Reddito, le nuove regole della carta: no assicurazioni, sì a prodotti hi-tech

Niente gioco d’azzardo, armi o materiale pornografico. Ma anche servizi finanziari, assicurativi, gioielli, quadri e pellicce. Sono le nuove regole della carta del reddito di cittadinanza, definite con il decreto attuativo dei ministeri del Lavoro e dell’Economia che definiscono gli acquisti vietati, tra i quali non compaiono però quelli di elettrodomestici e prodotti elettronici. Resta, invece, l’obbligo di spendere i soldi accreditati entro il mese successivo, pena il taglio del 20% del residuo, mentre il tetto al prelievo di contante è di 100 euro mensili.

Tra gli altri divieti ci sono l’uso della card per i giochi che prevedono vincite, l’acquisto, il noleggio e il leasing di “navi e imbarcazioni da diporto“, così come comprare armi, materiale pornografico, acquisti in gioielliera, pellicceria, nelle gallerie d’arte e affini e in club privati. Infine, un ultimo divieto che ne restringe l’utilizzo della tessera: quello per gli acquisti online.

Austerità, cosa ci insegna il modello Portogallo

Crescere e stabilizzare il rapporto debito-Pil è possibile. Il Portogallo ci è riuscito dopo che nell’aprile 2011 ha chiesto l’aiuto del Fondo salva Stati europeo, da quale ha ottenuto un finanziamento triennale fino al 2014 a condizione di approvare riforme strutturali e di ridurre il debito pubblico. In quella fase il Portogallo era a un passo dalla crisi finanziaria, aveva difficoltà a rinnovare il debito in scadenza, nonostante rendimenti decennali sul debito pubblico al 10 per cento.

Dopo l’introduzione del piano di riforme, la crescita che è rimasta negativa nel 2012 e nel 2013, poi ha avuto una drastica accelerazione per stabilizzarsi intorno al 2 per cento reale annuale dal 2014, il costo del finanziamento del debito è precipitato, i rendimenti sui titoli di Stato decennali fluttuano ora intorno all’1 per cento. Il rapporto tra debito pubblico e Pil è passato dal 130 per cento del 2013 ai livelli attuali, prossimi al 120 per cento.

C’è qualcosa che l’Italia di oggi può imparare dal Portogallo dal 2011? Per capire il successo portoghese va ricordato che il rapporto tra debito e Pil dipende da due componenti: il disavanzo primario e l’effetto del debito-Pil pregresso, misurabile dal prodotto tra il rapporto debito-Pil e la differenza tra il costo di finanziamento del debito e il tasso di crescita dell’economia. Come ha sottolineato l’ex capo economista del Fondo monetario Olivier Blanchard, se il costo di finanziamento del debito pubblico è più basso del tasso di crescita dell’economia, la stabilizzazione del rapporto tra debito e Pil si può ottenere anche senza austerità fiscale, cioè anche con disavanzi primari “responsabili”.

Come osserva Ricardo Reis in Looking for a success in the euro crisis adjustment programs: the case of Portugal (Lse, novembre 2015), il meccanismo di stabilizzazione portoghese non è passato tanto attraverso una austerità mirata a ridurre i disavanzi primari causati da un sistema pensionistico troppo generoso per essere stabile, ma piuttosto si è retto su politiche di riforme strutturali del mercato del lavoro e del credito accompagnate dalla costruzione di un consenso sull’importanza della stabilizzazione del rapporto tra debito e Pil. I tre principali partiti hanno riconosciuto la necessità di astenersi da politiche fiscali poco responsabili. Questo consenso trasversale, nella politica e tra l’elettorato, è stato probabilmente aiutato e stimolato dai vincoli imposti dal fondo salva Stati e ha ridotto l’incertezza sulla sostenibilità finanziaria. Quindi il premio per il rischio richiesto dagli investitori in titoli di Stato portoghese è sceso. Le riforme strutturali hanno rilanciato la crescita riparando un problema storico del Paese che non cresceva perché non riusciva a riallocare le risorse dal settore meno produttivo dei beni non-commerciabili a quello produttivo dei beni commerciabili.

Il successo del Portogallo non nasce dunque da una crudele austerità ma da riforme strutturali del mercato del lavoro e del credito che hanno promosso la crescita, accompagnate dal consenso sull’importanza di non intraprendere politiche fiscali irresponsabili e di mantenere l’economia su un sentiero credibile di riduzione del rapporto debito-Pil.

E veniamo all’Italia: siamo l’unico Paese dell’area Ocse con un costo del debito superiore al tasso di crescita. Questo potrebbe rendere necessarie politiche di austerità severe per stabilizzare il debito-Pil. Tanto più severe quanto più le proposte avanzate dai partiti di maggioranza sono lontane dalla responsabilità fiscale e quanto più scarse sono le proposte di riforme strutturali per promuovere la crescita.

