50milioni – Quanto si stima valga il mercato della canapa in tutta Italia

La coltivazione di canapa industriale (con percentuale di sostanza psicotropa inferiore allo 0,2%) in Italia è prevista dalla legge 242/2016. La norma non include né vieta però la produzione delle infiorescenze (da cui si ricava la cannabis light) e la libera vendita.

Incertezza. In questo vuoto normativo, sono nati centinaia di negozi, i cosiddetti Grow Shop e l’anno scorso è stata emanata una circolare interpretativa del ministero dell’Agricoltura che stabilisce che “pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242 del 2016 né tra le finalità della coltura né tra i suoi possibili usi, le infiorescenze rientrano tra le coltivazioni destinate al florovivaismo, purché derivino da una delle varietà ammesse”.

Il mercato. I negozi che vendono cannabis light “per uso tecnico” (perché non esiste la vendita destinata specificamente al fumo) sono così nati al ritmo di uno a settimana.
La stretta. Nelle ultime settimane, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha promosso un irrigidimento nei confronti dei canapa shop, esortando le forze dell’ordine a intensificare i controlli sui negozi.

“Centinaia di negozi oggi non apriranno: si temono denunce”

“Questa sentenza crea ancora più confusione di prima”: Matteo Gracis è il direttore della rivista Dolce Vita e autore del libro Canapa, una storia incredibile (Chinaski Edizioni)

Gracis, come mai più confusione?

Perché, così come accadeva con la legge, c’è poca chiarezza. Dice che non si può commercializzare cannabis con effetto drogante. Ma cosa significa? Quella commercializzata finora aveva già un principio attivo bassissimo ed era già priva di effetto drogante. Già c’è smarrimento nel settore, ora se ne aggiunge altro. Bisognerà attendere le motivazioni.

Cosa succede ora a chi ha un negozio?

Domani molti negozi non apriranno per timore di ripercussioni e sequestri. Altri invece sì, soprattutto i più temerari. E ci saranno sequestri, controlli, denunce. Poi ci saranno i ricorsi, si andrà a processo e si aspetteranno le sentenze. Qualcuna sarà favorevole e qualcuna no. E così si cercheranno altre pronunce. tutto questo in un momento in cui il mondo va in tutt’altra direzione.

Cioè?

Dieci Stati americani hanno legalizzato tutta la cannabis, fra poco saranno 11. E poi c’è chi si avvia, come il Canada o il Lussemburgo. L’Italia invece fa l’opposto. Non solo non prende assolutamente in considerazione l’ipotesi legalizzazione, ma addirittura vieta anche quella light che è come vietare la birra analcolica.

Colpa della legge?

Il vuoto normativo nella legge del 2016 era evidente e andava colmato, ma è stato fatto nel peggiore dei modi. La legge serviva a promuovere la filiera, non contemplava le infiorescenze e lasciava libera interpretazione. Centinaia di negozi, migliaia di posti di lavoro sono nati e oggi sono a rischio. Circa 800 i negozi del settore canapa, oltre mille contando i tabaccai e i negozi che rivendono le infiorescenze. È assurdo chiuderli.

Perché questa diffidenza?

Estrema disinformazione, preconcetti e bufale. Chi è contro questa pianta, lo è solo per ignoranza. Io cerco di combattere questa ignoranza con l’unico mezzo possibile, la cultura. C’è estremo bisogno di informazione. Se ne può discutere a livello politico, è giusto, ma bisogna farlo con competenza e professionalità non con slogan insensati.

Cannabis light: “Vietata la vendita dei derivati”

È reato la vendita di prodotti derivati dalla cannabis. Lapronuncia della Cassazione a sezioni riunite è arrivata nel pomeriggio di ieri: “La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della varietà sativa della canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa”. Il business della cannabis light, esploso nel 2017, ora rischia il tracollo. La Cassazione infatti stabilisce che la cannabis si può coltivare, a patto che la percentuale del cannabinoide THC non superi la soglia dello 0,6%. Ma non si possono vendere i prodotti che ne derivano.

Vietata la “cessione, vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa”, scrive la Suprema Corte. L’unica eccezione è la cannabis riconosciuta come farmaco, per scopi terapeutici. Il ministro degli Interni Salvini esulta: “Siamo contro qualsiasi tipo di droga, senza se e senza ma, e a favore del divertimento sano”. Ora la domanda è: che fine faranno i quasi 3 mila cannabis shop? “Resteranno in attesa delle motivazione della sentenza”, dice Luca Marola, amministratore delegato di EasyJoint, azienda apripista nel campo della cannabis light. La sentenza infatti non cancella affatto i dubbi. Vieta i derivati dalla cannabis, “salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”.

