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Matteo avrà ancora una spina nel fianco: Giuseppe Conte

Chi come me ha votato M5S mastica amaro: per l’indiscussa sconfitta e per la prepotente (e prevista) vittoria della Lega, che, populista e demagogica, ha conquistato gli elettori italiani. Il Movimento paga l’alleanza con Salvini, il caso Diciotti e l’iniziale sudditanza alla Lega, ma non aveva scelta, visto il rifiuto del Pd. Ora occorre prendere con le pinze le dichiarazioni di Salvini sull’esperienza di governo attuale, che dice di voler continuare. Vedremo dopo i colloqui con FI e Meloni. Ma anche se staccherà la spina al governo, avrà sempre una spina nel fianco: Giuseppe Conte, stimato da tanti italiani che non gradirebbero la fine del suo governo. Anche il Pd di Renzi vinse le europee con il 40% nel 2014. Sembrava invincibile, ma sappiamo come è finita. Gli italiani tendono sempre a punire il vincitore delle ultime elezioni… I 5 Stelle possono quindi ancora sperare.

Umberto Alfieri

 

Non è una sconfitta: il M5S ha vinto alla prova dei fatti

Il risultato di Salvini è ancora una volta drogato di aspettative. Le stesse di quelli che votano Zingaretti. L’unico partito votato per quanto ha realmente fatto, è il M5S, che ha governato adottando decisioni tanto doverose quanto divisive. Un risultato positivo: c’è la certezza di un 17% che non voterebbe mai Lega nè Pd, e che persegue gli ideali di legalità, solidarietà e lotta ai privilegi. Bisogna liberarsi del pensiero a breve termine, che vede la politica superare le proprie possibilità per accontentare subito l’elettorato. Meglio avere un programma di più ampio respiro e valutare solo al termine del mandato. Fa bene Di Maio a continuare: a parte il voto salva-Salvini (che però è stato bilanciato dall’imposizione dell’uscita di Siri), penso che i 5S stiano facendo un buon lavoro. Certo, sarebbe meglio avere un alleato più affidabile e affine del Carroccio, ma, per ora, questo c’è.

Valentina Felici

 

La voce di Berlusconi rompe il silenzio elettorale

Domenica notte, ci si sarebbe aspettati il rispetto del cosiddetto “silenzio” nelle ore che precedono il voto. Invece su Rete4 alle 02:50 è partita la replica di “Stasera Italia”, in cui toh! casualmente c’è Berlusconi. Intervistato dalla Palombelli, propone il solito armamentario di balle (tipo 1000 euro a tutte le mamme d’Italia, taglio alle tasse, più di un milione di posti di lavoro…). Più che uno statista oserei dire un santo, che ci regalerà, insieme con Salvini & Meloni (che piuttosto che realizzare questo disegno si sposerebbero rispettivamente con Fratoianni e la Boschi) il paese del Bengodi. Poi i soliti insulti ai 5S, cialtroni ed incapaci, ma… senza mai nominare Salvini. Spettacolo incredibile, comico, triste.

Francesco Ferdico

 

A Riace il vento è cambiato troppo in fretta. Chissà perché

L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, aveva messo in piedi un sistema di accoglienza che funzionava. Non teneva gli immigrati nei centri a spese dello Stato, li faceva lavorare.

Il tessuto economico locale dava segni di ripresa. Ma l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina fece finire tutto. E se lo scopo fosse stato proprio questo, far fallire un sistema di accoglienza sostenibile? Che sia una scusa per continuare con decreti che ricordano leggi che dovrebbero appartenere al passato?

Nonostante ciò, le persone di Riace hanno votato Salvini. E anche questo, non è rinnegare la ripresa? Non è un andare dove tira il vento?

Michele Schiavino

 

Votare è anche un dovere Il Sud spesso lo dimentica

Elezioni europee con il 56.10 per cento di votanti in Italia e in Sicilia il 37,51 per cento.

Dal compimento del 18esimo anno di età ho votato sempre e mai scheda bianca. Per il voto libero mio padre Francesco Barraco (Cavaliere al Merito della Repubblica) ha dovuto combattere nella guerra di Liberazione.