Forse l’Italia non è così lontana dalla crisi e l’opzione dell’intervento dello fondo salva Stati sarà da valutare. Ma dobbiamo proprio arrenderci al fatto che questa è l’unica via di uscita possibile?

Furbetti del cartellino, la vana ossessione di tutti i ministri

Sono giorni decisivi per la Pubblica amministrazione. La prossima settimana si attende l’approvazione del ddl Concretezza, voluto dalla ministra Giulia Bongiorno, che contiene il giro di vite contro i furbetti del cartellino. Una guerra dichiarata 10 anni fa da Renato Brunetta, poi proseguita da Marianna Madia e ora dalla ministra in quota Lega. Che, in accordo con il ministero dell’Economia, ha ideato un fondo di 35 milioni di euro per il controllo delle presenze dei dipendenti pubblici, attraverso sistemi di verifica biometrica dell’identità e di videosorveglianza. Al posto del badge si passerà così alle impronte digitali e al controllo dell’iride. Ma il rischio è che sia un buco nell’acqua.

A dirlo sono i dati pubblicati dal 2013 dal dipartimento della Funzione, anno in cui i licenziamenti furono 199, di cui 80 relativi alle assenze dal servizio. Nel 2014 84 su 227; l’anno successivo 108 su 280. Nel frattempo, con la riforma Madia, si è introdotta la sospensione dei furbetti del cartellino entro 48 ore e il licenziamento dopo 30 giorni. Poi, a partire dal 2016, quando nella lista dei provvedimenti di licenziamento è stata inserita la voce “derivanti da falsa attestazione della presenza in servizio”, si è passato a 31 statali allontanati, mentre 113 sono stati gli “assenti ingiustificati” su un totale di 344 provvedimenti. Nel 2017 i furbetti licenziati sono stati 55, da sommare ai 99 assenti su un totale di 324. Lo scorso anno su 384 licenziamenti, 196 lo sono stati per assenza dal servizio. E di questi, 55 colti in flagrante per falsa attestazione della presenza. Ovvero lo 0,001% dei 3,2 milioni di impiegati statali.

Insomma, negli ultimi 5 anni i dipendenti pubblici licenziati per assenza sono stati solo 766. Tanto che a febbraio scorso, il procuratore generale della Corte dei Conti, Alberto Avoli, ha sottolineato che “si sono susseguite normative sempre più stringenti, ma i risultati non sono stati pari alle aspettative”. “Una Pubblica amministrazione che agisce solo in chiave difensiva – ha detto – rischia di aggravare il suo peso negativo”. Criticità sono state rilevate anche dal presidente del garante della Privacy Antonello Soro. Anche se il suo parere sul ddl non è vincolante, ha evidenziato che “non può ritenersi in alcun modo conforme al canone di proporzionalità, per l’invasività di tali forme di verifica”. Ma la Bongiorno ha, comunque, assicurato che “i dati verranno trasformati in algoritmo e che non lederanno la privacy”. Anche se Soro non ha ritenuto il dato numerico “sintomatico della pervasività generale del fenomeno”. L’assenteismo nella Pa c’è, ma non resta impunito.

Altra cosa è il clamore mediatico. Tra gli ultimi furbetti del cartellino finiti alla ribalta nazionale ci sono il comandante della Forestale in Valle d’Aosta, i dipendenti comunali di Torino, quelli dell’Asl di Foggia. Nord o Sud, fa lo stesso. I controlli ci sono già. Li realizza l’Ispettorato per la Funzione pubblica. Ma alla ministra non basta. Il ddl, infatti, prevede anche un Nucleo per la Concretezza, che avrà il compito di verificare l’attuazione delle disposizioni ministeriali. “Rappresenta una duplicazione, uno spreco delle risorse pubbliche censurabile dalla Corte dei Conti”, ha scritto su Ipsoa Alessandra Servidori, esperta in politiche del welfare.

Sul piede di guerra ci sono anche i sindacati. La segretaria della Cgil Fp, Serena Sorrentino, avverte: “Non è vero che nella Pa non si licenzia e non è vero che non ci sono sanzioni disciplinari. Sembra solo propaganda e davvero poca concretezza”. Attualmente ci sono badge che memorizzano le impronte digitali solo presso la Difesa, i Carabinieri e i Vigili del Fuoco. Categorie che non rientrano nelle misure del ddl. Sono escluse anche l’avvocatura di Stato, i magistrati, i docenti universitari e gli insegnanti. Nel mirino, invece, ci sono i presidi. Paolino Marotta, presidente dell’associazione nazionale dei dirigenti scolastici, è sconcertato: “Non ci sono tra noi casi di indagati o condannati per assenteismo – spiega – siamo in 7 mila e abbiamo mediamente dai 10 ai 20 plessi da dirigere. Ci umilierà davanti agli studenti”. Ma la Bongiorno punta al controllo. Col rischio che sia la Corte costituzionale a vanificare i suoi piani.

