Cinque dei sette top manager di Amnesty International hanno deciso di lasciare il posto dopo che un rapporto interno, pubblicato a febbraio, ha denunciato la presenza di un clima avvelenato all’interno dell’organizzazione. Abusi di potere, umiliazioni, bullismo, discriminazione. Quadro a tinte cupe quello emerso dall’indagine voluta dal segretario generale Kumi Naidoo dopo che l’anno scorso 2 dipendenti si erano suicidati nelle sedi di Parigi e Ginevra nel giro di un mese. Uno, il 65enne Gaëtan Mootoo, aveva anche lasciato una lettera in cui raccontava di essere molto stressato per il troppo lavoro e di essersi sentito “abbandonato e dimenticato”. Il rapporto, realizzato dal KonTerra Group con l’aiuto di un team di psicologi, è basato su colloqui con quasi 500 dipendenti: in molti hanno fornito esempi dettagliati di episodi di bullismo subiti da parte dei dirigenti. Alcuni hanno rivelato di essere stati sminuiti e insultati durante le riunioni con frasi come: “Sei una merda! Dovresti andartene. Se resti, la tua vita diventerà un incubo”. Altri hanno denunciato discriminazioni di genere, razziali e ai danni dello staff Lgbt. Il management aveva creato una dinamica del “noi contro loro”, un clima “tossico”.
Perché solo in Italia il sole non ride
Nel caleidoscopio elettorale di queste ultime europee, c’è un elemento che si riflette in un doppio specchio, come quelli usati nei giochi di prestigio o di illusionismo. Fra tanti responsi più o meno prevedibili e previsti, il boom dei Verdi supera anche i pronostici più favorevoli. Con il 9,2%, hanno conquistato 69 seggi nel nuovo Parlamento di Strasburgo, superando perfino i partiti di stretta osservanza sovranista. Sotto l’“effetto Greta”, la sedicenne svedese assurta a eroina dell’ambientalismo su scala globale, i “Green” costituiscono così un gruppo che potrà avere un peso determinante in un’alleanza alternativa, democratica e progressista. Ma il doppio specchio riflette anche l’immagine deformata dei Verdi italiani, fermi appena al 2,3%, sotto la soglia di sbarramento che consente di accedere alla nuova Assemblea (4%). Un flop tanto più evidente e desolante in confronto all’exploit degli ambientalisti negli altri Paesi europei, dalla Germania ai Paesi Bassi, dall’Irlanda alla Francia. Neppure le delusioni provocate agli ambientalisti italiani, e in particolare pugliesi, dai ripensamenti dei Cinquestelle sulla mancata chiusura dell’Ilva e sul Tap, il gasdotto trans-andriatico che sbarcherà sulla costa salentina, hanno portato acqua al mulino del “Sole che ride”. E parlando di una forza politica che aspira a rappresentare e difendere interessi vitali, come lo sviluppo sostenibile e la lotta al cambiamento climatico, si tratta di una débâcle che assume una dimensione più ampia e interpella un elettorato più vasto.
Come si spiega un insuccesso di tale portata, nel momento in cui i “Green” esplodono nel resto d’Europa? Quali sono le cause da cui dipende? E soprattutto, come si può correggere o invertire una tendenza che altrimenti porterebbe i Verdi italiani all’estinzione, come certe specie animali o vegetali che gli stessi ecologisti tenacemente tutelano?
Sarebbe inutile e ingiusto fare il processo agli attuali dirigenti del “Sole che ride”, con in testa il loro coordinatore Angelo Bonelli. Questa è una crisi che viene da lontano, che risale indietro nel tempo e chiama in causa una catena di responsabilità, vecchie e nuove. Per provare a dirla in sintesi, ai Verdi italiani manca un’identità, un programma e una guida capace di aggregare consensi, in particolare fra gli elettori più giovani e fra quelli “trasversali” che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra tradizionale.
