Gentile padre Antonio Spadaro, il giorno di Natale ho pensato a lei due volte. Perché affascinato dalla straordinaria docuserie Netflix, Stories of a Generation, che porta la sua impronta, impreziosita dall’intervista che le ha concesso Papa Francesco. E poi perché non sapevo come rispondere alla domanda di un bambino, la stessa domanda che noi poveri cristiani dalla fede, diciamo così, discontinua, cerchiamo di schivare da una vita. Immagini la sera della Vigilia, in una casa baciata dal benessere, la tavola imbandita, il presepe illuminato e, sotto l’albero, i pacchi colorati che i più piccini tra poco scarteranno felici. Intanto, nel sottofondo, un televisore acceso rimanda la notizia di un barcone carico di persone affondato al largo delle coste greche, mentre era diretto in Italia. A bordo anche dei bambini: nessun superstite, conferma il tg. Ed ecco che il bimbo fortunato, pensando ai bimbi annegati – alle onde, al gelo, al terrore di quegli attimi – chiede: Gesù non poteva salvarli? So bene che dietro a una domanda innocente si nasconde quel mistero che da sempre è motivo di turbamento per i credenti, mentre costituisce la chiave di volta del rifiuto per chi ha deciso di non credere. Ovvero: se Dio è davvero infinita bontà, perché permette tanta sofferenza nel mondo che ha creato? Tornando alla notte di Natale (sì, certo, la festa dei più piccoli) e riguardo a quel contrasto insopportabile tra bambini felici e bambini terrorizzati, accennerò solo per un attimo alle spiegazioni per così dire laiche. Tragedie dell’immigrazione, conseguenze delle vaste e profonde ingiustizie create dal dominio del capitale e dunque dalla avidità umana, diranno a sinistra. Al contrario, la colpa è del buonismo che per lavarsi la coscienza lascia la mano libera ai mercanti di uomini e ai loro infami commerci, replicheranno a destra. Macché, è tutto frutto della casualità e del caos che governano le nostre esistenze, sentenzieranno dal fronte dell’indifferenza. Ecco, padre Spadaro, mi rivolgo a lei perché in un’eventuale seconda stagione delle Stories, magari dedicate ai più giovani, chieda a Papa Francesco di rispondere, come sa fare lui, alla domanda più difficile nel modo più semplice: perché la notte di Natale, mentre i bimbi fortunati aprivano i doni, la mano di Dio misericordioso non si è protesa ad afferrare quelle manine disperate?
Gli Oscar del Trash, dagli evaporati 5S al poro asciugamano
Il 2021 è stato un anno quasi sempre orribile, ma niente paura: sta per finire e il prossimo sarà peggiore. Soprattutto in politica. Ecco gli Oscar 2021.
Oscar Santo Subito: Mario Draghi. Benedetto e immacolato a prescindere, ogni cosa che fa è giusta e santa. Beato lui. Il suo governo non ha fatto né grandi cazzate né (men che meno) miracoli, ma se Conte aveva sempre la rogna lui ha sempre ragione. Da noi funziona così.
Oscar Evaporazione: Movimento 5 Stelle. Se nel Conte-2 pareva aver acquisito un ruolo centrale e (addirittura!) una chiara connotazione ideologica, con il governo Draghi non tocca palla quasi mai. Nei sondaggi resta attorno al 15 per cento, merito verosimilmente di Conte e del suo feeling naturale con molti italiani. Però il tempo passa. Il M5S pare falcidiato da un mix inesorabile di correnti interne e insipienza spinta. E lo stesso Conte, ultima speranza del caravanserraglio grillino, non può certo tirare su la baracca da solo.
Oscar Quirinale: Silvio Berlusconi. Solo da noi uno come lui, con quella storia e con quel passato lì, potrebbe avere chance di essere eletto capo dello Stato. Non sarà mai presidente della Repubblica, più per motivi anagrafici e clinici che politici, ma c’è da considerare un aspetto: la destra usa lo spauracchio Berlusconi per eleggere in realtà un Berluschino sotto mentite spoglie, sia esso Casini, Casellati, Moratti, Pera o derivati. È questo il loro obiettivo vero: che splendide prospettive!
