Viva i vinti

Dopo due giorni e due notti di commenti sull’apocalittica, catastrofica, epica, spettacolare disfatta dei 5Stelle, mi è improvvisamente passata la voglia di criticarli, sopraffatta da quella di difenderli. L’amore per la minoranza e possibilmente per la clandestinità me li ha pure fatti tornare simpatici: come agli inizi quando si arrabattavano nelle piazze con mezzi di fortuna a raccogliere firme contro la casta, il nucleare, la mafia, la corruzione e la privatizzazione dell’acqua; e come avevano smesso di essere quando avevano vinto le elezioni, erano andati al governo e si aggiravano da una tv all’altra in doppiopetto con l’arietta tronfia dei primini della classe. È stato l’altra sera, quando Dimartedì, per imperscrutabili motivi, ha messo in fila Calenda, Letta e Zingaretti, come se il Pd avesse preso il 100% dei voti. I tre parlavano come se fossero piovuti da Marte senz’aver mai governato, come se l’emergenza Italia fosse frutto di 12 mesi di governo giallo-verde e non di 25 anni di destra&sinistra.

Letta, quello che nel 2013 governò con Berlusconi e con lui abolì l’Imu sulle ville e le regge dei miliardari (uno scherzetto che ci costa ancora 4,5 miliardi l’anno), insegnava la coerenza a Di Maio che purtroppo frequenta cattive compagnie: “La legge è uguale per tutti”, sentenziava sul caso Diciotti-Salvini, lui che si era alleato non con un indagato, ma col re degli imputati e dei prescritti, e l’aveva implorato di restare a bordo anche da pregiudicato. Gli altri due fingevano di avere stravinto le Europee, dopo aver portato il Pd al nuovo minimo storico (111 mila voti persi rispetto al disastro renziano del 2018, senza contare il milione di elettori di LeU misteriosamente scomparsi dopo il ritorno all’ovile dem), le tre destre al massimo di tutti i tempi e la maggioranza giallo-verde altri due punti sopra. Tutti e tre spiegavano cosa bisognerebbe fare: cioè quel che il Pd si era sempre guardato dal fare. In compenso quel che avevano fatto e non avrebbero dovuto fare si dicevano prontissimi a rifarlo. Lì ho capito perché quel diavolo di Floris li aveva invitati: per esibirli perfidamente così come sono, nature; ricordare ai più smemorati perché un anno fa li avevano cacciati a pedate; e ammonirli in vista delle prossime Politiche: occhio che, a furia di fare gli schizzinosi, vi ribeccate questi qua. Altre due-tre puntate di TeleNazareno, e la rinascita dei 5Stelle è fatta. Più Calenda, Letta e Zinga ridevano senza spiegare che c’è da ridere dopo aver perso 5,2 milioni di voti e tutte le regioni tranne la Toscana, più montavano la simpatia e la riconoscenza per il bistrattatissimo Di Maio.

Il quale, con la sua Armata Brancaleone e i suoi errori, è riuscito in un anno a fare più leggi giuste (e per giunta di sinistra) del Pd in tutta la sua storia. Se anche i 5Stelle scomparissero domattina, avrebbero comunque il merito di aver regalato all’Italia l’anticorruzione, la bloccaprescrizione, il reddito di cittadinanza, il dl Dignità, la riforma del voto di scambio, lo stop al bavaglio sulle intercettazioni e alla svuotacarceri, l’abolizione dei vitalizi; di aver avviato il taglio del numero e degli stipendi dei parlamentari, il referendum propositivo col quorum abbassato, il salario minimo e la sospensione del Tav (salvo ripensamenti suicidi); di non aver rubato né truccato concorsi; di aver cacciato in due minuti il loro unico arrestato per corruzione e messo alla porta un sottosegretario leghista in flagrante conflitto d’interessi. È di questi meriti, e non dei molti demeriti, che lorsignori vorrebbero che i 5Stelle si pentissero. È per questi pregi, e non per i molti difetti, che il Pd ha sempre considerato i “grillini” degli intrusi, degli ultracorpi infettivi da tenere a distanza e da combattere strenuamente come mai aveva fatto con B. e mai farà con Salvini. Ed è per questo che ora la finta sinistra se la ride senz’aver nulla da ridere, dal profondo del suo abisso: perché pensa di ricominciare con Salvini (Dio glielo conservi) il comodo giochino dell’ultimo quarto di secolo, quando incassava voti gratis da chi non l’avrebbe mai votata agitando lo spauracchio del Caimano il giorno del voto, salvo poi inciuciarci fino alle urne seguenti.

