Quel carcere chiamato Famiglia

I padri sono un’invenzione letteraria: non servono a nulla se non a innescare tragedie, per la gioia di tutti gli autori, da Shakespeare alla Bibbia a Valentina Esposito, che firma e dirige una pièce sulla famiglia, quella sottospecie di “galera, in cui le cose non cambiano mai; si ripetono soltanto”.

Nel 2014 Esposito ha fondato Fort Apache Cinema Teatro, un progetto di inserimento nel mondo del lavoro (dello spettacolo) rivolto a detenuti ed ex detenuti, alcuni dei quali in scena in questa Famiglia, un’opera costruita in modo circolare attorno a un matrimonio. A sposarsi è Viola, nipote di calabresi immigrati nottetempo nella capitale, più parenti sparsi nel mondo, in America soprattutto: l’ensemble al completo si ritrova alle nozze, che somigliano invero a un funerale, ma “senza le cerimonie che ne sarebbe delle famiglie? Sarebbero tutti dispersi, tutti figli di nessuno”. Così, dopo anni, tornano ad attovagliarsi insieme padri malati e figliol prodighi, fratelli e coltelli, uomini fuggiti perché vigliacchi e zii rimasti coraggiosamente a farsi prendere in giro.

Sono tutti grigi qui, anche se alcuni sono vestiti di bianco e altri di nero; si somigliano tutti qui, e infatti i vivi si confondono con i morti: anzi, sono i morti a “comandare”, a “tenere unita la famiglia con la violenza”, a condizionare le vite dei vivi, a partire dal nonno-patriarca (Marcello Fonte), quel “seme marcio” che ha generato la malapianta di padri cattivi, figli ancor più cattivi e “bambini che non dimenticano”, i più rancorosi di tutti.

L’odio tesse una trama più forte dell’amore; la lontananza unisce più della presenza; il passato cementa i rapporti più del presente, e di futuro non vi è traccia: “Questo spettacolo è dedicato a chi non c’è – spiega la regista nelle note –. Sulla scena ci sono tutti, le persone, i personaggi e i fantasmi. Non importa se non c’è più il muro di un carcere a separarli. Ancora una volta questi attori usano il teatro per quello che serve, per colmare una distanza, per aggredire il senso di colpa, per sostenere il peso del giudizio… Ci raccontano della ferocia degli affetti”.

Che si chiami famiglia o carcere, per la rabbiosa intensità degli interpreti poco cambia. Oltre al blasonato Fonte, ci sono Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi, Cristina Vagnoli: in palco sono tutti potenti, chi fuoco-e-fiamme, chi con grazia ricuce e danza (le poche donne, soprattutto), consapevole che dalla cenere a qualcuno toccherà pur risorgere, pur salvarsi, pur riconciliarsi.

Come nelle foto, i membri di questa famiglia disgraziata sono “troppo vicini, ma non vicini abbastanza”. Forse, però, è meglio così: toccarsi – tra padri, figli, fratelli – sarebbe la più delittuosa delle tragedie.

Ciro Di Marzio è ancora vivo: uno spin off per il boss

Sono iniziate in Puglia le riprese di Si vive una volta sola, il 27esimo film diretto da Carlo Verdone che ne è anche uno dei protagonisti dopo averlo sceneggiato con Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino. La nuova commedia prodotta da FilmAuro con il sostegno della Apulia Film Commission e in uscita a gennaio vedrà in scena un’autorevole équipe di medici guidata dal professor Gastaldi (Verdone) e formata da una strumentista (Anna Foglietta), un anestesista (Rocco Papaleo) e il suo assistente (Max Tortora), tutti eccellenti professionisti ma inaffidabili, fragili e maldestri nella vita. I tre uomini e la donna, accomunati anche dall’essere insospettabili maestri di beffe e scherzi spietati, si ritroveranno a compiere un viaggio attraverso la Puglia (riprese a Bari, Monopoli, Polignano, Otranto e Salento) ricco di incontri, avventure esilaranti e rivelazioni sorprendenti fino a un colpo di scena che potrebbe modificare per sempre le loro esistenze.

Nel film L’immortale di cui è sia regista che protagonista da qualche giorno a Napoli e dintorni, Marco D’Amore fa rivivere il suo celebre personaggio del feroce e sentimentale Ciro Di Marzio assassinato dall’amico/rivale Genny Savastano alla fine della terza stagione di Gomorra. Il carismatico attore casertano dirige un lungometraggio/spin off del racconto seriale prodotto da Cattleya e Vision Distribution, nelle sale a Natale, da lui sceneggiato con Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli e Francesco Ghiaccio con l’intento di far luce sul passato e sui fantasmi di Ciro. Lo si vedrà moribondo nelle acque del Golfo di Napoli e tornare con la memoria a quando sopravvisse appena nato al rovinoso terremoto che sconvolse la Campania nel 1980, per poi crescere orfano tra i vicoli, imparare le spietate leggi del crimine e diventare un fedele soldato del boss Pietro Savastano.

