Restino al potere, mantengano le promesse e alla fine si vedrà

La politica non è un gioco, è una cosa seria: da essa dipende il benessere dei cittadini. Se sottoscrivi un contratto di governo da attuare in 5 anni e nel frattempo dimezzi i tuoi voti, vedendo raddoppiare quelli del tuo contraente, hai il dovere di andare avanti per fare quanto promesso. Perché se eri e sei convinto, a torto o ragione, che le idee del contratto sono buone, non getti la spugna perché conti di meno. La domanda da porsi non è cosa serva a te, ma cosa è utile (o meno peggio) per il Paese. Anche perché con elezioni prima della Finanziaria, l’Italia rischia davvero. E se ci si va subito dopo (e pure prima) il risultato prevedibile è uno solo. Un governo Lega-FdI (e forse Berlusconi) coi 5Stelle che fanno la fine dell’Uomo Qualunque: scompaiono. Se invece resistono, lavorano a testa bassa, imparano dagli errori e pretendono l’applicazione puntuale del contratto, può essere che i consensi tornino. Nessuno può oggi dire come andrà l’economia, se ci saranno scandali politici, sbagli clamorosi di alleati e avversari. Se valgono qualcosa i 5Stelle lo dimostrino stringendo i denti e pedalando in salita.

Col doppiopetto perde i voti, il Movimento torni intransigente

Hanno perso 6 milioni di voti, dai 10 milioni delle Politiche 2018 ai 4 delle Europee 2019. Dimostrazione che sono bravissimi a dare una casa alla protesta, proponendo un buon programma di riforme, ma poi non hanno retto alla prova del governo e alla concorrenza di Matteo Salvini. E pensare che Salvini aveva copiato dai Cinquestelle per trasformare una Lega spompata e compromessa (ma gonfiata dal declino di Berlusconi) nel partito (di destra) della rivolta (almeno a parole) contro l’establishment. Il M5S ha fatto il percorso inverso: da movimento di rottura ha cercato di trasformarsi in rassicurante forza di governo. Risultato: Salvini lo ha superato nella protesta; e nelle realizzazioni di governo non ha ottenuto gran risultati, con il programma edulcorato e a volte tradito per tenere insieme l’alleanza con la Lega. Per arginare il declino, ai Cinquestelle non resta che tornare al programma e perseguirlo con rigore, anche a costo che Salvini rompa l’alleanza di governo. Nel caso, prendere la guida dell’opposizione.

Nelle urne ha perso la politica sociale

Afuria di osservare il mostro si finisce per assomigliargli. Lo notavo nei commenti che in questi giorni Il Fatto

ha affidato ad alcuni intellettuali noti per la loro indipendenza e nello stesso editoriale di Marco Travaglio. Tutti, a parte Daniela Ranieri, parlavano in stretto politichese con un linguaggio estrapolato dalla politique politicienne, elaboravano strategie. Più che intellettuali o giornalisti sembravano dei segretari di partito. Nessuno, mi pare, ha notato che queste elezioni europee hanno segnato l’ennesima sconfitta del socialismo, in Italia ma anche in Europa. Nel nostro Paese gli unici ad avere un programma sociale erano e sono i grillini (poiché nel Pd, abbia il 18 o il 20 o il 40%, di sociale non c’è più nulla – “D’Alema di’ qualcosa di sinistra. Di’ qualcosa”, Nanni Moretti). Naturalmente, per sua natura, un programma sociale per realizzarsi ha bisogno di tempo, non ha l’immediatezza delle facili invettive contro gli immigrati e le immigrazioni. E questo programma i 5 Stelle avevano provato a metterlo in atto con alcune misure, solamente iniziali ma già piuttosto concrete. Ma sono stati stoppati sul posto. La loro ostilità nei confronti delle grandi opere ha un doppio significato. È notorio, anzi è storico, che più un Paese si modernizza più si allarga la forbice fra i ceti ricchi e quelli poveri. Inoltre per salvare l’ambiente non bisogna aumentare, ma diminuire la produttività e con essa i consumi. Le manifestazioni per l’ambiente con ragazzette tipo Greta Thunberg hanno un significato solo folcloristico se non si è disposti a pagarne i duri prezzi nel campo della produzione e del consumo. Non si può avere nello stesso tempo la botte piena e la moglie ubriaca.

