Quando gli indagati parlavano di Cosimo “Andiamo da lui”

Il gruppo di potere formato dagli avvocati e soci Piero Amara e Giuseppe Calafiore, assieme all’imprenditore Fabrizio Centofanti, sembra essere a stretto contatto non solo con il pm ed ex consigliere Csm Luca Palamara, indagato per corruzione a Perugia. I contatti ci sarebbero stati anche con Cosimo Ferri, attuale deputato renziano del Pd, ex sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta e Renzi, prima ancora vicino a Forza Italia; ex leader di Magistratura Indipendente, la corrente più conservatrice delle toghe.

Cosimo Ferri, come si sa, il 9 maggio scorso, si ritrova con Palamara, intercettato, a parlare di un esposto del pm romano Stefano Fava, ora indagato anche lui a Perugia, contro l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone e contro l’aggiunto Paolo Ielo. Presenti anche l’ex ministro Luca Lotti, renzianissimo (rinviato a giudizio, su richiesta di Pignatone, Ielo e Palazzi, per favoreggiamento nel caso Consip) e il togato Csm Luigi Spina, indagato.

Due anni fa, invece, parlavano di Ferri, ma non si può escludere che millantassero, Calafiore e l’ex pm Giancarlo Longo, nel cui ufficio c’era una cimice degli inquirenti. Quest’ultimo è l’ex magistrato che insieme ad Amara, Calafiore e Centofanti, fa un viaggio a Dubai, ricordato anche nel decreto di perquisizione emesso due giorni fa dalla Procura di Perugia a carico di Palamara. Siamo nel gennaio 2017 e Longo, che poi ha patteggiato cinque anni per corruzione in atti giudiziari a Messina, parla con Calafiore, soprannominato “Escobar”, che a Roma ha patteggiato una condanna a 2 anni e 9 mesi per lo stesso reato. L’oggetto della conversazione è la posizione del procuratore capo di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, soprannominato dagli indagati “il vigile”, ago della bilancia nella disputa di alcune indagini sulla compagna di Calafiore.

Secondo gli inquirenti, Amara, che per corruzione in atti giudiziari ha patteggiato a Roma una pena di 3 anni e Calafiore, avrebbero tentato di sfruttare i loro “contatti” con la sfera politica nazionale per fare pressioni su Giordano, affinché le indagini sulla compagna di Calafiore finissero solo sulla scrivania di Longo, che l’avrebbe protetta. Per pressare Giordano, Amara e Calafiore si sarebbero rivolti all’ex deputato Denis Verdini e a Ferri, all’epoca sottosegretario alla Giustizia. Va detto che Ferri, interpellato dal Fatto, nega rapporti con Calafiore: “Mai visto, mai conosciuto”. “Denis (Verdini, ndr) ha chiamato Cosimo – sosteneva Calafiore con Longo – Cosimo già gli ha telefonato oggi, e gli ha detto: ‘Ti devo parlare!’”. Longo rispondeva preoccupato: “Parlare! Questo ti deve, cioè è lui che dipende, cioè io posso mettere come un muro”. L’avvocato lo rassicurava: “Ma quello ci parla, non c’è dubbio”. E Longo, riferendosi a Giordano: “Si deve far cagare”. “Io ci vado e gli dico: Procuratore stiamo predisponendo un’interrogazione parlamentare, senza cazzi – tuonava Calafiore –. Ora me ne vado da Ferri e gliele porto anche a lui”.

Ferri ha una carriera sfolgorante da magistrato e da politico. A soli 35 anni, con 553 preferenze, nel 2006 fu eletto al Csm nonostante fosse rimasto coinvolto in Calciopoli, da cui uscì dimettendosi da commissario Figc e così evitando di essere giudicato. Nel 2009 è stato chiamato in causa in un’intercettazione sul caso Agcom-Annozero, quando Berlusconi voleva impedire, da premier, una puntata sulla corruzione del testimone David Mills, processato a Milano.

