Le trame di Palamara per screditare Ielo. Intercettato Luca Lotti

Quella che si sta consumando in queste ore nei palazzi di giustizia romani è una storia di tradimenti e colpi sferrati dietro la schiena tra chi dovrebbe stare sempre dalla stessa parte. Protagonista è Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma, ex consigliere al Consiglio superiore della Magistratura (Csm), in passato anche presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Doveva rappresentare la sua categoria, meno uno. Ossia Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. Lo stesso che a Perugia aveva inviato nel 2018 le carte di un’indagine che raccontavano i rapporti tra Palamara e l’imprenditore Fabrizio Centofanti e che sono costati all’ex consigliere l’accusa di corruzione. Uno smacco che Palamara non sopportava, tanto da utilizzare per screditare Ielo – secondo le carte dei pm di Perugia – una denuncia fatta al Csm da un altro magistrato, Stefano Rocco Fava in cui “venivano segnalate ‘asserite’ anomalie commesse” da Ielo ma anche dall’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone. È la storia di un esposto rivelato mercoledì dal Fatto che riguarda presunte ragioni di astensione in una particolare indagine in capo a Pignatone e Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati. Accuse che i pm di Perugia bollano così: “circostanze allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita”.

E così anche Fava si ritrova indagato a Perugia, ma per favoreggiamento e rivelazione di segreto. Quest’ultimo reato contestato anche al consigliere del Csm Luigi Spina.

È stato il trojan installato sul cellulare di Palamara a svelare questa storia di notizie rivelate e usate a proprio favore. Un trojan che ha raccolto anche tante altre voci di chi nel Csm ora sta discutendo la nomina a procuratore capo di Roma. Sono stati ad esempio intercettati “casualmente” almeno due parlamentari che parlavano con Palamara a maggio del 2019. Ci sarebbe poi anche una registrazione della voce di Luca Lotti, il renzianissimo ex sottosegretario allo Sport, totalmente estraneo alle indagini. Sono due dunque le rivelazioni fatte a Palamara. Da una parte Spina – secondo le accuse – gli ha detto che era arrivato alla prima commissione l’esposto di Fava, ma anche che era stata inoltrata da Perugia la comunicazione della sua iscrizione nel registro degli indagati. È stato poi lo stesso Fava a consegnarli il 16 maggio scorso l’esposto, “strumento” per Palamara “per screditare il procuratore aggiunto”. “Siccome un angelo ce l’ho io… sei spuntato te, m’è spuntato Stefano che è il mio amico storico”, diceva l’ex consigliere a Spina. Che lo rassicura. “Ma è spuntato Stefano, adesso si va fino in fondo”. Quegli atti consegnati a Palamara sono costati a Fava l’accusa di favoreggiamento per averlo aiutato “ad eludere le investigazioni a suo carico”. Agli amici il pm Fava ha detto che “erano atti non più segreti”. La rivelazione di segreto invece gli viene contestata perchè come titolare del procedimento dal quale erano “scaturiti gli accertamenti” su Palamara, “rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti ‘dalle carte di credito’ di Centofanti e si erano estesi alle verifiche e pernottamenti negli alberghi”. Su questo Fava, che sarà interrogato il 4 giugno, si difende dicendo: “Non ho mai avuto in mano quell’informativa Centofanti-Palamara, non era nel mio fascicolo”.

Dell’ esposto contro Ielo si parla in diverse conversazioni. Per esempio, il 9 maggio scorso alla presenza anche di “due parlamentari”. “Per quel cazzo che mi hanno combinato lì a Perugia ancora nemmeno si sa”, dice l’ex consigliere. E il 7 maggio sempre Palamara dice che Fava “vuole fare andare a Perugia”. E qui entrano in gioco le nomine: domani infatti il procuratore capo di Perugia Luigi De Ficchy sarà in pensione e bisogna nominare il successore. Palamara vuole qualcuno che lo aiuti quando l’esposto contro Ielo arriverà anche lì. “Ma io non c’ho nessuno a Perugia… zero”, dice Palamara, informandosi “su uno dei tanti candidati conosciuto e in contatto con il suo interlocutore”. Di questa nomina parla anche con Fava il 16 maggio. È scritto negli atti: “Traspare l’interesse di Palamara che venga nominato un procuratore a Perugia che sia sensibile alla sua posizione procedimentale e all’apertura di un procedimento fondato sulle carte che Fava sarebbe intenzionato a trasmettere”. Per i pm “la consegna delle carte ‘contro’ i suoi colleghi da parte di Fava” hanno “per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di ‘ritorsione’”. E la sintesi delle intenzioni sta in una intercettazione tra Spina e Palamara del 16 maggio. “C’avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e tutte le cose forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo”, dice Spina. E Palamara: “No, adesso lo devi chiamare, altrimenti mi metto a fare il matto”.