Ma, a parte la Spagna, queste elezioni hanno mostrato che il socialismo arretra in tutta Europa. Fuori dal Vecchio Continente, attraverso Donald Trump, il bolivarismo chavista, cioè la forma che il socialismo aveva preso in Sudamerica, verrà spazzato via dal Venezuela, dalla Bolivia, dopo aver subìto la stessa sorte nel Brasile di Lula e della Rousseff. È l’ora dei Bolsonaro. E così continueremo a vivere in un modello di sviluppo che ho definito “paranoico” che oltraggia sempre di più gli “umiliati e offesi”, senza più alcuna difesa e riesce anche nell’impresa di far vivere male, esistenzialmente, chi sta economicamente bene (negli Usa, il Paese per ora ancora dominante e più ricco, oltre il 60% degli abitanti fa uso abituale di psicofarmaci, cioè è gente che non vive bene nella propria pelle). Le parole del Papa cattolico, che in qualche modo cerca di opporsi a questa deriva, non contano più nulla. E il crocifisso esibito da Matteo Salvini ne è la clamorosa e penosa dimostrazione.

Debito, niente promesse da Tria in risposta all’Ue

La lettera della Commissione europea arrivata ieri che avvia il percorso che può culminare in una procedura d’infrazione per debito eccessivo non è stata certo una sorpresa. La risposta, al ministero del Tesoro, è pronta da una settimana anche se verrà spedita soltanto domani.

“Sulla base dei dati trasmessi relativi al 2018, l’Italia non ha fatto sufficienti progressi verso il rispetto dei criteri del debito nel 2018”, si legge nella lettera firmata dal vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e dal commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici. Non ci sono numeri, ma soltanto perché sono ben noti. Prendiamo una delle ultime audizioni del presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente sui conti, Giuseppe Pisauro. Il parametro di riferimento che indica se il debito si sta riducendo o meno è il “saldo strutturale”, una specie di deficit corretto per gli effetti del ciclo economico. E nel 2018, spiegava l’Upb un mese fa, “l’aggiustamento strutturale è nullo e risulta non adeguato secondo le regole di bilancio in quanto è minore di quello richiesto (0,3 punti percentuali) che era stato dimezzato per l’applicazione della flessibilità per margine di discrezionalità da parte della Commissione europea. Inoltre, la crescita dell’aggregato di spesa risulta maggiore del benchmark, confermando un aggiustamento non adeguato”. Tradotto: la Commissione ci ha fatto uno sconto sugli obiettivi ma i due governi responsabili dei conti nel 2018, quello Gentiloni e poi quello Conte, non hanno rispettato neppure quella soglia ridotta. L’esito era inevitabile. La Commissione ha scelto di mandare la lettera subito dopo le elezioni, per evitare che diventasse argomento elettorale. Ma adesso il governo deve decidere cosa fare.

La risposta di Tria non prevederà impegni. Proprio come nelle interlocuzioni di un anno fa, il ministro si limiterà a sottolineare quali sono i “fattori rilevanti” che hanno determinato lo scostamento dall’obiettivo, quali le possibili sorprese positive che possono arrivare in corso d’anno e che renderebbero la distanza minore. Ma nessun impegno politico, nessuna promessa di correzioni in autunno. Quelle spettano, eventualmente, al premier Conte quando nel Consiglio europeo del 20 e 21 giugno dovrà approvare o respingere le “raccomandazioni” che la Commissione farà all’Italia come a tutti gli altri Paesi. Conte e Tria si sono incontrati ieri a Palazzo Chigi, dopo l’arrivo della lettera. Intanto lo spread, cioè la differenza di rendimento tra titoli di Stato italiani e tedeschi, resta molto alto: 282 punti. La soglia psicologica di 300 non è lontana. Un livello pericoloso, sia per i costi aggiuntivi che deve sostenere il Tesoro all’emissione di nuovi titoli sia per le obbligazioni bancarie e societarie che si adeguano al rialzo in tempi rapidi.

Mentre la Commissione europea contesta deviazioni di qualche zero virgola, Matteo Salvini, che oggi incontrerà Tria per parlare della reazione alla lettera, contesta addirittura il tetto del 3 per cento al rapporto tra deficit e Pil: “Un parametro obsoleto”. Se il governo non applicherà gli aumenti Iva già previsti e non troverà coperture alternative, il deficit 2020 andrà al 3,5 per cento. Oppure molto più in alto, se il governo approverà il progetto di flat tax che la Lega torna ora a proporre dopo il successo alle Europee: aliquota del 15 per cento sul reddito familiare fino a 50.000 euro. Un tipo di tassa che oltre a essere molto complesso da gestire – sotto i 50.000 euro si tassa la famiglia, sopra gli individui – rischia di costare decine di miliardi. I mercati ancora non sanno se prendere sul serio queste promesse. Se lo faranno, lo spread non si fermerà certo a 290.

