari medio-piccoli, e quindi non assoggettabili a risoluzione (la gran parte delle banche europee), l’unica opzione disponibile rimanga una liquidazione disordinata, con rischi pesanti (…). Le norme Ue sugli aiuti di Stato vanno applicate tenendo conto dell’esigenza di garantire la stabilità finanziaria e la necessaria proporzionalità rispetto alle dimensioni degli istituti”. Il riferimento non è solo alla traballante Carige. Visco indica anche il settore più vulnerabile, quello delle banche popolari, per le quali “è pressante l’esigenza di realizzare forme di stretta cooperazione o aggregazioni”. Tradotto: la via crucis bancaria non ha esaurito le sue tappe.

Sapelli alla Pop Bari La Lega cerca l’ok di Bankitalia al blitz

Matteo Salvini come Piero Fassino, anche lui lavora per avere una banca. A vent’anni dal disastro della Credieuronord, banca leghista per nascita e finita malissimo, il leader del partito fondato da Umberto Bossi si prepara a coronare il disegno del controllo indiretto su un decisivo istituto del Sud. L’appuntamento sarebbe per l’assemblea della Banca Popolare di Bari, già convocata per il prossimo 30 giugno. Sulla scorta delle voci che danno in uscita lo storico presidente Marco Jacobini, è nato il progetto di nominare al suo posto il noto economista Giulio Sapelli, un anno fa candidato premier per una notte proprio su indicazione di Salvini.

Viene proprio dal vicepremier e da Giuseppe De Lucia Lumeno, segretario generale dell’associazione delle banche popolari da sempre vicino alla Lega, il diktat per Sapelli, intellettuale di riferimento per l’Assopopolari e molto stimato da Salvini. Nel nome di Sapelli c’è tutto il senso politico dell’operazione. Incassato il trionfale risultato delle elezioni europee, Salvini vuole estendere dal Nord al resto d’Italia la sua presa sul potere economico.

La Popolare di Bari non è certo esente da problemi ma è anche la maggiore popolare del Sud, destinata nei disegni della Banca d’Italia a diventare il soggetto aggregatore di almeno una dozzina di popolari meridionali su un modello simile a quello francese del Crédit Agricole. Proprio ieri, leggendo le sue Considerazioni finali, il governatore Ignazio Visco ha citato le difficoltà delle popolari, indicando “la pressante esigenza di realizzare forme di stretta cooperazione o aggregazioni che consentano di competere sul mercato”. Bari diventerebbe una piccola capitale bancaria del Mezzogiorno e Sapelli il suo satrapo in nome e per conto di Salvini, con al fianco come amministratore delegato un usato (forse) sicuro come Vincenzo De Bustis, che con il professore milanese ha condiviso un tratto di strada al vertice del Monte dei Paschi di Siena.

Sul nome di Sapelli il leader della Lega testerà lo stato dei suoi rapporti con la Banca d’Italia, alla quale di fatto spetta l’ultima parola. Superato lo scontro con il governo Conte sulle nomine nel direttorio – duello che ha dato al governatore Ignazio Visco il destro di liberarsi del direttore generale Salvatore Rossi per sostituirlo con il più fidato Fabio Panetta – il numero uno di Palazzo Koch ieri ha sferzato il governo sulla finanza pubblica (vedi articolo qui sotto) e Salvini ha capito solo quello che voleva capire: “Bene la relazione di Visco che conferma la necessità di uno choc fiscale”. Traduzione: il governatore dica quello che vuole, l’importante è che metta il timbro sulla nomina di Sapelli.

Infatti la pratica è in attesa di benedizione sulla scrivania di Visco che ha qualche imbarazzo. La vigilanza bancaria ha chiesto da tempo un rinnovamento al vertice della Pop Bari, ma la figura di Sapelli non corrisponde esattamente a quel profilo di equilibrato riserbo che viene in genere riferito al presidente di una banca. Entrato nel cda di Pop Bari nell’aprile del 2018, già a fine anno Sapelli fu nominato vicepresidente ma dopo sole 48 ore si è dimesso senza mai rivelare i motivi dell’uscita.