Resistere alla camorra a colpi di “Selfie”

Rione Traiano, l’estate del 2014: un carabiniere scambia un ragazzo di sedici anni, Davide Bifolco, per un latitante (Arturo Equabile, già intervistato dal Fatto), spara, lo uccide. Il 16 ottobre del 2018 in appello la pena gli viene ridotta a due anni e quindi sospesa. Alla notizia, il fratello di Davide, Tommaso, non mangia né dorme per cinque giorni, e muore d’infarto. Agostino Ferrente, cineasta di valore (L’orchestra di Piazza Vittorio, Le cose belle con Giovanni Piperno), incontra il padre Gianni Bifolco e decide di avvicinare altri ragazzi come Davide: sceglierà Alessandro e Pietro, amici fraterni, le case separate proprio da Viale Traiano, dove il loro coetaneo venne ammazzato.

Ferrente sa che di quella realtà, la camorra, e di quella finzione, Gomorra, abbiamo già visto molto, forse troppo: “La mia ossessione era raccontare gli sguardi di questi ragazzi, concentrandomi non su quello che vedono, che oramai tutti conosciamo, ma sui loro occhi che guardano”. Un selfie lungo un film: non vediamo la loro soggettiva, ma loro, i soggetti, e lo sfondo che volenti o nolenti è habitat, humus, teatro e destino quotidiano.

Protagonisti e operatori di macchina, pardon, di iPhone, Alessandro e Pietro ci offrono una visione partecipata del Rione Traiano, uno specchio riflesso in cui vedere è conoscere e insieme vivere: il loro videoselfie è inframmezzato, contrappuntato, quasi contrastato dalle immagini anodine e oggettive delle telecamere di sicurezza, che tutto sorvegliano e nulla possono. Viceversa, quella di Alessandro, Pietro e quindi Agostino è un’opzione autenticamente inclusiva, solidale, persino fusionale. Il primo ha lasciato la scuola dopo un litigio con l’insegnante che pretendeva mandasse a memoria L’infinito di Leopardi, fa il garzone in un bar e in Selfie, presentato al Panorama dell’ultima Berlinale, s’è potuto prendere una rivincita, almeno sul poeta di Recanati: il proprio sguardo contro quella “siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Pietro, il suo migliore amico, non lavora, anzi, non fatica, giacché nessuno lo prende a fare il parrucchiere per cui ha studiato: passeranno l’estate al rione, così vicini così diversi.

Anche sull’immagine da propalare, corpi in campo, del loro quartiere: solo il loro rapporto e le cose belle, come vorrebbe Alessandro, o Malanapoli, con le brutture già diffuse a mezzo stampa? Ferrente dialettizza, fa del selfie l’immagine-affezione individuata da Gilles Deleuze e democratizza, senza delegare, la visione: “La domanda non è cosa guardi, ma cosa vedi”, sosteneva Thoreau; “La domanda non è cosa guardi, ma chi vedi”, risponde il regista.

È un film piccolo, confidenziale, vivo e resistente, Selfie, che cerca di elaborare nella visione il lutto, assimilare nello sguardo la tragedia e, forse, far baluginare la speranza. Ché Alessandro, infine, L’infinito lo farà suo.

“Da Cannes a mani vuote? Non sto mai con il potere”

Marco Bellocchio, Il traditore ha già superato i 2 milioni di euro al botteghino.
Un ottimo esito. Ho fatto film con un buon impatto al box office, ma nulla di paragonabile, almeno da Buongiorno, notte nel 2003. Peraltro, mi dicono il risultato de Il traditore sia nettamente superiore, e in un’epoca di cinematografi deserti.
Come se lo spiega?
La Storia – non la insegnano più a scuola, assurdo! – attrae, le parole tradimento, mafia anche. Poi, c’è Pierfrancesco Favino, un attore molto popolare che ha un ruolo perfetto. Si temeva la lunghezza (due ore e 25 minuti, ndr), invece no. Però sono mancati i premi a Cannes.
Non è una novità: è stato in concorso sette volte sulla Croisette, senza mai vincere. L’importante è partecipare, ma…

Non credo in maledizioni… dico la verità, pensavo… Forse conta anche il numero di partecipazioni, non che mi aspettassi un riconoscimento, però, Il traditore è stato bene accolto, anche dalla critica internazionale… (ride). Tanti miei lavori sono stati apprezzati in un secondo tempo, solo Gian Luigi Rondi – critico molto acuto, ma di destra e poi più di centro ed ecumenico – si batté e fece premiare i due attori (Michel Piccoli e Anouk Aimée, ndr) di Salto nel vuoto, Cannes 1980. Parlare di patria oggigiorno è un po’ pericoloso, però è chiaro che da giurati bisogna essere diplomatici oppure dire “a me piace quel film e basta!”.

Se n’è fatto una ragione?

Vicino agli 80 anni (il 9 novembre prossimo, ndr) lo ritengo un messaggio positivo: magari non tornerò più a Cannes, ma io non mi arrendo, non tanto per avere la patacca, bensì per continuare a fare cinema. Non sono mai stato di moda, non mi sono mai schierato con il potere: ho sempre rivendicato un certo anarchismo moderato. Sono stimato, molto, ma rimango fuori dai giochi, in campo autonomo.