Gaspare Barraco. Marsala

 

La (seconda) scomparsa di Ettore Majorana

Volevo fare una – amara – riflessione. A una cena ho conosciuto una giovane italiana, studentessa di fisica presso un prestigiosa università Usa. Visto il suo corso di studi, le ho chiesto se avesse mai letto il libro di Leonardo Sciascia “La scomparsa di Majorana”.

Con mia grande sorpresa la studentessa non conosceva il protagonista, Ettore Majorana, notissimo fisico ed accademico italiano scomparso nel marzo del 1938. Una figura nota, non solo per le sue ricerche sulla fisica nucleare ma anche per la sua improvvisa e misteriosa sparizione, che ha suscitato, dalla primavera del 1938 ad oggi, speculazioni sulle possibili ragioni.

Mi chiedo: com’è possibile che uno studente di fisica, per giunta italiana, non conosca Ettore Majorana? C’è da pensare che molti, troppi, figli di una certa borghesia privilegino scuole o università straniere con risultati del tutto deludenti, se non avvilenti, rispetto alla cultura italiana, sempre più da “fast-food”.

Paolo Troiano

Il cognome del marito accanto al proprio: legge ancora valida

Ho letto sui social del caso di tale signora, Iole Murrini di Torriglia (Genova), che si lamentava perché la sua tessera elettorale avrebbe presentato il cognome del marito. C’è stata poi una seconda donna, Marilena Barbera, che si è parecchio arrabbiata anche lei: il cognome del marito sulla tessera elettorale a lei l’ha affibbiato il Comune di Menfi. Marilena lo ha fatto cancellare dall’addetto all’anagrafe con il bianchetto e poi ci ha fatto mettere il timbro del Comune, in modo che la tessera sia ancora valida. La polemica sui social è impazzata. Ma esiste una circolare del ministero del Viminale che invita i Comuni a reinserire i cognomi dei mariti sulle schede elettorali?

Natalia Marcaduro

 

Gentile Natalia, abbiamo chiamato per primo il responsabile del team per la “Trasformazione Digitale”, a cui abbiamo chiesto se l’Anpr (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente), che la maggior parte dei Comuni dovrebbe aver adottato, abbia inserito questi parametri “maschili” così retrogradi. Ci è stato risposto che i Comuni sono “indipendenti” nel gestire le liste elettorali e i relativi certificati, come anche i consolati per i votanti all’estero. “E in ogni caso i Comuni di Menfi e di Torriglia non hanno ancora adottato il software dell’Anpr”. L’errore di scrivere il cognome del marito, se c’è stato, è stato umano, non informatico. Ma non è neanche un errore. Una legge del 1957 definisce che sulle liste elettorali, accanto a ogni donna, debba comparire il cognome del marito. È stata superata da un’altra legge del 2000 – il decreto 299 – che fa sì che il cognome del coniuge invece possa essere inserito accanto a quello dell’elettrice. “La maggior parte dei Comuni non inserisce il cognome del marito – ci ha spiegato l’ufficio stampa dell’assessore all’Innovazione del Comune di Milano, Roberta Cocco –, perché tra divorzi e lutti, sarebbe molto complesso gestire il ricambio delle tessere e dei cognomi”. La questione, all’estero, diventa addirittura esilarante. In passato, sui citofoni, non c’era il cognome della donna, solo quello del marito. Per questo sulla tessera elettorale che le italiane coniugate all’estero si vedono recapitare non compare solo il proprio cognome. “È una questione di comodità – spiega Sergio Santi, vicepresidente dell’associazione Anusca, che si occupa di elidere il cognome del marito dai documenti elettorali –. Fa sì che il certificato sia recapitato con più facilità”. La questione non riguarda solo le coppie etero. A questo giro anche le coppie gay iscritte all’Aire (l’anagrafe degli italiani all’estero) hanno subito la stessa sorte. In questi casi, vai a capire come si decida chi è il capofamiglia. Per cancellare tutte queste brutture basterebbe “una circolare del ministero dell’Interno” conclude Santi. Chissà che la Madonna del rosario di Salvini sia in ascolto?