Pedemontana veneta, sprechi e veleni come in Campania

Inibià: forse questo aggettivo dialettale che si usa per “l’intorbidarsi del tempo o di un liquido o delle piante quando si ricava l’impressione che abbiano introitato una nebbia maligna”, avrebbe scelto lo scrittore Luigi Meneghello (Maredè, maredè) per definire le terre e il progetto della Pedemontana veneta, la strada che rischia di incepparsi proprio alle porte del suo paese, Malo nel Vicentino. Concepita nel secolo scorso, rilanciata nel 2001 grazie alle “Semplificazioni” (poi definite criminogene) della legge Obiettivo voluta da Lega e Forza Italia, questa superstrada a pagamento di 95 km destinata a tagliare le province di Vicenza e Treviso per raccordare a monte l’A4 e l’A27, è diventata un vero campionario dei mali del Paese, anche prima del recentissimo interessamento della magistratura di Vicenza (che vista la complessità della questione si avvarrà di ben 5 consulenti, dalla finanza all’inquinamento) e dell’invio di ispettori da parte del ministero dell’Ambiente, mettendo a rischio l’apertura prevista a ottobre 2020. Mentre lunedì 3 giugno, dopo mesi di annunci e rinvii, verrà inaugurato iò primo tratto lungo circa 7 km alla presenza del governatore del Veneto Luca Zaia e del vicepremier Salvini che ha sostenuto Zaia nella polemica con il ministro dell’Ambiente Costa.

Un caso emblematico per il più generale problema del processo decisionale sulle grandi infrastrutture”, lo ha definito l’urbanista Mariarosa Vittadini: deroghe, competenze spostate (dallo Stato alla Regione, con forti conflittualità con i Comuni; dal 2017 il commissario è il vice Avvocato generale dello Stato), condizioni mutate (prima riscossione privata poi pubblica, prima residenti esenti dal pedaggio poi paganti…), previsioni sbagliate (ancora pochi anni fa si parlava di 50 mila veicoli al giorno, poi di 33 mila, oggi si spera ottimisticamente in 15 mila), e soprattutto un lievitare di costi che ha dell’incredibile. Nato come modello di project-financing, il progetto della Pedemontana ha comportato un partenariato pubblico-privato così squilibrato e mal fatto che “non solo non ha portato i vantaggi ritenuti suoi propri, ma ha reso precaria e incerta la fattibilità dell’opera stessa”: così, in una relazione del 2017, il giudice della Corte dei Conti Antonio Mezzera che (ne parla Francesco Erbani nel suo libro Non è triste Venezia) seppe denunciare in anticipo, solo e inascoltato, i contorni dello scandalo Mose.

Mezzera ricordava come per la Pedemontana il contributo pubblico a fondo perduto sia passato dai 173 milioni del 2009 ai 914 del 2017; in più la Regione si è impegnata a pagare per 30 anni un canone annuo di 154 milioni al concessionario (nel 2009 erano 14,5!), tenendo per sé le eventuali eccedenze derivanti dalla riscossione dei pedaggi, ma è molto probabile che eccedenze non ve ne saranno (anzi), e che dunque al concessionario andranno utili di miliardi senza rischio d’impresa: un sistema che fa impallidire le concessioni ai Benetton.

E fossero soltanto i soldi. Progettato per il 72% in trincea o in galleria, questo nastro di bitume creerà in un territorio delicato una diga dagli effetti idrogeologici potenzialmente esplosivi. Tra cavalcavia, sottopassi e incroci a raso, il raccordo con le strade esistenti è poi complicato. La galleria Castelgomberto-Malo, la più importante delle sostanziali varianti al progetto (la cui Via è del 2005), è stata impugnata dal comitato CoVePa in un ricorso tuttora pendente al Tar del Lazio, ed è già stata macchiata nel 2016 da un crollo con un morto in cantiere; di certo, sta comportando lo scavo di milioni di metri cubi di roccia. Gli effetti di demolizioni ed espropri del paesaggio rurale non riguardano solo la vita di singole famiglie, bensì la definizione stessa di un intero territorio, come mostra la trilogia Asfalto del documentarista Dimitri Feltrin (un episodio è dedicato agli sbancamenti a Riese, la patria di papa Pio X). Quasi un simbolo gli uccelli (anche specie protette) che muoiono a decine schiantandosi contro le barriere trasparenti non segnalate con gli appositi adesivi, che pure costerebbero poco. E poi c’è il ruolo diagnostico della Pedemontana: scavando una sede stradale più bassa del piano campagna, sono stati trovati 270 tonnellate di amianto e rifiuti tossici a Trissino, un’intera discarica nel cantiere di Montecchio, vicino all’epicentro della contaminazione da Pfas.

