Trattativa, il papello non è prova neppure per la Corte d’assise

Ieri è cominciata dal cosiddetto papello, l’elenco con le richieste che il boss Totò Riina (1930-2017, in foto) avrebbe fatto allo Stato per far cessare le stragi, la relazione introduttiva del presidente della corte d’appello di Palermo Angelo Pellino al processo sulla cosiddetta trattativa Staro-mafia. Il magistrato sta ripercorrendo le motivazioni della sentenza di primo grado che, pur condannando a pene pesantissime ex ufficiali del Ros come Mario Mori ed ex politici come Marcello Dell’Utri, espresse pesanti dubbi sull’autenticità del papello consegnato, come prova della trattativa, da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso tra i protagonisti dell’accordo che pezzi delle istituzioni avrebbero stretto con lo Stato. Ciancimino era teste e imputato al processo. “A far dubitare della autenticità del documento sono le sicure modifiche apportate da Ciancimino assieme alla persistente incertezza sul vero autore del documento”, spiega il giudice. “Questi elementi costituiscono un ostacolo insormontabile a provare la sua autenticità sostenuta dall’accusa”, ha aggiunto Pellino che definisce le dichiarazioni di Ciancimino “oscillanti e incerte”.

Madame Furto: 25 anni di pena da scontare, ma è sempre incinta Arrestata durante un borseggio

Proprio come Sophia Loren in uno dei tre episodi del film Ieri, oggi e domani (di Vittorio De Sica, 1963): è riuscita a evitare sistematicamente il carcere perché era sempre incinta. Ma questa volta a “Madame Furto”, la cittadina bosniaca di 32 anni nota a Roma per la sua lunga carriera di borseggiatrice, è andata male e adesso si trova a Rebibbia. La donna, questa volta, è stata vista da una pattuglia dei carabinieri della Stazione Roma via Vittorio Veneto mentre camminava nella zona di piazza Barberini in compagnia di una sua amica. Quando i militari l’hanno fermata, a suo carico è emerso un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti, emesso dall’Ufficio esecuzioni della Procura della Repubblica di Roma lo scorso 25 febbraio, per un cumulo di pene residue da scontare pari a 25 anni e 7 mesi di reclusione maturati grazie a ben 42 furti a lei addebitati, senza che avesse mai scontato neppure un giorno per le sue molteplici gravidanze e per i numerosi figli piccoli, anche minori di 3 anni. Madame Furto, però, è di nuovo incinta, motivo per cui il Tribunale di Roma, nello stesso provvedimento, ha differito l’esecuzione della pena alla data del parto, prevista per la fine del prossimo mese di luglio.

Ma Madame Furto non si arrende e appena uscita dalla caserma ha incontrato altre quattro ragazze, di età compresa tra i 18 e i 31 anni, tutte con precedenti per borseggio, il che ha destato più di qualche sospetto sulla probabile organizzazione da parte delle ladre di qualche colpo da mettere a segno di lì a poco. Così i carabinieri della stazione di via Vittorio Veneto le hanno seguite fin dentro la fermata Termini della metropolitana: sventato il furto di una borsa a una turista, le cinque ladre sono state arrestate con l’accusa di tentato furto aggravato in concorso. Madame Furto e le sue discepole, anche loro quattro incinte, sono state portate nella sezione femminile del carcere di Rebibbia a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.

Due preti mandavano sms sconci e minacciavano: “Nostro cugino è il capo dei capi Luigi Mancuso”

Messaggi a sfondo sessuale a una disabile e una tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose. È l’accusa che la Dda di Catanzaro ha mosso nei confronti di due preti, il segretario particolare del vescovo di Mileto, Graziano Maccarrone, e il reggente della chiesa Madonna del Rosario di Tropea, Nicola De Luca. Per entrambi, il procuratore Nicola Gratteri e il sostituto Annamaria Frustaci hanno chiesto il rinvio a giudizio. Il processo inizierà il 3 ottobre. La storia è quella di un debito di circa 9 mila euro, soldi che i due preti avevano prestato a una vittima per fargli evitare un pignoramento. Un “sostegno apparente” poi trasformatosi in una storia scabrosa di sms a sfondo sessuale che don Maccarrone inviava alla figlia maggiorenne dell’uomo, invalida al 100%. Tremila contatti telefonici nel giro di due mesi, ma anche “foto compromettenti”. Il prete si faceva recapitare indumenti intimi dalla ragazza e, in una occasione, l’ha pure invitata in “un albergo di Pizzo Calabro”. Incontro che non c’è stato per il rifiuto della ragazza che ha scatenato le minacce del don: “Tu sai molto bene che io non ho solo dei messaggi da parte tua… perché io non ho mai cancellato nulla… la pennetta è carica anche di quello che tu dovresti sapere molto bene”.