Personalismi, antagonismi, rivalità, lotte di potere, hanno logorato l’immagine e la credibilità dei Verdi nostrani, trasformandoli in un partitino fatto di piccoli feudi e piccole clientele. Pur avendo guadagnato qualche merito nella partecipazione ai governi dell’Ulivo e dell’Unione, con le presenze di Edo Ronchi (ministro dell’Ambiente), di Alfonso Pecoraro Scanio (prima ministro delle Politiche agricole e poi dell’Ambiente) e di Gianni Mattioli (Politiche comunitarie), in realtà la galassia ambientalista non è riuscita finora a trovare – per dirla con le parole in musica di Franco Battiato – un “centro di gravità permanente”. Nonostante l’impegno di diversi coordinatori e portavoce nazional, come Francesco Rutelli, Carlo Ripa di Meana, Luigi Manconi e Grazia Francescato, la federazione è rimasta orfana di un leader e di una leadership, cioè di una linea politica riconosciuta e riconoscibile, in bilico fra il radicalismo ecologista e il pragmatismo o l’opportunismo governativo.
Più volte fondati e rifondati nel corso della loro storia, illuminati dal logo dell’Arcobaleno e ispirati dai simboli della Pace, oggi i Verdi italiani farebbero bene ad azzerare il tesseramento e a rilanciare il loro reclutamento: magari attraverso una “piattaforma Cederna”, o come la si voglia chiamare, su cui ridefinire la propria identità ed elaborare un programma condiviso con la base più ampia possibile. Per rientrare a pieno titolo nella famiglia europea, il “Sole che ride” non ha bisogno di un’icona con le treccine e gli occhi vitrei. Ma di un leader o di una leader che incarni l’ambientalismo nel Paese più bello del mondo e fortunatamente più ricco di beni artistici e culturali.
Partiti da Monfalcone i missili per la guerra saudita in Yemen
Trecentosessanta bazooka e 415 missili anticarro ucraini destinati al ministero dell’Interno dell’Arabia Saudita, a Gedda, sono partiti ieri dal porto di Monfalcone (Gorizia). A curare la spedizione, Bahri Bolloré Logistics, joint venture fra il gruppo francese Bolloré e la società parastatale araba Bahri, la stessa che arma la Yanbu, a cui dieci giorni fa i portuali genovesi impedirono il carico di materiale a potenziale uso bellico.
Nel caso monfalconese di potenziale c’è poco. Ma, a differenza di Genova, si è riusciti a tenere i portuali all’oscuro. La polizza di carico, che il Fatto riproduce, indica che l’imbarco delle armi è avvenuto a Olvia in Ucraina il 18 maggio. Bahri ha noleggiato la nave Norderney, bandiera di Antigua e armatore tedesco (Mlb Shipping), che ha scelto l’agenzia Marlines per la toccata a Monfalcone, necessaria a caricare prodotti ferrosi. Questa – la ricostruzione è della Capitaneria di Monfalcone – ha comunicato agli organi di sicurezza la natura del carico. Alla Capitaneria, in primis, perché lanciarazzi e munizioni rientrano in classe 1, riguardo cui un’ordinanza della Capitaneria stessa vieta operazioni commerciali. “I container, siti in coperta e cioè all’esterno, non sono stati movimentati, sono solo in transito. Quindi abbiamo consentito l’attracco”, ha spiegato Virginia Buzzoni, ufficiale della Capitaneria. Oltre a non informare i portuali che avrebbero dovuto muoversi su una nave piena di esplosivo, nessun provvedimento è stato preso dagli organi di sicurezza salvo un “pattugliamento a terra” della Capitaneria: nessun coinvolgimento di vigili del fuoco o scorte armate, malgrado l’evidente sensibilità e pericolosità del carico. “Competenza di Questura e Prefettura”, ha precisato Buzzoni. Alcuni controlli sul carico sono stati eseguiti da polizia di frontiera e dogana su input della Prefettura avvertita da Marlines, senza rilevare difformità con la documentazione e senza informare i lavoratori della natura dell’ispezione. Nessun provvedimento ulteriore è stato però adottato e la nave è ripartita.