Cristina Sivieri Tagliabue

Tragedia in un nido di Roma, muore bimbo di un anno

Un bimbo di nemmeno un anno è stato trovato privo di vita ieri mattina in un asilo nido del VII Municipio Tuscolano a Roma. A fare la scoperta le maestre mentre il piccolo stava dormendo. Al momento di svegliarlo per la pappa, una delle educatrici ha notato le labbra scure del piccolo che già in quel momento non respirava. I soccorritori non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della stazione Tuscolana e della Compagnia piazza Dante per ricostruire quanto accaduto. Secondo quanto si apprende il piccolo non è morto per soffocamento. Le vie aeree erano infatti libere. Secondo i primi accertamenti svolti dal medico, il piccolo, che non ha reagito alle manovre di rianimazione, aveva le labbra viola al momento dei soccorsi. In base a quanto riferito dal medico, il decesso potrebbe essere sopravvenuto “per cause naturali”. Il bimbo, a detta dei genitori, non soffriva di alcuna patologia. Sulla salma del bimbo, nato nell’agosto del 2018 è stata disposta l’autopsia. Prima di aprire un fascicolo di indagine, la Procura di Roma è in attesa dei risultati dell’esame esterno sul corpo del bambino. L’ipotesi prevalente è quella di una morte naturale.

Bomba alla Lega di Treviso. Arrestato anarchico spagnolo

Un anarchico spagnolo latitante: è l’identikit di Juan Antonio Sorroche Fernandez, l’uomo arrestato ieri nel Bresciano perché sospettato di aver ideato, organizzato e preso parte all’attentato dell’agosto 2018 contro la sede della Lega a Treviso. A incastrarlo ci sarebbero le tracce di dna rinvenute su uno dei due ordigni esplosivi destinati a colpire il distaccamento trevigiano del Carroccio. All’attentatore vengono contestati i reati di strage e di attentato con finalità di terrorismo. Insieme a lui è stato fermato anche Manuel Oxoli, 38enne bresciano, che ne avrebbe coperto la latitanza, e che dovrà rispondere di favoreggiamento personale. L’attacco contro la storica sede leghista era stato congegnato nei minimi dettagli: una prima bomba carta, esplosa di notte per attirare sul posto le forze dell’ordine. Poi sarebbe dovuto esplodere un secondo ordigno, che solo grazie all’attenzione dei poliziotti non si era attivato. L’attentato, rivendicato da una sigla anarchica, aveva subito messo Sorroche nel mirino degli inquirenti. Ma lo spagnolo si era reso irreperibile fin dal 2017 per sfuggire ad un ordine di carcerazione del Tribunale di Torino, che ne prevedeva un anno e 9 mesi di reclusione.

La Procura Generale della Repubblica torinese aveva poi emanato un ordine di esecuzione di 6 anni, 1 mese e 6 giorni per reati contro la persona ed il patrimonio. Il fermo è arrivato grazie alle indagini congiunte delle Digos di Venezia, Brescia, Treviso e Trento, che, sotto il coordinamento della Procura del capoluogo veneto e col supporto della Polizia spagnola, hanno condotto a Sorroche, e alla rete dei fiancheggiatori che lo sosteneva nella latitanza, fino a scovarne il nascondiglio. Il provvedimento per il presunto terrorista è già stato convalidato dal gip di Brescia, dove è stato eseguito il fermo.

Addio Marcello Spalletti, fratello di Luciano che, all’occorrenza, poteva fare anche il guardalinee

Se n’è andato Marcello Spalletti, poco dopo che il fratello aveva conquistato la qualificazione in Champions League e l’Avane fallito l’aggancio ai play-off. L’Avane è la squadra attualmente in terza categoria dove i fratelli Spalletti hanno iniziato a giocare. Periferia di Empoli, due passi da casa: la vecchia, dei genitori, e le nuove, sulle bellissime colline toscane che guardano Firenze.

