Sondaggi, Putin affonda: la censura non regge più

Non ci sono più le lacrime e le bandiere di un anno fa, quando Putin è stato rieletto con il 77 per cento delle preferenze. Per le strade di Mosca, sotto un imprevisto sole rovente, c’è solo la valanga di sondaggi e statistiche resi pubblici negli ultimi giorni nella Capitale.

In arretramento temporaneo. Che il rating della fiducia riposta nel presidente sia crollato ai minimi storici al 31 per cento lo dice l’istituto sondaggi governativo Vtsiom. Preferenze che puniscono anche il ministro della Difesa Shoigu al 14 per cento e il ministro degli Esteri Lavrov, che toppa al 13. “I russi non credono che la vita domani sarà migliore di quella di oggi” ha detto Valery Fyodorov, capo del Vtsiom: “La Russia si vede come una nuova edizione dell’Urss: non di Stalin o Gorbaciov, ma Breznev”. I redditi russi calano per il sesto anno consecutivo, ha detto ieri la Ranepa, accademia d’economia nazionale russa. Accade nonostante il piano governativo – pari per ambizione solo a quello sovietico – per alzare lo standard di vita con 390 miliardi di dollari in investimenti. Aleksey Kudrin, revisore della spesa putiniana, non ha contraddetto gli economisti del colosso mediatico Rbc che ha diffuso la notizia. Insieme a un’altra: i risultati di un’indagine statale interna, condotta ad aprile, secondo cui, in alcune regioni meno della metà dei russi voterebbe ancora per Putin oggi.

Non è ancora la primavera dello scontento russo, ma c’è chi tenta di presagire da queste informazioni scosse telluriche sotterranee. Chiede al bar un succo di frutta e anonimato sul suo nome. “Non credo nei sondaggi, ma penso che se alcune forze politiche non si stessero muovendo, questi sondaggi non sarebbero pubblici”, dice un membro del Centro di ricerca storica nel quartiere Kitay Gorod. Al centro indipendente Levada sono stati impegnati con un altro sondaggio: chi ci sarà dopo Putin? Più che cifre e numeri, importa che certe domande si facciano ad alta voce. Ksenia, che lavora in una delle decine di agenzie di Mosca dove giornalismo, propaganda e pubblicità non hanno confini – se mai ne hanno avuti qui –, passeggiando ad Ochotny riad, a metà tra un sorriso rassegnato e uno sbadiglio, dice: “Elementare. Già sappiamo chi ci sarà dopo Putin. Un altro Putin”.

La variabile non prevista in arrivo dagli Urali. Una protesta dei cittadini di Ekaterinburg, quarta città russa, ha bloccato pochi giorni fa la costruzione di una megacattedrale ortodossa, aprendo uno squarcio nella finora pressoché inesistente capacità di rivolta contro il Cremlino. I russi sono scesi in strada per proteggere la zelennaya zona, zona verde del parco, e dopo giorni di manifestazioni, Putin ha inaspettatamente concesso un referendum dove è stato scelto in massa il niet alla chiesa.

Ora il Rozkomnadzor, organo di controllo mass media, ha ordinato al canale e1.ru di eliminare tutti i video delle manifestazioni per la slavina digitale di commenti che “istigano ad attività estremista”. Cioè di protesta. Gli Urali non hanno fermato solo la costruzione di una chiesa ma un diktat di Mosca. Non ancora trainante, ma già rilevante per la rarità della vicenda. La contestazione si è dissolta ma la cicatrice al potere è rimasta. Una frattura che ora vedono anche il resto dei russi. A Mosca lo fanno quelli in basso, in strada e quelli in alto, che dirigono l’orchestra del Paese più esteso del mondo, e forse entrambi hanno imparato una lezione.

Campagna pro Brexit e bugie, Johnson in tribunale

Coi suoi modi plateali, Boris Johnson è sempre stato il bad boy della politica inglese. Ma ora il suo essere sopra le righe potrebbe costargli caro: l’ex ministro degli Esteri dovrà rispondere in tribunale di cattiva condotta in pubblico ufficio, per le sue affermazioni durante la campagna per il referendum sulla Brexit del 2016.

Johnson avrebbe mentito agli elettori, gonfiando le cifre del presunto risparmio per le casse del Regno Unito: a suo dire, 350 milioni di sterline a settimana (396 milioni di euro), che Londra era “costretta” a versare a Bruxelles. A denunciare Johnson è stato Marcus Ball, 29 anni, uomo d’affari, che, già nel 2016 fondò Brexit Justice, raccogliendo 200 mila sterline col crowfunding per finanziare l’azione legale. La scorsa settimana i suoi avvocati hanno esposto il caso davanti al giudice distrettuale, che ha stabilito la validità delle accuse: Johnson dovrà presenziare a un’udienza preliminare prima che il caso sia inviato al tribunale della Corona.

