Tyrion Lannister commissario europeo

“Cosa unisce le persone? Le armate, l’oro, i vessilli? Le storie! Nulla al mondo è più forte di una buona storia. Nessuno può sconfiggerla”. Chi mai avrà pronunciato questa sentenza simil-shakespeariana? Donald Trump? Matteo Salvini? Pamela Prati? Nossignori. Nessuno di questi giganti vale il nano Tyrion Lannister, vero vincitore della stagione conclusiva del Trono di spade. Ne uccide più lo storytelling della spada, dunque non poteva che finire così: più si è piccoli, più grande deve essere la storia. Non uno, non due, ma –mi voglio rovinare! – ben sette regni in perenne guerra tra loro; nel cammino trionfale del Trono di spade abbiamo assistito all’apoteosi del plot, eterno feticcio della narrativa anglosassone, alla fusione di Shakespeare con George Martin, al sorpasso della fantastoria sulla fantascienza, troppo simile ormai alla scienza. Si parla tanto di nuovo Rinascimento, ma vogliamo mettere con il Medioevo? Senza contare che il Medioevo lo vendi dappertutto con tanto di castelli e di draghi ricamati all’algoritmo, un articolo imbattibile per la globalizzazione dell’immaginario. Perturbante eppure massificato, il Trono ha sdoganato lo sdoganabile, e se non bastasse Hollywood ha avuto la prova che il Vecchio continente funziona meglio degli studios. Forse l’onda sovranista non sarà d’accordo, ma l’Europa è diventata un parco a tema, una film commission a sua insaputa. Chi domina le persone? Chi gli racconta una buona storia. Buona per chi la racconta, si capisce.

I costi del Tav. Ecco perché gli italiani pagano al chilometro più dei francesi

 

Vado a memoria in merito a un articolo letto sul Tav Torino-Lione, nel quale si asseriva che il costo del tunnel per chilometri ammontava a 360 milioni di euro per la parte italiana e a soli 40 milioni per la parte francese. La differenza dei costi mi pare sproporzionata e apparentemente ingiustificata. Vi sarei grato se poteste fornirmi dei chiarimenti al riguardo, in quanto personalmente non sono riuscito a reperire atti o stralci dai quali si possano desumere tali indicazioni. Solo pensando al costo totale dell’opera, e quindi non solo al tunnel, posso immaginare ripartizioni compensative: ma compensative come?

Riccardo Avignone Rossa

 

Il tunnel di base del Tav Torino-Lione è lungo 57,5 chilometri e costa, secondo i dati ufficiali, 9,63 miliardi di euro. È il pezzo forte del Tav, che poi ha una tratta sul versante francese e una su quello italiano, che costano circa 3 miliardi e portano il costo totale dell’opera a circa 12 miliardi di euro. I soldi spesi finora, per le opere preparatorie, sono 1,8 miliardi.

Il tunnel è solo per il 21 per cento (12,5 chilometri) in territorio italiano, per il 79 per cento (45 chilometri) è in territorio francese. L’Italia però paga molto di più della Francia. Nella ripartizione dei costi, si è deciso che l’Italia paghi il 58 per cento del totale: il risultato è che l’esborso italiano è di 280 milioni a chilometro, mentre quello francese è di 60 milioni a chilometro. Questa asimmetria è giustificata dal fatto che i francesi hanno molte più spese per la loro tratta nazionale, dallo sbocco del tunnel di base fino a Lione, che comprende anche due tunnel a due canne, quello di Belledonne e quello di Glandon. Nel gennaio 2018 è stata però presa in Francia una decisione che ribalta gli accordi: il Coi (Conseil d’orientation des infrastructures) presieduto dal deputato socialista Philippe Duron, ha deciso di rimandare le opere della tratta francese “a dopo il 2038”. Lo scrive il Coi a pagina 77 del suo rapporto sulla mobilità francese: “Ritiene che non sia stata dimostrata l’urgenza di intraprendere questi interventi, le cui caratteristiche socioeconomiche appaiono chiaramente sfavorevoli in questa fase. Sembra improbabile che prima di dieci anni non vi sia alcun motivo per continuare gli studi relativi a questi lavori che, nel migliore dei casi, saranno intrapresi dopo il 2038”. Un rinvio alle idi di marzo, o alle calende francesi. Intanto l’Italia paga di più il tunnel di base, dopo il 2038 – “nel migliore dei casi” – si vedrà.