In realtà, una “patacca” l’ha avuta: la menzione speciale della Giuria ecumenica, che dovette sorvolare sulla bestemmia, a L’ora di religione nel 2002.

Lo capirono più di altri, sarà l’attrazione degli opposti.

Ne Il traditore non ha ceduto alle lusinghe e ai parametri del “mafia-movie”.

Dovevo trovare la mia strada, cose che mi appartenessero in un tema e un soggetto lontani da me. Per i delitti ho cercato l’essenzialità e la rinuncia ai famosi punti di vista, per le grandi sequenze processuali il registro da teatro d’opera, un tragico grottesco: forme e sguardi personali.

Il critico del Village Voice, Bilge Ebiri, consiglia di doppiarlo in inglese, distribuirlo come Il Padrino – Parte IV e farci un sacco di soldi.

(Ride) Francis Ford Coppola è un riferimento, nella Parte III c’è l’opera lirica, io avrei voluto inserire la Cavalleria rusticana. Quando vidi la trilogia, rimasi profondamente coinvolto, gli stessi mafiosi lo prendono a esempio.

Bellocchio, che cosa ha riconosciuto in Buscetta?

Mi sono agganciato al titolo, non c’era spazio per dilemmi nevrotico-psicologici. Masino era un traditore di retroguardia, nella mia esperienza personale e culturale ci sono traditori che cercano di cambiare il mondo, di ribellarsi. Io stesso mi sono ribellato all’educazione cattolica: tradimento come affermazione di identità e rifiuto. Rispetto alla politica, poi, non ho rinnegato certi principi di sinistra, ma c’è stata una separazione: non sono mai stato complice né ho bordeggiato il terrorismo, però l’ho visto, anche in soggetti che ho conosciuto. In Buongiorno, notte ci sono riferimenti biografici.

Due tradimenti li ha confessati, il terzo è nei confronti dello psichiatra Massimo Fagioli, già suo intimo e assiduo collaboratore?

Non tradimento, ma fraintendimento. L’incidente è preciso: quando ricevetti il Leone d’Oro alla carriera (alla 68esima Mostra di Venezia nel 2011, ndr), volontariamente pensai di non citare Massimo Fagioli nei ringraziamenti, per riconoscere – non che volessi negare partecipazione e collaborazione – a me stesso una libertà. Da Fagioli e dai fagiolini venne interpretato quale ingratitudine estrema, tradimento, ma io non stavo annullando un’esperienza, me ne stavo separando.

Che un autore alla soglia degli 80 anni realizzi due film su commissione non sorprende anche lei?

È come se soggetti più autobiografici – I pugni in tasca, L’ora di religione e Il regista di matrimoni – volessero racconti più brevi, cechovianamente parlando. Sicché questi due ultimi mi sono stati suggeriti dallo stesso produttore, Beppe Caschetto, che mi ha lasciato la più ampia libertà: in Fai bei sogni, senza entrare nel giudizio del libro (Massimo Gramellini, 2012, Longanesi, ndr), vidi la possibilità di trarre un racconto personale. Sempre Caschetto ora mi dice: “Perché non facciamo un film sul processo di Norimberga?”. È un bellissimo soggetto, ma ci vuole l’idea buona, dev’essere un film internazionale. Voglio farlo, se vengo sollecitato…

Esterno notte, la serie su Moro, è ancora in piedi?

Sì, se il produttore Lorenzo Mieli non mi tradisce (ride). È un ribaltamento di campo, interessante, rispetto a Buongiorno, notte: la prigionia vista dall’esterno, una serie in sei puntate. Siamo ai soggetti, vanno affrontate alcune scelte: come rappresentare i personaggi, combinare repertorio e finzione, adattare le conversazioni private.

Lei è tendenza Riina, “meglio comandare che fottere”, o Buscetta, “meglio fottere che comandare”?

Meglio fottere, nel senso di vivere. Sono una persona piuttosto introversa, a Buscetta piacevano il casino e le donne. Comandare… non bisogna essere ipocriti, il mio ruolo è anche di comando, ma il potere… io verso i padri ho sempre avuto un’insofferenza. Pur essendo uno che deve comandare, mi sento più naturalmente vicino a chi non comanda. Mi viene in mente T.S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock: “No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be; Am an attendant lord”. Non sono Amleto, non sono nato per esserlo, sono un assistente.

Zelensky show: il ritorno degli oligarchi

È festa di fiori rossi all’aeroporto di Borispol a Kiev. Ieri Michail Saakashvili, – ex presidente della Georgia, poi governatore di Odessa nel 2015, prima amico e poi nemico dell’ex presidente Petro Poroshenko –, è tornato dal suo esilio forzato. “Sono tornato per costruire il Paese, non voglio nessuna posizione politica” ha detto a telecamere e sostenitori in giubilo. È stato il nuovo capo dello Stato Vladimir Zelensky a ripristinare la cittadinanza del georgiano, di cui lo aveva privato nel 2017, con accuse di frode e corruzione, il suo predecessore Petro Poroshenko.