Oscar Poro Asciugamano: Matteo Renzi. Senza voti, senza estimatori (se non i soliti due o tre bischeri che ancora vivono su Twitter). Odiato da quasi tutti, sta alla politica come i canditi nel panettone: non piacciono a nessuno, ma te li ritrovi sempre in mezzo. Indifendibile nella crisi di governo, nel caso Report, nelle beghe giudiziarie, nel rapporto con Bin Salman, eccetera. Indifendibile e basta. Nel mondo reale ha meno peso di un anacardo, ma in Parlamento avrà un ruolo chiave anche nell’elezione del nuovo capo dello Stato. Condoglianze a tutti noi.
Oscar Che Brutta Fine: Gianluigi Paragone. Nato leghista, cresciuto grillino di comodo, morto (politicamente e moralmente) no-vax. Una prece.
Oscar Eia eia elalà: Giorgia Meloni. Cresce nei sondaggi, ma cresce pure il suo pelo nello stomaco. Sempre più aggressiva e politicamente spietata, ha fatto finta di nulla di fronte all’inchiesta di Fanpage, dimostrando per l’ennesima volta come a Donna Giorgia puoi chiedere tutto tranne parole di ferma condanna sul fascismo (di ieri e di oggi). Un po’ pro-Bannon e un po’ filo-Orbán, resterà nella storia della musica la sua performance musicale in spagnolo del noto hit patriottico “Io sono Giorgia”. Gran bei momenti. Daje Gio’!
Oscar Harakiri: Matteo Salvini. Dal suicidio al Papeete dell’estate 2019 in poi, non ne becca una neanche per sbaglio. Il suo calvario è costante, continuo e inesorabile: mille di questi giorni, Capitano!
Oscar alla Politica Vera: Pier Luigi Bersani.
Oscar Eri meglio prima: Massimo Cacciari & Carlo Freccero. Tornate in voi, cazzo!
Oscar alla Comunicazione: Barbara Gallavotti.
Oscar alla Saggezza: Piero Angela.
Oscar alla Bellezza Morale: Liliana Segre.
Oscar Basaglia ha fallito: I no-vax.
Oscar Buona Fortuna: Gli italiani tutti. Ne avremo tanto bisogno.
Cannabis, il referendum-truffa lascia impunite tutte le mafie
La proposta di referendum sulla cannabis è la più delirante degli ultimi trent’anni e ha raggirato oltre 600 mila cittadini. È evidente che i firmatari si sono fidati delle spiegazioni dei promotori e non sono andati a guardare il reale contenuto dei quesiti. Chi ha firmato ha creduto di aderire a una proposta di controllo della cannabis che consente la coltivazione di alcune piantine per uso personale e depenalizza la vendita di piccole quantità, togliendo così spazio alle mafie che dominano l’offerta illecita. Proposta apparentemente ragionevole, della quale si può anche discutere una volta accertato che rientri nell’ambito del contrasto di una sostanza dannosa per la salute di tutti.
Tuttavia, due dei tre quesiti parlano d’altro e frodano spudoratamente il lettore, perché rimandano ai commi di un articolo di una legge che nessuno si è preso la pena di consultare. L’articolo è il 73 della legge 309-1990, un manufatto già di per sé arcano che rimanda a un altro articolo, il quale a sua volta rimanda a un allegato che contiene una tabella oscura e quasi introvabile. Mi ci si è voluta mezz’ora per capire di cosa veramente si trattasse. Il primo quesito non consente semplicemente di coltivarsi un paio di piantine in casa propria, esso abolisce sic et simpliciter il divieto di coltivare qualunque pianta stupefacente in qualunque ordine di quantità in qualunque posto designato: libertà di coltivare oppio, coca e cannabis. A volontà e ovunque. Il secondo quesito non depenalizza soltanto la vendita di piccole quantità di cannabis, ma toglie ogni sanzione penale per qualunque reato collegato alla stessa. Il mercato viene legalizzato da cima a fondo. Secondo i promotori del referendum, in Italia si potrebbero produrre, raffinare, detenere, commerciare e distribuire anche tonnellate di cannabis e derivati senza incorrere in alcuna sanzione penale. Pagando solo una multa da 26 mila a 260 mila euro.