È l’eterno teatrino destra-sinistra, buono per fregare gli elettori, che sogna chi vede un “ritorno al bipolarismo” (destre al 49, Pd al 22,7, M5S al 17): il suo obiettivo non è sconfiggere Salvini, ma tenerselo stretto per annientare chi gli ha rotto il giocattolo del “siamo meno peggio degli altri”. Può darsi che la truffa funzioni di nuovo e che il M5S sia destinato a rapida estinzione. Ma può pure essere che, con una dirigenza collegiale, una gestione saggia dell’inevitabile rottura con Salvini, una traversata del deserto all’opposizione per riorganizzarsi sui territori e ritrovare l’identità smarrita, sopravviva o addirittura riviva. Se ci riuscirà, sarà un bene non solo per i grillini (dei quali ci importa ben poco), ma anche per l’Italia. Perché costringerà Salvini a mostrare ai suoi fan di cosa è capace come uomo di governo e il Pd a dire qualcosa di meglio che “votateci perché di là c’è il babau”. Di Maio, dopo il ko, è un pugile suonato. Ma resta il più bravo fra i suoi. Purché si liberi dei lacchè e dei miracolati pronti a tradirlo al primo inciampo. Si circondi di gente valida, cioè critica. E abbandoni le piazze virtuali (tv e sondaggi) per tornare in quelle vere. Se oggi sarà confermato capo politico dagli iscritti, nell’imbarazzante plebiscito con un solo candidato, non dovrà scambiarlo per una rivincita sulle urne, come fece Renzi con le primarie interne dopo la débâcle referendaria. Sei milioni di voti persi non si cancellano con qualche migliaio di clic. Ma sono recuperabili. Soprattutto i 4 milioni finiti nell’astensione. Che sono lì in attesa di un segnale chiaro. Possibilmente quello giusto.

Freddo, pioggia, salite e fatica: il Mortirolo è di Nibali e Ciccone

Aspetti Nibali, arriva Ciccone. Di nome Giulio, abruzzese di Chieti ma bergamasco d’adozione. Appena ventiquattro anni. Conquistò la tappa di Sestola al Giro del 2016, terzo vincitore più giovane di sempre, dopo Coppi e Marchisio. Ha vinto a Ponte di Legno, tre anni dopo: la tappa più emblematica di questo Giro. Quella dell’infame Mortirolo, dalle rampe assassine, 12 chilometri senza tregua: ieri, ciclismo d’altri tempi. Un cappuccio di nubi scure al valico, flagellato da scrosci di pioggia e folate di grandine. Una folla stoica di eroici tifosi. La strada, un ruscello. È qui che nacque il mito del Pirata, 25 anni fa: “Sono cresciuto a pane, Nutella e Pantani”, mi confida Ciccone, che sorride sornione. Ha il senso dell’humour, gli occhi furbi, è magro come uno stecchino: pesa 61 chili. È tenace: dall’inizio del Giro si è gettato sempre in fuga per catturare i punti dei gran premi della montagna. Gli scalatori sono una razza a parte: la più amata dal popolo delle due ruote. Impersonano l’essenza del ciclismo. Fatica, sacrificio, coraggio, fantasia. Peccato che Giulio vada piano a cronometro, “è il mio tallone d’Achille”. Altrimenti staremmo a parlar di lui invece che di Richard Carapaz, l’attuale maglia rosa. Ha pure rischiato di sciupare l’impresa del Mortirolo. La mantellina che serve per proteggersi dal freddo in discesa era troppo lunga e non riusciva a infilarsela, “avevo i guanti bagnati, così l’ho gettata via”. Un tifoso gli ha allungato un giornale, l’ha infilato lesto sotto la maglietta.

Lo seguiva come un’ombra il possente ceco Jan Hirt, l’unico a resistergli. Mai, però, un cambio: “Tocca a te, ho sempre tirato io”, ha gridato più volte Ciccone al parassita Hirt, “no, non tiro”. Ciccone è in crisi, per il freddo. Teme la beffa. In vista del traguardo, scatta come una furia. Hirt non riesce a tenergli la ruota. L’italiano scaglia lontano gli occhiali: “Non so perché l’ho fatto: per rabbia. Per emozione. Volevo a tutti i costi la tappa. Ci sono riuscito, ma che paura!”. Primo sul Mortriolo, primo alla fine della tappa.

E Nibali? È l’altro protagonista. Ha incendiato la corsa un paio di chilometri dopo l’inizio del Mortirolo. Un allungo deciso ma non suicida. Roglic è rimasto con le gambe in croce. Hanno accusato anche i migliori. Saggiamente, la maglia rosa Carapaz che forse avrebbe potuto riagguantare Nibali, chiama il compagno Antonio Pedrero che si trovava più avanti, nel gruppo ormai sbriciolato dei fuggitivi di giornata: “Siete in quattro”, gli risponde Pedrero, “mantieni il passo, lascialo sfogare e poi recuperate senza andare fuori giri”. E così è successo.

Appena dopo aver lasciato indietro la maglia rosa e i suoi accoliti, Nibali raggiunge uno della polacca CCC, Francisco Ventoso. Un ragazzo generoso: gli passa la borraccia. Poco dopo, altro siparietto da libro Cuore del pedale. Lungo la salita Vincenzo Nibali accosta il fratello Antonio che era andato in fuga – insieme ad altri 19 corridori – con Damiano Caruso. Antonio gli cede una bottiglietta d’acqua e delle tavolette energetiche che Nibali non piglia. Caruso, intanto, segue i corridori di testa: Ciccone, Cattaneo, Masnada e Hirt. Di nuovo tutti insieme, Nibali, Carapaz, Landa e Lopez, più il british McCarty tarellano in discesa e nel falsopiano che precede il traguardo, mentre Roglic, aiutato da Simon Yates e Mollema, cerca di limitare i danni. Al controllo antidoping Nibali resta 49 minuti: “C’erano altri davanti”. Infreddolito ma soddisfatto. È secondo in classifica, ha superato Roglic. Ma Carapaz ha 1’47” di vantaggio: “Sono molti. È un duro. Ma lo sono anche io”.