L’intento di Ball è “di stabilire un precedente nella giustizia britannica, affinchè per un rappresentate del Parlamento sia illegale mentire agli elettori sulle questioni finanziarie”.

Molti Tories giudicano le accuse verso l’ex ministro “strumentali”, proprio ora che si riapre la lotta per diventare il nuovo premier. Johnson è fra i più quotati per succedere a Theresa May, che ha annunciato le dimissioni, messa con le spalle al muro dalla sua politica, dai dissidi interni al Partito e dall’opposizione del Parlamento britannico al suo progetto di Brexit.

A contendersi la poltrona di Downing Street anche Dominic Raab, ex ministro per la Brexit, Andrea Leadsom, ex ministra per le Relazioni col Parlamento e Jeremy Hunt, ministro degli Esteri.

Clima, la lobby petrolifera anti-Greta non fa prigionieri

Le cinque principali compagnie petrolifere hanno speso un miliardo di dollari dal 2015 a oggi per ostacolare la legislazione internazionale in materia di difesa del clima. Mentre “un’onda Verde” si propaga nel nuovo Parlamento europeo dopo il trionfo dei partiti ecologisti in buona parte dei paesi dell’Ue (tranne l’Italia) alle elezioni di domenica, il rapporto di InfluenceMap, che denuncia l’ipocrisia dei giganti del petrolio, mostra fino a che punto la battaglia per l’ambiente non possa essere considerata vinta.

Al contrario: i primi avversari del clima si chiamano Bp, Shell, ExxonMobil, Chevron, Total. Gli stessi che, come ricorda Le Monde, hanno realizzato un fatturato di 55 miliardi di dollari nel 2018, anno record in materia di emissioni di gas serra, ma che candidamente sostengono di abbracciare i principi del- l’accordo sul clima di Parigi del 2015.

Di fatto da allora la comunità internazionale ha ottenuto ben pochi progressi in materia di riscaldamento climatico. Appena lo scorso ottobre, l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico alle Nazioni Unite, ha messo in guardia i governi: se non si agisce subito per limitare i gas serra, la soglia di 1,5 gradi, l’obiettivo più ambizioso del patto di Parigi, sarà sforata con effetti disastrosi per il pianeta. In questo contesto, le multinazionali del petrolio, ci apprende il rapporto InfluenceMap, una Ong con sede a Londra, hanno speso in lobbying 200 milioni di dollari ogni anno dal 2015 pur di demolire gli sforzi e frenare le politiche pro-clima. Bp è quella che ha investito di più, 53 milioni di dollari all’anno. Seguono le americane Shell (49 milioni), ExxonMobil (41 milioni), Chevron (29 milioni) e la francese Total (29 milioni). Tutte e cinque sono molto attive sui social.

InfluenceMap fa l’esempio di Bp che nel 2018 ha speso 13 milioni di dollari, di cui uno per i social, per bloccare una nuova carbon tax nello Stato di Washington. La tassa, che poi è stata accantonata, avrebbe generato introiti per un miliardo di dollari da usare in energia verde. L’ipocrisia dei giganti del petrolio è che tutti si proclamano paladini del clima. Anche dopo la pubblicazione del rapporto, Shell per esempio ha ribadito la sua “adesione chiara all’accordo di Parigi”. Stando all’inchiesta di InfluenceMap, le cinque multinazionali sono pronte a spendere milioni di dollari, 197 per l’esattezza, sempre dal 2015 a oggi, per promuovere la loro immagine “verde”. ExxonMobil ha spesi 56 milioni di dollari in comunicazione, Shell 55, Total 52, Bp 30 e Chevron 4. ExxonMobil ha fatto per esempio bella mostra dei suoi investimenti in gas naturale, Total dei suoi progetti innovativi di pannelli solari.

In realtà queste campagne “verdi” rappresentano una percentuale ristretta del fatturato totale di questi gruppi. Come spiega al Guardian uno degli autori del rapporto, Andrew Collins: “I discorsi pro-clima delle compagnie petrolifere cominciano a perdere credibilità. Pubblicamente si annunciano soluzioni a bassa emissione di carbonio, ma poi gli investimenti in questo senso sono minimi rispetto alle spese per l’espansione delle attività legate ai combustibili fossili”. Il rapporto, pubblicato a marzo, è stato rilanciato da Libération all’indomani delle europee. Sulla copertina post-voto il giornale ha fatto un grande titolo su “La crescita verde”. In Francia, il partito Europe Écologie-Les Verts di Yannick Jadot si è imposto come terza forza politica con il 13,1% dei voti, dopo il Rassemblement National di Marine Le Pen e La République en Marche di Emmanuel Macron.