Sono vaneggi che lasciano interdetti. Ma la cosa che ritengo più oltraggiosa è presentare questo referendum come una misura antimafia. Tutte le normative di depenalizzazione e distribuzione controllata esistenti, sia in Europa che nelle Americhe, proibiscono la coltivazione, vendita e detenzione di quantità spropositate di cannabis. Lo scopo è quello di ripulire il mercato espellendo i grandi operatori mafiosi e proteggendo l’autoconsumo e i piccoli produttori non criminali che offrono prodotti più sicuri. L’impunità generalizzata per tutti conserverebbe, al contrario, lo status quo, perché sono i network mafiosi che reggono il mercato. Legalizzare la coltivazione dell’oppio e della foglia di coca, inoltre, abolisce d’un colpo le trafile della cocaina prodotta in Colombia e quelle dell’eroina in Afghanistan. Significa togliere alle mafie il disturbo di andarsi a cercare le materie prime in posti lontani e di negoziare logistica e prezzi con i narcos o le mafie mediorientali. ’Ndrangheta, camorra e Cosa Nostra se le potrebbero produrre da sole, queste materie prime, non solo al Sud ma anche nelle serre della Pianura padana, internalizzando tutti i profitti della catena. E fa solo ridere l’argomento che, dato il via libera alla coltivazione di tutti gli stupefacenti, il mantenimento del divieto di raffinazione e commercio delle droghe pesanti sia in grado di stoppare il comando criminale del loro mercato. Una sorveglianza efficace delle coltivazioni ex-illecite sul territorio nazionale sarebbe impossibile perché richiederebbe un apparato mostruoso, pari alle dimensioni dell’esercito italiano. Ma stiamo solo facendo ipotesi. La bravata referendaria implica l’infrazione delle convenzioni Onu firmate dall’Italia. Le sue probabilità di superare il vaglio della Corte costituzionale sono uguali a quelle che avrebbe il “papello” di Totò Riina, cui tra l’altro assomiglia per ispirazione e per profilo dei possibili beneficiari finali.
Il bavaglio alla stampa nuoce anche ai cittadini
La giusta preoccupazione che, a seguito della pubblicizzazione di un procedimento penale, chi vi è sottoposto possa essere ritenuto nella opinione corrente anticipatamente responsabile di un reato ha indotto il legislatore a intervenire nel settore delicatissimo dell’informazione stringendo il rubinetto delle notizie ufficiali. Un decreto legislativo da poco entrato in vigore, oltre a porre limitazioni lessicali (vietando alle pubbliche autorità di indicare una persona come “colpevole” fino alla condanna definitiva), consente a procuratori della Repubblica e forze dell’ordine di propalare informazioni sui procedimenti penali solo tramite comunicati ufficiali e conferenze stampa e unicamente quando la divulgazione “è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Questa delimitazione delle ipotesi in cui le autorità istituzionali possono rendere noti i risultati del proprio lavoro costituisce una risposta sbagliata al problema del protagonismo di alcuni magistrati e funzionari di polizia.