Non riuscendo a convincerla, per ritorsione don Maccarone chiese al padre l’immediata restituzione del denaro per sé e per don De Luca. Qui scatta il metodo mafioso perché i soldi, in realtà, secondo il prete sarebbero stati di “cugini di Nicotera Marina”. Il riferimento era ai boss Mancuso: “Il cugino mio, Luigi, è quello che è uscito adesso a luglio, il capo dei capi”. E ancora: ha invitato la vittima a “stare attento che avrebbe fatto una brutta fine”. Don Maccarrone ci ha anche provato rivolgendosi a un soggetto vicino al boss Pantaleone Mancuso. “Non è il momento – è stata la risposta – Cercate un compromesso per temporeggiare e poi interveniamo”.

La storica tonnara di Favignana uccisa di nuovo da un decreto

Ad appena un mese dalla storica riapertura, la tonnara di Favignana chiude i battenti con un grave danno economico alla Nino Castiglione, l’azienda trapanese a cui è stata affidata l’attività dell’impianto e che ha già investito nell’iniziativa circa un milione di euro, creando oltre 50 posti di lavoro. Alla base della decisione, il decreto del ministero delle Politiche agricole di ieri che in soli due articoli ha, di fatto, ribaltato il contenuto del precedente decreto di assegnazione delle quote tonno, assegnando alla tonnara di Favignana appena 14 tonnellate sulle già esigue 357 a disposizione dei cinque impianti italiani. Una quantità assolutamente insufficiente per la sostenibilità economico-finanziaria delle attività di pesca.

“Chiederemo al ministro – dichiara Gregory Bongiorno, vicepresidente di Sicindustria – un provvedimento urgente per scongiurare gli effetti catastrofici del decreto emanato in queste ore. Curioso che il principio di equità, sottolineato più volte nelle premesse del decreto, venga poi usato per giustificare un’assegnazione tardiva e che penalizza soltanto la Sicilia. Infatti, alle aziende sarde sarà assegnata una quota per circa 340 tonnellate a fronte delle 14 tonnellate assegnate alla Sicilia”.

La notizia arriva a Palermo e a Palazzo dei Normanni protestano tutte le forze politiche, Movimento 5 Stelle (alleato della Lega al governo) compreso. Il presidente dell’Assemblea regionale, Gianfranco Miccichè è il più duro: “Oggi è morta la Tonnara di Favignana. Lo ha deciso un sottosegretario della Lega e la cosa, credetemi, non mi dà pace. L’azienda Nino Castiglione, con un enorme sforzo economico e con il sostegno della giunta regionale del presidente Nello Musumeci, aveva da poco riaperto la storica struttura dando lavoro a centinaia di maestranze, restituendo al mondo una tra le più grandi tonnare del Mediterraneo e dal passato glorioso”.

Whirlpool annuncia: “Dobbiamo chiudere” In rivolta 430 lavoratori: è subito sciopero

Quando i vertici Whirlpool sono arrivati alla slide in cui la parola “Napoli” era sbarrata da una croce rossa, i sindacalisti hanno scatenato una tale bagarre che si è dovuto interrompere la riunione. Perché quel segno significa che la multinazionale degli elettrodomestici vuole liberarsi dello stabilimento partenopeo, mettendo così a rischio almeno 430 posti di lavoro. Annuncio seguito da uno sciopero in tutti i siti italiani del gruppo.

L’incontro di ieri a Roma doveva servire a fare il punto sul piano industriale firmato il 25 ottobre 2018 con il ministero dello Sviluppo economico. Con quell’accordo la Whirlpool ha ottenuto gli ammortizzatori sociali dopo aver promesso di mantenere il livello occupazionale in tutte le fabbriche e di rilanciarle con nuovi investimenti. Al capoluogo campano erano destinati 17 milioni nel triennio 2019-2021, con la conferma della produzione di lavatrici ad alta gamma. Ora, a distanza di sette mesi, di quel progetto non resta nulla: “Negli ultimi anni – spiegano da Whirlpool – l’azienda ha messo in campo azioni e investimenti per rilanciare il sito di Napoli. Nonostante questo, i volumi e i piani per lo stabilimento sono diventati insostenibili”. “Per questo – proseguono – Whirlpool Emea (la parte del gruppo che segue l’area tra Europa, Africa e Medio Oriente, ndr) intende procedere con la riconversione del sito e la cessione del ramo d’azienda a una società terza in grado di garantire la continuità industriale e massimi livelli occupazionali”. La multinazionale parla di cessione, non di chiusura, fiduciosa di riuscire a salvare tutti i posti. Ma ai sindacati e al governo non basta. “La notizia – ha commentato il ministro Luigi Di Maio – è assurda se si pensa che i vertici aziendali decidano di stracciare l’accordo firmato al ministero dello Sviluppo economico e col quale si impegnavano a investire in Italia con un piano triennale da 250 milioni di euro”. Il vicepremier ha ricordato anche che solidarietà e cassa integrazione sono state concesse solo a fronte “dell’impegno concreto della multinazionale” e si è detto “pronto a rimettere in discussione l’intero piano industriale”. Secondo la segretaria Fiom Francesca Re David, la mossa di Whirlpool è “inaccettabile”, mentre per la Uilm “parlare di vendita è una presa in giro”. Marco Bentivogli, leader dei metalmeccanici Fiom, ha attaccato proprio Di Maio, sostenendo che “questi sono i risultati di un ministero che non lavora più sulle vertenze”.