Nel 2010, il suo nome spunta nelle intercettazioni della cosiddetta P3, che al Csm briga soprattutto per far nominare Alfonso Marra come presidente della Corte d’Appello di Milano. L’ex giudice tributarista Pasqualino Lombardi, che si interessa anche di altri magistrati, chiama la segretaria di Ferri. “Han fatto pure il pm di Isernia?”. E lei: “Aspe’, chi ti interessava?”. L.: “Paolo Albano, che è pure un amico!”. La segretaria, dopo un paio d’ore: “Ho chiesto proprio a Cosimo. M’ha detto che non ci dovrebbero essere problemi”. Mai, però, Ferri è stato indagato. Da sottosegretario alla Giustizia, irrompe nella campagna elettorale per il rinnovo del Csm, quadriennio 2014-2018. Ha fatto girare un sms chiedendo il voto per due candidati di Mi, Lorenzo Pontecorvo e Luca Forteleoni.

Palamara interrogato: “Mai preso soldi” E l’amico Spina si autosospende dal Csm

Luca Palamara, il pm romano accusato di corruzione a Perugia, nega di aver ricevuto soldi per favorire da consigliere Csm una nomina, mai avvenuta, nel 2016, dell’ex pm Longo a procuratore di Gela, in cambio di 40 mila euro.

Nega anche con i cronisti di aver ricevuto regali, come viaggi di lusso, dall’imprenditore Centofanti in cambio di favori: “Metto a disposizione di tutti il mio conto corrente”, assicura. E si sfoga: “Non mi riconosco in questa valanga di fango caduta sulla mia persona e sulla magistratura intera. Non ho mai barattato la mia dignità e professione con alcuno. Mai e poi mai ho interferito sulla nomina del procuratore di Gela, né avrei potuto farlo: per la semplice ragione che il Csm è un organo collegiale e in quegli anni nemmeno facevo parte della quinta Commissione, competente a decidere”.

Dalle intercettazioni erano emerse anche delle conversazioni di Palamara con i deputati dem, Cosimo Ferri e Luca Lotti: “Nell’attività che ho svolto non posso negare di avere conosciuto esponenti del mondo politico-istituzionale. Sono dieci anni che sono a vario titolo coinvolto, sia come presidente Anm sia come consigliere del Csm. Ho avuto in più occasioni incontri con i più svariati appartenenti al mondo politico di qualsiasi parte. Ciò non significa minimamente che le discussioni che ci sono state potessero interferire in qualche modo nella scelta dei capi degli Uffici giudiziari”. Un’altra toga coinvolta nell’indagine perugina, Luigi Spina, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale del collega Palamara, ieri si è invece autosospeso dalle sue funzioni di consigliere del Csm.

Tutte queste vicende sono ora all’attenzione degli ispettori del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, già nei primi giorni di maggio, hanno avuto il compito dal Guadasigilli di svolgere “accertamenti, valutazioni e proposte”. Evidentemente, il ministro era già stato “allertato” dalla Procura di Perugia.

L’Associazione Nazionale Magistrati, che si riunirà mercoledì prossimo, chiederà ai pm perugini “gli atti ostensibili per consentire una preliminare istruzione dei probiviri sulle condotte di tutti i colleghi, iscritti alla Anm, che risultassero in essi coinvolti”.

L’imputato Lotti parlava del futuro capo della Procura

Il 9 maggio Luca Lotti, in compagnia del collega di partito Cosimo Ferri, discute con Luca Palamara e Luigi Spina del futuro della procura di Roma e della successione di Giuseppe Pignatone. I quattro non sanno che la Procura di Perugia, dopo aver inoculato un trojan nel telefono di Palamara, trasformandolo in una cimice, sta intercettando le loro conversazioni. Sarebbe riduttivo definire l’intercettazione di questo consesso gelatinoso un mero atto d’indagine: ritrae in diretta la delegittimazione in cui stanno sprofondando la magistratura e un’importante parte della politica. Lotti, non a caso, è definito negli atti il “parlamentare imputato”.