È uno scenario degno della Campania, e non è un caso che il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che ha lottato per anni nella Terra dei fuochi, abbia deciso di spedire i carabinieri del Nucleo operativo ecologico ad approfondire la situazione. Il tutto per una strada che fatica a inaugurare un solo tratto, e che rischia di trasformarsi in una Brebemi ancor più inutile e dannosa. Luca Zaia, il popolare governatore pronto con la pettorina quando si verificano le catastrofi ambientali, minimizza gli inciampi (mentre invece già nel 2016 la Commissione parlamentare ecomafie ha mostrato il nesso stretto fra la gestione dei rifiuti e un “contesto di illegalità diffusa” che interessa anche le opere pubbliche), e vuole a tutti i costi appuntarsi sul petto la realizzazione della Pedemontana, che ha da sempre presentato come un tratto della Rete di trasporto trans-europea, essenziale allo sviluppo dell’economia locale, frutto della virtuosa partnership con il privato dinanzi all’immobilismo dello Stato centralista.

Che cosa sia successo davvero in termini di legislazione e di prassi ambientale nel nostro Paese, quante tutele siano state abolite o depotenziate, e soprattutto in che misura il Veneto (la terra di Porto Marghera e del Mose, di Porto Tolle e degli Pfas) abbia configurato un modello per indebolire gli strumenti di tutela ambientale in barba ai principi di precauzione e di condivisione delle decisioni in materia, lo mostrano con chiarezza i saggi raccolti in un prezioso volume a cura di Maurizio Malo, Giustizia per l’ambiente: pace per la comunità (Cleup 2019), in particolare quello duro e illuminante di Matteo Ceruti. Per chi lo legga, la propaganda del governatore troverebbe nel dialetto della Malo di Meneghello un equivalente che oscilla tra “incantonar” (“bloccare in un angolo, figurativamente irretire sul piano delle argomentazioni”) e “insinganar”; cioè “intortare”. L’etimologia è evidente.

La guerra con i francesi è già finita?

C’è un lato di questa maxi-operazione tra Fiat e Renault che non viene molto sottolineato in questi giorni: Renault è un’impresa francese, con lo Stato azionista (15 per cento). Ma l’Italia gialloverde non era in pessimi rapporti con l’Eliseo di Emmanuel Macron? Qualche mese fa, il premier Giuseppe Conte cancellava visite a Parigi, i Cinque Stelle incontravano rappresentanti dei Gilet gialli, la Lega di Matteo Salvini attribuiva le peggiori nefandezze al presidente francese che con i suoi poliziotti sconfinava addirittura Oltralpe per fermare i migranti. Da parte sua, Macron usava l’Italia come bersaglio di ogni attacco anti-sovranista. Sui fronti industriali le tensioni si vedevano eccome: da Stx-Fincantieri alle nomine in STMicroelectronics. E ora, invece, Fiat-Renault passa così liscia? Addirittura con il sovranista Matteo Salvini che celebra l’evento come “una buona notizia”? Come racconta Ettore Boffano in questa pagina, la fusione è un’ottima notizia per gli azionisti, forse garantisce un futuro a due gruppi che avevano bisogno di crescere. Ma è tutto da dimostrare che sia una lieta novella anche per quel che resta dell’indotto italiano dell’automotive. Eppure stavolta la politica tace.

Ci sono due ipotesi. La prima è che la campagna elettorale e i suoi sorprendenti risultati abbiano assorbito tutte le energie mentali dei leader di partito e dei ministri. Se così fosse, il presidente di Fca John Elkann è stato un mago del tempismo. L’altra ipotesi è che il via libera del governo italiano sia arrivato in cambio di qualcosa che ancora non conosciamo. Nel 2011, per esempio, Silvio Berlusconi decise di non opporsi alla scalata di Lactalis alla risanata Parmalat. E poco dopo il presidente Nicolas Sarkozy schierò la Francia a sostegno della nomina di Mario Draghi alla Bce, forse l’unica scelta politica di cui possiamo essere grati a Berlusconi. E oggi qual è la contropartita? Oppure dobbiamo dedurre che tutte le tensioni con Parigi erano solo dovute a una infinita e permanente campagna elettorale?

Fca come La Stampa: gli Agnelli diversificano e intascano un tesoro

L’aneddoto che gira sotto la Mole da ieri mattina è troppo bello per domandarsi se sia anche vero. Raccontano che lunedì, mentre la città attendeva i dati della sconfitta di Sergio Chiamparino alle Regionali, in uno dei palazzi della politica un dirigente della Fiom si sia imbattuto in un collaboratore della sindaca Chiara Appendino. “È in una riunione al piano di sopra – si sarebbe sentito dire il sindacalista – Ora salgo ad avvertirla. So che ti vuole parlare a tutti i costi della Fiat e di questo affare con i francesi. Aspetta un momento, vi faccio incontrare”. Dopo pochi minuti, però, il funzionario comunale è ridisceso con un sorriso mesto: “Ora non può, dice che si rifarà viva…”. Ecco, l’atmosfera che si respira nella Torino del dopo annuncio sulla fusione Fca-Renault – in vista di quell’accordo che, se riuscisse anche a placare la rissa tra i francesi e i giapponesi di Nissan, metterebbe in piedi il colosso dell’auto mondiale (con oltre 15 milioni di auto vendute all’anno) – è proprio questa: e oscilla tra l’indifferenza e l’inerzia.