In Sardegna litigano su Bartolo: “Toglie un seggio ai nostri”

Si litiga anche quando si vince o quasi. Nel Pd è un piccolo caso l’elezione di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa impegnato sul fronte della tutela dei migranti. Non perché non sia stata apprezzata la sua ottima performance elettorale, ma perché Bartolo, eletto sia in Italia Centrale che in Italia Insulare, ha deciso di optare per la seconda circoscrizione (coerentemente con i suoi natali siciliani). E in questo modo ha tolto la prospettiva di un seggio all’unico europarlamentare sardo che sarebbe stato eletto nel Pd. Così è arrivata la protesta di Emanuele Cani, segretario dem sull’isola: “Abbiamo appreso della decisione di Pietro Bartolo di optare per l’elezione nel collegio insulare – ha detto Cani –. Ho manifestato personalmente la mia disapprovazione al segretario Nicola Zingaretti al quale rivolgo, ancora una volta, un invito affinché persuada Bartolo a rivalutare la sua decisione”. Il candidato tagliato fuori è Andrea Soddu, sindaco di Nuoro, arrivato terzo nelle liste dem. “Lancio un appello accorato anche a Pietro Bartolo – continua Cani – perché ripensi alla sua decisione. L’isola attraversa un momento delicato e serve la presenza in Parlamento di chi, come Soddu, conosce i problemi della Sardegna”.

La guerra di Mara e Licia sulle spoglie di B.

Le elezioni europee erano il tappo che teneva tutti falsamente uniti a remare insieme per non sprofondare. Ora il tappo è saltato e in Forza Italia scorre il sangue. Protagoniste quattro donne, quattro amazzoni che turbano il sonno di Berlusconi. Mara Carfagna, Licia Ronzulli, Mariastella Gelmini e Francesca Pascale.

Le prime due sono le vere antagoniste. Carfagna, si sa, da tempo aspira a prendere il timone. Saprebbe dove portare la nave: lontano dalla Lega salviniana, verso un approdo centrista, moderato, liberale, anti-sovranista.

Le elezioni europee sono state la sua consacrazione: se Forza Italia ha tenuto il minimo sindacale dell’8,7%, un risultato modesto ma comunque non da estrema unzione, il merito è del buon esito nel mezzogiorno: 12,2% al Sud e 14,7% nelle isole, con buoni risultati in Campania e Calabria. Il suo Sud, quello dei campani, in asse con Gianfranco Miccichè in Sicilia. A fronte di questi numeri spiccano le striminzite preferenze raccolte da Antonio Tajani al centro: solo 48 mila voti. Così è stata la Carfagna ad aprire le danze. “Bisogna cambiare tutto. Il partito non può più essere gestito dagli staff”, ha detto. E lo staff è quello capitanato dalla “regina” di Arcore, Licia Ronzulli, plenipotenziaria, colei che tiene i rapporti (ottimi) con Salvini e decide tutto o quasi, dalle presenze tv all’agenda di Silvio, alle candidature. “Il risultato è stato portato a casa da Berlusconi, è solo merito suo, gli altri non hanno fatto nulla”, la risposta di Ronzulli. Reazione dei campani: “C’è un clima reso irrespirabile da chi, come Ronzulli, aspira a governare il partito senza alcun consenso sul territorio”. E poi i calabresi: “Affermazioni fuori luogo basate su presupposti falsi”. Veleni incrociati cui ha dovuto mettere uno stop lo stesso Berlusconi. “Basta! Il confronto nel partito non può essere dominato da attacchi personali che gettano discredito su collaboratori che ho scelto personalmente e godono della mia fiducia”, le sue parole, su input di Ronzulli, che si sente minacciata come mai in passato.