È imputato, infatti, con l’accusa di favoreggiamento, nell’inchiesta Consip condotta dalla Procura di Roma. Non solo. Per Tiziano Renzi, accusato di traffico d’influenze nella stessa inchiesta, è stata richiesta l’archiviazione, ma non è stata ancora disposta: sul suo destino pende sempre l’ipotesi di un’imputazione coatta.

Lotti non doveva essere lì e non doveva interessarsi al futuro della Procura che ha chiesto il suo rinvio a giudizio. Non dev’essere affar suo se il posto di Pignatone sarà preso da Marcello Viola, Francesco Lo Voi o Michele Creazzo. Ma c’è di più. Discute con Palamara anche di quel che potrà accadere al suo accusatore: il procuratore aggiunto Paolo Ielo che, con il collega Mario Palazzi, ne ha chiesto il rinvio a giudizio.

Lotti è in compagnia di Cosimo Maria Ferri, ex magistrato, storico e inossidabile ras della corrente di Magistratura Indipendente, oggi deputato del Pd: una formidabile cerniera tra mondo politico e giudiziario. A invischiare il quadro c’è la presenza del componente del Csm, Luigi Spina. A renderlo insostenibile c’è infine il protagonista dell’indagine: l’ex presidente dell’Anm e consigliere del Csm Luca Palamara, uomo forte della corrente Unicost, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, sostituto procuratore a Roma, dove aspira a conquistare la poltrona di procuratore aggiunto.

È già difficile in questo contesto cogliere la separazione tra i due mondi, quello politico, giudiziario e correntizio, ma a rendere più fosco il clima è un altro contenuto della loro conversazione: l’esposto che, secondo l’accusa, sarà lo “strumento” di Palamara per “recare discredito” a Ielo, ovvero il magistrato che ha indagato Lotti chiedendone il suo processo.

Lotti e Ferri non dovrebbero essere lì e non dovrebbero assistere alla strategia che, in base all’accusa, mira a colpire Ielo. Invece ci sono. A scrivere l’esposto consegnato al Csm – e destinato alla Procura di Perugia secondo la conversazione – è stato il pm romano Stefano Fava. “L’esposto di Fava – scrive la Procura di Perugia – nell’intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare il procuratore che ha disposto, all’epoca, la trasmissione degli atti a Perugia”. E ancora “…la consegna di carte da Fava a Palamara”, aggiungono i pm umbri, è “finalizzata a recare discredito al procuratore aggiunto Paolo Ielo”.

Al centro dell’esposto di Fava – che i pm definiscono “circostanze allo stato smentite dalla documentazione fin qui acquisita” – c’è la mancata astensione di Ielo e del procuratore capo uscente di Roma Giuseppe Pignatone, in un fascicolo che riguarda l’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, per il duplice motivo che il fratello di Ielo ha lavorato per Eni mentre quello del procuratore capo ha in passato collaborato con Amara.

E ancora: Spina – si legge negli atti di Perugia – rivela ai tre che “all’esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe stato secretato”. Spina alla presenza di Palamara e Ferri fornisce al “parlamentare imputato” Lotti un’informazione che riguarda il suo accusatore e la manovra di “discredito” che sta per colpirlo. Manovre contro Ielo e discussioni su chi sarà il nuovo procuratore di Roma. Tutto questo non è solo un atto d’indagine. È il finale di una commedia tragica che oltre ai tre magistrati, vede protagonista il Pd e quel che resta del Giglio magico e del suo senso delle istituzioni.

