Difesa, Tofalo attacca la Trenta: troppo di “apparato”

Guerra nel ministero della Difesa: fanno discutere le parole del sottosegretario Angelo Tofalo, che in un lungo post su Facebook ha attaccato duramente la ministra Elisabetta Trenta. Pesanti le accuse mosse nei confronti della titolare del Dicastero: “Ho cercato per un anno di stare accanto al ministro Trenta e di spiegarle che il nemico non è Salvini, o chissà chi altro – ha scritto Tofalo – ma chi, all’interno dell’apparato, vuole continuare ad agire senza l’indirizzo e il controllo politico. Purtroppo, consigliata male, ha deciso di fare valutazioni diverse”. Un atto di accusa che, in un primo momento, aveva addirittura fatto pensare alle dimissioni, poi smentite. In ogni caso la presa di posizione di Tofalo non è stata condivisa col Movimento, che ha dichiarato la propria estraneità alla vicenda attraverso un comunicato. “Le dichiarazioni pubbliche diffuse dal sottosegretario Tofalo nei confronti del ministro Trenta sono molto gravi e tutto il M5S ne prende le distanze. Si tratta – si legge nella nota – di un’iniziativa personale, che ci ha sorpreso e che non rappresenta in alcun modo la posizione dei vertici del Movimento”.

Conflitto d’interessi: la 5S Nesci si dimette da relatrice

Dalila Nesci, deputata del M5S, si è dimessa da relatrice del decreto Calabria. Una decisione presa dopo l’accusa di alcuni parlamentari dei partiti d’opposizione (Pd, Forza Italia e LeU): secondo loro, un collaboratore di Nesci, Gianluigi Scaffidi, si sarebbe candidato a diventare commissario della Asl di Vibo Valentia, generando così un conflitto di interessi. Critiche respinte dalla ormai ex relatrice del contestatissimo decreto-legge, che prevede la riforma della sanità nella regione del Sud. Per calmare i toni della discussione in aula, è intervenuta la ministra della Salute Giulia Grillo: pur insistendo che non esistebbe alcun conflitto di interessi, si è impegnata a non nominare Scaffidi. Ma i duri scontri in aula hanno portato Nesci a lasciare l’incarico, “con l’unico fine di consentire il buon andamento dei lavori in Aula – scrive in una nota – La priorità è convertire al più presto il decreto Calabria”. Ad annunciare la sua rinuncia è stato il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, alla riapertura dei lavori. A prendere il suo posto, la presidente della commissione Affari sociali Marialucia Lorefice, del M5S.

Meno deficit anche grazie ai risparmi sul Reddito

I dettagli tecnici si conosceranno oggi, ma la sostanza è riassumibile così: il governo italiano non è disponibile a una manovra correttiva sui conti pubblici quest’anno né, in prospettiva, a una stretta fiscale per accelerare il calo del debito. Anche perché, stima il Tesoro, il deficit 2019 si rivelerà più basso del previsto, grazie a una maggior crescita e pure ai risparmi di spesa sul Reddito di cittadinanza. Dettaglio che certo non piacerà al Movimento 5 Stelle.

Oggi il ministro dell’Economia Giovanni Tria risponderà alla lettera inviata mercoledì da Bruxelles che ha contestato gli “insufficienti progressi fatti verso il rispetto dei criteri del debito 2018”, avviando un percorso che, nell’ipotesi più ardita, potrebbe portare a una procedura d’infrazione. La vigilia è segnata dal malumore 5Stelle per la mossa leghista: Salvini si presenta al ministero da Tria accompagnato dal viceministro al Tesoro, Massimo Garavaglia, da Giancarlo Giorgetti e dagli uomini più ascoltati per i temi economici, il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi e quello delle Finanze del Senato, Alberto Bagnai. Un incontro di un’ora e mezza, pensato da Salvini per segnare il cambio dei rapporti di forza in seno al governo dopo le Europee.

La Lega non avanza richieste specifiche, ma in sostanza concorda con la linea di Tria. E lo si capirà dalla lettera. Il ministro spiega dal Festival dell’economia di Trento che “non c’è bisogno di manovre correttive” e “che il consolidamento fiscale molto rapido non godrebbe della fiducia degli investitori. Non siamo in condizioni di far aumentare il debito ma neppure di accelerare la sua riduzione”.