Mercoledì pomeriggio, a Montecitorio, i deputati vicini a Carfagna hanno tentato il putsch, raccogliendo le firme su un documento per chiedere a Berlusconi di nominare la vicepresidente della Camera reggente unica. Operazione stoppata, in serata, da un furibondo Tajani. Ma è solo l’inizio. “Ronzulli non capisce oppure è in malafede, siamo noi ad avere i voti, non lei”, ha attaccato ancora ieri il deputato campano Paolo Russo.

Queste le premesse dell’ufficio di presidenza andato in scena ieri a Palazzo Grazioli. Tanto che, per placare gli animi, il leader ha voluto vedere in un pre-vertice Carfagna, Tajani e le due capogruppo Bernini e Gelmini. “Dovete darvi tutti una calmata. Soprattutto tu, Mara. Altrimenti prendo uno da fuori e lo faccio segretario. Così poi mi diverto io…”, ha detto l’ex Cavaliere.

Poi bisogna vedere chi sta con chi. Francesca Pascale, per esempio, iscritta al partito anti-Salvini, gioca di sponda con Carfagna. Tajani, sotto attacco, si muove in sincro con Ronzulli. Non se la passa bene, a causa della nuova tangentopoli lombarda, Mariastella Gelmini, che ha rassegnato le dimissioni da coordinatrice regionale. Poi ci sarebbe pure Giovanni Toti, in rotta di collisione con tutti. Alla fine Berlusconi ha tentato di fare la sintesi, prendendo ancora le difese di Ronzulli e Tajani. “Siamo la spina dorsale del centrodestra. Bisogna stare pronti perché presto si andrà al voto”, ha detto il leader, annunciando il congresso in autunno, a ottobre. “E alla guida resto io”. La Carfagna dovrà attendere. Ma ora almeno c’è un luogo, il congresso, dove potrà sferrare l’attacco finale.

Il Pd scopre la paura del voto: Delrio e Franceschini in azione

“Per il Paese conviene andare a votare. Salvini vuole durare altri 3 o 4 mesi e far ingoiare ai 5Stelle il Tav e la Flat tax. Loro diranno di sì e saranno al 10%. A quel punto, l’Italia sarà nera e la democrazia veramente a rischio. Per il Pd probabilmente non è così utile, perché non siamo ancora pronti”. Graziano Delrio, capogruppo dem alla Camera, con un ragionamento in cui nega e afferma allo stesso tempo, ammette uno dei dilemmi che in questi giorni agitano il Partito democratico: votare conviene davvero? Con un Pd che non può sperare di spingersi oltre il 24% non significa semplicemente consegnare l’Italia alla Lega e a Fratelli d’Italia, come temono al Colle?

Nicola Zingaretti da settimane persegue una strategia: spingere per elezioni subito e nel frattempo attaccare i 5Stelle il più possibile. Due ordini diversi di obiettivi: rinnovare i gruppi parlamentari, frutto delle liste elettorali fatte da Matteo Renzi; guadagnarsi i voti dei sostenitori dei Cinque Stelle, delusi dal Movimento. Però, nel partito non tutti sono d’accordo. In maniera abbastanza scontata Matteo Renzi, che non è pronto a fondare il suo partito e sa pure che avrebbe un ridimensionamento fortissimo nelle liste. Ma ci sono anche una serie di big che qualche perplessità ce l’hanno. Lo stesso Delrio e Dario Franceschini, che dall’inizio della legislatura gioca di sponda con Sergio Mattarella. Oggi nessuno dei due si può spingere a ipotizzare un’alleanza di governo con i 5Stelle. Ma che bisogna parlare con quel mondo lì sono convinti loro, come Goffredo Bettini, il vero demiurgo della candidatura di Zingaretti. Perché poi c’è un altro ordine di problema: se alla fine il governo dovesse cadere e non si andasse alle elezioni, chi si intesterebbe la manovra? Zingaretti ha sempre negato categoricamente la possibilità di appoggiare una sorta di governo tecnico per “salvare” il Paese. Ma se alla fine, dentro quell’esecutivo ci finissero i 5Stelle o almeno una parte di loro, “tipo” argine all’avanzata della destra? Per adesso, più domande che risposte. Pure perché il segretario si è convinto che i 5Stelle abbiano talmente tanto ceduto alle istanze di Salvini da non poter neanche essere presi in considerazione.