Nel Paese il nuovo campo minato della politica non è nei territori dell’Est ancora in guerra, ma nella Capitale, dove tutti i nemici dell’ex presidente stanno tornando in patria. La nascita della nuova era Zeha indirizzo politico vetusto. O almeno continuità sotto il conosciuto motto: i nemici dei miei nemici sono miei amici. La sconfitta del re del cioccolato un mese dopo le urne continua. Anzi diventa doppia e forse sarà tripla, adesso che quadrano i cerchi del vincitore, che detta le condizioni più favorevoli per i nemici di Poroshenko, da lucidare come preziose armi per le prossime elezioni parlamentari. Un nuovo gioco di poltrone del potere e passaporti. Il 16 maggio ha fatto ritorno dal suo angolo al sole israeliano, dopo due anni d’esilio autoimposto, il tycoon Kholomolsky, che aveva lasciato il Paese dopo l’accusa di frode alla Privatbank, dove era maggior azionista.

L’istituto, nazionalizzato da Poroshenko nel 2016, è coinvolto in una battaglia legale ancora in corso per un buco nel bilancio di quasi sei miliardi di dollari. L’Fmi ha già avvisato che invertire di nuovo il processo di privatizzazione della banca metterebbe a rischio gli aiuti di quasi 4 miliardi, ma in Ucraina è un altro lo spettacolo che continua. Il tycoon, ex governatore di Dnipropetrovsk, che secondo molti è mentore della “marionetta Zelensky”, ora è indagato per riciclaggio anche dall’Fbi in America.

Non sarà “leader ombra o il cardinale grigio”, ma Kholomolsky ha già suggerito a Zedi “trattare i creditori come fa la Grecia”, respingendo il programma di austerità del Fmi senza aver paura del default perché “quante volte è già fallita l’Argentina?”.

Oltre ad oligarchi di ritorno nella patria bicolore, ci sono gli amici sistemati al potere. La nuova Ucraina è molto vecchia. Se prima li nascondeva e li rinnegava, ora Zelensky esalta i suoi legami col magnate: il nuovo capo staff del presidente ha gli occhi a mandorla di Andry Bogdan, avvocato di Kholomolsky. Starà a capo della squadra presidenziale insieme al socio commerciale di Ze, Sergey Shefir, ora diventato primo assistente del capo dello stato. A capo dell’Sbu, servizi di sicurezza ucraini, direttamente dal palco del programma tv, c’è l’ex socio Ivan Bokanov.

Questi i primi passi mossi dallo Sluga Naroda, servitore del popolo, che in tv sognava di uccidere la vecchia classe dirigente corrotta, e dopo dieci giorni di governo è già circondato di contraddizioni e membri della vecchia guardia. Al momento non incassa critiche insidiose. Silenzio a Kvartal, lo show dove per qualche ora la sera, riusciva a far sorridere gli ucraini dei corrotti in politica, prima di entrare a far parte della squadra.

Il Bruto israeliano che ha accoltellato “King” Netanyahu

Gli israeliani sono abituati ai giochi della politica, agli ammiccamenti, all’ipocrisia e al doppio linguaggio. Agguati e trappole non sono una novità nella Knesset ma nessuno era preparato alle 48 ore che hanno sconvolto Israele. Lo scontro aperto fra Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman – che ha impedito a Bibi di formare un nuovo governo e l’ha obbligato a scegliere nuove elezioni come unica via d’uscita – ha segnato con ogni probabilità la fine politica del suo ex boss. È stato come se Bruto pugnalasse ancora Cesare.

Ma non è certo il senso dello Stato a guidare le scelte di Lieberman o la difesa dei valori democratici liberali. Il suo percorso politico ha sempre avuto un unico obiettivo: il potere. E l’ex buttafuori dei night di Tel Aviv – diventato leader degli ultra-nazionalisti – non ne fa mistero. Ha fiutato che il tempo di Netanyahu sta per scadere. L’esito del voto di aprile – anche se vittorioso – non ha eliminato i problemi del suo ex datore di lavoro. Netanyahu dovrà affrontare tre processi tra il prossimo ottobre e il 2020, e se fosse eletto dovrebbe dimettersi.

La legge sull’immunità – invocata dal premier – potrebbe impiegare mesi a fare il suo percorso mentre il procuratore generale Avichai Mandelblit vuole adesso accelerare i tempi dei tre procedimenti. Per Bibi, ha concluso Lieberman, è finita ed è meglio prendere il largo subito. E lo sta facendo con molta attenzione, ha scelto una questione di principio – la legge che impone anche agli studenti ultraortodossi delle scuole talmudiche il servizio militare – come la questione su cui rompere con Netanyahu.