Ma sotto lo 0,5% di THC non c’è nessun “effetto drogante”: “È scritto nella circolare del ministero dell’Interno del 31 luglio 2018”, dice il Senatore dei Cinquestelle Matteo Mantero. “Per questo è una sentenza criptica – aggiunge Marola –. Il mercato si aspettava certezze dai giudici, dopo il vuoto della politica”. Marola è pronto alla lotta: “Mi intesto il coordinamento dell’azione di sdoganamento della cannabis light, i cinquestelle saranno con me”.

In Italia, dal 2013 al 2018, secondo Coldiretti sono aumentati di 10 volte i terreni coltivati a cannabis, da 400 ettari a quasi 4000. Stefano Masini (responsabile ambiente Coldiretti) conosce la crisi del settore ortofrutticolo. Secondo lui, la cannabis potrebbe essere una soluzione: “In Liguria ci sono centinaia di piccole aziende agricole interessate alla conversione alla cannabis”. Accade pure in Sicilia, secondo il deputato regionale M5s Luigi Sunseri: “Nell’Isola il business sta esplodendo e la politica non può chiudere gli occhi. Grossi investitori stanno rilevando le aziende di cannabis italiane”. In provincia di Ragusa, una quota importante dell’azienda locale Canapar è stata comprata dalla multinazionale canadese Canopy. Anche EasyJoint ha venduto quote al fondo canadese LGC Capital. Secondo l’Aical, Associazione italiana cannabis light, il mercato vale oggi circa 80 milioni di euro, in crescita a tassi del 100% l’anno.

Ma il futuro non sono i fiori da sbriciolare in una cartina, bensì l’alimentare e la cosmesi. La pianta è solo un contenitore di cannabinoidi (i principi attivi) da estrarre in laboratorio e rivendere all’ingrosso alle aziende di cosmesi, benessere o dell’alimentare. Drink, snack e creme alla cannabis vanno a ruba negli Usa e in Canada. Il colosso della birra AB InBev (Stella Artois e Bud Light) si è alleato con il gigante canadese della cannabis Tilray. In Italia, l’azienda abruzzese Enecta è specializzate nella coltivazione ed estrazione di cannabinoidi (a eccezione del THC). Non è l’unica: anche Eusphera, azienda romana, estrae cannabinoidi in laboratorio. Il vero oro verde infatti è il cannabidiolo (CBD), privo di qualunque “effetto drogante”. La Cassazione invece di togliere dubbi, forse, li ha aggiunti.

Autista Atac tenta di investire un uomo dopo un litigio

A Roma un autobus che si dirige contro un pedone, il quale punta le mani sul fronte del mezzo indietreggiando velocemente. Poi l’immagine viene coperta da un piccolo manufatto quando l’autobus si ferma. È l’eloquente video di un probabile litigio tra un autista dell’Atac, la municipalizzata romana dei trasporti, e un uomo che voleva salire sul mezzo con i cani privi di museruola che sta circolando su social network e sul web. L’Atac Roma ha immediatamente avviato gli accertamenti non appena ha avuto contezza del filmato giudicato “molto grave”. “In relazione alle immagini diffuse su un video, nel quale si vede un bus in servizio sulla linea 786 che si dirige contro un pedone, Atac ha immediatamente avviato gli accertamenti non appena ha avuto contezza del filmato, che l’azienda giudica molto grave. Nelle more della conclusione degli accertamenti Atac procederà a sospendere cautelativamente l’autista responsabile, una volta individuato. L’azienda valuterà, inoltre, anche una denuncia a carico del dipendente. Nel frattempo ha provveduto a segnalare il video alle autorità competenti”, spiega l’azienda.