Ecco perché al Nazareno ieri era tutto un ribadire che la decisione di votare o no non spetta al Pd. Per dirla con Lorenzo Guerini, “il voto non è nelle nostre disponibilità”.

In questo clima, ieri Zingaretti ha convocato una direzione. Analisi del voto, tanto per cominciare. Nicola Zingaretti indica al Pd due orizzonti temporali antitetici: quello ideale, in cui lanciare una “rivoluzione” nell’organizzazione del Pd e nella sua proposta politica, con una Costituente delle idee da tenersi a novembre; e un orizzonte a brevissimo termine, nel caso in cui la crisi di governo conduca a urne a settembre. Parlando alla Direzione del partito Zingaretti ha infatti lanciato un estote parati ai Dem, per non farsi “cadere addosso” la crisi con annesse elezioni.

In tal caso, anche per la costruzione di una coalizione occorrerà partire dall’attuale centrosinistra. E il partito centrista di Calenda? Per adesso, ai vertici del Nazareno ci tengono a dire che non si favoriscono scissioni. Poi, certo, se i sondaggi diranno che è utile una forza così, si vedrà.

Intanto, anche ieri le polemiche sono state tenute basse: le minoranze di Giachetti e di Lotti e Guerini hanno chiesto che non ci fosse la discussione. Con i ballottaggi in corso, non era il caso di criticare il segretario. Ma non c’era neanche la volontà di sostenerlo. Sulla stessa linea, la decisione di Zingaretti di non fare ancora la segreteria: meglio non esporsi a entrare negli equilibri attuali.

Salvini a Di Battista: “Prendi il motorino e vattene a viaggiare”

Sarà che “prevenire è meglio che curare” e Matteo Salvini guarda già al prossimo rivale dopo Luigi Di Maio, ma le attenzioni cordiali riservate dal capo della Lega ad Alessandro Di Battista sono sempre più frequenti. Anche ieri sera Salvini ha dedicato all’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle una battuta velenosa, durante la puntata di Diritto e rovescio su Rete4. “Di Battista prenda il motorino e se ne vada in giro per il mondo”. Un riferimento ironico ai frequenti viaggi intercontinentali del grillino, che di recente aveva annunciato di essere pronto a partire per l’India. Un progetto accantonato con l’ avvicinarsi di una possibile crisi di governo. La polemica di giornata peraltro era stata iniziata proprio dal Cinque Stelle, che parlando del caso Rixi lo aveva invitato a “concentrarsi sul suo lavoro e sulle promesse che ha fatto” senza fare “invasioni di campo”. Ma quella sui viaggi in motorino non è stata l’unica battuta del giorno di Salvini sul Cinque Stelle. “Di Battista? Lo invidio, farei volentieri a cambio, la sua qualità della vita è migliore della mia”. Tra i due non c’è grande feeling.

“A Luigi serve aiuto. Ora M5S più europeista. Il Tav? Resta inutile”

La veterana che nel Movimento ne ha viste tante, forse tutte, siede su un divanetto dentro il Senato, mentre si addensano nuvoloni sopra il governo e il M5S riflette anche su se stesso, su che presente e futuro darsi dopo la sconfitta. Ma Paola Taverna si mostra comunque fiduciosa: “Abbiamo perso, ma non è un calo strutturale, il nostro zoccolo duro vale molto di più del 17 per cento. Però dobbiamo tornare ad ascoltare la gente, capire le loro nuove esigenze”.

Di Maio è stato appena riconfermato capo politico dagli iscritti con l’80 per cento dei voti sulla piattaforma Rousseau. Cosa significa?