Il messaggio è forte anche per il presidente, che pur avendo convinto l’ex direttore del Wwf France, Pascal Canfin, a figurare sulla lista LRem, è spesso rimproverato di non sostenere politiche ambientali ambiziose. Per mostrare le sue buone intenzioni Macron ha riunito la settima scorsa il primo Consiglio di difesa ecologico. Ma la sua posizione è sempre poco chiara su un controverso progetto di miniera d’oro in Guyana, la “Montagne d’or”, contro il quale si scagliano gli ecologisti per i rischi sulla biodiversità della regione.

Le calamità e il mercato della ricostruzione

All’indomani dei terremoti o degli eventi catastrofici che si abbattono in Italia ci si chiede sempre chi pagherà per la ricostruzione. Il finanziamento pubblico alla ricostruzione del patrimonio immobiliare non è prestabilito per legge, ma deciso ex post con risultati di norma inferiori alle attese e tempi biblici di attuazione. Lo Stato impiega oltre 7 miliardi di euro all’anno per coprire i danni riconducibili alle catastrofi naturali, in un Paese dove il 91% dei Comuni è a rischio idrogeologico ed esposte alla stessa minaccia sono quasi 763 mila imprese. Se si guardano i terremoti, i numeri sono impietosi: solo il sisma de L’Aquila nel 2009 è costato allo Stato 18 miliardi di euro; quello dell’Emilia nel 2012 ha causato danni per 17,4 miliardi di danni; per quello del centro Italia (agosto 2016 – aprile 2018) i danni ammontano a oltre 23,5 miliardi di euro. Eppure, nonostante il 78% delle abitazioni sia esposto a un rischio medio-alto di calamità naturale, dal 2000 a oggi per ogni miliardo stanziato in prevenzione, oltre 2,5 sono stati spesi per riparare i danni: è, quindi, evidente che qualcosa non funziona nel sistema. La cultura del rischio tra la popolazione italiana è. infatti, ancora troppo bassa, mentre i Comuni sono sempre alla continua ricerca di fondi.

Che fare, dunque? Da 20 anni la confindustria delle assicurazioni, l’Ania, propone una polizza obbligatoria antisismica sulla casa il cui fondo di garanzia sarebbe gestito dalla Consap, la società in house del ministero dell’Economia che si occupa già di altri fondi come quello su mutui o conti e polizze dormienti. “Un sistema strutturato che – secondo l’Ania – garantirebbe tempi certi e ragionevoli di risarcimento del danno e opportune modalità di finanziamento delle ricostruzioni”. In soldoni? Con un premio medio obbligatorio, intorno agli 80 euro all’anno, si assicurerebbero tutte le abitazioni considerando però le diverse rischiosità del territorio e della struttura delle abitazioni italiane. In altre parole, chi si trova in territori a rischio e con case ritenute non idonee correrebbe il pericolo di essere costretto a ristrutturare l’immobile o a ottenere un indennizzo inferiore in caso di calamità. Tanto che questo della copertura dei rischi da catastrofe è un tasto su cui le assicurazioni battono da tempo, anche perché l’affare potrebbe valere 5-10 miliardi l’anno. Ma secondo le associazioni dei consumatori, la polizza obbligatoria non è accettabile, perché esenta lo Stato dalla salvaguardia del territorio e perché rischierebbe di aggravare il comparto casa, già tra i più bersagliati dalla tassazione.

Intanto, tra continui rinvii e polemiche, la più importante apertura (e vittoria per le assicurazioni) è arrivata dalla legge di Bilancio 2018 che ha introdotto lo sconto per chi sottoscrive polizze casa catastrofali, consentendo la detrazione dei premi per il 19% nella dichiarazione dei redditi ed eliminando l’imposta del 22,5 per cento. Chance che ha avuto i suoi effetti: il rapporto dell’Ivass (l’istituto che vigila sulle assicurazioni) mostra un aumento della platea di assicurati, che resta comunque scarsa. Per ora si tratta per lo più di estensioni delle coperture alle polizze casa danni e incendio. Le ultime rilevazioni indicano un totale di circa 435 mila contratti, il 5% delle polizze sulle abitazioni. Ma che in valore assoluto coprono il 2% delle abitazioni private. Escluse quelle per cui è stata già sottoscritta la polizza scoppio-incendio obbligatoria quando si sottoscrive un mutuo.

Attualmente, le polizze anti-catastrofe offerte dalle principali compagnie rimborsano tra il 50% e l’85% del danno, perché la possibilità di intascare l’indennizzo dipende da una serie di fattori (codici, clausole e franchigie) che hanno sempre scoraggiato i proprietari di casa a sottoscrivere la polizza per la probabile facilità con la quale le compagnie possono far valere cause di esclusione della copertura assicurativa.

Non a caso, come emerge da una recente indagine Nielsen per Swiss Re, nonostante il 98% degli intervistati (su un campione di 1.500 persone) sia consapevole che i fenomeni naturali estremi siano un rischio “costante” per l’Italia e il 70% è anche a conoscenza dell’esistenza di assicurazioni contro questo tipo di avversità, i proprietari di casa continuano a risultare ancora poco sensibili a questi pericoli e non si cautelano adeguatamente.