La lettera Ue era attesa. Un atto che si ripete da anni. Nel 2018 il rapporto debito/Pil è salito dal 131,4 al 132,2% e quest’anno è previsto al 132,6%. Sulla decisione della Commissione influiranno però le scelte attuali del governo. Tria spiegherà i soliti “fattori rilevanti” che non hanno permesso di raggiungere i target promessi (minor crescita, deflazione ecc.), ed elencherà le cose da fare, dall’accelerazione sugli investimenti alle privatizzazioni (quest’anno valgono 18 miliardi, una cifra irrealizzabile). L’unica cosa di rilievo riguarda il 2019: Tria assicura che il deficit sarà più basso del 2,4% del Pil messo nel Def di aprile, grazie a una crescita più alta dello 0,2% stimato, ma anche, a quanto filtra, grazie al fatto che i risparmi ottenuti dalla minor spesa per il Reddito di cittadinanza, stimati oltre il miliardo, andranno a ridurre il disavanzo. Una linea che piace alla Lega, meno ai 5Stelle: Di Maio voleva dirottarli sul decreto Famiglia, ma si è scontrato con lo stop della Ragioneria (e da allora se ne sono perse le tracce).

Dalla risposta di Tria dipenderà la reazione Ue. Da Bruxelles filtra ai giornali che già nella riunione del 5 giugno possa proporre la procedura d’infrazione, che verrebbe discussa dall’Ecofin del 14 giugno o a luglio. Una procedura molto lunga e complessa, che peraltro al Tesoro considerano improbabile visto che non se n’è fatto menzione nelle interlocuzioni informali, e anche perché una lettera di contestazioni è arrivata anche alla Francia. Di certo arriveranno le raccomandazioni per ogni Paese, che dovranno essere discusse nel Consiglio Ue del 20-21 giugno. L’anno scorso il governo le approvò, salvo ripudiarle in autunno. Tria vuole evitare il bis, ma su questo con la Lega la discussione sarà molto più complicata.

Lega, tre bombe contro tre decreti: il governo traballa

A cinque giorni dal voto che ha ribaltato i rapporti di forza del governo gialloverde, l’incontro tra il premier Giuseppe Conte e i suoi vice in lotta non c’è ancora stato. Conte li convocherà presto, di certo entro lunedì. E con loro proverà a togliersi il dubbio che ormai tribola lui ancor prima che gli altri: ci sono ancora le condizioni per andare avanti?

Il problema è che da quando ha baciato il rosario domenica notte, in pratica, Matteo Salvini scorrazza per Roma come se il capo del governo fosse lui. Al punto che ieri, fresco di condanna per falso e peculato, il viceministro Edoardo Rixi con disinvolta naturalezza ha fatto sapere: “Per l’amore che provo per l’Italia e per non creare problemi al governo ho già consegnato nelle mani di Matteo Salvini le mie dimissioni”. Neanche un minuto dopo il ministro dell’Interno le accetta “per tutelare il governo” e lo nomina seduta stante responsabile Infrastrutture e Trasporti della Lega. A Conte non resta che convocare il Consiglio dei ministri alle 15.30 per formalizzare quello che fino ad allora era un esercizio di stile.

La partita del leader della Lega è salita di livello. Tre ore prima delle dimissioni di Rixi, è uscito dal portone principale del ministero dell’Economia, dove insieme al ministro Tria ha buttato giù la lettera di risposta a Bruxelles e discusso “in generale del rilancio economico del Paese”. Negli stessi minuti i capigruppo di Lega e Cinque Stelle sono a colloquio con il presidente del Consiglio: stanno facendo il punto sull’agenda parlamentare e tutti insieme convengono sul fatto che bisogna fare presto, sul dl Crescita e sullo Sbloccantieri.

Il punto è come. Perché appena usciti da Palazzo Chigi, gli alleati di governo tornano nemici. E i Cinque Stelle si ritrovano presto disarmati: le immediate dimissioni di Rixi, di fatto, svuotano di significato la grancassa del Movimento che sin dalla mattina batteva sul “rispetto del contratto” e “l’onestà”, sognando un replay del caso Siri, il sottosegretario indagato su cui la Lega ha tenuto le barricate per quindici giorni buoni e che alla fine Conte ha dimissionato d’imperio. Invece, ieri, la giornata l’hanno dovuta affrontare a mani nude. E i colleghi di governo non hanno avuto pietà.

Tre bombe, sganciate a distanza ravvicinata. Le illustra Matteo Salvini in persona, le piazzano in Parlamento i suoi uomini (e stavolta pure una donna). In una conferenza stampa convocata in fretta e furia a palazzo Madama, il ministro dell’Interno fa la lista della spesa. C’è la manovra da scrivere, dice, e così la pace fiscale si allunga, il Tav si fa, la flat tax va nel prossimo Consiglio dei ministri, il Salva-Roma si stralcia, il Codice degli appalti va sospeso per i prossimi due anni: “Mi aspetto tanti sì”.