Nel 1966 l’Arno cambiò i connotati della zona. Ritirandosi dopo l’alluvione su quella montagna di fango si decise di costruirci un campo sportivo, che è ancora quello. L’anno dopo fondarono la società sportiva: “A quel tempo – diceva Marcello – si pensava solo a correr dietro al pallone, nessuno poteva immaginare di finire, come giocatore e tantomeno come allenatore, nel calcio che conta”.

Ci sono le foto, in bianco e nero, Luciano filiforme e con i capelli lunghi, Marcello riccio e più in carne. Un rapporto strettissimo tra i due, Marcello stravedeva per Luciano (“è stato bravissimo, ha fatto una carriera eccezionale, ma quando torna si parla di tutto, tranne che di calcio”).

Se gli chiedevi per chi faceva il tifo, Marcello rideva: “Per l’Avane e per il mi’ fratello, sennò la mamma brontola”. L’Avane, per Marcello, era una seconda famiglia, dove ha trascorso mezzo secolo ricoprendo tutti i ruoli: dirigente, presidente (oggi era vice), guardalinee, cuoco, bigliettaio, all’occorrenza anche allenatore.

Ma tra “risultatisti” e “giochisti”, Marcello era annoverabile tra gli “stagionalisti”. Nel senso che il più delle volte subentrava nel girone di ritorno, anche inoltrato, e non per scelta tecnica dopo l’esonero di un allenatore, ma solo perché era appena chiusa la caccia (tortore, beccacce, cinghiali, fringuelli, problemi loro). Ai calciatori, ovvio, preferiva i cacciatori. La squadra lo aspettava, lui la salvava.

Uranio impoverito: al militare suicida fu negato risarcimento per malattia a causa di servizio

Nel suo midollo osseo sono state trovate tracce di metalli pesanti e soprattutto di uranio impoverito, U238. Potrebbe essere stata questa la causa della malattia, la leucemia linfoblastica acuta, che ha colpito Luigi Sorrentino, caporal maggiore di 40 anni che lo scorso 23 ottobre si è ucciso nel suo appartamento di Torino. Lo rivela un’analisi condotta su due campioni dal professore Claudio Medana, del dipartimento di biotecnologie molecolari e scienze per la salute dell’Università di Torino, insieme a Rita Celli, medico legale ed ex consulente della commissione parlamentare di indagine sull’uranio impoverito. I dati sono stati rivelati ieri da Domenico Leggiero dell’Osservatorio Militare insieme ai familiari di Sorrentino. “È una svolta storica del caso uranio – spiega Leggiero – e sgombra il campo da ogni dubbio sia sull’esposizione sia sulla nocività di questo materiale”. Sono già 366 i militari italiani morti e 7.500 quelli malati .

Sorrentino aveva chiesto il risarcimento per malattia causata dal causa servizio: “Abbiamo avuto soltanto dinieghi”, ricorda la vedova, Federica Gaspardone. Era stato in missione in Kossovo, Albania e Afghanistan, aveva preso parte a esercitazioni nell’area di Capo Teulada (contaminata). Si era ammalato nel 2015: “Pensava di essere una macchina guasta – prosegue – Lui era uno operativo, non si sarebbe mai fermato. Ha lavorato fino a 10 giorni prima del ricovero”. Il caporal maggiore ha lottato per tornare al lavoro al secondo regimento degli alpini a Cuneo, ma non c’è stato verso. Ora i familiari portano avanti, insieme all’avvocato Angelo Tartaglia e all’Osservatorio Militare, la battaglia giudiziaria: “Vogliamo che Luigi sia riconosciuto come una vittima e che migliorino le condizioni degli altri soldati”.