Alert, alert! Siamo tutti sotto (Cyber) attacco

Sette. Un vecchio indirizzo email, creato ormai dieci anni fa, risulta essere stato coinvolto in almeno sette attacchi hacker (solo tra quelli di cui si conosce esito e diffusione) rivolti a diverse piattaforme. In ognuno sono state sottratte email, password e altre informazioni di contatto. Fate una prova: collegatevi al sito www.haveibeenpwned.com e inserite il vostro indirizzo email. Nella migliore delle ipotesi scoprirete di esservi salvati da qualsiasi furto di dati, nella peggiore correrete a cambiare username e password di ogni vostra registrazione. Con una certezza: nessuno è al sicuro. E periodicamente va ricordato.

 

Il 2018: l’anno orribile

Il termometro ideale per avere una idea di cosa succede in Italia e nel mondo a livelli non percepibili dagli utenti, ma importanti quanto il livello strada a cui si trova una attività commerciale che rischia di essere rapinata, è il rapporto Clusit, redatto ogni anno dall’associazione italiana per la Sicurezza Informatica. “Nel 2018 gli attacchi con impatto significativo sono aumentati a livello globale del 38% con una media di 129 al mese – spiega il presidente Gabriele Faggioli –. Poco più di quattro al giorno e si tratta solo di quelli gravi e conosciuti”. La causa principale è la cybercriminalità: nel 79 per cento dei casi sono violazioni fatte per ottenere denaro o, comunque, per rubare informazioni con lo scopo di monetizzarle. Ma aumentano anche i casi di spionaggio (+57%), geopolitico, industriale e per il furto di proprietà intellettuale. Aumenta anche la gravità media. Cyber attacchi e privacy vanno poi a braccetto. Secondo il rapporto del Garante della Privacy italiano, pubblicato qualche settimana fa, dal primo marzo al 31 dicembre del 2018 sono arrivate all’Autorità 650 notifiche di data breach (quindi di furto di dati) di cui 630 dal 25 maggio al 31 dicembre 2018, che hanno riguardato, come titolari del trattamento, soggetti pubblici (27 per cento dei casi) e soggetti privati (73 per cento dei casi). Ma di cosa parliamo? Sottrazione di credenziali di accesso, indirizzi email, numeri di telefono, dati che riguardano strumenti di pagamento, diffusione di virus, smarrimento o furto di dispositivi digitali.

 

Quanto costa tutto questo

Secondo la multinazionale dell’Information Technology, Accenture, gli attacchi informatici potrebbero costare alle aziende 5.200 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni se si tiene conto dei costi addizionali e dei mancati ricavi. Il rapporto si basa su uno studio che ha coinvolto oltre 1.700 amministratori delegati e top manager di aziende con ricavi non inferiori al miliardo di dollari in 13 Paesi e ha mostrato come il settore hi-tech – con oltre 753 miliardi di dollari di costi emergenti – sarà quello esposto ai rischi maggiori, seguito dai settori life science e automotive con perdite a rischio rispettivamente di 642 e 505 miliardi di dollari. “Il livello di sicurezza di Internet è inferiore rispetto al livello di sofisticazione raggiunto dalla criminalità informatica e questo sta portando a un’erosione della fiducia nell’economia digitale”, aveva detto Paolo Dal Cin, security lead di Accenture Italia, presentando i numeri.

 

La casistica recente

Eppure spesso le violazioni riguardano anche gli errori delle aziende stesse nella conservazione dei dati. Ieri, ad esempio, è stato reso noto il caso di Flipboard, l’applicazione che permette agli utenti di aggregare per argomento gli articoli online. La piattaforma, anche in linea con gli obblighi imposti dai nuovi regolamenti sulla privacy, ha informato i suoi utenti che per più di nove mesi un gruppo di hacker è penetrato nei suoi database dove sono custoditi username, password cifrate, mail e connessioni ai profili di altri siti (come Facebook, Google e Twitter) usate dagli utenti per accedere. E se l’azienda ha fatto sapere che la maggior parte delle password era protetta da un algoritmo per cifrarle, un’altra parte era invece protetta da un sistema più debole che però è stato abbandonato nel 2012. Nelle sue comunicazioni agli utenti, Flipboard ha detto di non sapere ancora quanti account siano stati compromessi ma per precauzione ha imposto la modifica delle password a tutti gli utenti e sostituito le connessioni a servizi terzi, aggiungendo che comunque per ora non ci sono state segnalazioni di accessi non autorizzati. Ma è solo l’ultimo caso: il Fatto aveva raccontato dei dati sottratti a Unicredit a causa di alcune falle di sistema nella gestione di una app esterna, nei mesi scorsi Facebook ha dovuto ammettere di aver conservato milioni di password in chiaro nei suoi server, è di pochi giorni fa il caso degli influencer che si sono ritrovati esposti online con tanto di numero di telefono e indirizzo o ancora quello degli utenti ‘infettati’ da software spia – forse di governo – che arrivano dalla Calabria come da Israele. Per ognuno di questi casi, ovviamente, l’utente può chiedere un risarcimento danni. E secondo le proiezioni, denunce, ricorsi e class action sono destinate ad aumentare.