Comprensibile, se si tiene conto che l’avvento dell’era Marchionne, con l’assorbimento della Chrysler e lo spostamento del baricentro del gruppo negli Usa, aveva già sancito la fine di un processo cominciato con la crisi aziendale degli anni Novanta del secolo scorso: la vecchia one company town, il posto fordista dove “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia” (secondo gli aforismi di Gianni Agnelli, osannati come vaticini), aveva smesso di pulsare come il cuore di un sistema fatto di storia e di tradizione. Sino all’estremo “oltraggio” del cambiamento del nome e del trasferimento delle sedi fiscali della Fca, inventata da Sergio Marchionne, ad Amsterdam e a Londra. Dunque, e con più di una ragione, poco di scandaloso (nel senso evangelico dell’opportunità che gli scandali avvengano) per una città che ha già visto materializzarsi di tutto attorno al suo vecchio feticcio chiamato Fiat. A cominciare dal fabbricone di Mirafiori, un tempo simbolo della produzione italiana e della lotta di classe con i suoi 60 mila lavoratori e, oggi, ridotta al lumicino di una cassa integrazione lunga un decennio e per soli 5 mila occupati (con l’indotto si arriva a 100 mila posti di lavoro).

Ma se il futuro non è più legato all’interrogativo sul ruolo guida del capoluogo piemontese, in una realtà che è ormai impossibile ridurre a una dimensione italiana, resta invece aperta la questione che riconduce la discussione ancora una volta sotto la Mole e in riva al Po. Proponendo un quesito che, per il momento, è stato frequentato solo dal sindacato: che cosa porterà l’alleanza Fca-Renault a Mirafiori e nelle altre fabbriche torinesi del gruppo? Come si concilieranno le sovrapposizioni e le conflittualità tra le diverse piattaforme produttive e che effetti avrà tutto questo per le sorti degli stabilimenti italiani? Infine, che sorte toccherà al progetto della 500 elettrica, che dovrebbe riempire ciò che resta di Mirafiori, e che destino avrà il mitico “polo del lusso” di quel piano di Marchionne esaltato nei commenti agli annunci di ieri (“Solo il suo straordinario lavoro e il rilancio di Fca ci hanno fatto trovare pronti all’appuntamento con Renault”), ma di fatto dimenticato nelle strategie attuali e nelle garanzie, soprattutto per l’Italia e ancora di più per Torino? La mancanza di Marchionne e, per paradosso, di quelle sue partite a carte in pizzeria con l’ex sindaco di Torino e poi governatore del Piemonte Chiamparino, aggiungono inquietudini e preoccupazioni (il manager era stato sempre il più credibile nell’assicurare una qualche continuità subalpina alla ex Fiat). Così come la circostanza che l’ormai sterminata pletora di discendenti del senatore Giovanni Agnelli, radunati nell’accomandita di famiglia, appare del tutto appagata grazie agli oltre 5 miliardi di dividendo distribuiti negli ultimi due mesi.

Una situazione su cui pesano le inerzie, prima ancora che del traballante governo Conte, della sindaca Appendino, i silenzi delle rappresentanze del mondo industriale torinese (se si escludo gli ossequi a John Elkann) e l’enigma su come intenderà muoversi il nuovo governatore Alberto Cirio, forza italiota ma a capo di una giunta a forte trazione leghista, rimasto zitto davanti alle prime indiscrezioni sulla fusione Fca-Renault, persino nelle ultime ore della campagna elettorale (come d’altra parte ha fatto Chiamparino).

Il tutto mentre in città, il nuovo dividendo da 2,5 miliardi distribuito ai soci per consentire la parità di quote al 50% con Renault, viene già giudicato come un avvio della diluizione di fatto dell’impegno della famiglia in Fca, resuscitando le similitudini con le vicende che hanno accompagnato, nel 2017, l’intesa tra il gruppo Itedi (La Stampa-Il Secolo XIX) e il Gruppo Espresso (Repubblica), diventati Gruppo Editoriale Gedi con la quota più forte saldamente in mano ai De Benedetti. Ma dove Elkann continua ad avere un peso addirittura superiore alla quota reale: lo stesso potrebbe dunque accadere un domani con Fca, realizzando l’obiettivo di intascare denaro (l’interesse che sta dietro molti membri dell’accomandita di famiglia e che è già stato soddisfatto, e in maniera cospicua, in queste settimane) e mantenendo un certo qual peso o almeno il prestigio, diversificando a quel punto gli investimenti di Exor e, infine, impedendo che si parli apertamente di una fuga degli eredi Agnelli dalla loro storia.