Nel frattempo si sono fatti tempestosi i suoi rapporti con il Quirinale. Quando si illuse di diventare premier, il professore prese così male la bocciatura da lasciarsi andare a parole antipatiche nei confronti del presidente Sergio Mattarella, accusato di avergli dato lo stop su pressione dell’Europa a causa delle idee anti-comunitarie di Sapelli: “Lo stop non è arrivato dal Quirinale” disse, “ma sul Quirinale, che ha recepito. Mattarella è l’anomalia della situazione”. Uscito dalla porta, Sapelli viene ributtato dentro dalla finestra dalle possenti braccia di Salvini. Adesso tocca a Visco barcamenarsi. Deve scegliere se sbarrare la strada al disegno bancario di Salvini o fare dispetto a Mattarella piegando le regole di Bankitalia alle richieste del politico forte del momento, come un don Abbondio qualsiasi.

Sblocca cantieri, Confindustria: “Bene stop a codice appalti”

“Valutiamo con favore l’emendamento al dl Sblocca cantieri che consente di derogare per due anni alla disciplina del codice degli appalti, condividendo la necessità di rilanciare gli investimenti pubblici”. L’assist alla richiesta di Matteo Salvini arriva dal direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci. Che “concorda con gli aspetti che semplificano e rendono più flessibili le procedure di gara”, ma richiede anche più attenzione alla “trasparenza e alla concorrenza sui bandi di gara”. Ma la sospensione del codice degli appalti per due anni chiesta dalla Lega non dovrebbe passare mai, almeno secondo quanto fatto trapelare dai deputati M5s che fanno parte della commissione Lavori. “È un emendamento irrazionale, tutto da riscrivere”, avrebbero detto i grillini. Martedì l’intero provvedimento arriverà in Aula. Intanto Salvini ha deciso di querelare il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra che, a proposito dello Sblocca cantieri, ha dichiarato: “Quella di Salvini non può più essere considerata una follia. È un disegno lucido che regala alle mafie e alla corruzione spazi enormi di agibilità”. Il leader della Cgil Maurizio Landini ha replicato: “Salcini ci quereli tutti ma non svii la discussione”.

2 giugno, i generali contro la Trenta: “Vuoto pacifismo”

Nemmeno la Festa della Repubblica riesce a unire il Paese. Polemiche sull’annuncio della ministra della Difesa Elisabetta Trenta, che ha affermato di volere “l’inclusione” come tema della parata celebrativa. Così dopo i fischi incassati in aula e il fuoco amico del suo sottosegretario Angelo Tofalo che l’altro ieri avrebbe detto “è consigliata male”, arriva anche la defezione di Ignazio La Russa, ex titolare del ministero. “Chi come la Trenta pensa di trasformare le Forze armate in Peace&Love – ha dichiarato – mancando di rispetto ai nostri uomini e alle nostre donne in divisa, non merita niente. E io il 2 giugno non sarò al suo fianco durante la parata”. Anche i militari manifestano il proprio malcontento. Ancor più caustico l’ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Vincenzo Camporini: “Troppe le disattenzioni del governo nei confronti dei temi della Difesa, a partire dalla mancata presentazione del decreto missioni, dalla sostanziale paralisi delle attività amministrative per l’ammodernamento dei mezzi, da dichiarazioni di vuoto pacifismo”. E conclude: “Non me la sento di avallare ipocritamente con la mia presenza una gestione che sta minando un’istituzione di cui il Paese deve essere orgoglioso”.

Meno deficit e spesa da reddito-Quota 100. Tria conferma la linea

Il contenuto, per la verità, aveva preso forma già da giorni al Tesoro, con l’avallo del premier Giuseppe Conte (e la non belligeranza della Lega, che però non conosceva il testo). Al punto che neanche il blitz in extremis dei 5Stelle riesce a cambiarne la sostanza di fondo. La lettera con cui il ministro dell’Economia Giovanni Tria risponde ai rilievi di Bruxelles, che mercoledì ha contestato gli “insufficienti progressi fatti verso il rispetto dei criteri del debito 2018” contiene due elementi rilevanti: il governo non varerà nessuna manovra correttiva, ma ritiene di poter centrare lo stesso gli obiettivi concordati con l’Ue, anche grazie alla minor spesa prevista per Reddito di cittadinanza e Quota 100 e a qualche kamasutra contabile (il cui riferimento viene solo sfumato dopo la revisione chiesta dai 5Stelle). Nessun maggiore deficit, insomma, neppure per varare il taglio delle tasse (che la Lega chiama “flat tax”). Ma neppure una forte stretta fiscale che sarebbe “controproducente”. In sostanza, la solita lista di promesse, rese ancora più vaghe dalla revisione finale, che spetta a Bruxelles decidere se far finta di accettare, per prendere altro tempo.