 

Il mercato assicurativo

In questo contesto, crescono allora le prospettive per il mercato assicurativo contro i danni digitali. Oggi, secondo studi di settore – svolti quindi da chi ha tutto l’interesse a stimare il rischio – il business vale 4,5 miliardi di dollari ed è probabile arrivi a 10 miliardi entro il 2020. Secondo Swiss Re, compagnia svizzera di riassicurazione, il solo segmento delle polizze individuali sulla cyber security potrebbe arrivare a valere più di 3 miliardi di dollari entro il 2025. La compagnia ha anche fatto un sondaggio, secondo cui più di 4 persone su 5 (l’81 per cento) temono l’accesso illecito ai loro dati finanziari, 3 su 4 temono per la loro identità digitale (75 per cento), il 69 per cento ha paura di perdere dati a causa di problemi tecnici e il 59 per cento è preoccupato che i propri dati possano essere pubblicati in Rete.

Note sul pensiero politico di Carlo Calenda (con un consiglio)

Siccome, giusta la lezione di un antico commediografo romano, non consideriamo estraneo nulla che sia umano, ci occuperemo oggi dell’intervista rilasciata ieri a Repubblica da Carlo Calenda. Titolo: “Pronto a fondare un partito”. Svolgimento: “Siamo Europei può diventare un partito. Io sono iscritto al Pd, lavoro con Zingaretti. Il mio movimento dovrebbe rimanere quello che è: il collante di un mondo più ampio della sinistra”. Ma come sarebbe ’sto vino? “Bono”, dice l’oste: “Io vedo l’utilità di avere una forza di centro, liberaldemocratica”. Calenda, pare, sa una cosa: “So che ci sono sensibilità diverse tra un socialdemocratico e un liberaldemocratico” (eh no?). Insomma, si fa? “Non farò niente contro il Pd. Mi muovo solo se lo decidiamo insieme”. Spiegazione del nostro via Twitter: “Per essere chiari non ho mai detto che fonderò un partito. Ho anzi specificato che rimango nel Pd e solo se me lo chiedesse Zingaretti in vista di un’alleanza elettorale potrei dare una mano a costruire la gamba lib-dem”. Ora, a parte che è esattamente quel che dice anche l’intervista, quel che ci preme è chiarire bene quello che un ottimista chiamerebbe il pensiero di Calenda in questa fase politica: in sostanza, dice che è pronto a fare una scissione del Pd, portandogli via qualche voto, solo se glielo chiede il segretario del Pd. Ora – nonostante il rischio di scontentare i milioni di elettori lib-dem che aspettano ansiosi il partito di Cal-Renz – ci permettiamo un consiglio all’ex ministro: Carlé, magna tranquillo…

L’omaggio alla bara di Lauda va festeggiato con un bel selfie

Questione di velocità, uno potrebbe azzardare, di tempi stretti, di modernità. E se l’argomento è Niki Lauda, l’azzardo non è neanche inappropriato.

Cattedrale di Vienna, già in assoluto il clima è austero, asburgico, protetto da un edificio monumentale, imponente, con una delle guglie più alte al mondo. Dentro c’è il funerale dell’ex ferrarista, eroe nazionale, mito assoluto, quindi giusta e prevedibile la folla, tutti in fila, nessuno spinge, nessuno supera, la compostezza nordica rispetta i suoi luoghi comuni.

Con un “però” enorme.

Quegli attimi davanti alla bara, quel (presunto) momento di condivisione, non serve più a rendere omaggio, ma a omaggiarsi, a concretizzare la propria presenza, a certificare l’impresa, la scalata verso le emozioni, a gratificare il sotto “io” attraverso un benedetto selfie, o uno scatto. Tutti armati di cellulare, solo la minoranza si concede e concede il segno della croce, la maggioranza estrae e click, ancora click, perennemente click, tanto da alterare la compostezza precedente, c’è chi allunga il braccio per guadagnare frazioni di secondo (non si sa mai, magari il feretro scappa); chi cammina all’incontrario mentre è costretto a lasciare il passo. A ognuno un pezzetto di protagonismo, non importa il prezzo, non importa il rispetto, il luogo, il contesto o il messaggio, conta solo il trofeo.