Pd vs Lega: 28,6% – 26,74%

Nel IV municipio di Roma, dove c’è anche Casal Bruciato, la periferia della rivolta contro la famiglia rom assegnataria di una casa popolare, quella dei tricolori alle finestre per ribadire il concetto del “prima gli italiani”, domenica scorsa la maggioranza dei residenti ha votato per il Pd: 20.244 persone hanno barrato il simbolo del partito guidato dal governatore del Lazio Nicola Zingaretti: il 28,66% degli aventi diritto contro i 18.892 (il 26,74%) che si sono espressi a favore della Lega del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Appena 471 persone hanno invece dato fiducia a CasaPound i cui militanti hanno promosso le battaglie nel quartiere prima contro la coppia rom, assegnataria di un appartamento poi occupato da una giovane mamma italiana, e quindi della famiglia Omerovic poi ricevuta da papa Francesco e convinta a restare nell’appartamento di via Satta, anche se non tutti i dodici figli hanno lasciato il campo della Barbuta. Anche il Partito comunista di Marco Rizzo ha preso più voti di CasaPound, con l’1,11% dei residenti, 310 in più rispetto al movimento di Simone Di Stefano

Casal Bruciato, zitta e brucia: rom assediati e fuori “piove merda”

Se ne sono andati i blindati della polizia e la pattuglia dei carabinieri. Nel monumentale blocco di cemento delle case di via Satta c’è un silenzio irreale. Siamo a Casal Bruciato, periferia est di Roma, centro mediatico d’Italia per pochi giorni, tre settimane fa. Una sceneggiatura perfetta della svolta a destra che stava per compiersi nelle urne: una famiglia rom, un alloggio comunale, l’assedio dei cittadini inferociti e dei professionisti delle proteste spontanee, i fascisti di CasaPound. Minacce, urla indicibili (“Ti stupro, troia”), l’arrivo del sindaco, l’abbraccio del Papa.

Cosa rimane? Niente. La famiglia è divisa: gli Omerovic sono rimasti quasi tutti nel campo della Barbuta, a Ciampino. Qui c’è solo la mamma con due dei 12 figli. Patrizia, la volontaria che li aiuta, racconta che i genitori sono sotto tranquillanti, ai bambini danno la valeriana. Quando escono di casa sentono le urla dai piani alti: “Ve ne dovete annà”. A notte fonda qualcuno bussa forte alla porta di casa. Sugli altri balconi c’è un assedio di bandiere tricolore. Imer Omerovic, il papà, si è arreso: “Forse anche il resto della famiglia lascerà quella casa”.

Casal Bruciato è razzista? Lo chiediamo alle urne. Domenica scorsa ha vinto ancora il Pd. Nel IV municipio di Roma è al 28,6%, la Lega al 26,8. Ma in diversi seggi delle case popolari domina Salvini. Sono le sezioni dal numero 550 al 554, tra piazza Balsamo Crivelli e via Satta, dove c’è la casa degli Omerovic. Uno su tre ha messo la croce sulla Lega (il 32,8%), 617 voti. Il Pd ne prende 384, quasi la metà. I 5Stelle meno. CasaPound appena 29.

Questo quartiere ha una storia unica. La racconta Norberto Natali, un comunista, e un archivio vivente di queste strade. Fu arrestato per terrorismo e poi prosciolto da ogni accusa. A Casal Bruciato – dice – hanno portato tutti i reietti delle altre periferie: negli anni 60 gli alluvionati di Prima Porta, “sfrattati” dal Tevere; negli anni 70 quelli di Pietralata, reduci dalle lotte per la casa; nel ’74 centinaia di famiglie uscite dalle violente occupazioni di San Basilio; infine, qualche anno dopo, “i baraccati” del borghetto Prenestino, a cui la giunta di sinistra di Argan volle trovare una casa. “Un quartiere così – spiega Natali – ha avuto enormi problemi di adattamento tra i gruppi di diversa provenienza. Tra i pochi collanti c’era la sezione Moranino del Pci”. Casal Bruciato non era rossa: di più.

Oggi quella sede è chiusa. Sbarrata. Occupata – paradosso – da una famiglia di stranieri. Resta la quercia dei Ds sopra la saracinesca e l’insegna con le lettere del Pd sbiadite. Era il circolo di Micaela Campana e Daniele Ozzimo, l’ex assessore (alla casa…) condannato perché “al servizio di Salvatore Buzzi”. Ricordi di Mafia Capitale. Dopo anni di latitanza, il Pd è tornato a Casal Bruciato la settimana delle elezioni, proprio nel palazzo di fronte. A inaugurare c’era Zingaretti. Sulle strade del quartiere si può leggere il bentornato nei manifesti firmati da “i compagni e le compagne di Casal Bruciato”. C’è il segretario con Renzi e la scritta: “Il Pd apre il nuovo circolo. E Casal Bruciato risponde in coro: e ‘sticazzi Nicò!”. Buon lavoro.