Personalmente non avevo alcun dubbio sul risultato. Il problema non poteva certo essere una sola persona, ma gli eventuali errori di tutto il Movimento. Luigi non è mai stato messo in discussione, almeno da me. Forse abbiamo smarrito qualcosa, ma io non mi pento di nulla di quanto abbiamo fatto in questo anno di governo. Abbiamo realizzato grandi cose.

Intanto però va notato come Roberto Fico non abbia partecipato alla votazione. “Sono sempre stato contrario alla politica che si identifica in una sola persona” ha spiegato. Che ne pensa?

Roberto è una delle persone che hanno costruito il M5S. In assemblea lo aveva già detto: voleva che si riflettesse non su una singola persona ma sulle cose fatte e su quelle da fare. Sul percorso.

E cosa va fatto? Perché è stata una disfatta, senatrice. Come mai è arrivata?

Di sicuro abbiamo comunicato male e soprattutto poco quanto fatto in questo anno. E siamo stati fagocitati dalla comunicazione violenta di Matteo Salvini. Ci vuole tempo perché il cambiamento venga percepito.

Siete voi che dovete farvi capire.

La gente soffre ancora per i tanti errori dei governi precedenti, e molti ci hanno fatto sentire la loro incazzatura.

A voi e non alla Lega: perché?

Noi siamo stati molto responsabili, mentre Salvini si è comportato da contraente di minoranza, puntando su un paio di temi e di provvedimenti. La gente ha seguito i suoi slogan: ma il voto è volatile, e alcuni dei nostri non sono andati alle urne.

Un problema rilevante, no?

Purtroppo le elezioni europee non vengono percepite come le Politiche. Ma io non mi autoassolvo: dovevamo farci sentire meglio, far capire quanto vogliamo ancora fare. Però abbiamo già realizzato lo Spazzacorrotti, il reddito di cittadinanza e i tagli alla casta.

Non è bastato.

Ci è arrivato un campanello d’allarme di cui tenere conto. Per questo sarei ben felice di lavorare in Parlamento su flat tax e autonomie, visto che la Lega ha ottenuto un buon risultato. Portino i provvedimenti alle Camere.

Di Maio è un capo che fa tutto da solo e non delega, è l’accusa di tanti 5Stelle. Non crede che sia un vero nodo?

Luigi ha molti incarichi ed enormi responsabilità, e spesso noi come gruppo abbiamo avvertito la sua mancanza.

Gli hanno chiesto di rinunciare almeno a uno dei due ministeri. Concorda?

Deve deciderlo lui, perché solo Luigi può valutare. Casomai gli va chiesto se ha bisogno di un aiuto come capo politico per immaginare i passi successivi del Movimento. E questo mi sento di suggerirlo.

Si parla di un comitato di sette big, di cui lei farà parte.

Ne ho sentito parlare, ma non ho mai avuto un momento di confronto su questo. Io sono sempre a disposizione. Di più non so.

Dovete cambiare valori e parole d’ordine per ripartire?

Forse è il momento di capire le nuove esigenze, le nuove richieste del Paese. Il mondo del lavoro cambia di continuo, con la robotizzazione. E poi c’è l’Europa, verso cui noi siamo stati sempre molto critici. Ma erano criticità provocate da una classe dirigente che aveva tradito l’ideale europeo. Salvini si pone come quello che afferma il nazionalismo. Invece io voglio rendere l’Italia un grande Paese che si afferma dentro l’Europa.

Serve un Movimento più europeista.

A mia opinione sì. E dobbiamo riprendere in mano il tema della cultura.

Salvini ha detto che ora si aspetta “tanti sì” dal M5S. E il sì lo vuole anche per il Tav. Siete disposti a rinunciare a una vostra bandiera?

Il dossier è nelle mani del presidente del Consiglio Conte, e non ho contezza degli sviluppo. Ma per noi il Tav rimane un’opera inutile. Ci sono ben altre priorità, in un Paese con Regioni senza veri collegamenti.

In assemblea Fico, Morra e altri lo hanno detto: “Non si capisce più chi siamo”.