Il Colle vuole congelare la crisi: teme il governo tra Lega e FdI

Lo spettro di un Parlamento sovranista incombe sulla crisi virtuale del governo Conte. Ed è per questo che ieri nell’interlocuzione tra il Quirinale e Palazzo Chigi, culminata con un colloquio tra il capo dello Stato e il premier, la parola chiave è stata appeasement. Congelare cioè gli elevati rischi di questi giorni e capire quante possibilità reali ci sono di mantenere in vita l’esecutivo. Prima di andare al Colle da Sergio Mattarella, Conte ha incontrato sia Matteo Salvini sia Luigi Di Maio. E come confermato dai segnali emersi nelle ultime ore si è delineato un fronte governista, tra Quirinale, premier e capo politico del M5S, destinato a contrastare il nuovo padrone della scena politica post-Europee: il ministro dell’Interno nonché vicepremier. Il quale a sua volta, per il momento, ha accettato di abbassare i toni pur chiarendo, al presidente del Consiglio, che c’è una lista di cose da fare. Per la serie: “Prendere o lasciare”. Testuale.

Su queste basi si regge quindi il cauto se non fragile “ottimismo” fatto trapelare dopo il colloquio tra Mattarella e Conte. In pratica: sul metodo dialogante ci siamo, vediamo poi la sostanza delle questioni. Ovviamente il timore principale è uno solo: Salvini che cerca l’incidente e va alla rottura per capitalizzare alle Politiche il ricco bottino delle Europee di domenica scorsa. Questo il grande rebus che agita le valutazioni del Quirinale. Sia chiaro: da arbitro imparziale quale si annunciò all’inizio del suo mandato, il capo dello Stato prenderà atto di qualsiasi decisione dovesse arrivare dai vari attori protagonisti in gioco. Ma prima di arrivare alle urne anticipate – dall’autunno di quest’anno all’inverno del prossimo – sarà tentata ogni soluzione possibile per scongiurare una fine anticipata della legislatura.

A indicare questo sentiero strettissimo come obbligato è lo spauracchio, appunto, di una probabile maggioranza sovranista nel futuro Parlamento. Impressionanti, in merito, le simulazioni effettuate da You Trend su Camera e Senato con i dati delle Europee. A Montecitorio il centrodestra classico prenderebbe con il Rosatellum (proporzionale più uninominale) 402 seggi. Salvini però avrebbe anche una seconda e decisiva opzione: con il 40,8 per cento di domenica scorsa la Lega e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni avrebbero 328 seggi su 618. Idem a Palazzo Madama: 162 seggi su 309.

Un’inedita maggioranza sovranista di destra nel cuore dell’Europa occidentale. Uno sfregio e un pericolo che il Sistema farà di tutto per evitare, tentando di trovare la strada giusta per “cucinarsi” il Capitano. Per usare l’efficace metafora di Alessandro De Angelis sull’Huffington Post questa “è la prova del cuoco (di Sistema, ndr) su Salvini”. Anche perché a un nuovo Parlamento sovranista toccherebbe eleggere il successore di Mattarella al Colle. Sarebbe la prima volta di un presidente della Repubblica scelto dalla destra. In tale direzione va allora la moral suasion del capo dello Stato su Conte per stabilizzare questo esecutivo.

La principale arma di pressione, per la tenuta dei conti pubblici, è la solita pistola dello spread. Questo sarà pure un governo populista ma alcune iniziali spinte di rottura furono neutralizzate un anno fa con le nomine di Tria e Moavero Milanesi.