Le letterine, le rispostine, la nuova Lehman e altre profezie

Oggi, pare, preceduta dall’anticipazione di Bloomberg, arriverà la letterina da Bruxelles firmata da Pierre Moscovici – nominato commissario Ue da un governo e da un partito che non esistono più – che annuncia una procedura per debito eccessivo e relativa multa. Come al solito, poi, il ministro dell’Economia Tria dovrà rispondere. Una cosa tipo: “Ma come? Ma no, dai, proprio a noi! Ma se abbiamo detto che facciamo questo e quello? Ma se c’è la frenata mondiale e i dazi e la Brexit…”. Come finirà la partita del giudizio sui conti pubblici italiani ce lo diranno i mesi e quel finale ci dirà pure qual è il peso politico che il governo italiano avrà nella stagione dell’Ue che s’è aperta domenica. Il punto però è, come spesso capita, un altro: convenuto sull’obiettivo, cioè abbassare il rapporto debito-Pil dell’Italia e il relativo costo in interessi, la “proposta” di Bruxelles è farlo aumentando le tasse e/o tagliando spese per una trentina di miliardi in un biennio? Ma non avevamo già convenuto tra il 2012 e il 2014 – quando lo facemmo e il debito aumentò di 15 punti sul Pil – che non funziona? Se non la razionalità, allora, e di nuovo, il punto è un altro. Per spiegarci prenderemo a prestito la profezia del nostro volto tv preferito, Carlo Cottarelli. Ha scritto ieri su La Stampa: prima pensavo che la crisi sarebbe arrivata in Italia da uno choc esterno, “ora però mi sorge un dubbio: e se fossimo noi il prossimo Lehman Brothers?”. Ecco, ci pare che il problema non sia l’economia e neanche la politica: andrà stabilito, tolte le macerie, se fu cupio dissolvi o jella.

Licenziati via social. L’ultima frontiera della disumanità

Mentre l’Italia andava al voto, i lavoratori di Mercatone Uno scoprivano di non avere più un impiego nel peggiore dei modi, ovvero tramite avviso su Whatsapp e Facebook. Non che sia una novità, anche se ferocia e viltà si perfezionano con inquietante efficienza: negli ultimi mesi le cronache abbondano di storie di precari (rider e non) liquidati via messaggino. Siccome il diavolo si nasconde nei dettagli (o nei particolari c’è Dio, scegliete voi) la modalità con cui oggi si comunica il licenziamento racconta perfettamente cosa sia diventato il lavoro. E comunque sia non tutti i 1860 dipendenti erano stati avvertiti: moltissimi di loro sono andati tranquillamente al lavoro sabato scorso, in un giorno che credevano come tutti gli altri e invece hanno trovato le serrande abbassate e un grande buco a forma di futuro davanti. Come i lettori sanno, in questa rubrica abbiamo spesso citato il lavoro come architrave del dettato costituzionale. Oggi ricorderemo invece un comma ormai totalmente desueto, ovvero il secondo dell’articolo 41, sovente brandito come una bandiera dai turboliberisti, perché definisce “libera” l’iniziativa economica privata. Che però “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Tutte cose purtroppo accadute in una specie di tempesta perfetta nella sconvolgente vicenda di Mercatone Uno.

Esattamente un anno fa la società era passata alla Shernon Holding per volere dei tre commissari nominati dal ministero dello Sviluppo nel 2015 (ministro Carlo Calenda), dopo tre bandi andati deserti e la cassa integrazione per circa 3 mila dipendenti, eredità della gestione dei precedenti proprietari (che sono sotto processo a Bologna per aver distratto, secondo l’accusa, fondi della società per dirottarli in Lussemburgo). Venerdì scorso il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento per venire incontro alle richieste dei fornitori: in meno di otto mesi l’azienda ha accumulato 90 milioni di buco. Dunque oltre ai dipendenti, anche i fornitori sono nei guai: nel tracollo sono coinvolte 500 aziende dell’indotto, che contano circa 10 mila dipendenti, perché Mercatone Uno si è di fatto finanziata non pagando fornitori e locatori di un terzo dei punti vendita per 6 milioni. Alla fine della catena ci sono pure gli inconsapevoli consumatori: fino all’ultimo momento possibile Mercatone Uno ha venduto e ricevuto acconti per merce che probabilmente nessuno vedrà mai nei 55 punti vendita che sono appena stati chiusi. In totale ha incassato 3,8 milioni di acconti per 20 mila ordini da più o meno altrettanti clienti. A questo punto del racconto si dirà: si poteva evitare? “Ci chiediamo chi e come ha vigilato su questa operazione nelle stanze del Mise e nell’amministrazione straordinaria che ha gestito la crisi precedente”, scrive la Cgil della Puglia (dove lavoravano 250 dipendenti). “È inaccettabile che gli organi di vigilanza del ministero dello Sviluppo economico, che appena la scorsa estate avevano permesso l’acquisto da parte della nuova società di quel che rimaneva di Mercatone Uno, non abbiano verificato la sostenibilità aziendale degli acquirenti. I lavoratori avevano sostenuto non pochi sacrifici in termini di orari e salari abbattuti, e una volta incassata la flessibilità l’azienda ha bypassato ogni rapporto con le organizzazioni sindacali, fino all’incredibile epilogo scoperto notte tempo”.