Eccole, le tre bombe, buttate lì come se niente fosse e invece già all’ordine del giorno del Parlamento. La prima è la norma per ridiscutere il debito della Capitale: sostanzialmente svuotata dal passaggio in Cdm del 23 aprile scorso, ora – almeno così chiede Salvini – non sopravviverà all’esame in corso a Montecitorio. La seconda è lo sblocca-cantieri, su cui sta votando il Senato. Ieri è piombato sui lavori l’emendamento a firma Simona Pergreffi, architetto bergamasco che propone la “sospensione sperimentale” del Codice degli appalti per due anni, introduce nuove soglie per gli affidamenti senza gara e rimuove il tetto ai subappalti. Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone ieri ha preferito non commentare. Non più di due settimane fa, però, quando il limite per i subappalti sembrava “solo” prossimo a salire dal 30 al 50 per cento, aveva avvertito il rischio che saltassero gli argini alle “criticità esistenti: infiltrazioni criminali, violazione delle norme a tutela del lavoro, scarso controllo sull’effettivo esecutore dell’affidamento”.

Infine, la terza bomba, sul decreto Calabria. Anche di quello – senza battere apparentemente ciglio – i capigruppo leghisti avevano discusso insieme a Conte e ai Cinque Stelle. Così, ha avuto il sapore di un agguato vederli, ieri sera, appoggiare la richiesta del deputato Pd Francesco Boccia che ha chiesto le dimissioni della relatrice del provvedimento, la grillina Dalila Nesci. Lei aveva incredibilmente proposto un suo collaboratore ai vertici dell’azienda sanitaria di Vibo Valentia (la sua città). “Stupisce solo – ha chiosato il presidente dei deputati del Carroccio, Riccardo Molinari – che la questione sia sfuggita agli attenti osservatori dei 5Stelle”.

Rixi condannato per le spese pazze: molla la poltrona

“Condanna Rixi Edoardo alla pena di anni 3 e mesi 5 e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici”. Il giudice Giuseppe Dagnino parla con voce bassa, ma le sue parole dal quinto piano del Tribunale di Genova arrivano a Roma, dove Rixi si dimette.

Sono le 12 e 59 di ieri. Il processo di primo grado per le spese pazze della Regione Liguria (anni 2010-2015, maggioranza di centrosinistra) si conclude con la condanna di 19 imputati a 51 anni complessivi. Ma nell’aula foderata d’ardesia decine di telecamere si accendono quando vengono pronunciati due nomi: Edoardo Rixi (peculato e falso ideologico), il viceministro che Matteo Salvini definisce un ‘fratello’; e Francesco Bruzzone, senatore del Carroccio (2 anni e 10 mesi).

Un processo complesso, tanto che per leggere il dispositivo, il giudice ha impiegato mezzora. Nella richiesta di rinvio a giudizio per Rixi si parlava di rimborsi per 108.237 euro. Di questi 19.855 sarebbero riferibili direttamente a spese di Rixi. Il grosso riguardava spese sostenute dal suo collega di partito Maurizio Torterolo (che ha patteggiato due anni) e rimborsi generici del gruppo Lega di cui Rixi era capogruppo. Il giudice ha circoscritto il peculato a 56.807 euro (di cui è disposta la confisca).

È il nodo centrale del processo a Rixi e agli altri capigruppo condannati come lui: a tutti, secondo il pm Francesco Pinto, sarebbe spettato un onere di vigilanza, perché le spese venivano deliberate dai componenti del gruppo, ma la validazione toccava al capogruppo. La difesa di Rixi – ricordando che la Lega ha restituito gran parte delle somme – aveva respinto l’impostazione dell’accusa, ma la Corte l’ha accolta.

L’accusa, dopo un’inchiesta meticolosa, aveva prodotto una valanga di documentazione. A cominciare da decine e decine di scontrini di un ristorante dell’entroterra ligure. Troppi, secondo la Finanza, perfino per i più golosi. Non solo: c’erano le spese per rifugi di montagna sulle Dolomiti. Gli inquirenti erano rimasti colpiti dal periodo cui si riferivano le spese: Ferragosto. Una vacanza a spese della Regione? “Non sono viaggi dei consiglieri, ma di nostri collaboratori. Erano andati per studiare l’ordinamento a statuto speciale del Friuli” è stata la difesa. C’era dell’altro: acquisti di cioccolata e di fiori in un negozio dal nome che oggi suona malaugurante: “Un mazzo così”. Tra gli scontrini allegati c’erano anche alcune centinaia di euro di spese effettuate da Flavio Di Muro (estraneo all’inchiesta) all’epoca collaboratore di Rixi e oggi deputato e segretario della Commissione Giustizia. Fino ad arrivare ai viaggi a Pontida nei giorni del raduno leghista. Un altro punto su cui accusa e difesa si sono scontrate: per i leghisti in quelle occasioni ci sarebbero stati anche incontri istituzionali. La Corte non pare aver accolto la ricostruzione: le spese legate ad attività amministrative sono rimborsabili, quelle rientranti nell’attività di partito no.