Stabilizzare, stabilizzare, stabilizzare, dunque. Imbullonare Conte a Palazzo Chigi e aspettare che “la grandine” a suo tempo evocata da Giancarlo Giorgetti, il numero due leghista, costringa tutti all’ennesimo bagno di realismo, senza colpi di testa avventuristi. Se dovesse fallire però l’ipotesi della permanenza dell’avvocato a Palazzo Chigi, magari “rinforzato” da un mini rimpasto a favore della Lega, si aprirebbero altri scenari, contando sullo spirito di autoconservazione dei parlamentari, compresi quelli del M5S. L’ideale sarebbe Salvini a Palazzo Chigi da premier, ma il leader del Carroccio ha ripetuto mille volte che non farà come Matteo Renzi nel febbraio del 2014. A quel punto si ripiegherebbe su un leghista minore o terzo (Giorgetti, of course) per imbastire una maggioranza sempre con i Cinquestelle.

La fragilità di queste ipotesi non sfugge a nessuno e quindi si torna al senso dei colloqui di ieri: non far morire il Conte I. Il fronte governista contro l’enigma Salvini. La battaglia, per ora travestita da appeasement, è cominciata.

Tg2, si dimette il sindacato interno: “Non c’è più fiducia”

I guai per il Tg2 non finiscono mai. Da ultimo sono arrivate pure le dimissioni dei membri del Comitato di redazione (cdr). Filippo Golia e Gabriele Lo Bello hanno lasciato l’incarico venerdì scorso, spiegando di “ritenere di non essere più sufficientemente rappresentativi rispetto al corpo redazionale”. Che è successo? I due, come si evince dal comunicato, non sentono più di avere la fiducia della redazione che li ha eletti. Una redazione sempre più spostata sull’asse sovranista. Ma forse hanno anche pesato i continui incidenti in cui incappa il Tg diretto da Gennaro Sangiuliano. Che, solo nelle ultime due settimane, è stato sanzionato dall’Agcom per violazione della par condicio per servizi troppo orientati; ha causato un mezzo incidente diplomatico con la Svezia per un servizio in cui si spiegava come in certe zone di quel Paese fosse in vigore la legge islamica, a causa dell’altro numero di immigrati; è incappato in una gaffe di una sua giornalista che, intervistando Matteo Salvini lunedì scorso, ha parlato del 34,3% della Lega come di “un risultato ineguagliato alle Europee”. Dimenticando che solo alle elezioni precedenti il Pd di Matteo Renzi raggiunse il 40,8%.

Sanità calabrese, bagarre contro Nesci: promuove il “suo”

Da consulente della parlamentare Dalila Nesci (M5S) a commissario dell’Asl di Vibo Valentia, il passo è breve e scatena la bagarre alla Camera durante la discussione sul Decreto Sanità. Decreto di cui è relatrice la stessa Nesci e che potrebbe vedere il suo collaboratore Gianluigi Scaffidi nominato alla guida di una delle Aziende sanitarie locali calabresi. “C’è un conflitto di interessi enorme”. La deputata Alessia Morani ne è convinta così come tutto il Partito Democratico. “Il fatto è che ancora non sono state fatte le nomine. – si è difesa Nesci – La persona indicata non è mai stato un mio collaboratore stipendiato”. “Onestà, onestà”. I deputati Pd, Forza Italia e Leu hanno assediato la ministra Giulia Grillo che ha replicato: “Non ho alcun motivo di difendere Scaffidi. Posso garantire che, se questo elemento diventa dirimente per proseguire correttamente, noi rinunceremo. Non ho alcun attaccamento per i curriculum”. Anche perché, se dovesse consultare quello di Gianluigi Scaffidi scoprirà che l’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti (oggi in carcere) lo aveva nominato dirigente di settore per il piano di rientro della Sanità calabrese.

Tav, Salute e rimpasto: “Non mettiamoci la faccia”

Conti alla mano, al massimo se ne può cedere una. Una sola, per non perdere la maggioranza nel Consiglio dei ministri, consesso a oggi composto da nove cinquestelle e sei leghisti. Ma anche se unica, la poltrona da consegnare alla Lega dopo la sconfitta alle Europee, può essere pesante. E al tavolo permanente allestito da Luigi Di Maio al ministero lunedì e martedì, si è ipotizzato perfino di toccare l’intoccabile: le Infrastrutture di Danilo Toninelli.

Non per le gaffe, ormai passate nel dimenticatoio, ma proprio per i contenuti: se Salvini vuole il sì al Tav – la macchina è già in moto, per fermarla una volta per tutte servirebbe un voto del Parlamento – tanto vale che ci metta la faccia lui.