Al Mise è convocato un tavolo nei prossimi giorni e si vedrà in quale modo affrontare l’emergenza per tutti i danneggiati. I 5Stelle esprimono il ministro dello Sviluppo economico nella persona di Luigi Di Maio: dopo la batosta elettorale, non possono che ripartire da qui.

Il ceto medio non teme più l’estremismo e salta sul Carroccio salviniano

Ultim’ora: tutti i tentativi di vedere il bicchiere mezzo pieno stanno fallendo. Cioè: non è mezzo pieno o mezzo vuoto, è che qualcuno si è proprio fregato il bicchiere con tutta la bottiglia. Nonostante questo, c’è chi ci prova: Renzi esulta per Nardella a Firenze (premio di consolazione), il Pd esulta per la tenuta di qualche roccaforte, la sora Meloni mai così in alto che non ci credeva nemmeno lei, gli altri non pervenuti, col povero Silvio a tenere insieme quel che resta di passate grandezze e i 5Stelle tramortiti dalla batosta. È tutto, vostro onore, se si aggiunge che la sinistra a sinistra non esiste, che la signora Bonino è l’eterna promessa che non mantiene mai, e che incombe su ogni cosa un possibile (sulla carta) governo di destra-destra che verrà usato come bastone se i 5Stelle non mangiano la carota. Poteva andare peggio? No.

Si conferma che il voto è mobile, un po’ ondivago, un po’ isterico e, come si dice oggi, liquido, e che solo Salvini aveva un contenitore per mettercelo, una bella tanica capiente dove piazzare tutte le scontentezze, dove sistemare tutto e il contrario di tutto, dal ceto medio spaventato, alle fasce più disagiate a cui si sono sapientemente (e con molte complicità) indicati gli ultimi come nemici. La vituperata propaganda ha vinto, insomma, e questo mette in crisi le propagande degli altri: non ne avevano una all’altezza, la retorica “popolo contro élite” non bastava più, e quella dei “competenti” peggio che andar di notte.

Ma c’è un altro attore che prende la scena delle europee salviniane, ed è il famoso ceto medio di cui un bel giorno toccherà seriamente definire i parametri. Ora che le hanno date e prese, tutti corrono a inseguirlo, blandirlo, parlargli con parole suadenti. Si allargano renzisti e calendisti, dicendo che serve un partito di centro che poi si alleerà con il Pd. Una strana equazione, perché si tratterebbe di uscire dal Pd (sottraendogli voti) per creare una formazione politica che poi si alleerà col Pd. Mah.

Va detto che la strategia zingarettiana dell’opossum (fingersi morti, lasciar passare la tempesta senza segnare all’avversario, ma almeno evitando gli autogol) ha garantito l’esistenza in vita, che è già qualcosa dopo i disastri renziani, ma se si vanno a vedere i voti assoluti c’è ancora un calo. Insomma, per il bicchiere mezzo pieno bisogna essere strabici forti.

Quanto a Silvio buonanima, anche lui batte sul tasto del ceto medio, e anche lui porta a casa la sua sconfittona sonante, dopo che la ricomparsa della mummia aveva fatto sperare nella soglia del dieci per cento. Altra sirena (stonata da tempo) che il ceto medio non ha ascoltato, e dunque si fa pressante la domanda: ma ’sto famoso ceto medio, che un tempo si chiamava borghesia, dove guarda? A leggere i dati si direbbe che si sia riversato tutto su Salvini, il che pone qualche dubbio sulle analisi correnti. Si è sempre ragionato, infatti, su un ceto medio moderato, impaurito dai toni forti, dagli estremismi, voglioso di rifugiarsi in schieramenti che tranquillizzano, che sopiscono le pulsioni più agguerrite. E invece eccolo, il buono e bravo ceto medio della nazione, saltare sul carro salviniano, forse nella speranza di avere veramente una flat tax, forse incantato da quell’essere “potenza” che la propaganda ha spinto fino all’eccesso (a volte fino al ridicolo, con tanto di santi e madonne).

Ora si dice che la differenza non è solo quella. C’è il divario tra città e provincia, la frontiera delle speranze deluse, la fuga dai 5Stelle, passato in pochi mesi da movimento di protesta a establishment. Tutto vero. Ma il dato rimane: anziché esserne spaventata, la piccola e media borghesia italiana si è riversata su Salvini. Non è l’estremismo a farle paura, ma di non essere rappresentata e così sceglie il vincitore, chiunque sia, persino Salvini.