Ma la decisione di ieri si basa su altri presupposti importanti (e certo oggetto di appello dei condannati): i magistrati hanno stabilito che il reato non sia stato commesso il giorno in cui sono state effettuate le spese, ma piuttosto – unificando la miriade di condotte – al momento della certificazione da parte dei capigruppo. Quindi non nel 2011, ma nel 2013. Con due conseguenze importanti: primo, la prescrizione decorre da una data successiva. Secondo, nel gennaio 2013 era già entrata in vigore la Severino nella sua ultima formulazione con pene più severe per il peculato.

Da qui la condanna a 3 anni e 5 mesi per Rixi (la più pesante), pur con le attenuanti. Ma c’è un’ultima incognita sul futuro del processo: nei mesi scorsi, come raccontato dal Fatto, su iniziativa della Lega è stato introdotto nella Spazzacorrotti un comma definito “Salva Rixi”. Il peculato rischia di essere derubricato a percezione indebita di fondi pubblici. Con pene ridotte e rischio prescrizione (forse scongiurato dalla nuova datazione del reato). Anche questo sarà oggetto di appello.

Ma la decisione di ieri ha riguardato politici di quasi tutti i partiti. Non manca il Pd: Michele Boffa (3 anni), ex presidente del Consiglio regionale e Antonino Miceli (3 anni), ex consigliere. Molti non sono più in carica. Ma sei occupano ancora posizioni di rilievo in Liguria: il consigliere regionale e capogruppo di FdI Matteo Rosso (3 anni, 2 mesi e 15 giorni); i sindaci di Zoagli Franco Rocca (FI, 2 anni e 1 mese), di Cogorno Gino Garibaldi (FI 2 anni e 10 mesi), di Alassio Marco Melgrati (FI 2 anni, 11 mesi e 15 giorni), di Cicagna Marco Limoncini (ex Udc, tre anni), e l’assessore di Arenzano Matteo Rossi (ex Sel 2 anni, 2 mesi e 15 giorni). Per tutti dovrebbe scattare la sospensione in base alla Severino. Incerta l’applicazione della norma ai parlamentari Bruzzone e Rixi: “È probabile sia prevista una riserva costituzionale e che quindi la Severino vada applicata a sentenza definitiva”, sostiene Franco Vazio, parlamentare Pd e avvocato dello scajoliano Melgrati.

Immediata, intanto, scatta la difesa di Rixi da parte del governatore Giovanni Toti e del sindaco di Genova, Marco Bucci, che dichiara: “Nel completo rispetto per il lavoro della magistratura, confermo che Edoardo Rixi rappresenta per me un esempio di politica efficace e amministratore illuminato”.

Il porto dei veleni

Come avrete capito, se siete riusciti a non perdervi nella giungla di magistrati, correnti, indagati, indagatori, dossieranti e dossierati, è in corso una guerra all’ultimo veleno per la poltrona di capo della Procura di Roma. È appena andato in pensione il potente Giuseppe Pignatone, già procuratore aggiunto a Palermo e capo a Reggio Calabria. E la commissione Incarichi direttivi del Csm ha votato sui tre candidati più accreditati alla successione: il Pg di Firenze Marcello Viola, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Viola ha avuto 4 voti, Creazzo e Lo Voi 1 a testa. Ora deve votare il Plenum. Viola e Lo Voi sono iscritti alla corrente conservatrice di Magistratura Indipendente, che sostiene il primo, mentre paradossalmente i progressisti di Area appoggiano Lo Voi. Creazzo è della corrente centrista Unicost. L’allungo di Viola si deve al sostegno di Autonomia e Indipendenza (la corrente di Davigo) e dei laici M5S e Lega. Pignatone gradirebbe il suo amico Lo Voi, e pure Mattarella, che del Csm è il presidente. Ma le Procure non sono dinastie ereditarie, dunque la commissione del Csm ha deciso altrimenti. E subito s’è scatenato il fuoco incrociato dei dossier (fra magistrati: i politici, in tutto ciò, sono spettatori) per screditare sia gli amici sia gli avversari di Viola. Senza che nessuno si periti di far sapere perché Viola sarebbe il procuratore sbagliato e gli altri due quelli giusti.