Nei Cinque Stelle ormai non è più un mistero che la strada per l’alta velocità Torino-Lione sia spianata. Resta il veto di Alessandro Di Battista, che da sempre ritiene lo stop all’alta velocità una pregiudiziale per il suo impegno nel Movimento. Ma dopo il voto di domenica – in Val di Susa, alle Regionali, il Movimento ha tenuto, ma i sostenitori del Tav sono larga maggioranza e a Chiomonte e Susa si sono pure presi il sindaco – si è diffusa la convinzione che impiccarsi alla battaglia del No sarebbe un errore.

Così, nelle valutazioni delle ultime ore, anche il posto di Toninelli è finito sul banco delle offerte agli alleati che si sono fatti grandi. Perché, esattamente al contrario di quello che va dicendo Salvini, i Cinque Stelle possono cedere sui posti ma non sul programma: il Contratto non si può riscrivere, al massimo si potranno fare concessioni ai leghisti nei punti in cui era stato scritto in modo sufficientemente vago da permettere interpretazioni. Come nel caso del Tav, appunto: un progetto – recita l’accordo gialloverde – da “ridiscutere integralmente nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.

Non è l’unica ipotesi al vaglio. Anche la Salute è un altro ministero considerato sacrificabile. La performance di Giulia Grillo, per usare un eufemismo, non ha mai entusiasmato i vertici del Movimento. E quella è un’altra partita piena di intoppi, di guai da risolvere, di soldi da trovare, tanto più se la marcia delle autonomie regionali dovesse prendere la piega auspicata dal segretario del partito di maggioranza.

Ovunque si giri, insomma, per Di Maio è un campo minato. Per questo pare assai improbabile che tra le poche carte che ha da giocarsi metta sul tavolo una di quelle che ha in mano personalmente: non la leadership M5S, non la vicepresidenza del Consiglio, né tantomeno i due ministeri che un anno fa ha accorpato per coordinare le politiche dello sviluppo e del lavoro e soprattutto per evitare di avere un altro posto libero da contrattare coi leghisti.

Si è discusso anche dell’annosa questione Tria: il ministero dell’Economia guidato dal professore di Roma Tre, è un’altra delle caselle che secondo alcuni potrebbe essere utile a “responsabilizzare” Salvini: tradotto, lui che ha capitalizzato un anno di governo senza doversi sporcare le mani con coperture da trovare, andrebbe messo con le spalle al muro, per vedere come si comporta, proprio ora che rischiamo la procedura di infrazione europea. Ma seppur ieri il ministro dell’Interno abbia fatto sapere di essere al fianco di Tria nella stesura della risposta a Bruxelles, pare difficile immaginare uno dei suoi protagonista di questa battaglia così rischiosa (Giancarlo Giorgetti, peraltro, ha già detto di no una volta).

C’è chi, dentro al Movimento, ragiona pure su un rimpasto interno. Al posto di Di Maio si è fatto il nome di Gianluigi Paragone. Fantascienza, considerando che oggi il giudizio condiviso sul senatore 5 Stelle – già direttore de La Padania leghista – è quello espresso due giorni fa in Transatlantico dal deputato grillino Davide Tripiedi: “Un traditore è sempre un traditore”. Anche Stefano Buffagni, oggi sottosegretario e factotum delle nomine, si è proposto: “Luigi, se vuoi io posso darti una mano, con le imprese ci parlo, le conosco…”. Ma anche la sua offerta sarebbe stata respinta: non è la poltrona del Mise quella da mettere in discussione.

Piuttosto, ce n’è un’altra che potrebbe ballare. È quella del viceministro alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, che rischia una condanna nell’inchiesta sulla Rimborsopoli dei consiglieri regionali in Liguria. La sentenza è attesa per oggi: l’intransigenza mostrata nei confronti del sottosegretario Armando Siri – dimissionato d’imperio dal premier Conte un paio di settimane fa – potrebbe non essere così granitica. “Là si trattava di corruzione, di un rapporto di fiducia compromesso: aveva sponsorizzato un emendamento a fini personali. Qui parliamo di peculato, di una storia vecchia…”, ragionano nel Movimento. Lasciando intravedere che anche su questo punto – pur normato dal contratto – la riflessione è aperta.