Il Mitomane

Il problema non è Salvini che si crede il presidente del Consiglio. Il problema sono tutti quelli che lo credono il presidente del Consiglio e lo convincono di esserlo. La mitomania è un fenomeno piuttosto noto e ricorrente nella letteratura, soprattutto clinica: la “tendenza ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia e a raccontarli come veri allo scopo di attirare su di sé l’attenzione altrui e soddisfare così la propria vanità”. I reparti psichiatrici sono pieni di degenti che si credono Napoleone, Garibaldi, Leonardo da Vinci. A prenderli per tempo, sono pure curabili. Il guaio è quando gli psichiatri, anziché curare i pazienti, assecondano le loro mitomanie. Nel caso di Salvini, questa funzione asseverativa la svolgono i giornaloni. Che, prima delle elezioni, lo descrivevano come un infaticabile stakanovista delle leggi e delle decisioni, unico padrone incontrastato del governo, anche se non ha praticamente mai messo piede al Viminale e quasi tutte le norme prodotte da maggioranza e governo sono targate 5Stelle. E ora, dopo il voto, continuano imperterriti a correr dietro a quel che dice, come se le sue parole avessero un qualsivoglia rapporto con la realtà. Sono stati loro, prim’ancora della sua macchina da like detta “Bestia” e degli elettori, a pompare questo fenomeno da baraccone tutto virtuale, questo pallone gonfiato pieno d’aria e ora anche di voti. Un caso ormai incurabile di mitomane che si crede Superpremier e Superministro e cambia dicastero a ogni ora del giorno, come il personaggio di Alberto Sordi in Troppo forte di Carlo Verdone: l’avvocato Giangiacomo Pignacorelli in Selci che, di punto in bianco, sgrana gli occhi, trilla “dadan-dadan!”, smette la toga e indossa la tutina aderente per diventare un ballerino-coreografo che danza sull’aria di Oci Ciornie, mentre le anziane sorelle ricordano “quando faceva il dentista e cavò tre denti al fruttivendolo che gli fece causa perché erano tutti sani”. Alle pareti, le foto delle sue precedenti incarnazioni accanto a Papa Giovanni e Togliatti.

Ore 8, ministro della Difesa. Salvini, in tuta mimetica, attacca la collega Trenta, dicendosi deluso di come conduce il dicastero e alludendo a un imminente rimpasto per rimediare personalmente. Dunque, “non chiedo rimpasti”.

Ore 9, ministro dei Trasporti e Infrastrutture. Salvini, in divisa da capomastro, attacca il collega Toninelli, dicendosi furioso per il blocco dei cantieri (senza mai dire quali, anche perché non ne è stato bloccato neppure uno) e lodare “la Tav” che ora sarà “finanziata per il 55% dall’Ue” (ovviamente ignara di tutto).