Eppure Viola , già pm antimafia a Palermo, poi procuratore a Trapani, infine Pg a Firenze, non ha mai dato adito a scandali: tutti lo descrivono come un serio e onesto lavoratore. Di Creazzo invece s’è parlato di recente per un’inchiesta a Genova sulla presunta gestione “morbida” delle indagini della sua Procura sui concorsi universitari truccati. Quanto a Lo Voi, ancora grida vendetta la sua nomina a procuratore di Palermo, quando il Csm calpestò le proprie regole interne per scavalcare i più titolati Lo Forte e Lari (ritenuti pericolosi perchè troppo inclini a indagare sulle trattative Stato-mafia e i mandanti esterni delle stragi), obbedire alle interferenze di re Giorgio e premiare Lo Voi anche perché veniva da Eurojust, incarico fuori ruolo, cioè di nomina politica, anzi governativa (e del governo Berlusconi!), che avrebbe dovuto costituire un punto a suo sfavore, non certo a suo favore. È lo stesso Lo Voi che a gennaio sedeva alla cena dei lobbisti con Boschi&Salvini. Credendo di far cosa gradita, Repubblica racconta che Lo Voi garantirebbe “continuità” col “metodo Pignatone”, tutt’altro che immune da ombre, da Palermo a Roma.

Basti pensare all’inchiesta Consip, trasformata in un’inchiesta sull’inchiesta e su chi la conduceva a Napoli (il pm Woodcock, indagato e poi archiviato; il cap. Scafarto, indagato e rimosso dall’Arma, poi reintegrato dalla Cassazione), con indagini piuttosto lacunose sul filone principale (cosa contenga il cellulare di Tiziano Renzi non lo sapremo mai, perché non è stato sequestrato). Ma anche alla sconcertante non-indagine sulla soffiata di Renzi a De Benedetti a proposito del decreto banche popolari, che consentì all’Ingegnere di guadagnare in Borsa 600 mila euro e non portò all’iscrizione sul registro degli indagati né dell’allora premier né del finanziere-editore, ma soltanto dell’anello incolpevole della catena (il broker). Una non-indagine che ha incrementato la simpatia del gruppo CdB per il mega-procuratore, dipinto addirittura come erede di Falcone, in barba alle parole durissime che il giudice assassinato gli riservò nei suoi diari.

Ora si scopre che un pm romano ha presentato un esposto a Perugia su presunti conflitti d’interessi di Pignatone e dell’aggiunto Ielo per incarichi professionali assegnati ai rispettivi fratelli da soggetti interessati a indagini, e ne ha parlato col pm romano Luca Palamara, capo della maggior corrente togata, Unicost. Il quale è indagato per corruzione a Perugia per presunti regali ricevuti da un imprenditore e per una presunta tangente incassata per far trasferire dal Csm (nel 2017, cioè nella precedente consiliatura) il procuratore di Siracusa a Gela e assicurare una gestione “amica” delle indagini sull’Eni. Trasferimento, pare, bloccato da Mattarella in persona. Non solo: per aver informato Palamara delle indagini a Perugia, è anche indagato un membro del Csm, pure lui di Unicost. Tutto ciò getta altra luce sinistra sia su quel covo di vipere che è tornata a essere negli ultimi anni la Procura di Roma (con buona pace di chi auspica “continuità”) sia su quel mercato delle vacche che è da sempre il Csm. È fin troppo ovvio che chi ha commesso reati va severamente punito. Quanto ai giochi correntizi al Csm, da sempre scriviamo che l’unico antidoto è il sorteggio dei componenti togati, previa abolizione dei membri laici (quelli scelti dai partiti). Altrimenti è inutile indignarsi per questa o quella nomina, visto che i togati vengono eletti per liste, cioè per correnti, che poi pesano su ogni nomina. Fra l’altro, l’anti-pignatoniano Palamara guida Unicost, la stessa corrente di Pignatone che se n’è giovato quando correva per Reggio e poi per Roma, come quasi tutti i capi di procure e tribunali (è la corrente più numerosa e influente). E Unicost, con i 4 voti ottenuti da Viola, non c’entra nulla, perché il suo consigliere ha votato Creazzo. Dunque, non si comprende per quale strano motivo le indagini su Palamara&C. dovrebbero sbarrare la strada a Viola. A meno che qualcuno non dimostri che Viola è un mascalzone. Ma questo i suoi nemici, al Csm e nei giornaloni, si sono scordati di dimostrarlo. Eppure è il punto fondamentale: a prescindere da chi appoggia o lo osteggia, perché mai Viola non può fare il procuratore di Roma?