Cos’altro c’è nel quartiere? Dell’edilizia pubblica è meglio non parlare. Chi vive nelle case popolari dice che dentro “piove merda”. Un consigliere municipale del Pd confessa che “sembra Beirut durante la guerra civile”.

Uno dei pochissimi giardini pubblici è in piazza Balsamo Crivelli. L’erba è alta, l’immondizia negli angoli. In mezzo c’è un centro anziani ma non ha bagni e quelli pubblici sono fuori servizio: chi deve liberare la prostata si rifugia in un piccolo sottopassaggio, la puzza di urina si sente a distanza di metri. L’altro spazio verde è ai piedi del mastodontico palazzo di Autostrade per l’Italia, in via Bergamini. Ai margini, sul limite di via Grant c’è un campo nomadi informale: una decina di roulotte e prefabbricati. Non ci vivono rom ma una comunità di giostrai sinti di varie nazionalità. Davide, nato vicino a Ravenna, vive a Casal Bruciato da 40 anni. “Sappiamo sbrigarcela, noi lavoriamo. E nessuno ci rompe le scatole”. Ci tiene a sottolineare che sono diversi dai rom: “Noi non rubiamo”.

I pochi locali sono quelli occupati, uno accanto all’altro: l’Intifada – un centro sociale in un enorme plesso scolastico – e la Cacciarella, una cooperativa che ha recuperato uno spazio abbandonato nel 1994. E poi c’è il circolo Carlo Levi. L’ha aperto un altro “compagno”, Marcello Stella, negli anni 70: ancora un’occupazione rossa.

Dalla sua palestra sono usciti campioni della boxe italiana: Davide Ciarlante, Michele Orlando, Sandro Casamonica (sì, quei Casamonica). Fino a poco tempo fa ci si allenava pure Mauro Antonini di CasaPound, il capo della protesta sotto le case popolari: è l’ultimo paradosso, quello che chiude il cerchio. Racconta Antonini: “Avrei voluto essere comunista in quegli anni per partecipare all’occupazione della Carlo Levi. Questo posto ha levato dalla strada tanta di quella gente”. Ricorda un aneddoto incredibile: “Un giorno Marcello si decise a cambiare il ring, che era fatiscente. Arriviamo in palestra e ne troviamo uno ancora più vecchio…”. Tutti lo guardano perplessi, poi Stella apre bocca: “Questo era il ring delle Olimpiadi del ‘60, ci ha combattuto sopra Muhammad Ali”. Cassius Clay. A Casal Bruciato. Non resterà neanche questo: a fine mese la palestra chiude.

Casal Bruciato è razzista? “Un mio vecchio amico – ci dice Natali – era il più grande lavoratore che conoscessi, finché non gli hanno tolto il lavoro. Poi è finito per strada, ha perso tutto, l’hanno arrestato per una rapina alle poste. Qui pure abbiamo perso tutto. Casal Bruciato è tanto razzista, quanto quel mio amico è un rapinatore”.

“La questione etica riguarda anche la magistratura”

“Mi è chiaro: la questione morale ahimè non riguarda solo la politica, ma anche la magistratura”, sostiene il sindaco di Napoli ed ex magistrato Luigi de Magistris a commento dell’inchiesta che, tra gli altri, vede coinvolto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara. De Magistris ha parlato di “tema non nuovo e basta vedere quello che sta accadendo in questi giorni tra Perugia e Roma per capire che il vero tema nel Paese è la questione morale. Questo lo dissi in magistratura già 13 anni fa. Alcuni si arrabbiarono un po’ e tra questi c’era anche Palamara”. De Magistris ha commentato anche la condanna di tre anni per l’ormai ex sottosegretario Fabrizio Rixi. “È la prova – attacca il sindaco di Napoli – che la Lega e la questione morale sono pervicacemente intrecciate. Non ho mai visto Salvini mettere in campo azioni e comportamenti netti contro corruzione e malcostume salvo la propaganda: dai 49 milioni che non ha ancora restituito, agli avvisi di garanzia, alle inchieste, alle condanne che hanno attraversato la storia della Lega di cui Salvini ha sempre fatto parte”.