Insomma, “con Toninelli ci sono problemi, è evidente”. Dunque “ho piena fiducia in Toninelli”.
Ore 10, ministro del Sud. Salvini, in coppola, giacca di velluto e cartucciera, se la prende con la collega Barbara Lezzi che lui sostituirebbe volentieri perché sa cosa fare per il Sud. Ma non lo dice, sennò gli rubano l’idea. Dunque, “nessun rimpasto”.
Ore 11, ministro dell’Ambiente. Salvini, con la felpa di Greenpeace, critica il collega Sergio Costa perché non sa fare il suo mestiere, rifiutando di riempire l’Italia di inceneritori e di cantieri inquinanti. Dunque, “niente rimpasti”.
Ore 12, ministro della Chiesa. Salvini, in completo bianco, con tanto di tiara, mitria e papalina pontificia, si affaccia dalla finestra di via Bellerio per la tradizionale recita del Mattheus: bacia un rosario, la teca portatile col sangue di San Gennaro e un dente di Padre Pio. Poi polemizza con papa Francesco che non lo riceve in Vaticano. “Io, al suo posto, mi sarei già ricevuto”.
Ore 13, ministro della Giustizia. Salvini, appresa la notizia della condanna del suo viceministro Rixi a 3 anni e 5 mesi di carcere per peculato, indossa la toga di avvocato e giudice, dice che “non ci sono prove” e “accetta le dimissioni di Rixi” nelle proprie mani per il bene del governo e della Nazione tutta. Poi Rixi apprende che le dimissioni, perché siano valide, deve inviarle a Conte che deve firmare un decreto e inviarlo a Mattarella: così le gira al premier, di nascosto dal capo.
Ore 14, pausa pranzo.
Ore 15, ministro dell’Economia. Salvini, travestito da docente di Economia, annuncia che l’Italia sforerà il 3% di deficit e farà subito la Flat tax. Poi si reca in visita al ministro Tria e gli comunica che il 3% non si sfora, senza fargli il minimo accenno alla Flat tax. All’uscita, conferma che è tutto a posto per lo sforamento del 3% e la Flat tax.
Ore 16, ministro delle Finanze. Salvini, in divisa da fiscalista, annuncia un condono tributario, che però nessuno ha visto. Nemmeno lui.
Ore 17, ministro dello Sviluppo economico. Salvini, un po’ stretto nell’abitino di Di Maio, si accorda con i 5Stelle sul dl Sblocca-cantieri. Poi, all’uscita, fa presentare dai suoi un emendamento allo Sblocca-cantieri che lo bloccherebbe, trasformandolo nel Blocca-cantieri.
Ore 18, ministro dei 5Stelle. Salvini, travestito da Beppe Grillo con parrucca e barba posticcia, intima ad Alessandro Di Battista di non immischiarsi nel M5S: “Prenda il motorino e giri il mondo”.
Ore 19, ministro della Rai. Salvini si affaccia dal settimo piano di Viale Mazzini 14 e comunica urbi et orbi che “Fazio e Lerner alla Rai non sono il cambiamento”, diversamente da Teresa De Santis (in Rai dal 1979) e Gennaro Sangiuliano (dal 2003).
Ore 20, ministro della Salute. Salvini, in camice bianco da dentista, viene fermato da un passante che gli domanda: “Ma lei non è il ministro dell’Interno?”. E lui: “Certo, infatti ho appena minacciato di revocare la scorta a Saviano”. Poi cava tre denti sani al fruttivendolo sotto casa. Nessuna notizia degli psichiatri che lo hanno in cura.

La rivoluzione incompresa di Ingres

Di fronte all’acquerello Angelus Novus (1920) di Paul Klee, il grande filosofo Walter Benjamin – a cui il quadro è appartenuto fino alla morte – annota nella settima tesi del saggio Sul concetto di Storia (1940): “Un angelo v’è raffigurato che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. […] L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Il viso è rivolto al passato. […] Ma dal paradiso soffia una tempesta, che s’è impigliata nelle sue ali ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge inarrestabilmente nel futuro a cui volge le spalle”.

L’immagine dell’angelo della storia, che non si àncora al passato e viene spinto verso il futuro, ben spiega allegoricamente cosa rappresenterà per l’arte a venire, la figura a cavallo tra i secoli Ddiciottesimo e Diciannovesimo di Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867). Nella considerazione dei contemporanei, Ingres è un incompreso e marginale neoclassicista con l’ossessione per Raffaello, le cui opere vengono derise: il collega Eugène Delacroix gli rimprovera “un gusto che mischia antico e raffaellismo imbastardito”; per Baudelaire “altera il bello”; Edmond de Goncourt critica “le sproporzioni quasi caricaturali” dei soggetti.