“Voto alto ad Allegri e al Var. Boccio la Roma e i razzisti”

Sarristi o allegriani, calcio champagne o concretezza dei risultati. Il calcio è materia opinabile per eccellenza, ma la fine dei campionati consente qualche punto fermo in più anche nelle polemiche più accese. E allora Giorgia Cardinaletti, conduttrice della Domenica Sportiva, può sbilanciarsi.

Da tre anni alla guida della Ds.

Gli ascolti ci hanno ripagato, anche se ormai il calcio spezzatino non aiuta, tanto che in molti arrivano alla domenica sera che hanno già visto tutto.

E allora perché guardarvi?

Proviamo a dare una chiave di lettura diversa, anticipiamo la riflessione del lunedì. Magari puntando anche sull’autorevolezza degli opinionisti.

È circondata da campioni del mondo.

Marco Tardelli è con me dall’inizio: campione di fair play. Paolo Rossi l’ho conosciuto quest’anno: un’esplosione di vitalità. Un giorno mi sveglierò e mi renderò conto di esser stata fortunata.

Ora i bilanci. De Rossi: ha fatto bene la Roma a mandarlo via?

Doveva giocare ancora, è un peccato anche per quello che rappresenta nello spogliatoio. Diventerà un ottimo allenatore, oppure chissà, un opinionista.

In studio meglio De Rossi o Wanda Nara ?

Cara Wanda Nara hai vinto tutto quest’anno: miglior attrice, regista, sceneggiatrice, tutto.

Eppure era vostra “concorrente”, su Mediaset.

Non importa, col campionato un po’ fiacco ci ha tenuta viva la discussione, non si poteva non parlare del caso Icardi-Wanda. Merita un 8 in pagella, anche solo per come si muove in un mondo così maschilista.

Allegri si è lasciato dietro una polemica: bel gioco o risultati?

Penso abbia ragione Allegri: se vinci possiamo parlare quanto vuoi del bel gioco, ma contano i risultati. Negli ultimi tempi l’ho pure visto più sentimentale.

Merito dell’addio?

O forse del tocco femminile, si vede che c’è una felicità personale. Quindi voto 10 ad Ambra.

Se Messi venisse in Italia? Dove lo vedrebbe?

Facciamo al Napoli, come Maradona e con Carlo Ancelotti. De Laurentiis potrebbe lanciarlo come attore in qualche film. Si scherza ovviamente.

I migliori della Serie A?

Atalanta, Torino e Juventus. Con un Oscar a parte per Gattuso.

Appena andato via dal Milan.

Va ringraziato per la faccia che ci ha messo e perché ci riporta all’essenza del calcio. Quest’anno c’era un collega che gli chiedeva sempre di Calhanoglu; all’ennesima domanda l’ha interrotto e gli ha detto: “Ma ti ricorda qualcuno che ti ha picchiato da piccolo?”.

Juventus–Fiorentina femminile, 40 mila spettatori.

Un segnale importante e con la Rai seguiremo la Nazionale femminile ai Mondiali: finalmente il movimento ha ciò che merita.

Fulvio Collovati diceva che voi donne di calcio non capite nulla.

Per quella frase diamo un voto basso a Fulvio, che poi si è scusato. Il tema c’è; per noi è difficile risultare credibili quando si parla di calcio, ma conosco colleghe più puntuali di molti uomini.

I voti peggiori per la Serie A?

Il peggio si è visto in tribuna, tra cori razzisti ed episodi discriminatori.

Var: promosso o bocciato?

Sono favorevole, devono solo amalgamare il rapporto tra l’arbitro in campo e quello in cabina.

Dicevano che avrebbe ammazzato la moviola in studio.

Prima c’era la polemica sull’errore arbitrale, ora c’è quella sull’errore del Var sull’errore arbitrale. Mica si può vivere senza.

Una Biennale formidabile illustra la fine del mondo

“Viviamo in tempi interessanti”. Non però per i messaggi consolatori, per le omelie su “condivisione” e “democrazia”, o per il fumogeno rosa che Banksy pone in mano alla bambina migrante sul muro di un palazzetto veneziano (per la gioia, tra l’altro, dell’immobiliare Engel&Völkers che lo vende per 4,5 milioni). Tra Giardini e Arsenale, gli artisti della Biennale d’arte curata da Ralph Rugoff sono pochi (la metà del solito) e per lo più disillusi. Al tempo della Caduta dell’impero americano, Alex Da Corte mostra le nostre città come inquietanti Dogvilles sotto le insegne delle multinazionali, in cui vagano (i quadri di Nicole Eisenman) alienati servi dello smartphone; nelle distopie digitali di Jon Rafman si affollano umanoidi da supermercato o da palestra, i serpenti voraci di Ian Cheng divorano ogni cosa, mentre le tempeste visive di Ryoji Ikeda proiettano anonime moli di dati che con moto stroboscopico accecano e fendono l’universo. Ma la “realtà” non è meno mostruosa: il mito di Sisifo in una miniera di cromo albanese, le allucinate marionette del padiglione belga, il muro nero della Cisgiordania (Rula Halawani), un ominoso black-out a New York (Stan Douglas), i manifesti dei desaparecidos e i mattoni del muro di Ciudad Juárez in Messico (Teresa Margolles).