Gianni Barbacetto

Al M5S serve una cosa antica: il congresso

Superata la conferma del “capo politico” i problemi restano irrisolti. Il Movimento 5 Stelle non può fare finta di non avere un problema di identità, di valori condivisi, di programmi e di visione strategica del Paese e del suo futuro politico. Infatti, a quanto si apprende dai colloqui fatti tra una riunione e l’altra, questi discorsi sono già sul tavolo. Se una votazione online può rinfrancare Luigi Di Maio, riconfermato al suo posto dal gruppo dirigente informale e dalla base, questo non risolverà i problemi di tenuta del Movimento. Allora, forse, sarebbe utile recuperare un vecchio arnese della politica, oggi sempre più in disuso: il congresso.

D’accordo, conosciamo l’obiezione: i congressi fanno parte della “vecchia politica”, sono rituali consumati, inutili e spesso confezionano soluzioni già precostituite. Riunioni untuose fino a tarda notte, discorsi interminabili, plenarie buone solo per vesciche robuste.

Oggi domina la comunicazione della Rete, la condivisione istantanea delle informazioni, la democrazia telematica. Questioni interessanti, sia chiaro, che vengono ingiustamente demonizzate da chi non riesce a uscire da bizantinismi obbligati dei vertici o da chi adora la politica politicienne e non contempla nemmeno l’idea che si possa fare una verifica permanente presso la propria base elettorale.

Demonizzare il “congresso”, però, costituisce un errore equivalente. Non parliamo dei congressi di partito che si sono trasformati in esibizioni circensi, come è successo dai tempi del Psi di Bettino Craxi in poi, per poi sfociare nella santificazione del leader di turno. Del resto, la politica italiana, dopo la svolta del 1992-1994, si è votata a un “modello politico plebiscitario” (Lanchester) in cui si assegna un ruolo marginale al partito e uno eccezionale al capo. Capo politico o Capitano, ma anche segretario onnipresente, come nel caso di Matteo Renzi, o “unto dal Signore” come nel caso di Berlusconi. Questo modello rende inutile e frustrante qualsiasi forma di partecipazione politica, quindi il problema principale risiede nel modello. Il congresso di una volta, invece, parla di una forma della politica che è stata troppo velocemente superata e in cui la discussione tra iscritti al medesimo partito o movimento diventa auto-formativa e in cui si forgiano valori e prospettive politiche che valgono per tutti. Se fatto con criteri democratici – risultato tardivo dei partiti della Seconda Repubblica che al dibattito trasparente preferivano i caminetti – permette di cogliere davvero le opzioni alternative e di farsi un’idea seria. Anche in un congresso per nulla democratico e intriso del vecchio stalinismo, l’XI congresso del Pci, le divergenze con Pietro Ingrao furono intellegibili e infatti comprese dalla maggior parte degli attivisti di quel partito.

Oggi c’è un dibattito sotterraneo nel M5S intorno ai “valori di riferimento”. Cosa si aspetta a renderlo pubblico, comprensibile e discutibile? Cosa si aspetta a mettere noi osservatori di fronte a una discussione aperta in cui non occorre decifrare le parole pronunciate in riunioni chiuse oppure gli scambi di “complimenti” tra i vari dirigenti?

Una svolta di questo tipo non renderebbe il M5S uguale agli altri, semplicemente perché gli “altri” i congressi non li fanno più e, chi più chi meno, si affida al leader carismatico (anche quando il carisma, il leader non ce l’ha).