A ben guardare, per esempio, i fianchi esageratamente voluttuosi della fanciulla dipinta in Dormiente o di Antiope in Jupiter e Antiope, esposte a Palazzo Reale a Milano per la mostra Jean Auguste Dominique Ingres. La vita artistica ai tempi dei Bonaparte (a cura di Florence Viguier-Dutheil, fino al 23 giugno), non si può dare formalmente torto a quelle impressioni, colpevoli solo di non aver saputo afferrare la rivoluzione di Ingres. Come un benjaminiano angelo della pittura moderna, apre all’idea della bellezza più evocata che rappresentata, in uno studio della forma che esalta e travalica la forma stessa. Accanto a opere di contemporanei (il maestro Jacques-Louis David, ma anche François-Xavier Fabre e Canova), sfilano 60 eclettici capolavori del realista e manierista Ingres: si passa dal rigore anatomico nello studio del corpo in Uomo seduto e Torso maschile, alla seducente Grande Odalisca dall’ipnotica, esasperata e lunghissima schiena. E poi ancora, dall’espressiva ritrattistica privata allo stile troubadour, tra cui spicca La morte di Leonardo da Vinci, in cui Ingres immagina il genio toscano morire tra le braccia di Francesco I. A chiudere, il grande quadro Napoleone I sul trono imperiale (opera-manifesto della mostra), in cui l’imperatore è magnificato come un dio.

Il teatro in miniatura della piccola Angelica

Gallucci, casa editrice specializzata in libri per bambini e ragazzi, propone una riedizione de Il grande viaggio della piccola Angelica, libro scritto e illustrato dalla poliedrica Charlotte Gastaut, artista francese capace di muoversi con disinvoltura tra moda e letteratura per l’infanzia, già autrice per la stessa Gallucci di diversi titoli (Lilì nel lettone, Storie dalle Mille e una notte, Il flauto magico) e nota al pubblico italiano anche grazie al “Romics d’Oro” per l’illustrazione di cui è stata recentemente insignita nella Capitale.

Lo stile evocativo e onirico della Gastaut, capace di incantare grandi e piccini, è chiaramente riscontrabile ne Il grande viaggio della piccola Angelica, storia di ordinaria quotidianità di una bambina intrappolata nelle consuete responsabilità domestiche. Bambina che, grazie a quella fantasia di cui solo l’infanzia è gravida, riesce con la velocità di un voltar di pagina, come in Alice nel Paese delle Meraviglie, a catapultarsi in un mondo immaginifico fatto di nuvole, boschi incantati dai fiori giganti, elfi, sirene e animali fantastici che si muovono tra i fogli traforati di un libro che diventa, per la gioia dei piccini, una sorta di teatro in miniatura.

L’inferno esiste, e non è quello che pensavate di conoscere

Avere una rubrica permette qualche piccolo privilegio, come indulgere ai propri gusti. Mi scuso quindi con chi non li condivide, ma approfitto di questo spazio per parlare ancora una volta di Garth Ennis. Saldapress continua a pubblicare in Italia i titoli dell’etichetta indipendente Aftershock con la quale Ennis sta dimostrando il suo salto di qualità: dopo essersi divertito con i supereroi, che ha ribaltato a colpi di parolacce, ironia, blasfemia e umorismo, ora ha superato la fase dello sberleffo. E inventa a getto continuo serie nuove, alcune minori (Jimmys’Bastards sembra Ennis che imita Tarantino che cita Ennis… ), altre notevoli come Discesa all’inferno. Due agenti speciali dell’Fbi cercano di smantellare un network di pedofili, o di incastrare un unico serial killer, non lo sanno bene neanche loro. Ma alla vigilia di Natale entrano in un magazzino buio, a Long Beach, in California. Loro che pensavano di aver già conosciuto l’inferno sulla terra, di aver visto ogni orrore, si ritrovano prigionieri di un altro inferno, più classico: in quel magazzino sono forse morti? Tutte le assurdità che vedono sono un prodotto dei loro incubi, di qualche droga o è la giustizia divina? A stare a contatto con il male, non si può restare puri. Ed entrambi, Shaw e McGregor, hanno qualcosa da confessare. L’inferno non sono gli altri, come diceva Jean Paul Sartre, l’inferno è quello che vediamo quando siamo costretti a confrontarci con i compromessi morali che abbiamo fatto noi stessi. I disegni di Goran Sudzuka sono impeccabili, come nella migliore tradizione di Garth Ennis sono leggermente sfasati rispetto al tono della sceneggiatura: più morbidi e caldi, così da far risultare la durezza del testo. È solo il primo volume, la storia non finisce e continua. Ma intanto è una delle cose migliori che potete trovare in libreria.