Debiti e documenti, le bugie di Pamela oltre il caso “Mark”

E fu così che la storia del ricercato più famoso degli ultimi anni – Mark Caltagirone – finì nel programma col nome giusto: Chi l’ha visto?. Non è uno scherzo. Pamela Prati stasera sarà davvero ospite di Federica Sciarelli che in passato ha dedicato vari servizi al romance scam, truffe amorose in cui persone nascoste dietro a profili fake adescano donne e uomini per farli innamorare virtualmente e spillare loro soldi. Peccato che il ruolo della truffata, a Pamela Parti, si addica poco. Di bugie, nelle scorse settimane, Pamela Prati ne ha raccontate parecchie. E nel cercare di ricostruire la sua vita dopo i fasti del Bagaglino, viene fuori un caos di piccoli e grandi problemi legali e finanziari in cui la Prati non pare mai la vittima.

Partiamo dalle sue dichiarazioni a Verissimo. “Non ho debiti, sono calunnie”. Ma Pamela Prati è inseguita dal Fisco da anni, tanto che il suo cachet di circa 3.000 euro per l’intervista rilasciata a Mara Venier a Domenica In nella quale raccontò di aver già sposato Mark Caltagirone è stato pignorato dal Fisco. Le è stato comunicato con una email dalla contabilità Rai il 2 maggio. In passato alcuni pagamenti a lei destinati erano transitati attraverso la società Birimbella intestata a Paola Pireddu (il nome all’anagrafe di Pamela Prati), la cui sede legale è proprio l’abitazione della Prati in zona Parioli, ma la Rai, in questo caso, ha preteso di intestare il contratto alla persona fisica.

Secondo alcuni, Pamela Prati avrebbe cambiato il suo nome all’anagrafe in “Pamela Prati” pochi anni fa proprio per sfuggire ai creditori: “Non è vero, come Gabriel Garko e tanti artisti ho deciso di adottare il mio nome d’arte in via definitiva”, smentisce lei. Eppure raccontano che lei usi ancora tutti e due i documenti. “Ho entrambi i documenti, è vero, ma uso quello di Pamela Prati. Lo Stato lo sa, non è un reato”. E sul pignoramento del suo cachet replica: “Chi è che non ha debiti oggi? È una cosa mia personale, non la volevo dire alla conduttrice, Silvia Toffanin”.

Alla Toffanin, però, ha raccontato un sacco di bugie, tanto che, come rivelato dalla sua ex amica e socia Pamela Perricciolo ieri al Fatto, i 40.000 euro pattuiti per le sue ospitate a Verissimo le sono stati congelati perché “Mediaset sta valutando di costituirsi parte offesa per truffa”. Del resto la Prati sostiene a lei i soldi non interessano e che mentre le sue due agenti, Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, hanno un passato di infiniti problemi che le precedono, lei è senza macchia. Sarà. Ma di storie che la vedono coinvolta in qualità di “debitrice” ce ne sono tante.

Una testimone racconta che qualche anno fa affittò un immobile alla Prati. Che dopo poco ha smesso di pagarle l’affitto e, invitata ad andarsene, ha accampato scuse per lungo tempo finché non è stata intentata una causa. Il conto corrente della Prati fu pignorato e ci fu un accordo economico raggiunto dai rispettivi avvocati per chiudere la vicenda. Il tutto è testimoniato da documenti e conversazioni via Whatsapp.

Perfino l’attuale avvocato della Prati, Irene Della Rocca, che nel programma Storie italiane ha affermato di lavorare sull’ipotesi di “circonvenzione di incapace” ai danni della sua assistita, reclama dei pagamenti da Pamela dall’8 aprile. In tutto ciò, la Prati risulta pensionata. Percepirebbe 1.200 euro al mese di pensione, ma lei smentisce anche questo: “Sei male informata, prendo molto di più”.

Poi ci sono altre beghe legali piuttosto bizzarre. Un paio di anni fa, Pamela Prati è stata denunciata da alcuni poliziotti fuori dallo stadio Olimpico a Roma perché pretendeva di entrare da un ingresso per vedere la partita e non le veniva consentito. A quanto pare aggredì fisicamente due poliziotti che la denunciarono, con altri 20 colleghi lì presenti pronti a testimoniare. “Erano loro molto aggressivi, io non ho fatto niente di male, ma non li ho denunciati. Non so neanche se sono rinviata a giudizio o se hanno archiviato, lo chiederò agli avvocati. Anzi, non so neanche se sono stata denunciata”. Eppure se è stata denunciata dovrebbe saperlo. Lei ammette che le era “arrivato qualcosa a casa su questa cosa”, ma lei lo aveva “girato all’avvocato”.

Capire dove sia la verità con Pamela Prati è sempre una faccenda complessa. Anche a voler credere che inizialmente sia stata vittima di una truffa sentimentale ordita da qualcuno (la Perricciolo? La Michelazzo? Entrambe?) che si fingeva Mark Caltagirone e che quello dichiarato della Perricciolo sia falso (“La Prati gestiva l’account di Mark Caltagirone”), in tv a dire “Io e Mark ci siamo già sposati” o “Io e Mark ci siamo conosciuti a una festa, ci siamo riconosciuti al primo sguardo”, c’è andata lei. Difficile non pensare che almeno da un certo momento in poi la Prati non sia stata al gioco. “Io sono una persona trasparente, ho le mie fragilità, mi è morta una sorella un anno fa. In tv non volevo andare, mi hanno detto che lo dovevo fare. E non andavo per soldi”, replica lei. Però i soldi per le ospitate li ha chiesti. E ha firmato un accordo di riservatezza con quelle che accusa di essere le sue carnefici. Risposta: “Io non lo so perché l’ho firmato. Comunque ho chiesto all’avvocato e quell’accordo non vale niente”.