Irreperibile il prefetto, oltre che la sicurezza i dubbi riguardano la compatibilità dell’operazione con i trattati internazionali che impegnerebbero l’Italia a impedire il transito di armamenti verso un Paese, l’Arabia, coinvolto nella guerra “sporca” yemenita. “I porti italiani non devono essere luogo di passaggio di armi, men che mai quando sono chiusi alle persone vittime di quelle stesse armi. Chiederemo lumi alle istituzioni perché anche la sicurezza dei lavoratori è in pericolo in operazioni come quella sulla Norderney”, ha dichiarato Valentino Lorelli, segretario regionale Filt Cgil, il sindacato protagonista della protesta genovese. Nelle stesse ore, Laurent Pastor, sindacalista Cgt dei portuali di Fos-sur-Mer, dichiarava che “lo scalo di Fos non servirà a caricare armi o munizioni”. L’allarme si è diffuso quando ieri la testata Disclose (la stessa che aveva sollevato il caso Yanbu) ha annunciato che nel porto vicino Marsiglia sarebbero stati imbarcati sulla Bahri Tabuk (come ipotizzato dal Fatto) i cannoni Caesar il cui carico sulla Yanbu era stato impedito a Le Havre da portuali e attivisti. “Quello di Fos ci è stato presentato come carico civile, ma presenzieremo alle operazioni, perché la fiducia ha un limite”, ha avvertito Pastor, mentre il ministro della Difesa Florence Parly assicurava in Parlamento verifiche, pur sottolineando come “non sarebbe stupefacente una spedizione di armi verso l’Arabia, Paese con cui abbiamo un solido partenariato”.
A Genova, intanto, è in arrivo la Bahri Abha, ma la merce rimasta a terra, stando a fonti portuali, non si muoverà a breve, non prima del vertice fra istituzioni e sindacati fissato per lunedì.
Ardita contro Cafiero de Raho in difesa di Nino Di Matteo
In difesa di Nino Di Matteo è intervenuto Sebastiano Ardita, consigliere togato del Csm, di Autonomia e Indipendenza, dopo che il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ha estromesso dal “pool stragi” il pm del processo “Trattativa” ora in Pna, per un’intervista su La7, in ricordo della strage di Capaci. “Premesso che non è possibile esprimersi sulla questione tecnica delle ragioni della revoca senza aver letto gli atti, ha dichiarato Ardita, l’intervista la condivido e mi sembra fondata sulle risultanze ormai pubbliche dei processi”. Effettivamente, Di Matteo ha parlato di elementi, come il ritrovamento a Capaci di un guanto da donna, già scritti nelle sentenze, e che fanno dubitare della matrice solo mafiosa anche per la strage in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ma per Cafiero de Raho, quelle riflessioni Di Matteo avrebbe dovuto farle solo con il gruppo “stragi”. Il provvedimento di revoca ora dovrà essere esaminato dal Csm. Che potrà confermarlo o ritenerlo infondato.
Tra la Capitale, la Sicilia e Milano
Consiglio di StatoL’avvocato Piero Amara, già legale esterno di Eni, ha patteggiato tre anni di reclusione e 75 mila euro di multa con la Procura di Roma. L’accusa è associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale, false fatturazioni e alla corruzione in atti giudiziari. Era ritenuto a capo di un “sistema” per pilotare le sentenze nei tribunali ordinari e amministrativi, fino al Consiglio di Stato. Il suo collega Giuseppe Calafiore ha patteggiato 2 anni e 9 mesi e 30 mila euro di multa
Sistema SiracusaA Messina Amara è indagato e ha chiesto di patteggiare, anche qui per associazione per delinquere con Calafiore. Per indirizzare le inchieste a Siracusa, si è servito dell’ex pm Giancarlo Longo, che a sua volta ha patteggiato cinque anni
Il Caso Eni-Napag A Milano l’avvocato è indagato per depistaggio: avrebbe inviato esposti anonimi alle Procure di Trani e Siracusa, per aprire indagini che sarebbero servite a indebolire l’inchiesta milanese sulla corruzione internazionale per il giacimento nigeriano Opl245: oggi sono imputati l’ad Claudio Descalzi e l’ex Paolo Scaroni. È anche indagato per induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e per autoriciclaggio. Amara avrebbe stipulato un “fittizio contratto di compravendita” di 25 milioni di euro tra l’Eni e la Napag, società a lui riconducibile, in cambio del “silenzio” sul “coinvolgimento dei vertici Eni nell’attività di inquinamento probatorio” (s. c.)