“Dobbiamo aiutare Luigi”. Ma Salvini fa già il premier

“Dobbiamo aiutare Di Maio. Ho bisogno di riallacciare con Luigi, quindi toni bassi, niente attacchi ai 5Stelle e non rispondete alle provocazioni”. Martedì pomeriggio, palazzo del Viminale. Matteo Salvini sta ricevendo i 28 nuovi eurodeputati della Lega. Il clima è di festa: sorrisi, abbracci, complimenti e brindisi, anche se forse la sede istituzionale è inopportuna per un evento di partito. Nel suo discorso, Salvini dà la linea. Una linea che ha ripetuto anche ieri a parlamentari e membri del governo: “Con Luigi devo riprendere il rapporto, va aiutato, altrimenti, se passa la linea di Di Battista, il governo è finito. Dopo gli insulti e le polemiche della campagna elettorale, è il momento di ricucire. Con loro abbiamo lavorato bene nove mesi e io voglio continuare”. Lo dice ancora all’assemblea dei gruppi: “Abbassiamo i toni, niente più attacchi ai pentastellati, testa bassa e lavorare, concentriamoci sulle cose da fare. Ora è il tempo del dialogo”.

Un atteggiamento soft che, secondo il leader leghista, deve servire a ricostruire il rapporto con l’alleato lacerato da una campagna elettorale violenta: “Da loro però mi aspetto un diverso atteggiamento sul caso Rixi rispetto alle dimissioni imposte a Siri”. I due, Salvini e Di Maio, ancora non si parlano. Ieri sono stati entrambi a Palazzo Chigi per vedere Giuseppe Conte, ma separatamente: prima il leghista, poi il grillino. Un incontro in cui Salvini ha posto precise condizioni al premier: per andare avanti occorre pigiare l’acceleratore su flat tax, autonomia, giustizia. Ma pure sulla sbloccacantieri e, novità, sui temi ambientali come il ciclo dei rifiuti. Perché il punto “non è chi fa cosa, ma che le cose si facciano”. Ormai “la campagna elettorale è finita e non abbiamo più alibi: il governo deve agire”. Ma il vicepremier ha acceso i riflettori pure su due ministri in bilico: Infrastrutture e Difesa. “Non vogliamo prendere il posto di Toninelli e Trenta, ma è evidente che in quei ministeri ci sono dei problemi e sarà difficile migliorare mantenendo le stesse persone”, ha detto Salvini aprendo la strada al rimpasto.

Parole, quelle sul rilancio dell’azione di governo, che servono anche a tener buona quella parte della Lega che invece, a maggior ragione adesso, spinge per la rottura e per andare al voto subito col centrodestra. Ma è Di Maio il pensiero fisso di Salvini: “Lo incontrerò dopo il loro voto. Nel M5S è in corso un dibattito interno e non voglio interferire”. Salvare il soldato Di Maio, però, è la sua priorità: “È in atto un processo nei suoi confronti e noi dobbiamo aiutarlo, perché è chiaro che nel M5S è partita l’azione per farlo fuori”, ha confidato ieri a qualche parlamentare, dopo aver visto il “fuoco amico” verso l’alleato. Il timore, per la Lega, è avere un Di Maio indebolito, magari messo sotto tutela da Di Battista e soci. “Lui è il nostro unico interlocutore: se lo fanno fuori, non si va avanti”, ha detto Salvini parlando ai suoi.

Conciliante a parole, il capo leghista ieri ha recitato però da premier di fatto: “Domani (oggi, ndr) vedrò il ministro Tria per coordinare la linea per rispondere all’Ue. Ma è chiaro che i vecchi vincoli europei che bloccano la crescita vanno superati”, ha detto parlando della lettera arrivata da Bruxelles. Uscita che non sarà piaciuta ai 5Stelle perché segnala la volontà di ampliare, e di parecchio, il perimetro dell’influenza di Salvini. Come le frasi sulla Rai: “Vedo che torna Gad Lerner… E Fazio e Saviano… Manca solo Santoro. E poi dicono che la controllo io. Chiedo a Salini se questa è la Rai del cambiamento”. Un altro modo per ricordare a tutti, anche al manager scelto dai grillini, che ora comanda lui.

Di Maio ora sfida gli eletti: “Decidete, dentro o fuori”

Il capo che ha straperso non mette in gioco se stesso, sul piatto mette proprio il governo. “Dobbiamo decidere se sostenere ancora o meno questo esecutivo, il premier Giuseppe Conte vuole saperlo” scandisce Luigi Di Maio all’assemblea dei 5Stelle con folla da stadio dentro la Camera.