Insomma, va in tv perché obbligata, non vuole soldi ma li chiede, mente perché le dicono di mentire, firma senza sapere perché, viene denunciata per aggressione ma è lei la aggredita, ha i doppi documenti ma allo Stato va bene, ha debiti ma giura di no in tv. Intanto, con voce rotta dalla commozione, chiede: “Vorrei solo che l’Italia smettesse di parlare di me”. Dopo due minuti aggiunge: “Domani vado ospite a Chi l’ha visto? in quanto persona vittima di un inganno”.

Springsteen e la solitudine dei nuovi poveri cristi

Li incontri lungo il cammino, e subito capisci perché stiano soffrendo. Gli uomini incarnati da Springsteen: virilmente sentimentali, pervasi da una quieta disperazione, eppure mai domati, come quel fiero mustang che si avventura verso solo lui sa dove. Sì, certo, c’è la Strada nel nuovo album del Boss (il suo diciannovesimo, in uscita il 14 giugno). Ma non sembra l’America incarognita di Trump e dell’ipnosi collettiva generata dai social. Nelle mappe tracciate da queste canzoni di Western stars ti ritrovi dannatamente solo, come una volta: puoi smarrirti senza connessione, del telefono troverai giusto i pali che ondeggiano al vento della prateria.

È un tempo perduto, questo, o forse ritrovato: in nome di una Libertà che aveva fondato l’avventura originaria del Nuovo Mondo, e che oggi impatta contro i muri al confine. E contro l’ossessione tecnologica che ti bracca ovunque: con uno scarto creativo, Bruce l’ha cancellata dalla narrazione. Il suo Uomo ricorda l’Harry Dean Stanton del Paris Texas wendersiano, che incede in un deserto dell’anima dove è meglio tacere, tanto nessuno potrà capirti, immerso come sei in quell’odissea iperrealista, sotto la luce dei grandi spazi che non ti risparmia mai. È un viaggio a ritroso, questi devono essere gli anni Sessanta, al massimo i Settanta, una sottile nostalgia che odora di storie non vissute, ma che ti entrano sottopelle come le spine dei cactus. L’aveva detto, Springsteen, che questa sua nuova sortita solista sarebbe stata ispirata dai cantautori di quaranta anni fa: e come non cogliere, qui, gli echi dei vagabondi di Jimmy Webb o la caccia ai fantasmi del cuore di Roy Orbison? Sì, questo è un disco che i fans meno innamorati dell’America profonda faticheranno ad accettare, per via di certe ostentazioni country e di qualche orchestrazione à la Bacharach. Ma se vi lasciate portare senza pretendere tutto come nelle tempeste rock con la E Street Band (qui ci sono solo il vecchio ex sodale David Sancious, e Charlie Giordano o Soozie Tyrell, e la mogliettina Patti Scialfa), Bruce vi indicherà il regno di una salvifica solitudine, dove ciascuno potrà ritrovare memoria di sé, in un rito che oggi torna a essere sovversivo. Eccoli, i perdenti, e Springsteen li dipinge con nettezza assoluta, come protagonisti rubati ai romanzi di Cormac McCarthy o di Philipp Meier. Cosa sussurra il vento, a questi losers? La parola non è più il “born to run” incosciente della gioventù, qui la consapevolezza ti ammazza come un secondo bicchiere che riempi davanti a te, sapendo che non lo berrai perché è un brindisi con lo spettro della donna che ti ha lasciato. È un richiamo che ti tiene sveglio tutta la notte come la lista delle cose fatte male: in cima c’è sempre il nome di lei. Oppure è una sensazione nella bocca: ci senti dentro delle pietre, sono le bugie che questa ragazza ti ha detto, ma lo hai capito troppo tardi.

Dove puoi rifugiarti? Ci provi al “Moonlight Motel” della struggente canzone che chiude il disco, ma a infilarti sotto le coperte ruvide sarai solo tu, e questo è un nascondiglio per amanti. E allora via senza posa, come fa l’autostoppista di “Hitch Hikin’”, o il viandante di “The wayfarer” che fa girare le ruote dell’auto quando rintocca la mezzanotte, o l’altro povero Cristo che spera che la sua bella scenda dal “Tucson train” perché vuole dimostrarle quanto sia cambiato. C’è l’attore in disarmo di “Western stars” che se gli paghi una bevuta ti racconterà della scena con John Wayne. C’è l’avventore dello “Sleepy Joe’s Cafe” che va a rintanarsi nel locale messo su da un veterano in questo buco di culo di posto, e non dovremmo essere lontani dal confine, vista l’atmosfera Tex-mex. C’è lo stuntman pieno di cicatrici di “Drive fast” che ancora vorrebbe pigiare sull’acceleratore o affrettarsi verso casa con quei ferri nella gamba, illudendosi di rimettere a posto i pezzi della vita. E ci sono i cavalli i “Chasin’ wild horses”, ma la mente ti gioca il solito brutto scherzo e l’ondeggiare selvaggio delle criniere ti ricorda la chioma della tua donna, ed è un altro pugno allo stomaco.