Da quando è entrato nella vita pubblica quasi tre decenni fa, Avigdor Lieberman è stato subito identificato come il super-cattivo della politica israeliana. Spesso descritto come estremista, schietto, incendiario e corrotto; tutti i tratti necessari per il suo ruolo sinistro: astuzia, cinismo, crudeltà e infinita pazienza. Il centrosinistra israeliano mette Lieberman sullo stesso piano di Marine Le Pen o del russo Vladimir Zhirinovsky. I legami complessi e verosimilmente simbiotici di Lieberman con Benjamin Netanyahu – dove l’amore si è trasformato in odio e l’ammirazione è stata soppiantata dal disprezzo – sono degni di un oscuro romanzo russo. Quando Netanyahu stava facendo i suoi primi passi in politica dopo il suo mandato come ambasciatore israeliano all’Onu negli anni 80, Lieberman era il suo aiutante, cameriere e persino autista personale. Fu ben ricompensato, prima nel Likud e poi nell’Ufficio del Primo ministro quando Netanyahu venne nominato, incarichi che lui abilmente trasformò in un trampolino di lancio per la sua carriera politica indipendente. Lieberman era il braccio destro di Netanyahu, il suo negoziatore ma anche il suo confidente. Ha coltivato gli amici di Netanyahu e l’ha aiutato a eliminare i suoi molti nemici. Era consapevole dei talenti di Netanyahu, ma anche – più di ogni altro – dei suoi difetti e della sua fragilità. Come si addice a un enigmatico uomo politico che è sempre sospettato di avere obiettivi nascosti, la condotta di Lieberman richiederebbe una spiegazione. Vuole deporre Netanyahu, hanno detto i funzionari del Likud. Ha un’alleanza segreta con il leader dell’opposizione Yair Lapid, hanno insinuato altri. Vuole essere visto come un valoroso combattente contro gli ultraortodossi e un protettore inflessibile dei diritti secolari, hanno scritto generosamente alcuni giornali, per ingraziarsi il suo collegio di origine russa. Tutto e il contrario di tutto.

L’ultima cosa che si può credere di Lieberman è che nutra simpatia per la Corte Suprema, lo Stato di diritto o la protezione dei diritti delle minoranze. Ma in un colpo solo, può passare dal ruolo del cattivo a quello di improbabile eroe. Lui che ha difeso il trasferimento totale dei palestinesi sotto la sovranità israeliana, che descrive i deputati arabi come inclini alla distruzione di Israele, che definisce le Ong di sinistra come un braccio del terrorismo e richiede un giuramento di lealtà come pre-requisito per la cittadinanza e i diritti civili; lui, fra tutti coloro che potrebbero emergere come difensori della democrazia, è certamente il più improbabile. L’immigrato moldavo, che sarà sempre visto da molti israeliani come un estraneo, è però d’un tratto apparso come l’uomo che – suo malgrado – difendeva la democrazia. “Come un anti-eroe”, ha scritto il quotidiano Haaretz, “che ha salvato Israele da se stesso: è stato un po’ come se Joker diventasse Batman”. Ma qui non siamo a Gotham City.

I massacri dimenticati di Sidiki

I massacri continuano nella Repubblica Centrafricana, lontani dalle luci dei riflettori delle televisioni e dei media. Carneficine che si consumano con frequenza quasi quotidiana. L’ultimo una decina di giorni fa. In due villaggi, Koundjili e Djoumjoum, a una cinquantina di chilometri da Paoua, al confine con il Ciad nella zona nordorientale del Paese, 50 persone sono state trucidate da un gruppo di tagliagole aderenti al 3R Retour, réclamation, réconciliation (Ritorno, Reclamo, Riabilitazione), capeggiato dal camerunense e autoproclamatosi generale Bi Sidi Souleymane (soprannominato Abbas Sidiki).

Un signore della guerra che il 6 febbraio a Khartoum ha firmato assieme ad altri 13 gruppi l’ottavo trattato di pace che avrebbe dovuto porre fine alla guerra civile. Il gruppo 3R sostiene di difendere i diritti del popolo fulani, un’etnia nomade che vive in tutta quella fascia di Sahel subsahariano che va dalla Mauritania al Sudan, ma che in Centrafrica è minoritaria. Alla fine di marzo al capo ribelle era stata trovata una posizione del governo e così nominato consigliere militare speciale del ministero incaricato della formazione di unità militari miste, composte da regolari dell’esercito e da miliziani dei gruppi armati.

Ma la promozione non è bastata. Invece di calmarsi, gli uomini di Sidiki hanno continuato i loro raid del terrore sfociati nel recente massacro organizzato con meticoloso inganno: alcuni comandanti del 3R il 21 maggio hanno convocato i residenti dei due villaggi per un’assemblea. Iniziata la riunione la radura affollata dai civili è stata circondata da almeno 22 miliziani che hanno fatto fuoco sparando all’impazzata. Uccisi sul colpo almeno 50 civili, decine i feriti.

Il governo ha chiesto immediatamente a Sidiki di consegnare alle autorità entro 72 ore i responsabili. In un comunicato il gruppo 3R ha condannato la carneficina “con fermezza” e scaricato la colpa su “elementi isolati sfuggiti al nostro controllo”. Tre di essi sono già stati consegnati alla giustizia.