2 agosto 1980: “Indagate Paolo Bellini” Annullato il proscioglimento del 1992

Estremista di destra omicida reo confesso, informatore dei carabinieri, collaboratore di giustizia. Chi è veramente Paolo Bellini? Per la Procura generale di Bologna potrebbe essere un altro dei responsabili della strage del 2 agosto. Il gip Francesca Zavaglia ha revocato il proscioglimento in istruttoria emesso nei suoi confronti nel 1992 e adesso i magistrati hanno sei mesi di tempo per svolgere le indagini. Tre gli elementi su cui fare luce: un vecchio filmato amatoriale girato pochi minuti dopo l’esplosione del 1980 che fece 85 morti, un’intercettazione del medico veneziano neofascista Carlo Maria Maggi e i rapporti con Sergio Picciafuoco, estremista di destra presente a Bologna il giorno dell’attentato. Nel Super 8 di un turista svizzero, recuperato dagli avvocati dei familiari delle vittime, si intravede un uomo dalla chioma e i baffi folti che si aggira sul primo binario. Su quei fotogrammi adesso verrà fatta una perizia antropometrica per confermare, come sostiene la Procura, la “spiccata somiglianza” con Bellini. Secondo le cronache del tempo un paio di testimoni riferirono di averlo visto, lui fornì un alibi giudicato un po’ traballante ma venne poi prosciolto in istruttoria. Nell’anniversario della strage di piazza della Loggia per cui venne condannato come mandante, Carlo Maria Maggi torna a far parlare di sé. L’ex capo di Ordine Nuovo, scomparso a dicembre scorso, nel 1996 parla con il figlio di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, giudicati in via definitiva come i responsabili materiali della strage bolognese e aggiunge: “In pratica già qua nei nostri ambienti… erano in contatto con il padre di ’sto aviere… e dicono che portava una bomba, ecco! In cui 100 era… alla stazione, c’era perfino…”. L’intercettazione non è completa perché il televisore ha il volume alto ma per i magistrati l’aviere è Bellini. Negli ambienti di destra il reggiano oggi 66enne era infatti noto per la passione per il volo e per aver conseguito il brevetto di pilota. Tra la banda dei Nar e Bellini non sono mai emersi rapporti diretti, l’unico (finora) punto di contatto è proprio Maggi. Carlo Digilio, l’esperto di armi di Ordine nuovo, unico condannato (reo confesso) per la strage del 12 dicembre a Milano dichiarerà: “Nel ’78 o ’79 Maggi mi chiamò e mi chiese di incontrare un giovane che aveva bisogno di far valutare una partita di armi, poi mi resi conto che era Gilberto Cavallini”. Lo stesso Nar che oggi davanti alla Corte di Assise di Bologna è accusato di aver dato supporto ai suoi ex sodali nel 1980. L’ultimo elemento è il rapporto, emerso dal processo sulla trattativa Stato-mafia, con Sergio Picciafuoco. Criminale comune o forse qualcosa di più, Picciafuoco rimase ferito dall’esplosione e si fece medicare sotto falso nome. Dieci anni dopo, secondo informazioni della Digos, Picciafuoco arriva a Reggio Emilia a bordo di una macchina intestata alla sorella di Bellini, con cui poi passerà la mattinata successiva. Proprio in quei giorni infatti ignoti gli avevano bruciato l’auto.

“L’imprenditore che pagava il 5 % si sentiva come un bancomat”

Alberto Bilardo, l’ex segretario di Forza Italia a Gallarate (Milano) e nel cda di una società pubblica con sede a Busto Arsizio, nel Varesotto, si era sfogato “lamentando che” Gioacchino Caianiello, l’influente esponente forzista varesino arrestato il 7 maggio, “lo considerasse come un ‘bancomat’ intendendo (…) che in relazione agli incarichi ottenuti doveva riconoscere il 5%” al presunto “grande manovratore” del sistema di corruzione venuto a galla con l’inchiesta della Dda di Milano. A raccontarlo agli investigatori è stato un testimone che ha pure spiegato che lo stesso Bilardo – interrogato per molte ore dai pm milanesi e probabilmente risentito anche oggi – “in più occasioni e anche di recente” gli aveva riferito “il fatto che (…) elargisse con consuetudine il 5% del suo compenso” tant’è, ha spiegato il testimone, che negli ambienti cittadini era stato soprannominato ‘mister 5%” o “Biladro”. Il verbale della deposizione è tra le carte depositate in questi giorni. Intanto il Tribunale del Riesame ha negato la scarcerazione all’ex consigliere comunale milanese Pietro Tatarella, anch’egli arrestato il 7 maggio, candidato alle Europee non eletto ed ex vicecoordinatore lombardo di Forza Italia.