L’alleanza a sinistra ora si deve fare

Nel momento stesso in cui fu varato l’attuale governo era lampante che Salvini avrebbe fagocitato buona parte del Movimento 5 Stelle per poi realizzare il governo più a destra dal dopoguerra. L’operazione è stata accelerata da tre circostanze. La prima: mentre Salvini, di fatto, si è dedicato quasi esclusivamente alla propaganda e alla simonia, Di Maio si è speso in quattro funzioni, due ministeri, vicepremier e capo politico del Movimento. Il secondo motivo sta nella diversa strategia in politica estera. Salvini ha fatto dei suoi rapporti privilegiati con i leader delle destre europee uno sfoggio di potenza, Di Maio è incorso nella gaffe dei Gilet gialli ed è senza gruppo di riferimento nel Parlamento Ue. Il terzo motivo attiene al programma di governo. Salvini ha saputo gonfiare le poche realizzazioni cui si è applicato: la riduzione degli sbarchi e la quota 100. Di Maio, invece, ha affrontato le due questioni oggi più gravi – la povertà e il lavoro – che hanno richiesto provvedimenti complessi come decreto Dignità e Reddito di cittadinanza. Riferendosi in gran parte al sottoproletariato, questi provvedimenti erano destinati a non riscuotere la giusta gratitudine da parte dei beneficiari.

La sinistra tutta avrebbe dovuto votare i decreti in favore di questo “stock di poveri”, come lo chiamano i neoliberisti infrattati nel Pd, invece di avversarli. Senza questa opacità, dopo il 4 marzo il Pd avrebbe accettato di formare un governo con i Cinque Stelle e oggi Salvini sarebbe al 10 per cento. E se i 5Stelle fossero rimasti all’opposizione, avrebbero avuto quattro anni di tempo per indebolire gli antagonisti e, intanto, preparare la propria classe dirigente.

Ora non c’è più tempo per i distinguo come fecero nel 1920 i liberali, i socialisti, i comunisti e i cattolici di fronte all’ondata fascista, che perciò ebbe facile vittoria. Occorre convenire sul fatto che, a causa della mancata funzione pedagogica esercitata dai partiti e dagli intellettuali di sinistra, il popolo confuso degli sfruttati è disperso in tutti i partiti, persino in quelli di estrema destra. È questo popolo che occorre ricompattare.

Ciò richiede un impegno congiunto di intellettuali, politici e cittadini. Richiede inoltre una disponibilità sia pure tattica da parte di tutte le forze che riconoscono nell’onda nera il pericolo maggiore per la nostra democrazia. Fra qualche anno i Di Maio, gli Zingaretti, i Bersani, i Fratoianni, i Renzi, i Calenda, i Cremaschi di oggi potranno essere ricordati come i leader disorientati e litigiosi del 1920, poi ridicolizzati da Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni, o potranno essere ricordati come i Terracini, i Calamandrei, i Togliatti, i Nenni, i De Gasperi che nell’immediato dopoguerra misero in stand by le proprie differenze per dare vita a una Costituzione democratica.

Oggi, per fortuna, questa rifondazione della sinistra è più realizzabile di ieri. Secondo l’Istituto Cattaneo, un anno fa la base sociale del Movimento 5 Stelle era composta per il 45% da elettori “di sinistra”; per il 25% da elettori di destra; per il 30% da elettori fluttuanti. In questo anno la leadership Di Maio, portando avanti progetti “di sinistra”, ha spinto gran parte dei grillini di destra e di quelli fluttuanti a passare con Salvini, sicché nel Movimento sono rimasti quelli meno allergici a un’alleanza sia pure tattica con il Pd. A questo gruppo, dimagrito ma più omogeneo, conviene staccare subito la spina del governo e marciare all’opposizione per darsi un nuovo orientamento e orgoglio.

Il Pd è almeno in parte il risultato dalla metamorfosi che, in tre tappe, ha trasformato il comunismo di Togliatti nella socialdemocrazia di Berlinguer e poi la socialdemocrazia di Berlinguer nel neo-liberismo di Renzi e Calenda. Ora, però, questi due leader, ideologicamente più vicini che mai, potrebbero creare un partito di centro, liberando finalmente il Pd delle scorie neo-liberiste. Infine, l’avanzata di Salvini, la rozzezza dei suoi comportamenti e la sua vocazione autoritaria spingono tutte le schegge di sinistra a ricompattarsi.

Realizzare una grande alleanza, sia pure tattica, tra i lavoratori, i partiti, i club, i movimenti, i comitati di quartiere e i centri sociali interessati a sconfiggere la Lega è una missione quasi impossibile, eppure è indispensabile se si vuole evitare al Paese il naufragio nell’onda nera.

Infine va ricordato il ruolo imprescindibile degli intellettuali. A essi, oggi più che mai, compete il compito di decodificare i mutamenti socio-economici in atto; elaborare un modello di società postindustriale coerente con le ragioni della sinistra; offrire il loro contributo di idee a tutte le compagini socio-politiche convergenti nell’alleanza di sinistra; capire come mai la destra riesce a valorizzare i social media molto meglio della sinistra e aiutare la sinistra a colmare questo gap facendo dei social un uso efficace ma onesto.