Oltre ai 430 diretti della fabbrica, tremano i 320 impegnati nel polo logistico di Caserta. “Se è a rischio Napoli – afferma Barbara Tibaldi della Fiom – è ballerino anche quello di Caserta, perché quel sito lavora molto con quello del capoluogo, e una parte dei suoi addetti doveva essere assorbita da Napoli”. Poi ci sono quelli dell’indotto, che portano a circa 800 il totale dei lavoratori a rischio. Il timore quindi è di una nuova emergenza sociale nella Regione dalla quale, finora, è partito il maggior numero di richieste di reddito di cittadinanza.

Tangenti milanesi, Sozzani: “Per tre lire m’inginocchio”

“Mi inginocchio per chiedere tre lire!”. Così il deputato di Forza Italia, Diego Sozzani, per il quale i magistrati milanesi hanno già chiesto alla Camera l’autorizzazione all’arresto per finanziamento illecito, esprimeva con Nino Caianiello, ex esponente del partito di Silvio Berlusconi a Varese e presunto “grande manovratore” di un sistema di tangenti e nomine pilotate svelato dal blitz del 7 maggio, tutta la sua delusione per le “difficoltà” che incontrava nel trovare “soldi” per la campagna elettorale. L’intercettazione ambientale, contenuta nelle centinaia di pagine depositate dai pm Bonardi, Furno e Scudieri e dall’aggiunto della Dda Dolci, risale al 12 aprile scorso, quando il parlamentare, che rischia di finire ai domiciliari, e il presunto “burattinaio”, già in carcere, erano al ristorante “da Berti” a Milano, quella “mensa dei poveri”, come la chiamavano gli indagati. Fin qui 43 misure cautelari, tra cui gli arresti di Pietro Tatarella e Fabio Altitonante, e più di cento indagati, tra cui l’eurodeputata Lara Comi. Sozzani e Caianiello parlavano, tra l’altre cose, dell’impegno per sostenere Tatarella, finito però in carcere prima delle Europee. Sozzani si lamentava: “Sto cercando i soldi perché è fatica, credimi!”.

I contributi di Lara Comi a FI non si trovano

Su di lei si addensano nuove nubi e Lara Comi apre un ombrello coi buchi. Oltre al finanziamento illecito e corruzione, la Procura di Milano contesta all’eurodeputata anche la truffa aggravata a Bruxelles, dove potrebbe tornare in forza delle 32 mila preferenze raccolte domenica. Per gli inquirenti lo scorso gennaio ci sarebbe stato un accordo tra il suo addetto stampa Andrea Aliverti e il coordinatore varesino di Forza Italia Carmine Gorrasi per aumentare lo stipendio del collaboratore a 3.000 euro così da retrocederne 2.000 a Forza Italia. Tutto – riferisce il Corriere della Sera – per sistemare il problema dei mancati versamenti della Comi al partito, ma a spese del Parlamento europeo e dei rimborsi destinati allo staff. Alle accuse, l’interessata replica che il portavoce ha svolto davvero maggiori prestazioni, tutte documentabili. “Inoltre – aggiunge la Comi – ho sempre adempiuto al pagamento mensile richiesto da Forza Italia, domandatelo al tesoriere Alfredo Messina”.