Procura di Roma spaccata Esposto su Pignatone e Ielo
Il presunto conflitto tra l’attività inquirente di due magistrati con quella professionale dei loro fratelli, entrambi avvocati di grido, sta spaccando la Procura di Roma. Roberto Pignatone, 61 anni, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo, ha ottenuto nel 2014 un incarico da Piero Amara, poi destinatario di una richiesta di arresto della Procura di Roma. Il sostituto procuratore di Roma Stefano Rocco Fava, 52 anni, ha scritto al Consiglio Superiore della Magistratura per segnalare il comportamento del suo ex capo Giuseppe Pignatone, da poco andato in pensione, che non si è astenuto. Nell’esposto di Fava è citato anche il caso dell’aggiunto Paolo Ielo, tuttora a capo del pool reati amministrativi della Capitale. Domenico Ielo, 49 anni, titolare di un suo studio associato con sede a Milano, ha fatto legittimamente il consulente per l’Eni, società che a sua volta è finita nel mirino della Procura perché i pm hanno scoperto pagamenti per decine di milioni da Eni a una società di nome Napag. Secondo il pm Fava quella società sarebbe stata riferibile allo stesso Amara. Il titolare di Napag – Francesco Mazzagatti – e Amara negano.
All’esposto sono allegate le carte, depositate da molto tempo a Roma, provenienti da altre indagini di Siracusa, che documentano i rapporti del fratello minore di Pignatone. In testa c’è la lista dei testimoni depositata nell’ottobre del 2014 dall’avvocato Mangione che difendeva Amara a Siracusa per una storia di false fatture. Tra i testi a difesa spicca il “prof. avv. Roberto Pignatone affinché riferisca nella qualità di consulente tecnico di parte sulla relazione tecnica fiscale dallo stesso redatta”. C’è poi una fattura da 5 mila e 200 euro pagata dalla STI di Ezio Bigotti, anche lui arrestato poi dai pm di Roma, nel novembre 2014, sempre a Roberto Pignatone. Infine c’è la Nico Spa di Gianni Balistreri che registra una parcella di 5 mila e 344 euro nel luglio 2016 per Pignatone jr. La Nico era una delle società coinvolte in un giro di fatture sospette con le società dell’inchiesta su Amara. Balistreri non è indagato e le carte sono state trasmesse a Catania per competenza. L’esposto è centrato su Pignatone ma nel testo si fa riferimento anche all’astensione del procuratore aggiunto Paolo Ielo. Le ragioni non sono specificate ma al Fatto risulta che si tratti degli incarichi avuti dal fratello avvocato, stavolta dall’Eni, società che a sua volta ha pagato parcelle profumate al solito Amara per i suoi servigi.
Fava è un pm testardo, nato a Santo Stefano d’Aspromonte, che voleva colpire duro su Amara nonostante avesse già subito un arresto nel 2018 e avesse ottenuto un patteggiamento con l’assenso della Procura. Grazie alla sua collaborazione erano stati fatti altri arresti e ai pm è sembrata congrua la pena di tre anni più una multa. Fava però riteneva che la storia non fosse finita lì. E aveva puntato di nuovo Amara per i suoi presunti affari con la Napag, società di cui il Fatto ha già scritto, che ha fatto affari per decine di milioni di euro con Eni. Fava voleva colpire duro su questo filone ma Pignatone, confortato da Ielo e da altri aggiunti, ha stoppato il sostituto prima negando il suo assenso alle richieste e poi togliendogli il fascicolo, finito poi per un filone importante a Milano. Al centro dell’esposto di Fava c’è una riunione del 5 marzo scorso convocata da Pignatone nel suo ufficio per discutere dell’eventuale sua astensione in ragione dei rapporti professionali del fratello. Tutto inizia il 12 dicembre 2018 quando Fava chiede di accelerare nell’indagine su soggetti diversi da Amara. A quel punto l’aggiunto Paolo Ielo chiede di astenersi perché il fratello prende incarichi da Eni, società legata ad Amara. Al posto di Ielo subentra l’aggiunto Rodolfo Sabelli. Il 29 gennaio e il 4 febbraio 2019, però, dopo la richiesta di astensione di Ielo ma prima che Pignatone la accogliesse, ci sono due nuove riunioni. Ielo, ancora non formalmente astenuto, partecipa con Sabelli.