Il giorno prima dell’attacco Inès Nieves Sancho, una missionaria franco-spagnola della comunità Filles de Jésus, è stata ritrovata sgozzata a casa sua, nel sud-ovest del Paese. L’omicidio non è stato rivendicato. Secondo fonti vaticane l’assassinio della religiosa potrebbe essere collegato al traffico di organi o a rituali esoterici.

La guerra civile nell’ex colonia francese comincia alla fine del 2012 quando i ribelli musulmani Séléka, alle porte di Bangui minacciano di assalire il presidente François Bozizé che chiede aiuto all’Onu e alla Francia. Nel marzo 2013 Michel Djotodia, prende il potere, diventando così il primo presidente musulmano (nonostante il nome). I cristiani anti-balaka (cioè “contro il machete”) reagiscono: è guerra aperta strada per strada. Gli anti-balaka massacrano i musulmani. I Séléka rispondono trucidando i cristiani. Si teme un genocidio. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette e scappa. Dalla caduta di Bozisé si contano ben quattro presidenti: Michel Djotodia, Alexandre-Ferdinand N’Guende, Catherine Samba-Panza e infine Faustin-Archange Touadéra, eletto nel marzo 2016. Il 15 settembre 2014 arrivano 14 mila caschi blu e il 31 ottobre 2016, dopo tre anni la Francia le sue truppe se ne vanno. Il bilancio di 7 anni di guerra: bambini soldato, stupri, torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e poi migliaia di morti. Secondo l’Unhcr a fine aprile i rifugiati erano 598.985 e gli sfollati 655.956, metà dei quali bambini.

Il Centrafrica è ricchissimo e in gran parte inesplorato: legno pregiato, minerali rari e preziosi. La mancanza di autorità facilita la rapina delle sue risorse da parte dei Paesi occidentali e poi Cina e Russia. Mosca è uno dei principali fornitori d’armi di Bangui. Con il permesso dell’Onu, arriveranno anche trenta ufficiali russi.

Il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra (il cui consigliere militare e responsabile della sua protezione personale con quaranta uomini delle forze speciali di Mosca è il russo Valery Zakharov) vola spesso al Cremlino e incontra il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. La Russia gode di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio fornisce equipaggiamento industriale, macchine per l’agricoltura, armi e mercenari del famigerato gruppo Wagner, gente ben addestrata alla guerra, quasi sempre ex militari delle forze armate moscovite. Insomma, anche il Cremlino, come molti altri Stati, è solamente interessato alle ricchezze del sottosuolo africano e, quando serve, non esita chiedere appoggio all’Onu.

La francese Lactalis si prende il big italiano del parmigiano

Due grandi acquisizioni portano rispettivamente in Francia e negli Stati Uniti la proprietà di uno dei principali esportatori di Parmigiano Reggiano nel mondo e di un’azienda vicentina delle lavorazioni meccaniche. La prima è stata ufficializzata mercoledì sera, ma le trattative erano note da settimane: Lactalis, il gruppo francese a cui già fanno capo Parmalat, Locatelli, Invernizzi, Galbani e Cadermartori, ha messo a segno un altro colpo in Italia rilevando per circa 300 milioni la Nuova Castelli, società di Reggio Emilia leader nella distribuzione dei formaggi Dop italiani e primo esportatore di Parmigiano di cui produce 105mila forme l’anno. Giovedì poi la società di investimento statunitense Carlyle, che tra i managing director ha Marco De Benedetti, ha comprato per 1 miliardo di euro il 100% di Forgital, specializzata nella produzione di anelli forgiati e laminati in acciaio per il settore industriale e dell’aerospazio. L’americana Carlyle invece con uno dei suoi fondi europei ha comprato il 100% di Forgital, controllata al momento dalla famiglia fondatrice Spezzapria, che produce anelli forgiati e laminati in acciaio per il settore industriale e dell’aerospazio.

Strani soci e pochi controlli: così è fallito Mercatone uno

Dopo quello di lunedì, anche al tavolo di ieri al ministero dello Sviluppo economico si è parlato dei responsabili del crac di Mercatone Uno, annunciato venerdì scorso quando il Tribunale di Milano ha deciso il fallimento della Shernon Holding, società con appena 10.000 euro di capitale fondata da Valdero Rigoni con il socio ed ex compagno di banco Michael Tahlmann e controllata al 100% dalla società maltese Star Alliance Ltd. Il ministero ha spiegato che sta studiando la possibilità di estendere ai fornitori di Mercatone Uno l’accesso al Fondo per il credito alle aziende vittime dei mancati pagamenti, ribadendo la necessità di procedere con una netta discontinuità rispetto alle scelte portate avanti dai governi precedenti.