Vinicio Capossela spiega in un’intervista: “Siamo come dei bambini senza alcuna educazione, non abbiamo ancora nessun codice di comportamento rispetto a certe scene. Dobbiamo imparare e darci delle regole”. Perché episodi del genere sono ripetuti, non degli unicum, come il turismo macabro davanti alla tragedia della Costa Concordia, affacciati al traghetto per una visuale migliore; o quegli imbecilli che il 6 agosto dello scorso anno, quando un’autocisterna stava per esplodere dopo un tamponamento sulla tangenziale di Bologna, si preoccupavano solo di immortalare con il cellulare, non di salvare la vita degli altri e la propria. O ancora quella massa di incoscienti che ogni anno muoiono per il selfie più audace o impossibile; non sono casi isolati, ma sono diventati un caso da studiare sul piano sociale, civile, antropologico e psicologico, si chiamano “selficidi”, e il numero è superiore ai 200 l’anno.

Il punto è sempre lo stesso: non conta la comunità, non basta sentire l’abbraccio della collettività, è più importante il riflesso di noi stessi, l’onanismo mentale. Così appare lontano, e non solo per questioni di date, il 9 giugno del 1984, uno dei momenti di maggiore solidarietà nazionale, quando le lacrime non avevano colore politico, ma solo il segno del rispetto e del dolore per la morte di Enrico Berlinguer; nelle scene strazianti del funerale, la persone in fila (anche lì disciplinate nonostante l’anima latina), non si preoccupavano di fotografare il feretro, ma solo di non piangere troppo per mantenere rispetto e dignità; rispetto e forza per il prossimo. E l’unico, tenero imbarazzo era rappresentato dal segno della croce, se fosse giusto o meno davanti a un leader laico e comunista.

Allora c’era una visione comune, o almeno ci si illudeva, oggi solo dei Dorian Gray.

 

A Tolmezzo i libri diventano viventi, basta “ascoltare”

Oggi a Tolmezzo, la piccola cittadina friulana capitale della Carnia, in piazza ci sarà “La Biblioteca dei libri viventi”. Che cos’è? Una vera biblioteca, con i bibliotecari, i libri e un catalogo di titoli da cui scegliere. Ma per leggere non occorre aggirarsi tra gli scaffali, non bisogna sfogliare le pagine. Bensì ascoltare: perché è una biblioteca fatta di persone vive. I libri sono, in questo caso, i ragazzi delle scuole. I “libri viventi” possono essere presi in prestito, possono essere interrogati con domande sul loro contenuto, non devono essere danneggiati né macchiati, vietato strappare le pagine e soprattutto i capelli. Meglio trattarli con riguardo e affetto e restituirli dopo 30 minuti per lasciare il posto a nuovi lettori, magari dopo aver scelto un altro libro dal catalogo.

Questo è il regolamento della “Biblioteca dei libri viventi”, dove i libri non sono di carta ma in carne e ossa, però servono, come dovrebbero fare tutti i libri, ad aprirci la mente, ad abbattere i nostri pregiudizi e a scoprire che dietro agli stereotipi, così come dentro le pagine di un libro, si nascondono persone e storie.

L’iniziativa è diffusa in tutta Italia e coinvolge ormai da anni migliaia di ragazzi che partecipano in tempo scolastico ai “Cantieri di lettura” (tre appuntamenti da due ore l’uno): con la collaborazione degli insegnanti, ogni ragazzo sceglie il libro che vuole diventare, andando così ad arricchire il catalogo della Biblioteca.

È un’azione del progetto di educazione alla lettura “Youngster”, ideato e realizzato dal gruppo Damatrà, che si rivolge ai ragazzi tra i 12 e i 18 anni. Dalla sua prima edizione, nel 2007, sono state migliaia le attività nelle scuole e delle piazze e i ragazzi coinvolti.

In Friuli Venezia Giulia, l’idea ha avuto un buon successo, perché questa regione all’estremo margine nordorientale dell’Italia, poco conosciuta dal resto del Paese, è una delle aree a più alto tasso di lettura, sia tra i ragazzi, sia tra gli adulti.

Smentito il pregiudizio diffuso nel resto d’Italia secondo cui il Triveneto è ricco di capannoni, ma povero di cultura. Le statistiche dicono che il 50,6 per cento dei cittadini sopra i 6 anni qui legge almeno un libro all’anno. E il Trentino-Alto Adige è la regione con il più alto tasso di lettura in Italia, l’unica che batte il Friuli Venezia Giulia, che comunque è 10 punti avanti rispetto alla media nazionale (41 per cento). In Fvg il 15,3 per cento dei lettori in media legge almeno un libro al mese (13,4 per cento in Italia). Buona anche la lettura dei quotidiani: seconda regione d’Italia, con il 57,5 per cento, contro un dato nazionale del 40,6.