Problema: di quei versamenti, stando all’elenco aggiornato delle “dichiarazioni congiunte” detenuto a Montecitorio e richiesto dal Fatto non vi è traccia alcuna, salvo per tre bonifici molto vecchi. Agli atti ufficiali della Camera, dati aggiornati al 25 maggio scorso, risulta che la Comi nell’arco di 10 anni, cioè dal 2009 a oggi, ha versato un contributo pari a 12.500 euro nel 2012, 7 mila nel 2013 (quando il partito di Berlusconi si chiamava ancora Pdl), 8 mila nel 2014. Poi più nulla. Di versamenti successivi, per altro, non c’è traccia neppure nei bilanci di Forza Italia relativi agli anni 2015, 2016 e 2017 (ultimo disponibile). E dunque quei versamenti restano un giallo.

Non è un dettaglio perché delle due l’una: se la Comi ha effettivamente pagato i suoi contributi mensili a Forza Italia, non si capisce perché non ci siano le relative dichiarazioni a Montecitorio, obbligatorie per legge. Viceversa, se non li ha pagati, resta in piedi il movente della presunta truffa che le viene addebitata: riparare le “morosità” nei confronti del partito attraverso una parte dello stipendio del collaboratore. La Comi non ci sta. “È tutto falso – dice al Fatto – io ho anche le ricevute del partito per la dichiarazione dei redditi. Sono molto tranquilla sia per il 2018 che per il 2019”. E per il 2016 e 2017 e tutti gli altri anni? “Chiedetelo a Messina”. Detto, fatto. Il tesoriere, contattato per un riscontro, però non conferma: “Ho verificato e anche a me risultano quei tre versamenti. In ogni caso, se la signora Comi vuol fare chiarezza sui versamenti a Forza Italia mi scriva una richiesta. La regola vale per tutti: se ha versato lo abbiamo certamente comunicato alla Camera, su questo non c’è dubbio. Dichiarare le fonti di finanziamento è un obbligo di legge, siamo molto attenti su questo”.

Del resto quei versamenti sono importanti per i bilanci dei partiti. E possono essere particolarmente onerosi per un eletto che ha subito pesanti decurtazioni dello stipendio parlamentare. Dal 2016 la Comi ha dovuto restituire a rate 126 mila euro a Bruxelles, ovvero il compenso versato alla madre che aveva fatto assumere nel 2009 come assistente violando le regole europee che proibiscono l’assunzione di parenti.

Non solo. A fine 2014 è stata condannata a risarcire 30 mila euro per la diffamazione del candidato di Rivoluzione Civile Roberto Soffritti, da lei definito “persona poco limpida” con un “background di tipo mafioso”, reo di aver fatto fallire una cooperativa e di essere stato imputato e condannato per questo. Accuse che per il giudice non corrispondevano al vero.

La Comi mente anche sui versamenti a Forza Italia? Il suo difensore Gian Piero Biancolella ribadisce che “sono stati effettuati regolarmente”. A quando risalgono e per quali importi? Ci può fornire copia dei bonifici? Il legale, a questo punto, si congeda.

Cagliari, la beffa ai portuali: “Così hanno caricato le armi”

Almeno dodici container da 30 tonnellate ciascuno provenienti dalla fabbrica di bombe Rwm di Domusnovas sono stati caricati su una nave battente bandiera saudita e ora sarebbero pronti a prendere il largo dal porto di Cagliari verso Ryad. A denunciare l’ennesimo carico di morte in partenza dall’Italia verso il Paese impegnato nella sanguinosa guerra nello Yemen sono gli attivisti della Rete disarmo insieme alle associazioni pacifiste sarde, che da giorni seguivano i movimenti della la Bahri Tabuk, la nave già oggetto di vivaci proteste da parte dei lavoratori del porto di Marsiglia che al suo arrivo il 28 maggio avevano incrociato le braccia in banchina.

Il cargo, già contenente materiale d’armamento proveniente dal Nord America avrebbe poi dovuto proseguire ufficialmente per Alessandria d’Egitto ma non lo ha fatto, dirigendosi invece a Cagliari. “Una mossa che non ci ha sorpreso”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo. “Avevamo ricevuto informazioni nei giorni scorsi riguardo a una sosta non dichiarata nel porto industriale di Cagliari. Seguendo il tracciamento della nave abbiamo effettivamente notato che la nave stava rallentando in prossimità della Sardegna. Alle quattro del mattino la nave era già nel golfo di Cagliari, abbastanza vicina al porto, dove è entrata alle 6:30. Un’ora dopo sono iniziati ad arrivare i carichi dall’esterno trasportati da camion e scortati con delle vigilanze private. Il primo, di quattro container, è stato effettuato nella prima mattinata. Gli ultimi nel pomeriggio. In tutto si tratta di oltre 40 container, di cui almeno 12 provenienti dalla Rwm”, spiega Vignarca.