La crisi dell’Ikea italiana inizia nell’aprile 2015, in pieno governo Renzi con Federica Guidi al vertice del Mise. Ma è con il suo successore Carlo Calenda che, a inizio 2018, si conclude l’istruttoria con l’acquisto di 55 punti vendita da parte di Shernon. Nei giorni scorsi Calenda ha accusato l’attuale ministro Luigi Di Maio di “non accorgersi di un fallimento che lascia per strada 1.800 persone” e di “mancanza di vigilanza”. “Io ho autorizzato la vendita dopo 4 gare deserte. Alternativa sarebbe stata la chiusura. La società avrebbe dovuto fare operazioni di rafforzamento del capitale”, dice Calenda che rinfaccia al viceprmier di non aver “annullato l’autorizzazione” concessa a suo tempo. La realtà, però, è che spetta al tribunale dichiarare insolvenza e che a fidarsi di Rigoni, che era già stato amministratore di una società fallita nel 2014, e a non pretendere un piano industriale è stato lo stesso ministero guidato dall’esponente Pd che a fine maggio 2018 ha chiuso l’istruttoria e autorizzato la vendita. Che si è poi perfezionata il 9 agosto, a oltre un mese dall’insediamento del governo gialloverde, la cui colpa è senz’altro in vigilando. Resta il fatto che per l’operazione è stato presentato un piano che prevedeva un aumento di capitale di un milione di euro, ma nessuno ha controllato le garanzie offerte prima di cedere il gruppo.

Ora la linea di Di Maio è riaprire al più presto i punti vendita per ridare un futuro ai 1.800 dipendenti e rimborsare gli oltre 500 fornitori coinvolti (che rappresentano un indotto di oltre 10 mila persone) che vantano crediti non riscossi per 400 milioni di euro. Mentre sono circa 20.000 i consumatori coinvolti in tutta Italia: hanno sborsato 3,8 milioni di euro per merce che non gli è stata mai consegnata. L’obiettivo resta la cassa integrazione straordinaria per i lavoratori che, però, arriverà solo dopo che il tribunale di Bologna darà l’autorizzazione per la proroga della procedura di amministrazione straordinaria. Ma prima va depositata presso il Tribunale di Bologna l’istanza di retrocessione (va riaperta ex novo la procedura perché quella vecchia è scaduta) da parte dei tre commissari straordinari Stefano Coen, Ermanno Sgaravato e Vincenzo Tassinari, che l’hanno già gestita dal 2015 al 2017.

Valdero Rigoni, che in 9 mesi ha accumulato oltre 90 milioni di buco, oggi sostiene che “adesso sono tutti bravi a criticare” e che a lui sarebbe servito solo altro tempo “per completare la capitalizzazione di un’azienda che bruciava cassa già dal 2015”. Eppure la Shernon Holding si era data l’obiettivo di raddoppiare il fatturato in 4 anni, portandolo a 500 milioni nel 2022. Ma il curatore fallimentare nominato dal Tribunale di Milano, Marco Angelo Russo, ha spiegato che la decisione di dichiarare il fallimento è stata presa perché la società “non ha presentato al tribunale un piano industriale di fattibilità, ma solo una bozza di schema di ristrutturazione in cui la perdita mensile di 5,5-6 milioni di euro si sarebbe ridotta a circa 1,6 milioni al mese solo grazie alla rinuncia a molti punti vendita e al taglio dei dipendenti dagli attuali 1.800 a 874”, nonostante ci fosse l’obbligo di mantenere i livelli occupazionali per due anni. Il tutto con uno sbilancio patrimoniale di 31,7 milioni, destinato ad aggravarsi.

Intanto si allontana anche la strada del salvataggio di Mercatone Uno che passa per i fornitori: si erano detti disponibili a una possibile cordata per rilevare il gruppo (come accaduto per Parmacotto), ma ieri hanno fatto un passo indietro spiegando “che non ci sono le condizioni necessarie” e chiedendo al tribunale la sostituzione dei tre commissari che sono prossimi alla scadenza del loro mandato, nominandone uno solo. Commissari che – dopo aver assegnato tra il 2015 e il 2017 870.058,54 euro di consulenze legali, di cui 427.805 come “importo ai minimi di tariffa, escluse le spese generali” con una concentrazione di incarichi affidati su Verona – secondo la ricostruzione del Tribunale di Milano, il 25 aprile 2018, a soli 6 giorni dal rogito di compravendita fissato con Rigoni, hanno consentito al fondo americano Gordon Brothers International Llc di sostituirsi all’altro fondo Usa Tpg Six Street Partners Lcc nell’acquisto, a 10 milioni di euro, del magazzino principale di Mercatone Uno.

Oggi l’azienda ha ancora un forte valore economico, se si trovasse il giusto compratore: la cessione dei rami d’azienda relativi ai punti di vendita ha portato circa 35 milioni e in arrivo ci sono 100 milioni dal processo di dismissione dei beni immobili. Ma a chi potrebbe interessare? Alla Gordon Brothers International e alla società Cosmo che si è già aggiudicata nel luglio 2018 13 punti vendita.