Sarebbe un modo per riaffermare il primato della politica e della partecipazione, ma anche per proporre una nuova idea di “partito” in cui la trasparenza, la lealtà, la lucidità delle analisi (sempre che la si possieda) potrebbero avere la meglio sulla manovra e la resa dei conti.

L’impatto tremendo sull’indipendenza della magistratura

È di questi giorni lo spettacolo di una limacciosa partita fra correnti e schieramenti trasversali del Csm per la nomina di capi degli uffici giudiziari. Caotiche trattative, scontri, accordi non sempre limpidi, scambi di posti e favori formano un quadro che purtroppo non è nuovo ma si ripete periodicamente: da quando le correnti (quale più quale meno) hanno perso il ruolo per cui erano nate, di dibattito tra i diversi orientamenti culturali sui temi della giustizia, per trasformarsi in una specie di suk.

Ovviamente non si tratta di “semplici” beghe interne a una corporazione. L’impatto vero e tremendo è sull’indipendenza della magistratura. Quel che Luigi Ferrajoli scriveva con riferimento all’attività dei singoli giudici si può applicare anche al Csm. Vale a dire che – in un caso come nell’altro – si attenta all’indipendenza della magistratura ogni volta che si commette un abuso o si esercitano in modo arbitrario le proprie funzioni. L’equilibrio o l’arroganza, il rispetto o meno per le regole, l’imparzialità o il pregiudizio sono tutti fattori che concorrono a determinare la posizione da assumere verso l’indipendenza della magistratura: difenderla in quanto garanzia del cittadino, oppure avvertirla come il privilegio di un potere odioso e terribile.

Senza dimenticare che la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari è tra i compiti più delicati e impegnativi del Csm. Perché le cariche dirigenziali implicano di fatto competenze paradisciplinari e negli uffici (nevralgici) di procura anche un potere sostanzialmente gerarchico. Mentre possono servire al potere esecutivo per esercitare forme di ingerenza negli affari giudiziari suscettibili in vario modo di turbare la serenità e l’indipendenza dei magistrati componenti i vari uffici. Per cui la scelta dei dirigenti è intrecciata a filo doppio con quel presidio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge che sono appunto l’autonomia e l’indipendenza effettiva della magistratura.

Tanto più in un sistema come il nostro che funziona poco, eppure anche quel poco dà fastidio. Chi attacca la giurisdizione, infatti, spesso chiede “meno”, non “più” giustizia. In particolare per sé e i suoi interessi di bottega. Per cui chi indaga viene accusato di nefandezze varie, mentre chi si defila viene applaudito. Emblematico fra i tanti, al riguardo, è il caso di Nino Di Matteo, da un lato sottoposto a una scorta pesantissima per le minacce di Cosa nostra, dall’altro spesso al centro di attacchi per le coraggiose indagini sui rapporti fra il malaffare e imputati “eccellenti”, anche rappresentanti dello Stato.

Sia ben chiaro: nessun riferimento alla recente querelle per una intervista televisiva sulla strage di Capaci che ha visto Di Matteo in disaccordo con il suo attuale capo, Cafiero de Raho. Un capo di indiscutibile grandezza professionale, come sono indiscutibili le qualità di Di Matteo.

Per cui – confessando il disagio che si prova quando a divergere sono soggetti ugualmente stimati – non si può che formulare l’auspicio di una composizione della querelle che sappia combinare, con i profili formali, quelli che hanno diretta attinenza con la sostanza delle inchieste. Profili, questi, che certamente stanno a cuore sia a Cafiero De Raho che a Di Matteo.