La diffusione di notizie di cronaca giudiziaria non è quasi mai necessaria ai fini investigativi. Al di fuori della classica ipotesi in cui viene pubblicata la foto di uno scomparso da ritrovare o l’identikit di un killer da identificare, divulgare tramite la stampa e i mezzi audiovisivi l’esistenza di un procedimento penale può essere utile se si sta intercettando e si spera di suscitare qualche commento in coloro che sono monitorati, oppure quando si cerca di spingere eventuali ulteriori vittime del reato a rivolgersi all’autorità giudiziaria. Si tratta di evenienze molto rare: nella stragrande maggioranza dei casi fare conoscere che vi sono indagini in corso non serve assolutamente a nulla.
Resta la possibilità di fornire le informazioni suscettibili di diffusione per specifiche ragioni di interesse pubblico, ma la legge non chiarisce in che cosa esse consistano. In negativo, va senz’altro escluso che tali ragioni possano ravvisarsi semplicemente nel fatto che è coinvolto un personaggio noto, ma in positivo è difficile riempire la formulazione di contenuti. Si possono fornire notizie solo sugli episodi di criminalità più gravi, a iniziare dagli omicidi, oppure è di pubblico interesse conoscere anche l’andamento di indagini che sono finite, per vie traverse, sulle pagine dei giornali? Comunque si risponda, volendo attenersi alla lettera della legge, chiaramente restrittiva, resterebbero prive di risonanza inchieste che pure sono in sé rilevanti e che l’opinione pubblica ha diritto di seguire nel loro svolgimento.
Con una informazione così ovattata la criminalità percepita sarebbe di gran lunga inferiore a quella reale (si sa, i meri dati statistici non destano preoccupazione, sono i titoli sui giornali che creano allarme sociale) e i cittadini si convincerebbero di vivere nel migliore dei mondi possibili. È facile però immaginare che ciò non accadrà perché, se i magistrati e la polizia giudiziaria non parlano, i giornalisti si rivolgono ad altre fonti: i difensori (i quali hanno interesse professionale a divulgare le assoluzioni dei propri assistiti, non certo le condanne, e comunque a sostenere per esse che si tratta di un errore giudiziario) o altre meno affidabili, senza che l’autorità giudiziaria possa correggere in continuazione, a tutela degli stessi indiziati, notizie parziali o distorte.
Soprattutto, in questo sistema volto a circoscrivere il più possibile le informazioni sui procedimenti penali, c’è il rischio che a pagare il prezzo maggiore siano i cittadini, i quali, non avvertiti, potrebbero cadere più facilmente preda della delinquenza. Si pensi alla realizzazione di truffe seriali, con modalità informatiche sempre più sofisticate per carpire le coordinate dei conti bancari, o con espedienti molto più banali, come il trucco di buttarsi per terra facendo credere a persone anziane intente a parcheggiare di essere stati investiti. Sono fatti per i quali è difficile sostenere, quantomeno per la loro frequenza, che sussistono “particolari ragioni di interesse pubblico” a renderli noti, ma che è utile divulgare per rendere più accorta la popolazione.
Per alcuni delitti poi è bene anche che degli indagati-presunti innocenti, una volta venuto meno il segreto investigativo, si faccia nome e cognome. Se un ginecologo è sotto inchiesta per avere violentato le proprie pazienti, consentire di identificarlo consentirà alle donne che frequentano il suo studio di decidere se intendono continuare a dargli fiducia o se, nel dubbio, preferiscono rivolgersi a un altro medico.
La lap dance di Camus, l’eschimese in pelliccia e le sciarpe di Trieste
Poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), l’unica difesa da questa nostra civiltà intesa al successo è affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.
Ogni maschio che ha visto un film di Bruce Lee crede segretamente di sapere il karate.
Tutte le mie ex si sono sposate con successo. Una di loro mi ha detto che per lei sono stato una specie di buon liceo. Sono soddisfazioni.
Ce n’era una che parlava per ore al telefono. Una volta riaggancia dopo appena tre quarti d’ora. Le dico: “Lo vedi che se vuoi ci riesci?”. E lei: “Avevo sbagliato numero”.