Consip, Tiziano Renzi non sarà parte civile

A febbraio scorso l’annuncio: “Ci costituiremo parte civile” contro l’ex maggiore del Noe dei carabinieri Gianpaolo Scafarto. Ma ieri durante l’udienza preliminare di uno dei filoni dell’inchiesta Consip – tra gli imputati ci sono anche l’ex sottosegretario Luca Lotti e l’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette – Tiziano Renzi non c’era e nemmeno i suoi avvocati. Il padre dell’ex premier in un primo momento era indagato per traffico di influenze illecite con il suo amico Carlo Russo. Alla fine i pm per lui hanno chiesto l’archiviazione contestando a Russo il millantato credito, perché secondo l’accusa non è provato che Tiziano Renzi sapesse dei presunti accordi con l’imprenditore Alfredo Romeo in cui Russo si sarebbe fatto promettere denaro per esempio in cambio di influenza sui vertici della Consip. Si attende la decisione del giudice Gaspare Sturzo sulla richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi, che ieri comunque non si è costituito parte civile.

Il motivo lo spiega il suo legale, Federico Bagattini: “Non ho cambiato idea – dice al Fatto –. Ritenevo che nel capo di imputazione relativo al depistaggio ci fossero anche i noti falsi contestati a Scafarto. Ciò non si è verificato e quindi non ho più titolo di costituirmi parte civile. Non possiamo correre il rischio di assumere iniziative borderline dal punto di vista tecnico perché siamo persone serie”.

Il riferimento è quindi a Scafarto, l’ex maggiore del Noe accusato di falso per aver manomesso un’informativa di polizia giudiziaria tentando di inserire Tiziano Renzi in modo diverso da quanto emergeva dagli atti, ma anche di rivelazione di segreto e di depistaggio per aver disinstallato sul cellulare del collega Alessandro Sessa l’app di Whatsapp “al fine di sviare l’indagine”.

Se Tiziano Renzi non si è costituito parte civile, lo ha fatto invece la Consip e ci ha provato anche l’imprenditore Alfredo Romeo, ma la sua richiesta non è stata ammessa. Nel filone di indagine che si discuteva ieri davanti al gup, con Scafarto, sono imputati ma per favoreggiamento Luca Lotti, Emanuele Saltalamacchia, ex comandante regionale dei carabinieri in Toscana, e Filippo Vannoni, ex presidente di Publiacqua, società partecipata del Comune di Firenze. I tre sono accusati di aver rivelato all’ex amministratore di Consip, Luigi Marroni, l’esistenza di un’indagine della Procura di Napoli che riguardava la stazione appaltante. Era stato proprio Marroni a tirare in ballo i tre, insieme all’ex numero uno dell’Arma, Del Sette, ora accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreto. Il 20 dicembre 2016 ai carabinieri del Noe che gli chiedevano perché avesse tolto le cimici dal proprio ufficio, Marroni diceva: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Luca Lotti di essere intercettato”. Ferrara a sua volta, spiega Marroni, lo avrebbe saputo da Del Sette. Tutti hanno sempre respinto le accuse. Senza però convincere la Procura che ha chiesto il rinvio a giudizio: il giudice deciderà a ottobre.

Ieri la difesa di Saltalamacchia, come pure quella di Vannoni, ha chiesto di trasferire il processo a Firenze. Spiega l’avvocato Alessandro Becattini, legale di Vannoni: “Ammesso che sia vera la contestazione che avrebbe comunicato a Marroni di avere il telefono sotto controllo, era una comunicazione che proveniva da Firenze, la prima comunicazione sarebbe stata telefonica. Ci sfugge come mai lo contestano a Roma, dove c’è stato solo un incontro ma alla fine, a novembre 2016. A giugno non c’erano incontri ma telefonate ed erano da Firenze”.