L’ha scritto prima e durante un anno di vertigine affabulatoria a Broadway, questo “Western stars”. In autunno Springsteen inciderà un nuovo disco rock con la E Street Band, poi tornerà qui in tour. Amerete od odierete queste sue tredici ballate. Ma seguitelo sempre. Soprattutto ora.

Jihadisti, la pena capitale imbarazza Parigi

Brahim Nejara, 33 anni, è partito per la Siria nel 2014 da Meyzieu, periferia di Lione, una delle culle del jihadismo francese, portando con sé la moglie e la figlia, per arruolarsi nello Stato Islamico. Stando al Centro di analisi del terrorismo di Parigi citato dai media francesi, Nejara, francese di origini tunisine, avrebbe partecipato a un video di propaganda dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015 che hanno fatto 130 morti. In Siria avrebbe frequentato anche uno dei kamikaze del Bataclan, Foued Mohamed-Aggad. Nejara è stato condannato ieri dal tribunale di Baghdad all’impiccagione per avere aderito all’Isis. Altri cinque francesi sono nelle stesse condizioni. Per la Francia si tratta di sentenze senza precedenti. A marzo la magistratura irachena aveva annunciato di aver condannato già 500 foreign fighter europei. Per un’altra francese, Mélina Boughedir, 27 anni, la pena all’impiccagione è stata trasformata in appello a 20 anni di reclusione.

La questione è delicata. Parigi, che ha abolito la pena di morte nel 1981, ma ha rimesso alla legge di Baghdad i suoi jihadisti, si trova ora in difficoltà di fronte a una giustizia sommaria. “Il governo ci aveva garantito un processo equo anche in Iraq”, ha detto Nabil Boudi, legale di Léonard Lopez.

Il suo cliente, 32 anni, è partito verso l’Iraq e la Siria nel 2015 ed è già stato condannato in contumacia in Francia per il suo attivismo sul sito Ansar Al-Haqq che inneggia al jihad. Secondo il legale, Lopez sarebbe stato condannato “solo sulla base di interrogatori nelle prigioni di Baghdad” e senza prove a carico. Nei tribunali iracheni le udienze che portano alla pena capitale durerebbero al massimo “dieci minuti”. In Francia l’82% dei francesi, secondo uno sondaggio Odoxa di marzo, preferisce che i jihadisti restino in Iraq. Il 67% di loro è contrario anche al ritorno dei figli del jihad, i bambini nati o arrivati molto piccoli nelle zone di guerra. Lo scorso febbraio, da dati ufficiali, Parigi, che dice di analizzare le situazioni dei minori “caso per caso”, ha fatto rientrare 89 bambini. Più drastica è la posizione sui foreign fighter, uomini e donne. Neanche due mesi fa il ministro degli Esteri, Yves Le Drian, li ha definiti “nemici della Francia”. Per loro “nessun rientro in patria è possibile”. Da due giorni Le Drian assicura che il governo sta “moltiplicando le azioni” perché si possa evitare la pena di morte. Intanto l’Associazione francese delle vittime del terrorismo (AFVT) ha lanciato un appello perché anche i jihadisti vengano condannati “nel rispetto dei diritti fondamentali”. Un’altra dozzina circa di ex miliziani francesi è in attesa di giudizio in Iraq.

Polveriera Kosovo Belgrado suona tamburi di guerra

L’esercito è in massima allerta. I blindati serbi si dirigono a sud e fanno sventolare il tricolore slavo di guerra. Un cacciabombardiere Mig29 trancia in due le nuvole sorvolando il cielo della più nervosa tra le frontiere balcaniche. Sono queste le informazioni in arrivo da Belgrado dopo un ennesimo giorno di scontri al confine kosovaro.

Tra i murales dei generali serbi delle vecchie guerre, le miniere di carbone ormai abbandonate, nel territorio conteso del Kosovo nord, i poliziotti di Pristina hanno sparato gas lacrimogeni all’alba per arrestare 28 persone “per reati di corruzione, contrabbando merci, affiliazione ad un’organizzazione criminale”.

A fucili automatici spiegati, con i passamontagna neri sui volti, le forze speciali kosovare, strisciando per le strade poco asfaltate dei villaggi Zubon Potok, Zvecan, Leposavic e la città di Mitrovica, – epicentro dell’enclave slava –, hanno ammanettato, tra i 28, anche 11 serbi. Tra loro c’erano dei membri della polizia. Questa operazione è solo una “scusa”. Si aggiusta gli occhiali sullo sguardo serio, si allenta il nodo alla cravatta nera e se ne va tra gli applausi del suo Parlamento il presidente Aleksander Vucic. Per lui la vicenda è un attacco alla minoranza slava che non ha mai abbandonato il territorio, chiosa alle tv nazionali per ribadirlo ai suoi cittadini, ma vuole farsi sentire fino a Bruxelles, in Europa: se la Rosu, forze speciali della polizia kosovara, non si ritira immediatamente dall’enclave slava, Belgrado promette di reagire. “Se un’escalation del conflitto avverrà, se i serbi verranno attaccati, vi garantisco che la Serbia vincerà”. Profeta di una nuova guerra prossima, annuncia intimidatorie contromisure. Gli fa eco il politico slavo Marko Djuric: “Questa è una minaccia non solo alla stabilità, ma alla pace. Se non vi fermate subito, nessun dubbio: reagiremo”. Tra l’Europa e la Russia: il prezzo da pagare per varcare la soglia dell’Unione Europea per la Serbia rimane da sempre il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, dichiarata nel 2008, quasi dieci anni dopo i bombardamenti Nato su Belgrado nel 1999.