La mancata comprensione dipende innanzitutto dalla comunicazione. Ma io so cosa siamo, i nostri pilastri restano la legalità, la lotta ai privilegi e l’ambiente. Però dobbiamo ridarci degli obiettivi.

Il governo può andare avanti in queste condizioni di rissa continua?

Noi saremo sempre fedeli a noi stessi, leali. Lo chieda all’altro contraente.

Plebiscito web per Di Maio ma Fico di nuovo in campo

Dopo “la scoppola peggiore nella storia del Movimento” (copyright di Alessandro Di Battista) il capo politico si prende la vittoria più facile, quella nel plebiscito su di sé sul web. L’80 per cento dei votanti sulla piattaforma Rousseau conferma la fiducia a Luigi Di Maio, e in numeri assoluti fa quasi 45 mila iscritti su 56 mila votanti. Ma mentre sul portale celebrano “il record” si fa largo anche un’altra verità, per nulla marginale.

Perché a votazione ancora in corso, Roberto Fico verga nero su bianco su Facebook che lui non ha partecipato, visto che “sono sempre stato contrario alla politica che si identifica in una sola persona”. E si astengono anche altri, parlamentari ed eletti che fanno riferimento proprio al presidente della Camera. Così basta unire i puntini con la sua apparizione a sorpresa all’assemblea fiume dei 5Stelle di mercoledì sera, dove aveva già spiegato che il voto online su Di Maio proprio non lo convinceva, aggiungendo molto altro. E il ritratto finale è di un Fico di nuovo in campo, dentro il dibattito del M5S. L’unico contrappeso al capo riconfermato ma ugualmente rimpicciolito dalle urne, mentre Di Battista sconta la freddezza e in molti casi l’ostilità dei parlamentari, assieme ai sospetti del cerchio dimaiano su un suo attacco al leader tramite interposta persona (il senatore Gianluigi Paragone). Ieri lo stesso Di Maio ha negato sul blog: “Alessandro è un fratello, sui giornali ho letto tante falsità”. Mentre Di Battista aveva fatto ammenda in assemblea: “Luigi, scusa se non ti ho aiutato come avrei dovuto”. Però ora prevale altro. Innanzitutto, l’idea del capo di ripartire da un comitato costituente composto da lui e altri sei big: Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Di Battista, Fico e due donne, Paola Taverna e Chiara Appendino.

I sette che dovrebbero pensare la riorganizzazione del Movimento, scegliendo anche una decina di nomi per una segreteria politica, divisa per temi. L’organo a cui il capo dovrebbe delegare potere e oneri, smettendo i panni dell’autocrate. Ma il progetto va ancora definito. E prima di tutti va convinto Fico. “Per accettare Roberto vorrà capire tempistica e raggio d’azione”, spiega una persona vicina al presidente di Montecitorio. Convinto che “siamo nel momento più delicato della storia del M5S”, come ha detto ai suoi. Concetto evidente nel suo post di ieri, dove riprende quanto detto in assemblea, ripartendo dal no al voto su Rousseau: “Se il focus resta sulla fiducia da accordare o meno a una figura, e non sui tanti cambiamenti da porre in essere, non ci potrà essere alcuna evoluzione. Significa non cambiare niente”. Vuole un nuovo percorso, Fico: “Quando si è nelle istituzioni tutto è più complesso. Ma proprio per questo dobbiamo dirci con forza e chiarezza a quali valori e principi aderiamo”. Un’urgenza, perché “l’identità ti permette di non perdere la rotta quando sei nella tempesta”. Perché ai 5Stelle serve una boa, per riconoscersi. E non affondare.

Austerità, Juncker ammette: recessione senza flessibilità

“Senza la flessibilità prevista nel patto di Stabilità e concessa ad alcuni Stati membri, quegli stessi Stati membri potrebbero ritrovarsi tecnicamente in recessione”: a dirlo è stato il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, chiudendo la discussione sulle previsioni economiche di primavera durante il collegio dei commissari dello scorso 7 maggio a Bruxelles secondo quanto riporta il verbale della riunione. Le minute, come sempre, non nominano gli Stati membri di cui i commissari discutono, ma il riferimento all’Italia è piuttosto trasparente: Juncker ha rivendicato spesso di avere concesso una forte dose di flessibilità, in realtà uno sconto alla dose di austerità da assumere, al nostro Paese. Una scelta politica che non è condivisa da tutta la Commissione: il 10 ottobre 2018 durante la discussione in collegio è stato formulato, e messo a verbale, “un invito alla prudenza per quanto concerne l’uso estensivo delle clausole di flessibilità”. Clausole che sono state “in qualche caso utilizzate impropriamente, ad esempio per stabilizzare una situazione politica”.