Il cotechino, l’insaccato di Capodanno da gustare con le lenticchie, continua a piacermi da matti anche dopo che ho scoperto col piccolo chimico cosa c’è dentro: suino, cartilagini, mucca, topo, dito tagliato, vipera, baffi, Renault, Aldo Moro, riempitivo, Corriere della Sera.
Idea per un film di fantascienza: L’asparago dallo spazio profondo. Un asparago gigantesco arriva sulla Terra con un meteorite e semina il panico finché un bambino non scopre come neutralizzarlo: maionese. Proporlo a Spielberg.
Ho uno zio di Trieste che è un fanatico del politically correct. L’hanno ricoverato per un’ernia: si era sforzato di non ridere vedendo cinque zoppi camminare insieme (Non ridete. Cosa siete, stronzi?).
La bora a Trieste è impressionante. Il vento è così forte che ogni tanto un passante viene strangolato dalla sua sciarpa.
Anni fa un giovane comico si lamentava: non voleva più fare serate, voleva una moglie, dei figli, voleva una vita. Turatello gli disse: “Ah, tu vuoi una vita. Credevo fossi un comico”.
A volte faccio cose perché voglio che la gente impari dai miei errori. Come quel Natale che ho provato a fermare un ventilatore con la lingua (Avete mai visto un ventilatore con la lingua?). (Lo so, sono molto divertente. Perché non ho alternative).
Mi piaceva quando mio padre picchiava mia madre perché le diventavano duri i capezzoli.
Quando ceno al ristorante, dico sempre che è il mio compleanno. Il servizio diventa migliore e lo spumante lo offre la casa. Coglioni.
“Appena mi sarò infilato il phon acceso nel culo mi amputerò il cazzo”. Perché non ho mai sentito dire questa frase? Perché nessuno l’ha mai detta. Sono il primo terrestre ad aver sistemato quelle parole in quell’ordine. Numero uno.
È tornata di moda la pelliccia. Finalmente una buona notizia per gli eschimesi, costretti da anni negli igloo in abiti di chiffon. (Avete mai visto un igloo in abiti di chiffon? E se sì, dopo quante volte lo humour sintattico annoia?).
Come gli esistenzialisti, considero assurdo l’universo, ma l’unica cosa che ho in comune con Camus è che anche lui esagerava con le mance alle ballerine di lap dance.
La petizione di Sallusti è un flop clamoroso
I grandi elettori li vedremo, i “piccoli” invece sembrano avere le idee chiare. Le due petizioni “gemelle” su Berlusconi – quella del Fatto Quotidiano e quella di Libero – non si può dire che godano esattamente delle stesse fortune. La lettera di Marco Travaglio, Peter Gomez e Antonio Padellaro contro i sogni quirinalizi dell’ex Cavaliere ha superato le 190mila firme e vola verso quota 200mila (che la farebbe entrare tra le prime 20 petizioni nella storia di Change.org, la piattaforma che la ospita). Quella del giornale di Alessandro Sallusti, pubblicata anch’essa su Change.org e ovviamente favorevole alla candidatura di Berlusconi, langue malinconicamente attorno alle 9mila firme. Sono meno del 5% della petizione del Fatto Quotidiano. Un risultato davvero magro, per le ambizioni dell’ex premier e della stampa di corte (tanto per ricordare un’altra iniziativa disastrosa, sono appena 3mila adesioni in più rispetto alla tragicomica raccolta di Italia Viva per abolire il Reddito di cittadinanza). A quanto pare in Italia ci sono 59 milioni e mezzo di franchi tiratori (meno 9mila) che ignorano Sallusti e boicottano l’ultima battaglia di Silvio.