Tra gli arrestati nell’operazione condotta dalla polizia di Pristina anche due russi dell’Unmik, missione Onu. Un cittadino della Federazione russa era “camuffato sotto il velo diplomatico per mandare a monte l’operazione”, tuona il presidente kosovaro Hasim Thaci. Da Mosca il Cremlino, da sempre primo alleato di Belgrado, ripete la stessa parola di sempre: provokazia, una provocazione per intimidire e favorire la tensione.

La missione Nato della Kfor, – e tra gli europei ci sono gli italiani dispiegati tra le colline, le mezzelune delle moschee, i crocifissi ortodossi dei monasteri serbi e i merli della regione –, continua ad invitare alla calma monitorando la situazione. Dopo l’alba di tensione di ieri, un tramonto fatto di riunioni nei due Stati balcanici.

A Pristina il presidente Hasim Thaci ha convocato tutti i responsabili degli organi di sicurezza e giustizia. A Belgrado Vucic ha convocato una riunione urgente del Consiglio per la Sicurezza nazionale per le prossime mosse da fare. A Kosovska Mitrovica, il simbolo di una guerra finita, ma mai del tutto e non per tutti, la città divisa in due da un ponte sopra il fiume Ibar, la frontiera è tornata chiusa. Il confine incandescente. A nord rimangono i serbi, a sud i kosovari. La guerra è finita ma proprio come allora di notte continuano a suonare le sirene d’allarme in città.

Le ultime ore di Bibi. Gli ultra-ortodossi ricattano Netanyahu

Sono trascorsi meno di 50 giorni dalla notte delle elezioni, quando un trionfante Benjamin Netanyahu salì sul palco a Tel Aviv per celebrare la sua ennesima vittoria, mentre in molti lo davano per spacciato. Lunedì notte, quando si è presentato alla Knesset per incontrare i suoi fedelissimi, appariva un uomo umiliato e disperato, che lotta per difendere la sua sopravvivenza.

Con una manciata di ore alla scadenza della mezzanotte di oggi, il primo ministro Netanyahu non riesce a formare un nuovo governo. Per tenere unita una maggioranza di sette diversi partiti ha dovuto fare molte promesse in campagna elettorale, spesso anche in contrasto fra loro. Ma l’importante in aprile era vincere contro i centristi e il partito dei Generali – Kahol Lavan – e far votare immediatamente alla nuova Knesset una legge che gli desse l’immunità di fronte ai 3 diversi processi che dovrà affrontare nei prossimi mesi.

Le cose si sono sviluppate diversamente, e ieri Netanyahu ha ottenuto l’ok dal suo partito di presentarsi ad elezioni anticipate assieme al partito centrista Kulanu del ministro delle finanze Moshe Kahlon. “La cooperazione passata – ha affermato – ci ha consentito di aver la meglio sui media e sulla sinistra. Andiamo assieme, e vinceremo”. Avigdor Lieberman leader del partito nazionalista Yisrael Beitenu, non ci sta infatti all’alleanza e i suoi 5 deputati sono fondamentali per raggiungere la maggioranza. Non entrerà nel governo se non farà parte del programma la riforma del servizio militare per i ragazzi religiosi delle yeshiva, delle scuole talmudiche. Provvedimento apertamente osteggiato dai 3 partiti religiosi della maggioranza. Per evitare che il presidente Reuven Rivlin dia l’incarico a un altro leader politico, il Likud ha fatto approvare lunedì notte in prima lettura un provvedimento per lo scioglimento della Knesset e la convocazione di elezioni il 17 settembre. Il testo deve passare ancora in seconda e terza lettura, ma ciò potrebbe avvenire anche in poche ore. Lieberman continua ad insistere di ritenere Netanyahu l’unico premier possibile, ma dice anche che, se non si troverà un accordo sulla leva, è meglio andare ad elezioni anticipate. Le ragioni per cui Lieberman ha deciso di far fuori il suo vecchio capo – iniziò la sua carriera come assistente volontario di Netanyahu 30 anni fa – sono complesse. Lieberman, – in passato sfuggito ad accuse di riciclaggio e frode – non è un difensore dello stato di diritto o dei valori democratici liberali. Ma secondo i suoi calcoli il tempo per Netanyahu sta per scadere e se vuole salvarsi questo è il momento di saltare dalla nave. E lo sta facendo con molta attenzione, scegliendo una questione di principio – la legge che impone anche agli studenti ultra-ortodossi delle scuole talmudiche il servizio militare – come la questione su cui rompere con Netanyahu.

Lieberman ha il più acuto istinto politico nella Knesset. E ha concluso che anche se Netanyahu riuscisse a formare una coalizione di governo, e forse persino a far approvare una qualche forma di legge sull’immunità, alla fine cadrà. L’accusa lo costringerà ad abbandonare il mandato e affrontare il tribunale nel 2020. Con Netanyahu fuorigioco, ci sarà un “liberi tutti” nella destra israeliana, dove non c’è nessun chiaro successore. Naftali Bennett il leader dei coloni con il suo nuovo partito, Hayamin Hehadash, non ha superato la soglia elettorale. Due settimane fa, Gideon Sa’ar del Likud ha fatto il suo primo tentativo di leadership quando ha parlato contro la legge di immunità proposta da Netanyahu. Lieberman si sente in vantaggio e sta facendo la sua mossa. È sempre possibile una riconciliazione dell’ultimo minuto se Lieberman, otterrà tutto ciò che richiede. Appare però assai improbabile. In questo caso, Netanyahu sarà più vulnerabile e esposto agli “appetiti” dei suoi alleati ma avrà ancora la sua maggioranza e sarà premier. Viste le premesse, il suo quinto governo potrebbe avere però un’aspettativa di vita breve.