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Siamo in tempo per cambiare, se votiamo per il bene comune

Nel 1943 avevo dieci anni e mi chiedevo perché gli italiani combattessero contro – come si leggeva nei libri di Storia – gli alleati della Prima guerra mondiale, in un conflitto con milioni di morti, eroi inutili sacrificati all’idea fascista. Da allora continuo a chiedermi come i politici riescano a convincere gli italiani ad andare contro se stessi. Mai come adesso eravamo vicini a riprenderci quella dignità che ci avevano sottratto, pur col nostro consenso. Ancora una volta ho votato nell’interesse comune: non per governi tecnici imposti per promulgare leggi che pagassero gli errori dei politici; non per chi voleva cambiare la Costituzione per un governo più solido, ma toglieva la libertà al popolo; non per i corrotti, imbroglioni e truffatori che frequentano le aule dei tribunali. Ormai sono vecchio, pronto per l’ultima avventura, ma finché potrò votare, il mio voto sarà sempre nell’interesse di tutti e contro chi sfrutta il Paese per i propri interessi.

Omero Muzzu

 

Commissari Ue ad hoc per proteggere il made in Italy

Mi auguro che i nostri nuovi rappresentanti in Ue e il nostro governo si battano per assicurare all’Italia il posto di commissario o dell’Agricoltura o dell’Alimentazione o del Commercio. Oggi più che mai l’Italia deve farsi portavoce della necessità di proteggere l’originalità e la genuinità dei prodotti agricoli e alimentari. Solo così le produzioni avrebbero il giusto riconoscimento di esclusività. Anche la nostra economia avrebbe finalmente quello sviluppo che oggi è ostacolato da regole poco chiare del mercato globale: quelle che favoriscono aziende spregiudicate, che in ogni parte del mondo spacciano per italiani prodotti di infima qualità, con gravissimi danni al nostro export. Senza spendere un centesimo, aumenteremmo il Pil e creeremmo migliaia di posti di lavoro. Attualmente l’Italia, nonostante gli sforzi della Ue, non riesce a impedire che chiunque venda, ad esempio, prodotti caseari impresentabili etichettati come “mozzarella”. E di questi casi di imitazione coatta ne lamentiamo a decine.

Gianfranco Belisari

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento ai numerosi articoli pubblicati tra il 29/3/2015 e il 19/10/2017 sul Fatto quotidiano in relazione ai filtri antiparticolato (FAP) per le auto diesel, alla mancata omologazione da parte del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) del dispositivo “Tre D” brevettato dalla società Dukic Day Dream e all’apertura di un processo penale nei confronti dell’arch. Maurizio Girolamo Vitelli, già Direttore generale della Motorizzazione civile, si precisa:

1) che il Tar Lazio, già in data 19/9/2016 aveva rigettato il ricorso giurisdizionale proposto dalla società Dukic D.D. avverso il provvedimento prot. 2576 del 6/11/2015 con il quale il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti aveva negato l’omologazione del predetto dispositivo, con sentenza 9701/2016;

2) che il Consiglio di Stato, con sentenza 2245/2019 del 5/4/2019, ha rigettato l’appello proposto dalla società Dukic Day Dream avverso la predetta sentenza del Tar Lazio, confermando la piena legittimità e correttezza dell’operato dell’Amministrazione;

3) che il Gup di Roma, con sentenza 44/2018-3/5/2018, ha tra l’altro assolto l’arch. Vitelli dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste e chiarito che alla luce degli studi tecnico scientifici di Cnr e Iss “ad oggi il filtro antiparticolato si ritiene la migliore tecnologia disponibile per ridurre le emissioni di particolato allo scarico di motori diesel sia in termini di massa che di numero di partitelle e come tali risultano adottati in numerosi altri Paesi dell’Ue”;

4) che sul sito istituzionale del Mit è disponibile fin dal 25/3/2016 uno “studio tecnico-scientifico sul funzionamento dei filtri anti-particolato per motori diesel-FAP” realizzato dall’Istituto Motori del Cnr sui Fap, il quale conclude nel senso che “le emissioni di nano particelle di un veicolo valutate in una percorrenza media (inclusa una rigenerazione) risultano notevolmente inferiori a quelle che verrebbero immesse nell’atmosfera dallo stesso motore in assenza di filtro”;

5) che sempre sul sito istituzionale del Mit è disponibile fin dal 5/7/2016 una nota dell’Istituto Superiore di Sanità (prot. 8619 10098/AMPP del 13/5/2016) nella quale si esprime parere favorevole al prosieguo dell’utilizzo dei filtri antiparticolato”.

Avv. Prof. Giuseppe Ruffini

Ospitiamo l’intervento del dottor Vitelli che nulla corregge e nulla aggiunge alle nostre inchieste.

m.p. e c.t.

 

In merito alle notizie contenute nell’articolo pubblicato ieri a pag. 3, si precisa che il Tg2 non ha mai ricevuto dall’Agcom alcun provvedimento sanzionatorio per violazione della par condicio. L’autorità si è limitata a sollevare dei rilievi ai quali la testata e l’azienda hanno risposto con controdeduzioni, in seguito alle quali l’Agcom ha ritenuto di non dover procedere in alcun modo. In particolare il collegio ha preso positivamente atto di quanto evidenziato nel documento inviato, limitandosi e riservandosi di proseguire nell’attività di controllo cui l’ente stesso è per sua natura preposto.

Direzione Tg2