La giornata. Inizia come peggio non si poteva. L’Istat rivede al ribasso il Pil del primo trimestre a +0,1%, con una crescita acquisita (cioè se negli altri 9 mesi il Pil restasse fermo) nulla. Le minacce di Trump di imporre dazi alle importazioni dal Messico fa crollare le Borse. Lo spread sale fino a 294 punti (per chiudere a 287 con tassi sul decennale in salita al 2,66%), il bund tedesco scende al minimo storico e il debito italiano viene considerato a breve termine rischioso quasi quanto la Grecia.

Il quadro. Nella lettera, Tria spiega che l’Italia non ha centrato gli obiettivi 2018 sul debito (salito dal 131,4 al 132,2% del Pil) a causa del rallentamento dell’economia. La versione del Tesoro, però, è che in ogni caso non ci sia stata vera deviazione. Bruxelles stima che il deficit “strutturale”, quello al netto del ciclo economico, nel 2018 è peggiorato dello 0,1%. Questo parametro dipende dall’output gap, una formula astrusa che calcola la distanza di un’economia nazionale dal suo potenziale. Maggiore è la distanza, minore è l’aggiustamento richiesto. Per il 2018 Bruxelles stima che sia stato solo dello 0,1%. L’Italia contesta da sempre questa metodologia e Tria ritiene che se i calcoli di Bruxelles avessero tenuto conto della brusca frenata del Pil a fine 2018, in realtà i target sarebbero stati di fatto centrati. Storia simile per il 2019: la Commissione chiedeva un aggiustamento dello 0,4% del Pil (circa 7 miliardi) ma – sostiene il Tesoro – considerando la crescita debole e il miglioramento atteso dal lato delle entrate e delle spese la deviazione si azzera, anche usando i calcoli di Bruxelles.

Al di là delle dispute tecniche, la sostanza, seppur minima, è nella seconda parte della lettera. Tria spiega che il governo prevede quest’anno incassi maggiori “dalle imposte non tributarie”, cioè Iva e condono sulle cartelle esattoriali, e soprattutto una minor spesa per Reddito e Quota 100 che andrebbe a ridurre il deficit (la stima che circola al Tesoro è di oltre 1 miliardo, 2-3 nel 2020). Nella prima versione della lettera il riferimento alle misure era esplicito, in quella finale diventa “l’utilizzo delle nuove politiche di welfare è, finora, inferiore alle stime sottostanti la legge di bilancio 2019”. La sostanza, però, non cambia: Tria conferma la linea. Questo permetterà di chiudere l’anno con un deficit più basso del 2,5% del Pil stimato da Bruxelles, seppur lontano dal 2 concordato in autunno.

Il futuro. Il vero rebus riguarda il 2020, dove a bilancio ci sono 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva. Tria assicura che non saranno sterilizzati in deficit, ma grazie a misure “alternative”. Tra queste c’è la solita spending review (“un programma complessivo di revisione della spesa corrente comprimibile”). Dettagli anche sulla “flat tax”, che in realtà sarà una “riduzione del numero degli scaglioni” Irpef, ma sempre – assicura Tria – senza far aumentare il disavanzo. Solo nel 2020, promette il ministro, il deficit calerà al 2,1% (circa 5-6 miliardi), per poi scendere all’1,5% nel 2022. Una stretta fiscale da quasi 10 miliardi, in parte però coperta sempre grazie ai risparmi su Reddito e Quota 100. In sostanza, nessun taglio alle misure (che non c’era neppure nella prima versione).

Palla a Bruxelles. Senza nuovi rilievi, la risposta del governo verrà inserita nelle raccomandazioni che la Commissione approverà mercoledì. Molti Paesi, specie quelli del blocco nordico, premono per la linea dura con Roma, ma al Tesoro considerano remota la possibilità che già in quella sede Bruxelles possa chiedere l’apertura di una procedura di infrazione. L’iter peraltro ha tempi lunghi. Più probabile se ne riparli nel Consiglio Ue del 20 e 21 giugno, che dovrà approvare le raccomandazioni.