La “logica” di Figliuolo: Zitti e buoni
Il generale Figliuolo inizia a sbandare. Al mattino, in una vellutata intervista al Corriere, ribadisce che l’esercito sarà impiegato nel tracciamento dei contagi a scuola, annuncio già fatto diverse volte con pochi risultati in tempi di bassi contagi, figurarsi ora. Il meglio lo dà però nel pomeriggio quando risponde serafico alle critiche sulle file per i tamponi: “Bisogna avere tanta pazienza. Spesso i cittadini fanno file e file ai Black Friday per acquistare il capo griffato… Giusto lamentarsi, vorremmo vivere in un Paese perfetto, però c’è gente che da due anni tira tutti i giorni: se si è presa un po’ di pausa anche il commissario se ne fa una ragione”. Ma a farsene una ragione è soprattutto la logica, visto che il Generalissimo paragona la libera scelta dello shopping griffato (peraltro piuttosto elitaria) alle code per i test imposti dal governo per lavorare, prendere il bus o partecipare a certi eventi. Di fronte a scelte – puntiamo tutto sui vaccini, nessun freno ai movimenti – che iniziano a non convincere, anche il Commissario naviga a vista. E intona “Zitti e buoni” senza essere un Måneskin.
Petrolio sporco del gruppo Moratti, chiusa l’indagine
Chiusa l’inchiesta sulle transazioni petrolifere della Saras, la società della famiglia Moratti. La Procura di Cagliari ha inviato nei giorni scorsi l’avviso di conclusione indagini, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Le accuse, per il reato di riciclaggio, riguardano la società e i manager della compagnia petrolifera, che secondo la Procura sarda (che ha proseguito un’inchiesta avviata dalla Procura di Brescia) ha comprato e venduto petrolio all’estero con modalità ritenute dagli investigatori illegali. Nel settembre 2020 i pm cagliaritani Danilo Tronci e Guido Pani avevano mandato la Guardia di finanza a perquisire gli uffici della Saras a Sarroch, in Sardegna, e a Milano. Tra il 2015 e il 2016, la società della famiglia Moratti aveva realizzato operazioni di trading petrolifero ritenute anomale. Tra queste, anche le importazioni, attraverso la società estera Petraco, di greggio proveniente dal Kurdistan iracheno, allora controllato dall’Isis. Senza bolle regolari e a prezzi stracciati, con ribassi che avrebbero permesso alla Saras un risparmio di circa 130 milioni di euro. Questa parte dell’indagine resta ancora aperta, in attesa di rogatorie all’estero che finora non hanno avuto alcuna risposta. La società Saras, in un comunicato, ribadisce la sua “piena estraneità a qualunque condotta illecita”. L’inchiesta non coinvolge Letizia Moratti (oggi vicepresidente della Regione Lombardia e tra gli ipotetici candidati al Quirinale) che non aveva alcuna carica ufficiale nella Saras guidata allora da suo marito Gian Marco Moratti, scomparso nel 2018. In quegli anni però, da presidente di Ubi Banca, era stata coinvolta in un’inchiesta della Procura di Brescia per finanziamenti milionari concessi da Ubi Factor a Saras Trading, società svizzera del gruppo Moratti.
È stata prosciolta penalmente, ma quelle operazioni sono state sanzionate dalla Banca d’Italia con una multa a Ubi di 1,2 milioni di euro.
Sul Cloud di Stato tutto come previsto Vincono Cdp-Tim
Alla fine è arrivato il verdetto, e non si può dire che fosse inatteso. Parliamo della partita del “Cloud” di Stato, il Polo strategico nazionale (Psn) destinato a ospitare e gestire i dati della Pubblica amministrazione attraverso la tecnologia della “nuvola”. Ieri il ministero per la Transizione digitale guidato da Vittorio Colao, ha reso noto il progetto migliore, sulla base del quale verrà poi bandita la gara a gennaio 2022. Gara che potrebbe anch’essa rivelare poche sorprese, visto che la cordata che ha presentato il progetto migliore potrà sempre pareggiare le offerte dei rivali (e vincere a parità di punteggio). A spuntarla è stata la cordata formata da Tim, la Cassa Depositi e Prestiti, Sogei (società del Tesoro per il digitale) e Leonardo (la ex Finmeccanica). In pratica, due società pubbliche e una (Leonardo) controllata dal Tesoro mentre Tim ha come secondo azionista proprio Cdp. Basterebbe questo a dare l’idea di una competizione quantomeno sui generis, se non fosse che è successo anche altro. A ogni modo, questo rassemblement ha avuto, come previsto, la meglio sulle cordate rivali: Fastweb-Engeneering e Aruba-Almaviva.