Non solo carta: la passione per la lettura contagia anche i contenuti digitali. L’8,9 per cento di chi ha utilizzato Internet nei tre mesi precedenti la rilevazione da cui traiamo questi dati ha letto un libro sul web o un e-book (il dato medio nazionale è 8,1); il 35,8 per cento ha letto quotidiani online (32,3 il dato italiano); e il 63,2 per cento ha consultato un wiki, una voce dell’enciclopedia online (secondo dato italiano, contro una media nazionale del 55,4 per cento).

In questo quadro, i ragazzi che oggi, 30 maggio 2019, fanno i libri viventi a Tolmezzo, in un’iniziativa realizzata con la collaborazione del Comune, dell’assessore alla cultura e della locale biblioteca civica Adriana Pittoni, sono una promessa di futuro, la speranza che la cultura accresca la consapevolezza democratica dei cittadini e batta la paura, l’intolleranza, la voglia di muri.

 

Sono le elezioni dei tre “ma”: molto è relativo

Le elezioni dei tre MA. Primo. Vince Salvini MA resta la “vecchia Europa”: i sovranisti stanno all’opposizione e gli europeisti mantengono la maggioranza, con i liberaldemocratici di Verhofstadt a fare da ago della bilancia (sì, quello che aveva detto che il premier Conte è un “burattino” di Salvini e Di Maio e che Salvini è “pagato da Putin”). Dunque il Capitano trionfa a casa sua, ma per Bruxelles è bene che conservi il rosario.

Secondo. Crolla il M5S MA il governo sale sopra il 51%.

Terzo. Il Pd si rivitalizza, col secondo posto e il sorpasso ai 5S, MA è un vincitore dimezzato (rispetto al 41% delle europee 2014 e con la perdita del Piemonte).

Perdono FI (nonostante Berlusconi) e la sinistra (nonostante il vento europeo e i “fascisti” gialloverdi), in questo caso senza se e senza ma.

Cosa succede adesso?

Con quasi il 50% di voti del centrodestra unito, Salvini può pensare di tornare al voto e prendersi tutto. Ma chi glielo fa fare di ricominciare a discutere con Berlusconi e Meloni, quando può fare quel che vuole con Di Maio? C’è già riuscito con il 17 contro il 33%, figuriamoci con 34 a 17.

Infatti detta già la sua agenda: Tav (a maggior ragione col Piemonte passato al cdx e alla Lega), Flat Tax, autonomie regionali, decreto sicurezza bis. Spremerà i 5S finché potrà e finché non arriveranno le grane d’autunno: manovra e aumento dell’Iva.

La vera domanda non è se convenga a Salvini restare al governo con Di Maio – gli conviene eccome – bensì: conviene a Di Maio e ai 5S restare al governo con la Lega? Considerando che questo tracollo è frutto anche di quella alleanza e che, portati a casa cavalli di battaglia come il reddito di cittadinanza, ora all’orizzonte ci sono soprattutto le rogne con una Lega ancora più prepotente, restare a fare da stampella rischia di distruggere il Movimento. Si apra una riflessione seria sulla gestione Di Maio (il voto online su un capo politico che ha dimezzato i voti in un anno è nascondere la polvere – e i malesseri interni – sotto il tappeto) e si valutino altre strade, prima fra tutte tornare al voto (anche all’opposizione).

E si guardi al Pd, a maggior ragione ora che c’è Zingaretti e non Renzi, magari a partire da punti di accordo come il salario minimo orario. Sempre che il Pd la smetta di considerare nemici più i grillini di Salvini.

Perché il M5S è crollato?

Innanzitutto, per gli errori commessi. Uno su tutti: non aver fatto valere abbastanza il proprio (doppio) peso elettorale e parlamentare e aver inseguito Salvini sul suo stesso terreno invece di farsi inseguire, deludendo così il proprio elettorato di sinistra (quello di destra ha preferito l’originale). Se Salvini è diventato quello che è diventato è anche grazie a loro.

Poi, per l’indubbio accanimento politico e mediatico, con una narrazione “capitano-centrica” d’intento tutto antigrillino (il RdC è forse l’esempio più significativo).

Infine, perché si sono svegliati troppo tardi, al punto da far passare le recenti impuntature, da Siri in poi, come le ripicche incattivite della moglie tradita, che taglia le gomme all’auto del marito infedele e, invece di generare solidarietà, induce a pensare “Perché ci stai insieme? Non lo sapevi dall’inizio che era così?”

Italiani nati democristiani, cresciuti berlusconiani, poi renziani (in somiglianza nazarena), ora eccoli salviniani. E il M5S, invece di cambiare il vecchio sistema, rischia di non essere che il suo carburante.