L’Istat rivede al ribasso il Pil del 1° trimestre: solo +0,1%, l’incertezza frena le imprese

Tecnicamente non siamo più in recessione, bene, ma dopo due trimestri negativi l’Italia è ferma: non che cambi molto nella sostanza, ma rivedendo al ribasso la precedente stima flash sulla crescita tra gennaio e marzo 2019 (da +0,2 a +0,1%), ieri l’Istat nei suoi Conti trimestrali ha plasticamente reso l’idea.

Leggerissima crescita rispetto al precedente trimestre di recessione (dato congiunturale) e addirittura calo dello 0,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (dato tendenziale), una cosa che non accadeva dall’ultimo trimestre del 2013. A causare la correzione al ribasso, ha spiegato lo stesso Istituto statistico, gli ulteriori dati raccolti dopo la prima stima e, in particolare, la contrazione del fatturato dei servizi diffusa giovedì (-0,5% nei primi tre mesi dell’anno).

Entrando più in profondità si scopre che la vera zavorra sul Pil degli ultimi quattro trimestri sono state le cosiddette “scorte”. Un dato anche psicologico, se non direttamente politico, su cui torneremo dopo aver scomposto quest’ultimo +0,1% congiunturale – che acquisisce al 2019 una crescita “zero” come effetto trascinamento – per macro settori: c’è infatti il contributo positivo dei consumi di famiglie e istituzioni sociali private (+0,1%) e quello degli investimenti fissi lordi (0,1%), mentre come al solito da anni a questa parte la spesa delle Pubbliche amministrazioni ha contributo nullo; anche la domanda estera (le esportazioni sono cresciute dello 0,2%, le importazioni crollate dell’1,5) fa salire il Pil del primo trimestre 2019 e per ben 0,5 punti percentuali. E poi ci sono le famose “scorte”: -0,6%.

Perché è così rilevante che questo settore della domanda interna cali da un anno, cioè più o meno dall’arrivo del governo? Perché segnala che le aziende stanno alla finestra per capire cosa succederà. Cosa sono infatti le scorte? Tecnicamente, l’insieme dei beni detenuti dagli operatori economici in attesa di un loro impiego successivo: si va dalle materie prime in attesa di essere usate ai semilavorati fino ai prodotti finiti e pronti in magazzino per essere venduti. In sostanza, le scorte possono essere interpretate come un indice della fiducia delle imprese, delle loro previsioni su quanto riusciranno a crescere in futuro: se calano da 4 trimestri non è, diciamo, proprio un complimento al governo Conte.

Va segnalata, per dovere di cronaca, la polemica di un pezzo del Pd sulla revisione al ribasso della stima di aprile comunicata ieri dall’Istat. Quella che segue è Maria Elena Boschi: “Per la prima volta dopo anni Istat ha rivisto al ribasso le stime della crescita. In soldoni: hanno pubblicato prima delle elezioni dati positivi, che poi hanno rivisto al ribasso la settimana dopo. Vi sembra serio?”. Il riferimento tra le righe è al fatto che il nuovo presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, è stato nominato in quota Lega.

In realtà, la revisione dei dati è un processo continuo in statistica e la stessa identica cosa era già successa nel novembre scorso sul terzo trimestre. Boschi, ad esempio, potrebbe ricordare che quand’era ministra revisioni al ribasso (di uno 0,1%) riguardarono anche il Pil dell’anno 2015, dopo che una precedente revisione lo aveva addirittura fatto salire di due decimali per effetto di un nuovo sistema di calcolo. Gli zerovirgola, in ogni caso, non contano nulla: Matteo Renzi, a ragione, lo ripeteva spesso.

Guerra sulla lettera all’Ue Di Maio fa infuriare Conte

Camminano, anzi corrono verso la crisi, i gialloverdi. Si incartano sulla lettera di risposta all’Unione europea che chiede lumi sul debito, tre pagine scarse su cui si gioca una partita di vendette, veline e finte. Con i 5Stelle che puntano alla gola di Tria, Conte che s’infuria e Salvini che lascia fare, da pokerista di lunga data. E potrebbero darsi le coltellate finali, quelle decisive, sullo Sblocca cantieri, dove la Lega ha piazzato un ordigno, cioè un emendamento che vuole sospendere per due anni il codice degli appalti. Nell’attesa c’è una certezza, Giuseppe Conte è stufo: delle risse quotidiane, delle invasioni di campo, del caos. E lunedì in una conferenza stampa detterà le sue condizioni ai vicepremier: o la piantano, ricominciando a lavorare su temi condivisi, oppure meglio finirla qui. Eccolo, lo stato delle cose nel governo. Tutto un affrettarsi verso il precipizio, con un big come il dimaiano Stefano Buffagni che in serata twitta di esasperazione, citando Napoleone: “Non ci sono cattivi reggimenti, ma solo colonnelli incapaci. Non si gioca sulla pelle del nostro Paese”. Ce l’ha con qualcuno del suo governo o proprio dei suoi, che ha diffuso su agenzie e siti la lettera di risposta alla Ue.