Salvini, Lerner e le mosse post elezioni. In Rai c’è la colonizzazione di destra

Potrà pure non essere un editto bulgaro in salsa padana, come ha spiegato ieri Matteo Salvini, ma il suo anatema sul ritorno in Rai di Gad Lerner, con il nuovo programma L’approdo, dà il senso della nuova aria che tira in Viale Mazzini dopo il trionfo della Lega alle Europee e il ribaltamento dei rapporti di forza nella maggioranza di governo. L’attacco a Lerner e all’ad, Fabrizio Salini, è giunto proprio a tre giorni dalle elezioni, così come l’ufficialità dello spostamento di Fabio Fazio su Raidue è arrivata il giorno dopo, lunedì.

Intendiamoci: in Viale Mazzini, coi sondaggi in circolazione, il riposizionamento verso il Carroccio è in corso da tempo. Ora, però, la destra sovranista sembra non guardare più in faccia a nessuno, pronta a fare il pieno di uomini e posizioni. “Nessuna pressione su Lerner, ho chiesto solo quanto guadagna e ho detto che me lo ricordo quando avevo i calzoni corti a far trasmissioni contro la Lega. Ma niente paura: con in tv lui, Fazio e Saviano, la Lega andrà al 52%”, ha affermato ieri il vicepremier. Dimenticando, però, che il giornalista, con la sua Milano Italia, a inizio anni Novanta è stato uno dei primi a dare voce alla Lega di Umberto Bossi. “Non critico Lerner perché la pensa diversamente da me, ma perché, a mio parere, è un portatore d’odio. Ragiona ancora come fosse a Lotta continua: per lui gli avversari sono nemici. La decisione su di lui, però spetta al direttore di Raitre, in totale autonomia”, spiega il consigliere Giampaolo Rossi (area Fdi). Che però si chiede: “Perché se Lerner arriva su Raitre Maria Giovanna Maglie non può stare su Raiuno?” “Il fuoco di fila su Salvini sul servizio pubblico deve finire”, replica Rita Borioni, consigliera di area Pd.

Che il vento sia cambiato, in Rai, lo si è notato anche ieri durante un Cda dove del caso Lerner non si è parlato. Marcello Foa, per esempio, era di “ottimo umore”, mentre “un po’ mesto” sembrava l’ad Fabrizio Salini. Che ora rischia di uscire assai indebolito dal nuovo scenario politico. Molto si capirà da cosa accadrà sui palinsesti estivi. Intanto è stato sbloccato il contratto a Pierluigi Diaco, che nel mosaico Rai viene inquadrato nella casella destrorsa. Resta da vedere se saranno scongelati anche gli altri contratti fermati dall’ad, specie quelli della nuova infornata di autori a Uno mattina, tutti di area sovranista.

Il bersaglio grosso, però, sarà il Tg1, dove l’intenzione è quella di sostituire Giuseppe Carboni con un direttore di area centrodestra. Gennaro Sangiuliano (con Carboni al Tg2) e Fabrizio Ferragni sono i nomi che girano. Oppure un interno del Tg1. Dove nelle ultime ore è scoppiato il caos, con i giornalisti del cdr divisi su un comunicato che critica apertamente l’operato del direttore. Un’altra battaglia si annuncia sull’imminente voto in Vigilanza sul doppio ruolo di Foa (presidente anche di RaiCom). La guerra a Viale Mazzini è appena cominciata.