Un altro scenario, che appare molto probabile, è che il piano di Netanyahu per dissolvere la Knesset, già depositati tre disegni di legge, passi. Per legge, se Netanyahu non riesce a formare una coalizione entro stasera, il presidente Rivlin può riavviare le consultazioni e conferire a un altro parlamentare il mandato di governo. Sciogliere la Knesset e convocare elezioni è l’unico modo per prevenirlo. Perché Netanyahu è terrorizzato dalla prospettiva che qualcun altro possa diventare primo ministro. Per questo ha bisogno che la maggioranza della Knesset voti per sciogliersi entro la mezzanotte di oggi per poi tornare al voto e sperare in un altro miracolo elettorale. Una mossa disperata per invertire un destino segnato.

Auchan passa nelle mani di Conad, rischio di chiusure e licenziamenti

L’obiettivo di Conad è dare un’accelerata all’acquisto delle concorrenti Auchan e Sma, operazione annunciata la scorsa settimana. Si punta a chiudere entro le fine dell’estate, così da mettere subito in piedi il colosso della grande distribuzione e sfruttare il periodo a ridosso delle festività natalizie. Durante l’incontro di ieri al ministero dello Sviluppo economico non è però stato rivelato quale sarà il destino dei quasi 25 mila lavoratori coinvolti in questo passaggio.

Il rischio concreto è che una parte di questi si trasformi in esuberi e vadano incontro al licenziamento. Ma i vertici di Conad, pur sollecitati dai sindacati del commercio di Cgil, Cisl e Uil, non hanno chiarito questo aspetto. Il timore riguarda gli 8.273 dipendenti della Sma e i 9.478 di Auchan e i circa 6 mila impegnati nei punti vendita affiliati. In particolare, i sindacati pongono il problema degli 800 impiegati addetti alle funzioni centrali: Conad potrebbe non avere bisogno di buona parte di questi in quanto ha già una struttura che svolge quei compiti.

A mettere in pericolo la tenuta dell’occupazione è anche l’integrazione tra i diversi modelli adottati dalle due catene che stanno per fondersi. “Conad è un consorzio tra dettaglianti – spiega Vincenzo Dell’Orefice della Fisascat Cisl – e non sappiamo chi gestirà i nuovi punti vendita, insomma chi deterrà le chiavi dei negozi? Potrebbe accadere che dopo l’operazione complessiva abbiano l’ok anche dall’Antitrust e poi girino ad altri la gestione diretta dei punti vendita. A quel punto potremmo trovarci a doverli inseguire caso per caso sui territori e trattare con le variegate forme societarie che gravitano attorno alla galassia Conad”. Insomma, questo si trasformerebbe in una beffa, perché non avremmo una trattativa unica a livello nazionale, ma una miriade di piccole vertenze con aziende locali più piccole e questo renderebbe anche più difficile il sostegno degli ammortizzatori sociali che nel commercio possono essere attivati a partire da un minimo di organico. Ecco perché secondo i sindacati è importante affrontare da subito la questione del modello organizzativo.

I vertici Conad presenti al ministero hanno però dato informazioni solo sulle modalità di passaggio di mano, che avverrà attraverso l’acquisizione del pacchetto azionario oggi in mano ad Auchan Retail Spa, società che a sua volta controlla le due aziende. Il subentro riguarderà 46 ipermercati e 219 tra supermercati e negozi di prossimità ma dovrà essere autorizzato dall’Antitrust che farà un controllo provincia per provincia. I market con insegna Sma/Simply presenti in Sicilia non sono coinvolti e dovrebbero essere ceduti a un soggetto locale, il gruppo Arena.

La ricerca non può essere controllata dalla politica

Il caso dell’azienda farmaceutica Irbm che, come riportato dal Fatto, ha ottenuto più di 50 milioni di fondi destinati alla ricerca pubblica senza bando mette in luce un aspetto cruciale dei rapporti tra politica e scienza. La vicenda è stata infatti portata alla luce dall’unico rappresentate dei ricercatori, Vito Mocella che ha condotto una battaglia solitaria e meritoria, nel cda del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Vediamo dunque com’è scelta la “testa” del più grande ente di ricerca del Paese.

La maggiore critica che è stata fatta nel passato alla ricerca e agli scienziati di vertice è di essere autoreferenziali, di agire in conflitto d’interessi, e per questo di non essere utili al Paese e alla sua economia. Secondo una visione un po’ caricaturale ma molto in voga, l’accademia genera naturalmente comportamenti “baronali” e per evitare questa situazione la legge ha previsto che il consiglio di amministrazione del Cnr sia composto da cinque membri nominati dal ministro della ricerca di cui tre, tra cui il presidente, scelti direttamente dal ministro e due tra quelli indicati dalla Conferenza Stato-Regioni, dalla Crui (la Conferenza dei rettori), dalla Confindustria, da Unioncamere e dai ricercatori del Cnr.