È l’età dell’orrido, in mostra: scheletri fosforescenti, casse toraciche usate come cestini, figurine di vetro focomeliche o suicide, foto di donne mutilate, di derelitti butterati di Calcutta, placente umane in formalina, cadaveri appesi alle scale, manichini che piangono o fanno sesso; rare le isole di pace (i sandali del padiglione indiano; gli autoritratti scuri e sublimi di Zanele Muholi). Ma nulla qui è esibito, ironico o fine a se stesso: la disgregazione fisica del corpo, la deformità, l’autoannientamento sono metafore implicite di una società che invecchia ed esclude, ma scavano anche in angoli oscuri della nostra coscienza – come non pensare ai resti umani che i medici legali tirarono fuori dallo squarcio sul fianco del barcone affondato nel Canale di Sicilia (aprile 2015), oggi alla fonda nel bacino dell’Arsenale col nome di “Barca Nostra”?

Una reazione, una fiamma di vita non viene dalla vecchia Europa, coi suoi padiglioni ingessati in esibizioni penose e anacronistiche: viene da chi ha in poppa il vento della propria identità post-coloniale. Donne in bilico tra due mondi, come le nigeriane Njideka Crosby e Otobong Nkanga, o le artiste del padiglione sudafricano; neri d’America come il pittore Henry Taylor e il Leone d’Oro Arthur Jafa con le sue grandi ruote incatenate; Indios transessuali del Perù; i Cileni che inaugurano il Museo dell’egemonia eurocentrica (con tanto di “galleria dei subalterni”); il pittore-soldato che disseziona la guerra nel padiglione dell’Iraq, mentre nella stanza a fianco un video racconta un altro blackout (stavolta a Beirut) al ritmo dei versi di Mahmoud Darwish. Sopra ogni cosa, spicca il fantastico padiglione del Ghana, intitolato Libertà come quello degli USA: ma laddove l’americano Martin Puryear elabora un pugno di simboli concettuali, gli artisti africani (il videoartista Akomfrah, il tessitore El Anatsui) danno pregnanza di poesia a un’indipendenza fresca e recente, ai suoi luoghi e alle sue contraddizioni, mettendo in scena gli animali della savana e i tappi di bottiglia, i dibattiti all’ONU e le fabbriche di vetro, i ritratti e la sabbia, in un trionfo di associazioni estetiche che trasforma l’arte in trasparente allegoria capace di parlare a tutto un popolo. A fronte di rade speranze, il nostro mondo marcisce come le alghe, arretra come le barriere coralline, sfugge di mano, inciampa. Si nasconde nel sottosuolo di Betlemme, dove il video lirico e metafisico di Larissa Sansour rappresenta una madre morente e una figlia all’indomani dell’apocalisse.

O nelle viscere della Thailandia, dove l’estate scorsa rimasero intrappolati i bimbi poi salvati dopo giorni di angoscia: il video barocco di Korakrit Arunanondchai (classe 1986) decostruisce il racconto ctonio di quella vicenda, intersecandolo su tre schermi ai miti del suo Paese e alle danze di boychild, alle strazianti immagini dell’Alzheimer dei suoi nonni, agli echi della guerra dei Vietnam. Nessi atroci fra privato e politico, fra storia e mistificazione, fra tradizione e futuro, in una formidabile Biennale che sembra preannunciare la fine dell’antropocene.