Dalle coperture ai tagli incerti, ecco tutti i dubbi sulla Flat Tax

La Lega accelera sul provvedimento che a quanto pare sarà il perno di una prossima manovra di Bilancio targata Matteo Salvini. “Mi premurerò di portare la discussione sulla Flat tax per imprese e famiglie nel prossimo Consiglio dei ministri, quando sarà convocato” ha annunciato il vicepremier poco dopo la fine di un vertice fra lo stato maggiore economico del Carroccio e il ministro dell’Economia Giovanni Tria. “Sarà una manovra pluriennale, inizieremo con una bella botta da 10-12 miliardi” ha anticipato il viceministro leghista all’Economia, Massimo Garavaglia.

Per il sistemadelle imprese si pensa a un ventaglio di tre aliquote fiscali: il 24% da applicare sui dividendi ripartiti ai soci, 20% sugli utili reinvestiti in azienda e il 15% in regime forfettario. Per quanto riguarda le famiglie, spiega al Fatto il sottosegretario al Mef, Massimo Bitonci, si partirà concentrando gli sconti sotto la soglia di un reddito familiare cumulato di 50-60 mila euro, con ulteriori riduzioni da applicare sulla base dei componenti.

La copertura finanziaria del provvedimento dovrebbe venire dall’imposizione di una franchigia, un tetto massimo, sulle spese da portare in detrazione e deduzione nella denuncia, ma solo per i redditi superiori ai 75mila euro. Per gli altri scaglioni di reddito le agevolazioni fiscali dovrebbero essere semplificate ma non abolite, anche se in concomitanza con l’applicazione della nuova aliquota Irpef al 15%. “Del resto già dodici milioni di contribuenti – osserva Bitonci – per effetto delle agevolazioni fiscali sono a saldo zero”.

L’altro obiettivo contenuto nel pacchetto fiscale preannunciato dal Carroccio che potrebbe prendere la forma di un disegno di legge da mettere subito all’ordine del giorno delle Camere, è la sistemazione del bonus degli 80 euro che verrebbe cancellato dalle buste paga per essere assorbito dalla Flat tax e nel sistema delle detrazioni. “Non vengono tolti ma riordinati” rassicurano gli economisti della Lega. Ma a godere del principale vantaggio dal passaggio dei 10 miliardi di euro del bonus Renzi dalla colonna delle spese a quello delle agevolazioni fiscali, in base alle norme sulla contabilità pubblica potrebbe essere il bilancio dello Stato, che si ritroverebbe maggior margine di manovra alleggerendo il numeratore del fatidico rapporto deficit-Pil.

Queste misure non comporterebbero per la verità una vera riduzione della pressione fiscale, ma aprirebbero una delicata partita di redistribuzione del carico tra i contribuenti. Almeno nella prima fase di applicazione quel che accadrebbe intorno allo “scalone” tra i due mondi di contribuenti (quelli con la Flat tax e quelli senza) potrebbe indurre i contribuenti a comportamenti distorsivi. Il viceministro della Lega ribatte subito all’obiezione assicurando che “sopra al provvedimento andrà messo sicuramente qualcosa, altrimenti non abbiamo tagliato le tasse”. Alcuni analisti osservano che il riferimento alla somma dei redditi percepiti nel nucleo famigliare come base imponibile della nuova tassa piatta potrebbe perfino introdurre nel sistema un incentivo a non ufficializzare le unioni tra le persone e anche a non regolarizzare i rapporti di lavoro, per nasconderli al fisco.

La Corte dei conti dedica un capitolo del Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, presentato nei giorni scorsi al Senato, proprio a un eventuale riordino delle “spese fiscali”. Secondo la magistratura contabile non è “agevole ipotizzare risultati finanziariamente significativi in termini di risorse liberate e privi di effetti negativi per il complessivo funzionamento del sistema” senza “un’organica revisione dei principali tributi”. Auspica poi che “i futuri interventi sulle spese fiscali si inseriscano, per quanto possibile, in un più organico e generale disegno riformatore del sistema, concorrendo a rafforzarne le caratteristiche di equità, di razionalità e di neutralità che lo stesso deve avere e che nell’attuale ordinamento risultano non poco compromesse per effetto degli innumerevoli interventi disorganici che si sono susseguiti dopo la riforma fiscale degli anni Settanta”. Suona proprio come un avvertimento.