Comi: “Scarica Telegram, non parlare al telefono”

Il 13 maggio l’avvocato ligure Maria Teresa Bergamaschi si accomoda davanti ai pm della Procura di Milano. Deve spiegare i suoi rapporti con l’eurodeputata di Forza Italia, Lara Comi, le consulenze avute da Afol – l’agenzia metropolitana milanese per la formazione – e i soldi, 10 mila euro, ridati all’attuale coordinatrice azzurra della provincia di Varese. Al termine Bergamaschi sarà indagata per corruzione in concorso con Comi (indagata anche per finanziamento illecito) e Beppe Zingale, dg di Afol. Superati i preliminari: come conobbe la Comi? (“Dodici anni fa a una campagna elettorale per le Provinciali di Savona”), il pm chiede da chi la Bergamaschi seppe che i suoi contratti erano sotto indagine. “Lara Comi mi mandò i dispacci di agenzia. Poi giovedì scorso mi ha girato un altro lancio scrivendomi: che dici? Sai quello che è il problema? È che rischio di prendere più voti di S.B.”. Il riferimento è a Silvio Berlusconi. La Comi, emerge dal verbale, sostiene che il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla tangentopoli lombarda le darà una spinta alle urne. Alle Europee incasserà 31 mila voti piazzandosi seconda dietro a Berlusconi. Da quale circoscrizione sceglierà di essere eletto B. dipendono le chance della Comi di tornare a Strasburgo.

In quel momento la Procura sequestra il telefonino della Bergamaschi. Dalla analisi emerge un dato importante, il timore della Comi di essere intercettata. Tanto che il pm dice: “Le si contesta che dalla lettura della chat WhatsApp risulta che la Comi le scrisse di stare attenta, di non parlare al telefono e per messaggio e di scaricare Telegram”. Spiega la Bergamaschi: “Ritengo che la Comi si riferisse a Zingale”. E ancora: “Io non le chiesi niente di specifico, per me era ovvio che l’invito all’accortezza era relativo alla vicenda di Zingale”. Lara Comi, leggendo il verbale, appare consapevole della delicatezza della vicenda che riguarda da un lato le due consulenze avute dalla Bergamaschi da Afol per 38 mila euro e dall’altro la sua richiesta di avere 10 mila euro che, stando alle parole del politico riferite a verbale dalla Bergamaschi, dovevano andare a Zingale. “Zingale – dice l’avvocato – non mi chiese mai denaro (…) e a lui non ho mai dato un euro”. Quei 10 mila euro, però, paiono un’ossessione per la Comi.

“Lei (Comi, ndr) – dice Bergamschi – mi disse: Zingale ne vuole una parte”. I contratti vengono firmati. Bergamaschi si occuperà di una ricerca a livello europeo. “Finito il lavoro andai da Lara, le chiesi se potevo proseguire, lei disse che dovevamo parlare con Zingale”. Prima, però, le due donne si vedono da sole. “In quell’incontro mi disse che lei credeva che Zingale volesse una parte del compenso”.

Sono sempre i 10 mila euro che la Comi chiede al legale. La cifra, secondo i pm, sarà data attraverso l’annullamento del costo (5 mila euro) del libro che la Bergamaschi ha scritto per la Comi e con un pagamento dell’altra metà a fronte dell’emissione di una fattura falsa, fatta da una società della Comi. Il 14 maggio, Bergamaschi viene risentita come indagata. A verbale conferma e aggiunge: “Il 15 dicembre 2018 mi arrivò un messaggio di Lara Comi (…) mi scriveva: Zingale vorrà il regalo di Natale”. In seguito sempre Comi “mi parlò della necessità di pagare in vista dell’estensione dell’incarico una cifra di 10 mila euro a Zingale”. In altri incontri Comi “mi ha ribadito la necessità di pagare (…) Zingale”. Il concetto è chiaro: “Lara mi specificò con certezza che, ottenuto il contratto, avrei dovuto dare del denaro a Zingale” Il dg di Afol però non chiese mai denaro e per questo sta preparando un memoriale da presentare in Procura. Le ultime battute la Bergamaschi le dedica a un incontro con Nino Caianiello, già coordinatore di FI a Varese e presunto burattinaio delle tangenti. “Il Nino mi sorprese perché subito mi chiese come procedeva la consulenza con Afol. La cosa mi diede fastidio perché non capivo chi fosse, perché parlasse delle mie consulenze e perché aveva un atteggiamento arrogante”.