“Mai ricevuto regali. Colleghi cercavano di silenziarmi”

“I veleni della Procura di Roma si stanno abbattendo sulla mia persona ma ho la tempra forte e non mi faccio intimidire. Sto chiarendo punto per punto tutti i fatti che mi vengono contestati perché ribadisco che non ho ricevuto pagamenti, né regali, né anelli e non ho fatto favori a nessuno”. Lo ha detto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, attualmente pm alla Procura di Roma, indagato per corruzione, al termine dell’interrogatorio durato più di 4 ore. L’ex consigliere del Csm, assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti e Michele Di Lembo, sottolinea: “Chi conosce le dinamiche consiliari sa benissimo che non ho mai parlato di Longo né tantomeno ho danneggiato qualcuno, trattandosi di un organo collegiale che come tale ha bisogno della partecipazione di tutti i suoi membri”. “Ho esibito le ricevute dei pagamenti dei viaggi” ha aggiunto Palamara che oggi sarà nuovamente ascoltato dai magistrati. E ancora: “Da più di un anno moltissimi colleghi non titolari dell’indagine erano a conoscenza di questi fatti e li utilizzavano per silenziarmi sui fatti inerenti le nomine del procuratore di Roma e per impormi di revocare la mia domanda”.

Moral suasion per Lo Voi dal Quirinale, ma Viola resta ancora il favorito

Il terremoto giudiziario che ha colpito magistrati e Consiglio Superiore pone anche una domanda: farà cambiare gli equilibri in plenum per il voto definitivo sul procuratore di Roma? Reggerà l’indicazione della Quinta Commissione, a maggioranza per Alfredo Viola, il Pg di Firenze, di Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice?

Tutto dipenderà dalla posizione dei consiglieri laici “ di governo”, ovvero i tre in quota M5s: Alberto Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, nonché i due in quota Lega: Emanuele Basile e Stefano Cavanna. In Quinta Commissione, hanno votato a favore di Viola sia Gigliotti sia Basile oltre ai togati Lepre (Mi) e Davigo (AeI). Al momento non sembra che i laici vogliano cambiare orientamento anche perché ritengono che cambiare idea sarebbe come dire che il loro voto in Commissione non sia stato un libero convincimento, dopo normali trattative, ma frutto di oscure trame, come qualcuno ha insinuato. Stesso ragionamento, in sostanza, di Mi e Aei. Certo, se dovessero arrivare altre cattive notizie giudiziarie,i laici, specie quelli di M5s, potrebbero astenersi. In quel caso, però, il quorum per la maggioranza si abbassa e passa comunque Viola. Altro scenario, più improbabile ma possibile, è che, essendo Viola, suo malgrado, diventato il candidato “anti linea Pignatone”, l’ex procuratore; essendo lo sconfitto Franco Lo Voi, procuratore di Palermo di Mi, votato dalla progressista Area, perché “filo Pignatone”, alla fine potrebbe giovarsene il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, di Unicost, che avrebbe i voti del suo gruppo, forse di Area e del laico di Fi Cerabona a cui potrebbe unirsi l’altro laico di Fi Lanzi.

Che le notizie giudiziarie possano condizionare impropriamente la nomina del procuratore di Roma è una preoccupazione dell’Anm: “Confida” che “il percorso non sia in alcun modo influenzato da alcun altro fattore esterno o interno alla magistratura”. Una preoccupazione forte anche dei 5 consiglieri di Mi. Brucia l’indiscrezione, riportata da alcuni giornali, secondo cui una trattativa per Viola sia stata guidata da Luca Palamara, ex dominus del Csm per Unicost e Cosimo Ferri, ex leader forte di Mi e ora deputato renziano del Pd. “ Una loro discussione su questa nomina può anche esserci stata, ci dice un consigliere Mi, ma Viola è stato scelto in piena autonomia dal nostro gruppo, che non è eterodiretto, convinto che sia il migliore”. Anche di Lo Voi, a favore del quale ci sarebbe stata, certo non esplicita, una moral suasion dell’ufficio Affari giudici del Quirinale. Lì sono andati, su richiesta, prima del voto in Commissione, consiglieri di Unicost e Area, per spiegare lo stato dell’arte. Ma non di Mi e AeI, esclusi. Ci sarebbe stata una moral suasion per Lo Voi.

Ci risulta che era già saltata la trattativa Mi-Unicost per far votare Viola anche ai centristi. Unicost converge sul “suo” candidato, il procuratore di Firenze Creazzo non dopo il 16 maggio, perché arrivano le carte su Palamara, ma un mese prima per una spaccatura interna. Il plenum dovrebbe votare entro giugno. Prima, voterà la sospensione del capogruppo di Unicost, Spina, indagato per favoreggiamento pro Palamara.