La sinistra ignara del suo popolo

Non lasciatevi ingannare dalla foto che ritrae Zingaretti e Gentiloni presi dall’ilarità per aver perso voti solo nell’ordine del centinaio di migliaia e non dei milioni come s’erano abituati. La sinistra vera, che non si vergogna di chiamarsi tale e non ha subappaltato il simbolo a inquilini liberisti per non spaventare i moderati, ha preso intorno all’1% (La Sinistra di Fratoianni l’1,74%; il Partito Comunista di Rizzo, che ha raddoppiato i voti in un anno, lo 0,9%). Ovunque, tranne che in Portogallo dove hanno vinto i Socialisti col Blocco di Sinistra, è stata una carneficina: ha perso France Insoumise di Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, il Labour di Corbyn nel Regno Unito. L’exploit dei Verdi in Francia, Germania e Regno Unito non è una vittoria della sinistra: piuttosto, si tratta del risultato di un product placement presso la popolazione colta europea sulla scia del traino Greta Thunberg – e del resto del tema ecologico si sono impadroniti un po’ tutti nel tempo, da ultimi alcuni nel Pd che auspicano una sua reinterpretazione in chiave del “Sì”, cioè del Pil.

Non si tratta solo di una perdita di voti, non essendo mai stata la sinistra nella storia un aggregatore di interessi fluttuanti, bensì sorgendo sulla base di bisogni umani e dei valori di giustizia sociale e uguaglianza; ma della ormai acclarata e forse irreversibile perdita di un popolo.

Tutto ciò a meno di voler pensare che il fenomeno del Pd parzialmente derenzizzato che perde meno del previsto sia l’apparizione di uno spettro di sinistra in una Elsinore orfana e desolata, falsità che nemmeno i più ingenui e i meno ingenui d’Italia si sentono più di sostenere. Quella che esce dalle urne è un’Italia ambidestra. I cittadini nel cui petto batte ancora qualche valore di sinistra hanno scelto l’astensione, che raccoglie tanti voti quanti tutti i partiti messi insieme. Proprio oggi che ci si aspetterebbe dai popoli una ribellione alle élite globali e allo sfruttamento di manodopera da parte di multinazionali e padroncini locali per il tramite di una sinistra internazionalista, le sinistre nazionali falliscono.

Il motivo non è, come suggeriscono i sempliciotti, che oggi “si vince al centro”. Al contrario: si vince dove la proposta è radicale, come l’impennata della Lega dimostra. Il discrimine non è la posizione nel Parlamento ideale dentro cui si andranno a fare gli interessi del popolo, ma esattamente il rapporto, il dialogo con quel popolo, che nel caso della sinistra si è sfaldato. Non per un problema di “comunicazione”, come diceva quell’anima semplice di Renzi, ma di proposta politica, che non appare genuinamente socialista e popolare nel mondo attuale. È cambiata la società, i rappresentanti della sinistra sono rimasti uguali. Parlavano di lavoro fisso o in fabbrica mentre tornava il cottimo fisico e cognitivo (e quanto alle fabbriche, si sono fatti schizzinosi, e a salire con gli operai sui tetti delle aziende che chiudevano o dislocavano era la Lega Nord). Hanno guardato con sudditanza alla “sinistra riformista” senza svelarne i reali rapporti di potere, accettando la narrazione totalizzante della democrazia liberale. Stigmatizzavano la globalizzazione ignorando il grido di dolore di chi ne subiva gli effetti, mentre Salvini, con l’iPad in mano, dava l’impressione di essere sul pezzo, ricevente di un’emergenza. Hanno pagato l’obolo simbolico di salire sui barconi dei migranti senza fare la fatica di unire i derelitti di ogni Paese. Hanno trascurato la Patria, che prima di essere un topos di destra è il luogo dove riposano le ossa dei padri, che la Costituzione impone il “sacro dovere” di difendere. Mentre il M5S capitalizzava la trasformazione della democrazia in oclocrazia (da oclos, folla), loro parlavano di classi, che – come dice Mario Tronti ne Il popolo perduto (Nutrimenti) – si sono sciolte e raggrumate nelle tre società dei garantiti, dei precari e degli esclusi (9 milioni di persone).

La coscienza di classe non esiste più e loro non l’hanno ricostruita; l’organicismo culturale non può penetrare una realtà pulviscolare. Non avendo una politica, non hanno il linguaggio relativo: “ruspa” e “prima gli italiani” sono subito comprensibili, a ogni livello sociale, e ciò che si comprende dà conforto e unisce.