FCA, sovranisti a corrente alternata

Siamo l’unico Paese, assieme alla Francia, in cui ha vinto le Europee un partito sovranista. Eppure di “sovranismo” se ne vede ben poco. Basta osservare le reazioni al progetto di fusione Fca-Renault-Nissan. Matteo Salvini ha detto a caldo: “Se è opportuna una presenza pubblica italiana per controbilanciare la quota francese nel gruppo Fca-Renault? Se richiesta, una presenza istituzionale sarebbe assolutamente doverosa”. Cioè: la fusione dovrebbe portare un sicuro dividendo agli azionisti di Fca e Renault di 5,5 miliardi e la Lega, invece di preoccuparsi dei posti di lavoro a rischio in Italia che spariranno grazie alle “sinergie” tra i tre gruppi, vuole anche che lo Stato ci metta dei soldi? Così il conto della fusione non lo pagheranno solo lavoratori e fornitori, ma pure i contribuenti.

Intendiamoci: questa operazione, che da ieri ha l’avallo anche dei giapponesi di Nissan (partner ma non fusa con Renault) spalanca i mercati asiatici a Fca e le permette di recuperare i ritardi sull’auto elettrica grazie ai modelli Renault. Ma è nell’interesse anche del Paese, oltre che di John Elkann e di tutti gli azionisti? Per rispondere bisognerebbe avere un’idea di Italia, una linea su qual è quell’interesse nazionale che il “sovranismo” leghista (e a tratti anche pentastellato) si propone di difendere. Per l’Italia è meglio avere campioni europei nella globalizzazione che facciano da partner alle nostre piccole e medie imprese? O invece il nostro tessuto produttivo sopravvive soltanto se c’è qualche azienda di taglia significativa basata in Italia? È bizzarro pensare che i destini del Piemonte dipendano più da un treno che non c’è tra Torino e Lione piuttosto che dalle scelte industriali di Fca, visto che l’automotive resta il settore trainante della Regione anche ora che un pezzo della testa di Fca e dei suoi investimenti è a Detroit, negli Stati Uniti.

Questi sovranisti all’italiana sono ben strani. Salvini si è addirittura detto “orgoglioso” della possibile fusione tra Unicredit e la tedesca Commerzbank. Strano, da sovranista avrebbe dovuto essere inquieto. Il governo tedesco di Angela Merkel (in teoria anti-sovranista) voleva la fusione tra Commerzbank e Deutschebank proprio per evitare l’ingresso nel Paese di un grande operatore straniero, oltre che per fare di due banche fragili una sola e solida. Ma il progetto è naufragato perché si rischiavano di perdere 30.000 posti di lavoro. Il rischio che i posti saltino anche con una fusione con Unicredit – vedremo quanti se la cosa andrà avanti – è assai probabile così come che la banca post-fusione sarebbe molto più radicata in Germania che in Italia, visto che Unicredit già controlla la tedesca Hypovereinsbank.
Opporsi per principio a queste operazioni, così importanti per le società coinvolte, sarebbe assurdo tanto quanto entusiasmarsi a prescindere. Ma Salvini sembra avere verso queste vicende lo stesso approccio di Matteo Renzi con le vittorie sportive: sembra convinto di poter brillare di luce riflessa dai trionfi altrui. Ma chi è al governo dovrebbe guidare certi processi, invece che limitarsi a un like a cose fatte. Non si tratta di far intromettere lo Stato in trattative tra privati. Ma è mai possibile che l’unica vicenda industriale che la politica considera di interesse strategico sia Alitalia? Neanche la scelta di Auchan di lasciare l’Italia e vendere a Conad ipermercati e immobili dal futuro quantomeno incerto, vista la stagnazione dei consumi e le profonde evoluzioni in corso nella grande distribuzione, ha suscitato l’interesse della politica.

L’unico parametro di valutazione delle vicende industriali per la politica sembra essere quanti posti di lavoro (e dunque elettori) sono a rischio nell’immediato. L’allerta scatta però solo quando sono gli altri a comprare aziende italiane, dall’ipotesi Lufthansa per Alitalia a Lactalis che vuole la Nuovi Castelli del Parmigiano Reggiano (azienda peraltro già del fondo inglese Charterhouse dal 2014). Fare politica industriale con questi criteri miopi rischia però di creare danni irreversibili. Si replica lo stesso modello di rinvio dei problemi alla base del nostro enorme debito pubblico: oggi si preservano i posti per far digerire la fusione o l’acquisizione, ma gli investimenti in ricerca e le strategia di sviluppo si fanno altrove, in altri Paesi o altri settori. Così i governanti pro tempore non protestano. Ma chi arriverà dopo, prima o poi, si troverà ad affrontare un situazione esplosiva e ormai irreversibile.

Il governo sedicente sovranista non ha neppure nulla da dire sulle vicende giudiziarie che rendono sempre più imbarazzante la permanenza di Claudio Descalzi (imputato per corruzione internazionale) alla guida dell’Eni, la più strategica delle nostre aziende, perno della politica estera e di sicurezza, almeno energetica. Ma è molto più facile fare i sovranisti con gli immigrati che con manager e banchieri.