Il bis vincente di Vanina Guarrasi, vicequestore d’alta classifica

Ripetersi o superarsi all’opera seconda non è per niente facile. C’è chi dopo un esordio brillante se non stupefacente ha l’ansia da prestazione e delude e chi invece con serafica calma bissa felicemente il successo del primo. Il giallo italiano è pieno di nuovi autori che si dividono in queste due categorie e Cristina Cassar Scalia si colloca tra i bis vincenti. Non a caso, dopo il sorprendente Sabbia nera, anche il suo nuovo romanzo La logica della lampara è subito entrato in classifica appena uscito. La protagonista è una scorbutica poliziotta palermitana che però fa il vicequestore a Catania. Si chiama Giovanna Guarrasi detta Vanina.

La durezza del suo carattere è una difesa dal dolore. Vanina ha visto ammazzare il papà dalle cosche e decenni dopo, da “sbirra”, ha salvato il pm eroe antimafia e suo fidanzato da un attentato. E così per rendersi immune dalle conseguenze dell’amore ha scelto di rimanere da sola, andando a vivere in campagna sotto la Muntagna che sparge di sabbia nera Catania. L’Etna, ovviamente. In questa seconda inchiesta di Guarrasi colpisce la feconda lentezza siciliana nella soluzione di un enigma e che è una caratteristica inimitabile di chi è nato scrittore in quell’isola. Senza scomodare Sciascia, che un pochino si potrebbe anche citare, il rimando più scontato è alle silenziose contorsioni cerebrali di Montalbano. Guai però ad accostarla al poliziotto superstar di Vigata. I paragoni sono sempre stucchevoli. In questo libro scompare una bella avvocata di nome Lorenza Iannino. Emerge una doppia vita della ragazza e Vanina insieme con la sua squadra applica la logica della lampara. “Una cosa lenta, senza tempi. Una filosofia”. Appunto.

 

I silenzi indigesti dei pranzi familiari

“Maria do Ceu era morta in ospedale, alle prime ore del mattino di quel 15 novembre. Nessuno dei suoi tre figli, che pure si davano i turni pur di non lasciarla mai sola, le era stata accanto”. Maria do Ceu, la donna che aveva combattuto tutta la vita per tenere insieme quei tre figli, per sostenerli e preservarli, per nascondere loro anche l’onta di un amore tradito, muore sola, in un letto di ospedale. Ed è proprio la sua solitudine a dare il senso, per sottrazione, al racconto delle vite di chi rimane. Una solitudine senza tempo, perché il tempo si è portato via i ricordi e con loro anche le speranze. Una solitudine senza spazio, perché l’unico spazio di condivisione sono quegli impenetrabili Pranzi di famiglia che danno il titolo al romanzo di Romana Petri, il seguito ideale di Ovunque io sia che ben si legge anche come racconto a sé stante.