Rilancia prima del plebiscito di oggi sulla piattaforma web Rousseau, in cui chiederà agli iscritti di “confermare la fiducia al capo politico”, cioè a lui. E sa che vincerà facilmente. Nell’attesa però ieri sera davanti a 300 e passa parlamentari smina la discussione interna su difetti e futuro del M5S e sposta tutto sull’esecutivo. Ma Roberto Fico, il presidente della Camera presente a sorpresa, non è entusiasta: “Se si parla di governo me ne vado”. E c’è anche Alessandro Di Battista a guardare gli effetti della mossa del leader, che in tasca ha la lista dei cattivi e in testa alcuni sospetti. Nel dettaglio, i cattivi sono i 5Stelle che dopo la catastrofe del 17 per cento gli hanno chiesto di considerare le dimissioni (Carla Ruocco) o di rinunciare a qualcuno dei suoi quattro incarichi (Gianluigi Paragone). Invece i sospetti sono per l’ex deputato che vuole tornare a giocare e decidere, Di Battista, avvistato a cena proprio con Paragone dopo il primo gabinetto di guerra di lunedì al Mise. E non solo, “perché Alessandro e il senatore si frequentano spesso” fanno notare. Mentre un lealista osserva: “Oggi ha scritto un post su Facebook dove non cita mai Luigi”.

Si notano le virgole. “Ciascuno deve esprimere la propria opinione, ma c’è chi ha preferito farlo con la stampa prima dell’assemblea” ricorda in Transatlantico il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, numero due del M5S, pretoriano di Di Maio. “Quando si vince si fa a gara a salire sul carro dei vincitori, ma quando si perde sono in pochi a scendere per spingerlo” motteggia su Facebook il sottosegretario Vito Crimi. Intanto le agenzie si intasano di post e note di ministri, maggiorenti e peones del Movimento, che quasi si spintonano per diffondere messaggi di sostegno al capo, difeso anche dalle sindache Raggi e Appendino. Stando zitti, c’è il timore di finire atra i nemici, e questa volta il capo non dimenticherà. “Consegnerò le mie dimissioni da parlamentare a Di Maio, deciderà lui cosa fare” si cosparge il capo di cenere ad Agorà Paragone. Ma un dimaiano di governo è feroce: “Puntava a diventare ministro dello Sviluppo economico”, al posto del vicepremier.

Più forte, anche perché si fa risentire il fondatore, Beppe Grillo, e sono sillabe per blindare il numero uno: “Luigi non ha commesso un reato, non è esposto in uno scandalo di nessun genere, deve continuare la battaglia che stava combattendo prima”. Certo, “gli errori di metodo ci sono, ma nulla hanno a che fare con l’aver agito nel rispetto delle nostre premesse”. Nel frattempo la Camera è disseminata di gruppetti che si preparano per l’assemblea. E il malumore è quasi solido, perché imponendo il referendum su di sè sul web il capo ha svuotato di senso la riunione. D’altronde Di Maio lo scrive sul blog: “Devo rendere conto solo agli iscritti”. E saluti agli eletti. Ma c’è anche un passaggio sul futuro: “Se ci sono strutture o luoghi decisionali da creare, lo faremo”. Tradotto, arriverà una segreteria politica con una decina di nomi. E Di Maio parte da lì nell’assemblea che inizia dopo le 21 a Montecitorio: “Sono disponibile a una riorganizzazione, ma per farla serve un atto di fiducia in questo o in un nuovo capo”.

Si mostra accorato: “Ho una dignità, negli ultimi due giorni mi hanno detto di tutto. Ma non me ne frega nulla della poltrona, non sto attaccato al ruolo di capo”. Poi inizia una sorta di dibattito. Il deputato e giornalista Emilio Carelli chiede “modifiche alla squadra dei ministri”. Ma abbondano gli atti di fede. E allora il deputato Luciano Cantone chiede “a nome di 60 colleghi” di ritirare il voto su Rousseau: “Non devi metterti in discussione”.

Dita negli occhi dei malpancisti e di un veterano come il deputato Andrea Colletti, che l’aveva scritto su Facebook: “Un leader deve circondarsi di persone migliori di lui, non solo di fedelissimi, lecchini ed yes-men”.

Poi la parola va a Paragone, giornalista, che se la prende con la stampa: “Non ho mai detto che Di Maio ha fatto male da ministro”. Quindi implora: “Luigi, hai ancora fiducia in me?”. Si scivola via così, nella notte. Tanto comanda lui, Di Maio, il capo. Governo o no.