La vera sinistra parla della vita vera: di lavoro dignitoso, abolizione delle nuove schiavitù, sanità gratuita, ospedali che funzionano, diritto alla casa e allo studio, diritto a vivere e lavorare in un ambiente salubre.

I leader della sinistra non dicono queste parole perché non parlano con le persone. In questo sono uguali a quelli del Pd, che almeno hanno trovato un filone per quanto smagliato di marketing politico (diritti civili, Erasmus, sogno europeo etc.). Fanno parte della società dei garantiti: sono in sostanza degli impiegati pubblici di buone letture; non hanno idea di cosa abbiano bisogno gli esclusi.

L’ad Film Commission Piemonte precipita dal 4º piano a Roma

Problemi personali e familiari. Questi i motivi che potrebbero aver spinto Paolo Tenna a gettarsi, la scorsa notte, dalla finestra del quarto piano dell’albergo nel centro di Roma dove alloggiava. Vi sono pochi dubbi, fra gli inquirenti, circa il suicidio del manager cinematografico, ad della Film Commission Torino Piemonte e membro del cda della Cinecittà-Istituto Luce. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, al momento contro ignoti. Si tratta di una procedura indispensabile per disporre l’autopsia.

L’obiettivo è quello di capire se l’uomo, 47 anni, avesse assunto alcol o droghe prima di compiere il gesto, dato che testimoni hanno detto ai carabinieri di averlo visto ordinare dei superalcolici poco prima della caduta. Lutto e sconcerto nel mondo del cinema e della cultura italiana. Film Commission Torino Piemonte lo ricorda come “un lavoratore infaticabile, dalla personalità solare e trascinante”. Cordoglio dal sottosegretario con delega al Cinema, Lucia Borgonzoni.

Scrive “amore mio” a un alunno di quinta elementare via sms: maestra indagata per molestie

Due baci, forse troppo vicini alle labbra, e alcuni sms “teneri” sul cellulare di un alunno di 10 anni hanno fatto finire nel registro degli indagati una maestra elementare di Vicenza, 40enne, accusata dalla Procura di tentata violenza sessuale su minorenne, nella forma delle molestie.

Sono stati i genitori del ragazzo a trovare quei messaggini pieni di tenerezze e confidenze nello smartphone del figlio, e hanno deciso di denunciare. La vicenda sarebbe avvenuta lo scorso anno scolastico, quando il giovane frequentava la quinta elementare. Adesso è alle scuole medie, e i due non si sono quindi più visti. La pm Barbara de Munari, valutati gli elementi, ha deciso di vederci chiaro, aprendo un fascicolo. Tuttavia né la Procura, né la scuola hanno preso alcun provvedimento nei confronti della maestra, una docente apprezzata dai colleghi e dai genitori degli altri scolari, e che avrebbe da sempre atteggiamenti affettuosi verso i suoi alunni.

Quando però il padre e la madre del ragazzino hanno trovato definizioni come “amore mio” negli sms spediti dalla donna al figlio si sono preoccupati. Messaggi troppo equivoci, hanno pensato, e il sospetto si è aggravato vedendo che il figlio sembrava in imbarazzo quand’era al cospetto dell’insegnante. Hanno così cercato di capire cosa succedesse a scuola e il ragazzo ha raccontato loro di aver ricevuto un paio di baci dalla maestra, secondo lui molti vicini alle labbra. Da qui è partita la denuncia ai carabinieri, che con molta discrezione hanno iniziato a indagare sull’ambiente scolastico, raccogliendo numerose testimonianze.

La maestra ha negato ogni addebito e, spiegano i suoi legali, è molto turbata da questa storia. Ha affidato la sua difesa agli avvocati Emanuele Fragasso e Michele Grigenti. “Credo che in questa vicenda si possa parlare di un rapporto insegnante-alunno assolutamente corretto – spiega Grigenti – al più un po’ affettuoso, ma assolutamente privo di qualsiasi contenuto di natura sessuale”. Il prossimo 27 giugno si terrà l’incidente probatorio.