Dopo la morte di Maria do Ceu, la sola cosa che può fare Vasco, il figlio maschio, è tentare disperatamente di ricordare, annotando su un quadernino ogni singola scena antecedente alla morte della madre gli venga in mente. Un percorso obbligato per lasciar andare quel fantasma così ingombrante e capire che, quando manca il collante, i pezzi si disgregano indipendentemente dalla propria volontà. Vedi Joana, per esempio, la sua splendida gemella che ha creduto con la sua vita di riscattare il dolore di Maria do Ceu, di normalizzare l’amore e i suoi sensi di colpa, per essere nata bella a dispetto dell’altra sorella, Rita: nata deforme e costretta a subire quindici interventi di chirurgia facciale – per l’accanimento materno – costei rimane comunque un minuscolo esserino di 40 chili dominato dalla rabbia. Joana lavora in ospedale, ha un marito brutto ma apparentemente devoto, con il quale avrà due figli che saranno la sua definitiva prigione. Rita ha un impiego in banca, procuratole dal padre Tiago, che nell’evoluzione dei personaggi tra il primo e secondo romanzo, è diventato un potente ministro portoghese della Sanità ed è rimasto sposato con Marta, la donna che tutti indicano – senza crederci realmente – come la principale indiziata dell’infelicità, in vita, di Maria do Ceu.

Esiste una via di fuga nelle famiglie? Esiste un modo per sopravvivere all’ipocrisia, alla falsità, al non-detto o all’urlato? Esiste il coraggio di sottrarsi ai pranzi? Si può sopravvivere al dolore? Ci si può salvare? Come nei romanzi precedenti e con la maestria di una grande pittrice, Romana Petri trasporta il lettore per le vie di una Lisbona che potrebbe essere in ogni dove, all’interno di una famiglia che potrebbe essere la nostra, e scandaglia con una lama sottile e affilata le dinamiche che si masticano – e spesso vanno di traverso – intorno a una tavola. Un intervento chirurgico su un paziente né vivo né morto. A Vasco “parve di fare un calcolo approssimativo di tutte le ore che aveva trascorso accanto a sua madre da quando era nato. E poi sottrasse quelle in cui non erano state insieme, e gli sembrarono troppe”. Un romanzo per sottrazione, perché in fondo è più semplice, e più comodo, ricordare le parti mancanti.

Lina Prosa rilegge Omero: “La guerra di Ulisse oggi è contro il surriscaldamento”

“Se Ulisse fosse vissuto nel presente, la guerra da combattere sarebbe quella contro il cambiamento climatico”. Non ha dubbi Lina Prosa, prolifica drammaturga che ha dedicato la sua opera a quelli che considera i problemi più attuali per l’umanità ormai alla deriva. In Ulisse Artico, in scena il 9 giugno allo Spazio Teatro No’hma di Milano, il suo eroe non affronta ciclopi e sirene, ma si confronta con un nemico imponente: il mare stesso, che, ingrossato dallo scioglimento dei ghiacciai, miete più vittime di un’armata.

Ulisse dovrà quindi confrontarsi con i suoi limiti e con la terribile sensazione di essere di fronte a un destino ineluttabile. “La sfida più grande – spiega l’autrice – è fare qualcosa finché siamo in tempo. Ben venga la sollevazione delle coscienze: da ognuno di noi dipende la sopravvivenza stessa della Terra; ogni nostro piccolo gesto influisce sul grande schema”.

Anche in questa occasione, Prosa si rivela fautrice di una attenta commistione fra teatro classico e contemporaneo: “Viaggiare nel nostro tempo senza memoria è impossibile. I classici sono un’indispensabile chiave di lettura della realtà. Attraverso l’esempio di personaggi mitici comprendiamo l’umanità e noi stessi”.

Non è la prima volta che Prosa tratta temi scomodi: celebre la sua Trilogia del Naufragio, ambientata a Lampedusa, che mette in scena il dramma dei migranti, che tentano disperatamente di raggiungere le nostre coste. Un’opera tradotta e interpretata in mezza Europa, che le è valsa anche il plauso del Consiglio d’Europa e del ministero della Cultura francese, che l’ha insignita del titolo di Cavaliere delle Arti.

“Come drammaturga, sento una certa responsabilità nell’usare le parole, strumenti delicati che maneggio per farmi portavoce del disagio. La verità appartiene a uno sguardo critico, non più alla politica. E arte, teatro e letteratura devono far aprire gli occhi agli spettatori”.