Il pm corrotto: “Il Colle bloccò la mia nomina”

Se davvero, come sostiene di aver saputo l’ex pm Giancarlo Longo in un interrogatorio, fu il Colle a fermare la sua nomina come procuratore di Gela, saremmo di fronte a uno scenario singolare: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da un lato, nel 2015 avrebbe bloccato meritoriamente la nomina di un magistrato che ha appena patteggiato una pena di 5 anni per corruzione in atti giudiziari. Dall’altro, però, dovrebbe almeno spiegare sulla base di quali informazioni agì in quel modo. Il motivo è semplice: Longo è il pm che a Siracusa ha imbastito un’inchiesta farlocca per sostenere che Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato dell’Eni, fosse vittima di un complotto.

Inchiesta ritenuta un depistaggio per intralciare il processo milanese sulla maxi tangente, pagata da Eni in Nigeria, per acquistare il giacimento Opl 245 e che vede proprio Descalzi tra gli imputati.

L’intervento del Colle è citato nel decreto di perquisizione, eseguito ieri dal Gico della Guardia di Finanza, nei confronti di Luca Palamara, consigliere del Csm ed ex segretario dell’Anm, accusato di corruzione per atti contrari al dovere di ufficio. Palamara secondo l’accusa ha ricevuto in cambio regali – un anello per la sua amica del valore di 2mila euro –, viaggi e soggiorni i albergo dall’imprenditore Fabrizio Centofanti.

La vicenda Longo è il primo dei sei capi d’imputazione menzionati nel decreto disposto dai pm perugini Mario Formisano e Gemma Miliani. Tra le accuse mosse a Palamara c’è anche quella – in concorso con l’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara e il suo collega Giuseppe Calafiore – di “aver ricevuto 40mila euro per (…) agevolare e favorire Longo nell’ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela (…) in violazione dei criteri di nomina e selezione come individuati dalle circolari e atti correlati (…) pur non venendo Longo nominato”.

Negli atti viene citato un interrogatorio di Longo dinanzi ai magistrati di Messina: fu un intervento “diretto” del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – dice – a bloccare la sua nomina alla guida della procura di Gela. “Longo – scrive la procura di Perugia – riferiva di aver appreso da Calafiore che questi (Amara) sarebbe stato in grado di gestire i voti di Unicost (corrente del Csm, ndr) tramite Palamara, intimo amico di Centofanti (imprenditore indagato con Palamara, ndr)”. Longo spiega che “Calafiore gli avrebbe riferito di aver dato, unitamente ad Amara, 40mila euro ‘a beneficio di Palamara’ per la sua (di Longo) nomina a procuratore di Gela, non avvenuta, a dire di Palamara, a causa di un intervento diretto del Presidente della Repubblica”. In sostanza Palamara avrebbe riferito Longo che fu Mattarella a bloccare la sua nomina. L’ex consigliere potrebbe aver millantato per giustificare il mancato risultato raggiunto. O potrebbe millantare Longo che infine aggiunge di “aver incontrato Palamara tra novembre e dicembre 2015, a Roma, in un centro sportivo, di aver parlato della sua possibile nomina a Gela, verso la quale Palamara si dichiarava disponibile o in alternativa anche in relazione al posto di procuratore di un’altra procura, precisando che (…) non parlarono di soldi”. “Longo – si legge ancora – spiegava l’interesse di Amara rispetto alla nomina del procuratore di Gela in relazione ai procedimenti riguardanti Eni ivi pendenti, e in sostanza affermava che Calafiore l’aveva incoraggiato a presentare domande di trasferimento avendogli promesso specifici aiuti e possibilità di agganci al Csm”.

L’obiettivo erano quindi i procedimenti pendenti a Gela sull’Eni. Ecco perché Mattarella dovrebbe spiegare se è vero che stoppò la nomina di Longo e sulla basi di quali informazioni: se il Colle era a conoscenza di manovre che intendevano interferire con le inchieste su Eni a Gela è un fatto che non può restare riservato. Calafiore nega ai pm perugini di aver mai pagato qualcuno ma ammette di aver aiutato Longo nelle sue domande di trasferimento “facilitandolo ad avere un contatto con Palamara per il tramite di Centofanti”. Longo ha lasciato la magistratura sei mesi fa, dopo aver patteggiato una pena di 5 anni per l’accusa di corruzione. Dal Colle ci si limita a far sapere che il Presidente detta soltanto linee generali che riguardano tutti i magistrati senza mai entrare in casi specifici. Fonti autorevoli del vecchio Csm smentiscono qualsiasi interferenza di Mattarella.