Il cda è dunque nominato dal governo e gli scienziati dell’ente non hanno avuto voce in capitolo fino al 2015 dopo che i ricercatori hanno condotto una battaglia interna fino a decidere il boicottaggio dell’operato dell’Agenzia di Valutazione che su indicazione del ministero avrebbe dovuto valutare la ricerca del Cnr. Solo in seguito a questa protesta si è data la possibilità al personale dell’ente di eleggere un proprio rappresentate nel cda e di assumere quindi dirette responsabilità di gestione. Grazie a questo cambiamento nella struttura del CdA è stato dunque eletto Vito Mocella, un ricercatore dell’istituto di microelettronica e microsistemi di Napoli. Secondo Mocella prima della sua elezione “Non c’era l’abitudine a discutere le scelte che arrivavano dai soggetti politici e dai vertici del Cnr”.

Mentre non è per nulla chiaro quali miglioramenti alla missione del Cnr, cioè fare ricerca, hanno portato i membri del cda nominati dalla politica (nessuno è interessato alla valutazione dell’operato di questi membri e del loro apporto alla mission dell’ente) essi hanno sicuramente dato un contributo alla gestione del miliardo di euro all’anno che passa per il Cnr e per i suoi 8.200 dipendenti. Dunque, oltre il danno di avere un cda in cui la rappresentanza di chi fa ricerca nell’ente era prima assente ed ora sottorappresentata, vi è la beffa di un cda di nomina politica che, come dice Mocella, non è abituato a discutere le scelte che arrivano dai soggetti politici: un bel capolavoro di conflitti di interesse.

Si poteva far di meglio: ad esempio si sarebbe potuto adottare il modello di governance del prestigioso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dove è la comunità scientifica interna che esprime i vertici dell’ente e dove, come si vede dai risultati, c’è una grande attenzione alle qualità della ricerca e alle istanze dei ricercatori. Non era questo, evidentemente, lo scopo di chi ha ideato la riforma dell’ente che invece mirava, anche in questo bistrattato settore, all’occupazione delle istituzioni pubbliche da parte dei partiti.

Questa deriva nei rapporti tra politica e accademia ha avuto un’accelerazione con la riforma Gelmini e non riguarda solo il Cnr ma tutta la “testa” della ricerca e dell’università. Per esempio, l’agenzia nazionale di valutazione, che sovraintende le carriere dei docenti e la distribuzione dei fondi delle università, ha un consiglio direttivo di completa nomina politica che a sua volta decide non solo gli indirizzi della valutazione ma nomina anche tutta la struttura preposta a perseguire tali obiettivi. In questo modo la rappresentanza dei docenti è stata azzerata a favore di un’élite di nominati che risponde solo alla politica. Si è così formata un’oligarchia, questa sì autoreferenziale e piena di conflitti d’interesse, che ha ingabbiato la ricerca e l’università togliendole non solo risorse ma, cosa ben più grave, limitandone la libertà di ricerca. L’indipendenza della cultura e della scienza che dovrebbe essere garantita dall’articolo 33 della Costituzione, viene nei fatti progressivamente negata aumentando il controllo politico e riducendo le risorse finanziarie.

Nel contratto di governo dell’attuale maggioranza è prevista la creazione di un’agenzia per la ricerca che debba sovraintendere a tutta la gestione dei fondi del settore: niente di più probabile che sia creato un altro “mostro” di management centralizzato legato alla politica (si potrebbe dire di stampo sovietico). Bisogna fare altro: da una parte è necessario garantire, alle istituzioni che ricevono fondi pubblici, la completa indipendenza e libertà per lo scopo e la metodologia di ricerca svolta, e la propria discrezionalità nella ripartizione dei fondi. D’altra parte queste istituzioni devono essere responsabili verso il parlamento (e non il governo): infatti, solo attraverso tale responsabilità è possibile mantenere il giusto rapporto tra scienza e le altre funzioni di un sistema democratico.

Ciò significa che la politica deve stare il più lontano possibile dalle nomine della dirigenza poiché, come scriveva il famoso matematico De Finetti, “soltanto la libertà congiunta alla responsabilità crea rapporto tra esseri umani incoraggiati a sentirsi tali e a fare del proprio meglio”.

Fondazione Cariplo, Guzzetti lascia dopo 22 anni. Arriva Fosti

La Fondazione Cariplo ha il suo nuovo presidente. Si tratta di Giovanni Fosti, docente della Bocconi, che prende il posto di Giuseppe Guzzetti che lascia la guida dell’ente milanese dopo 22 anni. Il neo presidente da sei anni è componente della commissione centrale di beneficenza, l’organo di indirizzo della fondazione. Fosti, 52 anni, originario di Delebio, in provincia Sondrio, è il quarto presidente della Fondazione Cariplo. Sin da ragazzo, negli anni trascorsi in Valtellina, è stato impegnato in attività sociali come volontario. Ha conseguito la laurea in economia aziendale alla Bocconi di Milano. La montagna è la sua passione sin da ragazzo dove trascorre il tempo libero sciando. La carriera professionale si snoda principalmente alla Bocconi, con numerosi saggi sul terzo settore.

Ai vertici di Fondazione Cariplo ci saranno anche Paola Pessina e Claudia Sorlini, elette vicepresidenti. La chiave per il futuro della Fondazione Cariplo sarà l’ascolto dei “bisogni che emergono dai territori”, ha detto Fosti.