Breve riassunto. Per il Polo strategico nazionale il Piano nazionale di ripresa e resilienza stanzia 2 miliardi per spingere prima la Pa centrale poi quella locale a far migrare i dati oggi sparsi i centinaia di datacenter poco sicuri. Colao e compagnia hanno deciso di ricorre al “partenariato pubblico-privato”: in sostanza, chi vuole gestirlo deve presentare un progetto che preveda una partnership con una società a controllo pubblico per garantire la sorveglianza e la sovranità sui dati. Invece di scegliere la società pubblica per tutti e far competere i privati, si è scelto un meccanismo in cui però il governo è diventato arbitro e giocatore insieme. Nei mesi scorsi il Fatto ha raccontato le pressioni arrivate dai piani alti del Tesoro per spingere il Poligrafico dello Stato (controllato dal ministero) a rinunciare a partecipare insieme a Fastweb. Il Poligrafico ha replicato di aver scelto in autonomia, ma sulla vicenda sta indagando la Procura di Roma dopo un esposto depositato dal deputato Raphael Raduzzi (Misto). Vale la pena di ricordare che nel tempo si sono sfilate anche Fincantieri (controllata da Cdp e che studiava un progetto con Amazon) e che Leonardo, inizialmente data in partnership con Microsoft, si è accodata alla maxicordata Cdp-Tim.
Venendo al merito, la proposta vincente – si legge nella determina ministeriale – è stata scelta perché “matura, completa e innovativa sotto il profilo tecnologico, presentando inoltre il vantaggio di una possibilità di attuazione estremamente rapida”. In sostanza, si legge, ha accordi con “alcuni dei principali Cloud service provider (Csp), come Google Con Noovle, controllata di Tim per il Cloud, ndr”, che permettono di fornire servizi Cloud utilizzando la loro tecnologia ma anche con infrastrutture proprie e personale dedicato. Il progetto di Fastweb-Engeneering, pur adeguato sotto il profilo economico non è stato ritenuto tale sul piano industriale perché, si legge, non dava “adeguate garanzie” proprio sui Csp e sulla governance della società che gestirà il Polo strategico. Quello di Almaviva-Aruba è stato bocciato su tutti gli aspetti. È probabile che la partita finisca in tribunale. Il Psn targato Cdp-Tim prevede un servizio in concessione per 13 anni e, almeno nella versione consegnata al ministero di Colao a settembre, sono stimati ricavi per 4,6 miliardi con profitti lordi per 1,1 miliardi (il 25-28% del fatturato) a fronte di investimenti per 670 milioni. Insomma, la partita è rilevante, specie per Tim, che si trova in grosse difficoltà. E questo spiega la battaglia che si è dispiegata in questi mesi. E quella che ci sarà nei prossimi.
Il “trucco” per ridurre (sulla carta) i siti inquinati
Anche a voler dare per scontata, com’è giusto, la buonafede di tutti, questa storia è pazzesca. Anche se non se ne parla mai, in Italia esistono 41 Siti di interesse nazionale (Sin), più un’altra dozzina regionali, vale a dire un bel pezzo di territorio talmente inquinato che necessita di essere bonificato perché smetta di mettere a rischio vite umane: Taranto, Priolo, Brescia-Caffaro, i laghi di Mantova, Porto Marghera, eccetera eccetera. Ebbene, nonostante questi posti siano lì da decenni, bonifiche non è che se ne siano viste molte: solo il 17 per cento concluse secondo i dati ufficiali.