“Abbiamo lavorato, ora pagate”. Gli operai protestano sul cornicione della torre Littoria

“Abbiamo lavorato. Pagate”. Da piazza Castello, in pieno centro a Torino, guardando sulla Torre Littoria che svetta su tutti gli altri edifici si poteva leggere questa scritta su un lenzuolo. Lo hanno appeso ieri mattina tredici operai edili saliti all’ottavo piano del palazzo di fronte al Palazzo reale. Chiedevano il pagamento dei lavori eseguiti in quell’edificio, appartenente alla Reale Immobili spa (società del Gruppo Reale Mutua), eseguiti dalla ditta EcoBuilding per conto del consorzio ZG, composto da Zoppoli & Pulcher (fallita) e Grandi Lavori Fincosit (in concordato preventivo). “Non abbiamo preso questi soldi per cinque mesi – spiega un operaio dell’Est Europa –. Siccome abbiamo tutti lo stesso problema, ci siamo messi d’accordo e siamo saliti”. Dall’alto hanno attirato l’attenzione percuotendo le impalcature. “La ditta deve incassare due fatture per un totale di circa 100 mila euro – spiegano Daniel Lefter della Fillea Cgil e Gerlando Castelli della Filca Cisl, che hanno raggiunto i lavoratori all’ottavo piano –. Per questa ragione la ditta non può pagare i lavoratori e insieme hanno deciso di protestare”.

Soltanto dopo una lunga mediazione della polizia e dei sindacati i responsabili della ditta e gli operai hanno ottenuto un incontro in prefettura alla presenza della curatrice fallimentare, del proprietario della Zoppoli & Pulcher Edoardo Astegiano e dei rappresentanti di Reale Immobili. L’obiettivo è sbloccare alcuni pagamenti. “La Direzione Lavori dovrà emettere il Certificato di Regolare Esecuzione con conto finale pertanto devono essere forniti dall’Ati tutti i documenti necessari a supporto delle lavorazioni eseguite, anche al fine di determinare l’esatto importo di quanto ancora dovuto all’impresa – informa la Reale Immobiliare –, fermo restando che il curatore fallimentare dovrà redigere una situazione degli attivi e dei passivi e provvedere ai pagamenti dovuti ai creditori”.

Donna senegalese di 41 anni muore investita sotto la metro dopo una caduta accidentale

Un tragico più difficile una distrazione fatale. È tutta da dimostrare la responsabilità colposa del macchinista della linea A di Roma dietro la tragica morte di Adjirokhaya Wagne, la senegalese di 41 anni caduta ieri mattina sui binari alla fermata Lepanto e uccisa sopraggiungere del convoglio in frenata disperata. La Procura di Roma indaga per omicidio colposo, ma per ora sembra più un atto dovuto.

La donna, residente a Ladispoli e mamma di un bambino di 5 anni, è inciampata su se stessa all’inizio della banchina mentre aspettava il treno in direzione Battistini. L’amica che era con lei, aiutata da altri passeggeri in attesa, ha cercato di riportarla in salvo, senza riuscirci. Il convoglio, infatti, è arrivato dopo non più di 10-15 secondi e, a quanto gli uomini del Commissariato di polizia Roma Prati sono riusciti a desumere dalle telecamere di sorveglianza, era già in frenata. “L’ho vista all’ultimo, non sono riuscito a fare niente. Non ho avuto tempo di frenare. Mi dispiace tantissimo”, ha ripetuto in stato di choc il conducente, 45 anni, un dipendente “esperto” anche se da poco “promosso” a macchinista dopo molti anni da autista di superficie.