“Sui container non erano presenti evidenti segni di riconoscimento di materiale esplosivo, ma tramite le nostre fonti abbiamo potuto tracciare i movimenti in entrata e in uscita dalla fabbrica di Domusnovas ed abbiamo una ragionevole certezza che si tratti di un nuovo carico di bombe dirette in Arabia Saudita”.

L’operazione si è svolta nel più totale riserbo, denunciano i sindacati, con procedure diverse da quelle normalmente in uso all’interno del porto, di fatto bypassando il controllo dei lavoratori portuali e con l’utilizzo dei marittimi della nave anziché col personale locale di terra. A denunciare i movimenti sospetti nel Mediterraneo è anche Mauro Pili, un passato da governatore sardo con Forza Italia e oggi attivista del movimento Unidos contro le servitù militari e le bombe prodotte in Sardegna: “In questo momento ci sono tre navi al largo dell’isola pronte ad approdare qui. Anche la Bahri Yambu, la nave stoppata dai portuali di Genova, aveva preannunciato una sosta a Cagliari, poi visto il rumore suscitato ha preferito rinunciare. È possibile che già nelle prossime ore la Bahir Aba, da tre giorni ferma a Genova, si diriga verso il capoluogo sardo. La verità – prosegue Pili – è che sotto i nostri occhi in questi giorni si sta organizzando il carico più ingente della storia: oltre 30 container, per un totale di cinquemila bombe che andranno a massacrare i civili nello Yemen nel silenzio delle nostre istituzioni che chiudono gli occhi davanti alla palese violazione della nostra Costituzione, della legge 185/90 e dei principali trattati internazionali sull’export delle armi. Ancora per quanto?”.

La pressione dell’opinione pubblica sta crescendo ed è per questo secondo Pili che si assiste a un’accelerazione delle produzioni da parte della Rwm e del via vai di navi per la Sardegna, nel timore che arrivi prima o poi l’embargo su un affare che solo per le bombe Mk80 made in Domusnovas vale 42 milioni di euro. Il totale della fornitura autorizzata nel 2016 dal governo Renzi verso Ryad è da capogiro: oltre 400 milioni di euro. Difficile rinunciare.

Anche un camorrista firmò per Velardi (Pd) Chiusa l’inchiesta

Quel pasticciacciobrutto delle firme di sottoscrizione della lista “Orgoglio Marcianise” potrebbe finire davanti a un giudice. Tra i sei destinatari di un avviso concluse indagini della Procura di Santa Maria Capua Vetere c’è anche il sindaco di area Pd, Antonello Velardi, capo redattore centrale del Mattino. È accusato di falso materiale ed ideologico insieme a dipendenti comunali e ai presentatori di una lista che ha eletto due consiglieri nella coalizione del primo cittadino. Tra le 99 firme ritenute false che hanno consentito la discesa in campo di “Orgoglio Marcianise” nel 2016, ci sarebbe anche quella di un uomo che in quei giorni era in carcere con accuse di camorra, e di una signora deceduta. La notizia dell’avviso è stata diffusa dallo stesso Velardi. “Francamente – scrive sui social il sindaco – non so quali sono le mie responsabilità circa questa vicenda che ignoro del tutto, spiegherò agli inquirenti tutto ciò. Non so francamente neanche di che cosa si parla: il mio coinvolgimento è solo legato al fatto che ero candidato, non mi sono mai occupato della raccolta delle firme”.

Chiesto il processo per l’ex ministro Clini e il sindaco Occhiuto

La Procura di Romaha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex ministro dell’ambiente, Corrado Clini e per il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, con l’accusa di associazione a delinquere. Nell’ambito di un’indagine vastissima, cominciata nel 2013 e conclusa lo scorso ottobre, sarebbe emerso il coinvolgimento di 27 persone nel drenaggio di fondi pubblici italiani, destinati a progetti ambientali in Cina e in altri Paesi stranieri. Sotto la lente del sostituto procuratore Alberto Galanti soprattutto i compensi percepiti dalla compagna di Clini, Martina Hauser, ex assessore comunale di Cosenza, che avrebbe beneficiato di incarichi anche all’estero.

I compensi? Centinaia di migliaia di euro, “mazzette” indirizzate all’ex ministro. E, nei documenti acquisiti, si troverebbe traccia di finanziamenti concessi senza alcuna gara pubblica, nonché di appalti assegnati a ditte italiane e straniere in cambio di lavori per privati vicini a Clini. L’ex ministro però respinge le accuse e si dichiara tranquillo: “Finalmente avrò l’opportunità di raccontare ai giudici anche i contenuti e i risultati del mio lavoro in 25 anni di attività al ministero dell’Ambiente”.