Un testo che non piace per nulla ai 5Stelle, convinti che il ministro dell’Economia Tria l’abbia plasmata su indicazione di Salvini e dei leghisti, giovedì. Così il Carroccio punta il dito: “È stato il Movimento a farla uscire”. Ovviamente dall’altra parte del fiume negano, e c’è chi accusa i soliti, misteriosi funzionari. Però i fatti sono fatti. E quello evidente racconta che è Di Maio a inveire contro il testo e contro Tria: “La lettera preparata dal ministro con la Lega? Il M5S non ne sa nulla, non ce ne siamo occupati noi, non è stata condivisa con noi. Sicuramente noi non tagliamo la spesa sociale, né il reddito né quota 100”. E l’obiettivo è chiaro, accusare il ministro di essere ormai un uomo del Carroccio. Così il vicepremier traccia il solco: “Lo dico chiaramente: al governo Monti non si torna. Basta austerità, basta tagli”. E conclude invocando subito un incontro, visto che la lettera va spedita entro la mezzanotte: “È utile fare un vertice di maggioranza con la Lega insieme a Conte e Tria, così sistemiamo insieme la lettera, prima che qualcuno la mandi a Bruxelles”.

Uno sgarbo, al capo del governo. Che la prende malissimo, anche perché il ministro dell’Economia si fa sentire per esternare il suo disappunto. Un guaio, visto che Tria è anche un ministro “vicino” al Quirinale. Così il Mef smentisce “nella maniera più categorica” che quella sia la vera lettera. Ma è l’avvocato Conte, furibondo, a fare la voce grossa. “La bozza di lettera da inviare alla commissione europea è stata da poco ricevuta da Conte, e la versione che è stata anticipata dagli organi di informazione non è quella in visione al presidente” fa sapere Palazzo Chigi. Ma il peggio viene dopo: “Il premier ha sentito telefonicamente Tria e ha concordato con lui di sollecitare tutte le verifiche, anche giudiziali, affinché chi si è reso responsabile di tali fughe di notizie false sia chiamato alle sue responsabilità”. Anche perché “la diffusione di testi così delicati può avere ricadute sui mercati”. Ovviamente, nessun cenno a vertici. Salvini è a comiziare ad Aversa, in Campania, e si tiene lontano dalla battaglia. Con Di Maio non parla da settimane. “Non sono ancora riuscito a incontrarlo dopo il voto” ribadisce il capo dei 5Stelle ai suoi, convinto che il leghista sfugga anche per nascondergli i suoi piani. Intanto il M5S prova a rabbonire Conte, e si lavora a una nuova versione del testo, da mandare ai vicepremier per il visto finale.

Ma in serata batte un colpo la vice di Tria al Mef, la 5Stelle Laura Castelli, con una nota che rivendica l’assalto: “Mi sorprende che Tria smentisca la versione della lettera circolata, nel pomeriggio anche io avevo visto una bozza con i tagli al welfare. Mi rincuora che Conte abbia deciso di correggerne aspetti per noi irricevibili”. Ma il premier è esausto. Per questo per lunedì promette “il punto della situazione, perché voglio parlare agli italiani”. Per il pomeriggio ha già fissato una riunione sullo Sblocca cantieri, e su quell’emendamento sugli appalti “che non andava messo” come ha detto ai suoi. Ma prima darà a Lega e Movimento il suo ultimatum: basta urla e campagna elettorale.

Però Salvini mica trema: “Sono stato a Roma tutta la settimana, mentre gli altri votavano su Rousseau io ero al ministero. Sono pronto quando vogliono”. Insomma, scoppia tutto. E il voto a settembre non è più una mera ipotesi, per i gialloverdi che hanno abbattuto la normalità.