Per il momento, gli inquirenti sono riusciti a visionare solamente i filmati delle telecamere presenti sulla banchina. Non è chiaro invece se a bordo del treno, e in particolare nell’abitacolo di guida, fossero presenti supporti video idonei a verificare il comportamento del conducente. Da quello che emerge dai primi riscontri, il macchinista non aveva grosse possibilità di frenare in tempo per evitare l’impatto. Resta comunque la necessità di verificare il corretto comportamento del conducente, definito dai colleghi “persona seria e irreprensibile”.

I dubbi di chi indaga derivano dal precedente del 2017, quando una passeggera rimase incastrata fra le porte di un treno della linea B e il conducente non si accorse di niente, con alcune immagini che lo immortalavano intento a mangiare un panino mentre era alla guida.

L’ex Ilva e le cozze farcite alla diossina: chi osa denunciare viene minacciato

Da agosto 2017 ricevo minacce”. Lo rivela il braccio destro del professore Alessandro Marescotti di Peacelink, Luciano Manna. Tarantino, da 10 anni in prima linea contro i danni alla salute e al territorio causati dal siderurgico. Autore di numerose inchieste pubblicate sul sito di informazione Veraleaks. “Le intimidazioni – dichiara – provengono da soggetti che lavorano abusivamente e illecitamente nell’ambito dei mitili a seguito delle denunce che da tempo porto avanti”.

Aveva già reso noti alle forze dell’ordine i messaggi minatori ricevuti sui social. Poi la prima denuncia lo scorso anno, in cui segnalava anche lo sfruttamento del lavoro nero di circa 20 immigrati. La cozza tarantina è finita più volte nel mirino degli inquirenti. A pagare le conseguenze degli elevati livelli di diossina e Pcb, causati dalle emissioni dell’ex-Ilva con gravi rischi per la salute, è stata l’intera economia cittadina. Nel 2011, grazie alle denunce di Fabio Matacchiera e Alessandro Marescotti, emersero dati molto allarmanti. Non mancarono, in quel momento, minacce da parte di alcune famiglie criminali che gestivano una fetta del mercato. I livelli tossici relativi alle coltivazioni nel primo seno del Mar Piccolo furono confermati dall’Asl, che mandò al macero intere tonnellate di prodotto, rilevando un picco di diossina nei mesi più caldi tra aprile e settembre, quando le cozze diventano adulte.

Nel 2016, con un’ordinanza regionale, è stato imposto entro fine marzo lo spostamento dei mitili nel secondo seno. A settembre del 2018, è stata anticipata di un mese la movimentazione, mentre i dati dell’Asl hanno segnalato il più alto tasso di diossina mai registrato. Superiore ai 16,6 picogrammi, a fronte del limite di legge di 6,5.

Luciano Manna ha continuato a documentare con video e foto gli illeciti, fornendo un anno fa alle forze dell’ordine una mappatura degli abusivi. A quel punto è scattato un sequestro massiccio da parte dei Carabinieri e della Guardia costiera. Tra i segnalati da Manna c’è anche un rivenditore che acquisterebbe le cozze contaminate a 60 centesimi al kg, la metà del prezzo di mercato, per poi farle sgusciare da lavoratori a nero di origine africana e venderle a pescherie e ristoranti. Sarebbero lui e suo cugino gli autori delle minacce. “Ci tiene a farmi sapere – scrive Manna – che non ha paura di andare in galera, più volte mi ha cercato per strada nei luoghi che frequento”. Gli atti intimidatori – secondo l’attivista – arrivano puntualmente dopo ogni sua denuncia e dopo i comunicati stampa dell’amministrazione comunale in cui si sminuirebbe la gravità della situazione. “Il sistema illecito – sostiene – non riesce ad essere smantellato perché rappresenta circa il 50% del fatturato annuo dell’intero comparto ittico”. Lo confermano i frequenti sequestri e arresti. A novembre era stata sgominata una banda di 7 persone che rubava e commercializzava le cozze contraffacendo l’etichettatura. La contaminazione di sostanze alimentari è anche uno dei filoni del processo “Ambiente svenduto”, in cui molti allevatori sono parte civile.