Laburisti a Rivlin: “Affida l’incarico a Gantz”

È stato un giorno di straordinario teatro politico in Israele in una spasmodica rincorsa del tempo. A mezzogiorno la Knesset ha iniziato a discutere un disegno di legge per sciogliersi un mese dopo il suo giuramento, visto che il premier incaricato Benjamin Netanyahu non riesce a trovare una maggioranza. La decisione del suo amico-nemico Avigdor Lieberman di non entrare nella coalizione con i suoi cinque deputati se la sua proposta di legge sulla leva obbligatoria anche per i ragazzi ultra-ortodossi delle scuole Talmudiche non farà parte del programma, ha lasciato poche scelte a Netanyahu. Tre possibili scenari: 1) Netanyahu all’ultimo minuto risolve il contrasti con Yisrael Beitenu, il partito di Lieberman, e riesce a costituire una coalizione forte di 65 seggi; 2) il contrasto non si risolve, Netanyahu non può formare una coalizione, la Knesset vota per lo scioglimento e nuove elezioni in settembre; 3) Netanyahu non riesce a formare una coalizione, la Knesset non vota per la dissoluzione e il presidente Reuven Rivlin conferisce l’incarico a un altro parlamentare. Bibi ha offerto in extremis ai laburisti di Avi Gabbai di entrare nel suo esecutivo, ma hanno rifiutato; il partito laburista ha precisato che si oppone allo scioglimento anticipato della legislatura e chiede che il presidente Rivlin affidi l’incarico di formare un nuovo governo al leader del partito centrista Blu-Bianco, Benny Gantz.

l’ultima cosa che vuole Netanyahu è che il presidente possa dare l’incarico a un suo rivale politico. Per questo preferisce tornare al voto. Per Bibi è come correre sul filo del rasoio, perché in caso di elezioni a metà settembre ci sarà pochissimo tempo per far avanzare la legge alla Knesset che gli dia l’immunità nei tre procedimenti penali a suo carico per corruzione, frode e fondi neri. La sua prima audizione è già stata fissata dal Procuratore generale per i primi di ottobre. La maratona in aula per far passare la doppia lettura del provvedimento di scioglimento in giornata ha visto un imbarazzante attivismo dei parlamentari del Likud, piegati agli interessi privati del loro leader che nella migliore delle ipotesi li considera comparse del suo spettacolo privato. I guai di Netanyahu hanno paralizzato il partito negli ultimi cinque anni. Scandali a ripetizione, le amicizie con discutibili miliardari, lo scambio di favori, feste e party al carico del contribuente, la manipolazione del web, hanno segnato le ultime due legislature. Una “persecuzione”, ha sempre replicato Netanyahu. Ieri la moglie, Sara, per le spese pazze nella residenza di Balfour Street a Gerusalemme, ha concordato con il tribunale la restituzione di 55 mila shekel (12 mila euro). In base al patteggiamento sono state cancellate le accuse di frode e di abuso di ufficio.

Russiagate, Mueller lascia. I Dem: “Spetta al Congresso portare alla sbarra Trump”

“Se fossimo stati convinti che il presidente non ha commesso alcun crimine, lo avremmo detto… Ma non siamo stati in grado di formulare questa conclusione”: Robert Mueller, procuratore speciale del Russiagate, rompe il silenzio per la prima volta in quasi due anni di lavoro, durante i quali ha sempre tenuto un profilo così basso da risultare “quasi invisibile” – la definizione è del NYT -. E nell’annunciare che, da parte sua, non ci saranno ulteriori dichiarazioni, scandisce: “Il rapporto non conclude che il presidente ha commesso un reato, ma non lo esonera nemmeno”. Soppesando ogni parola, Mueller, che ha indagato sull’intreccio di contatti nel 2016 tra la campagna dell’allora candidato repubblicano Donald Trump e agenti del Cremlino, sottolinea che la prassi del Dipartimento della Giustizia esclude di mettere sotto accusa un presidente in carica, ma rileva che la Costituzione prevede un’altra via per giudicare un presidente: un riferimento alla possibilità che il Congresso metta sotto impeachment Trump.

Ipotesi già evocata, ma finora non percorsa. Le parole del procuratore vengono però colte al balzo da Jerrold Nadler, presidente della Commissione Giustizia della Camera: “Spetta al Congresso perseguire i crimini, le bugie e gli altri illeciti del presidente Trump, dato che la giustizia non poteva farlo”.

Mueller è riluttante a presentarsi a testimoniare di fronte al Congresso, perché – dice – “il rapporto è la mia testimonianza”: gran parte del documento di 448 pagine è stata resa pubblica. Il procuratore, che ha pure annunciato “il ritorno a vita privata”, insiste che la Russia ha “lanciato un attacco coordinato contro il nostro sistema politico”, nel tentativo “di interferire” con le elezioni presidenziali e di “danneggiare un candidato alla presidenza”, cioè Hillary Clinton, e avverte che “ciò merita l’attenzione di tutti gli americani”. Da quando è stato consegnato al Dipartimento della Giustizia a fine marzo, il rapporto Mueller è oggetto d’interpretazioni divergenti: nella lettura del ministro Barr, il rapporto assolve il presidente e ieri la Casa Bianca ha ribadito: “Caso chiuso”.