Già così sarebbe abbastanza, ma la novità degli ultimi giorni è che – tramite un emendamento al cosiddetto “decreto Recovery”, divenuto legge giovedì – il Parlamento ha introdotto una norma che rende più semplice e snello “riperimetrare” i Sin. Tradotto: diminuirne le aree, che in genere – va ricordato – sono insediamenti industriali ancora attivi.
“Riperimetrare” è un grido unico che, dall’Alpi al Lilibeo si sarebbe detto anni fa, attraversa la penisola, almeno da quando s’è capito che i soldi per questi territori martoriati non sarebbero arrivati con l’elicottero, ma col contagocce: stare in un Sin per un’impresa significa avere più obblighi, più controlli, più spese. E invece ora si festeggia: entro un anno, tramite apposito decreto del ministro della Transizione ecologica, “sono effettuate la ricognizione e la riperimetrazione dei siti contaminati” che per qualche motivo misterioso “non soddisfano più i requisiti” del codice dell’ambiente.
Festeggia in particolare la proponente della bella novità. “L’approvazione dell’emendamento al decreto Recovery, grazie al parere positivo del governo, è un’ottima notizia”, dice Stefania Prestigiacomo, oggi deputata di Forza Italia, un tempo ministra dell’Ambiente e, sia detto en passant, coinvolta in prima persona dalla vicenda: un paio delle aziende di famiglia (la Ved Srl, in cui lavorò anche Stefania, e la Coemi) sono dentro il Sin di Priolo-Siracusa. Un altro, più oscuro, parlamentare berlusconiano, Sergio Torromino, ci spiega perché tanta fretta a partire dai destini del Sin Crotone-Cassano-Cerchiara (che ovviamente, secondo lui, va ridotto): la mitica riperimetrazione serve ad ampliare la futura Zes (Zona economica speciale) in quella parte della Calabria e bisogna farlo ora perché queste benedette Zes sono “una grande opportunità per il Sud dell’Italia” su cui “il Pnrr stanzia 660 milioni di euro”.
Arrivederci al Sin, benvenuta la Zes. E l’inquinamento? Al Mite sminuiscono il pericolo. La prima versione dell’emendamento Prestigiacomo, raccontano fonti del ministero, era una vera bomba e metteva gran parte del potere di ridisegnare i confini dei Sin in mano ai Comuni: così invece la palla resta al ministero, che anzi per decidere non avrà più bisogno dell’accordo con Regioni ed enti locali.
Nel merito, spiegano, la norma ha una sua razionalità: in alcune zone i Sin furono a suo tempo effettivamente “allargati” dai Comuni oltre il dovuto nella speranza di intercettare più fondi per le bonifiche, che poi però – come detto – non si sono visti; in qualche caso, peraltro, dopo la ricognizione si potrebbe verificare anche un ampliamento del Sin (la falda acquifera contaminata a Brescia-Caffaro negli anni si è spostata).
L’ottimismo del ministero guidato da Roberto Cingolani non è, per così dire, unanimemente condiviso. “Questa norma mira a ridurre i perimetri delle aree da bonificare: è una vergogna”, dice al Fatto Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde: “Così si calpesta ulteriormente il principio ‘chi inquina paga’ e si liberano quelle società e aziende che hanno inquinato terreni, falde e fondali marini dall’obbligo di procedere alle bonifiche. In Italia gli inquinatori non hanno mai pagato per i disastri ambientali provocati come nel caso di Taranto, Priolo e altri. Oggi in Italia ci sono 41 Siti di interesse nazionale – di cui 4 nella Sicilia di Stefania Prestigiacomo – per un totale di 161.250 ettari di aree a terra e a mare. Il fallimento sta in questi dati: il ministero dell’Ambiente ha approvato progetti di bonifica sul 14 per cento della superficie, le aree con bonifica conclusa sono pari al 17 per cento”.
Ora potrebbero salire: basta riperimetrare.