I due aggiunti non condividono le sue richieste e dicono in coro a Fava che non sono d’accordo sulla linea dura. Fava non concorda e l’8 febbraio scorso invia una seconda proposta di andare giù pesante anche nei confronti di Amara e di altri soggetti. Ielo a questo punto si astiene. La richiesta di Fava non viene approvata da Pignatone oltre che da Sabelli e quindi muore prima di nascere. Fava tiene il punto e fa notare a Pignatone i rapporti di suo fratello con Amara. A quel punto Pignatone convoca la famosa riunione del 5 marzo. Ci sono gli aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e il sostituto Mario Palazzi, quello che – con Ielo e Pignatone – ha condotto l’inchiesta Consip. Pignatone sostiene che tutti conoscevano i rapporti del fratello Roberto e nessuno aveva avuto nulla da ridire sulla sua “non astensione”. Fava nega. A lui Pignatone – spiega il pm – non aveva detto tutto sugli incarichi ricevuti dal fratello come consulente di Amara in Tribunale a Siracusa e anche della parcella alla STI di Bigotti.
Gli aggiunti si schierano con il capo. E questo fa presagire che – ove convocati al Csm – potrebbero sostenere la sua tesi. Passano appena 13 giorni e il 18 marzo Pignatone toglie il fascicolo a Fava. Il giorno dopo gli scrive una lettera con la sua versione dei fatti. Fava non è d’accordo e replica. Poi raccoglie il carteggio e lo allega al suo esposto. Pignatone sostiene che il procuratore generale di Roma, suo superiore, aveva rigettato le sue richieste di astensione. Il Csm potrebbe ora sentire i protagonisti. Pignatone è in pensione ma Ielo è in carica. Dalla sua l’aggiunto ha un dato formale: le due riunioni a cui ha partecipato sono precedenti all’assenso sulla richiesta di astensione. Anche se Fava lamenta la scarsa trasparenza perché non ha potuto vedere le richieste di astensione di Ielo e Pignatone. Il Fatto ha chiesto lumi a Roberto Pignatone, che non ha risposto. Domenico Ielo replica: “Assisto Eni dal 1999, quando lavoravo in un altro studio. Dal 2008 ho redatto decine di pareri per Eni e non ho mai conosciuto l’avvocato Amara”.
Nozze in casa Fca, Gaudio magno!
“Fca propone a Renault una fusione alla pari: ‘Nessun sito sarà chiuso’”. E poi: “La scommessa dietro l’accordo: l’auto come motore di innovazione”. E ancora: Alfa e Maserati, fiori all’occhiello di una gamma per tutti i mercati”. E per chiudere un ultimo titolo, che contiene forse una dose di involontario umorismo: “Elkann in Bocconi: il Paese non può sprecare talenti”. Questa profusione di ottimismo e rassicurazioni è concentrata in due sole pagine della Stampa, il quotidiano torinese di cui la Exor degli Agnelli si è disfatta, affidandolo al gruppo Espresso (di cui Exor tiene una piccola quota). Ma nei momenti importanti si torna ai bei vecchi tempi, quando il giornale era la voce ufficiale di casa Agnelli. E Repubblica, grazie alla quota di Exor, non si sottrae al compito di trasmettere positività e propone una pagina di tripudio: “Le nozze portano in dote modelli elettrici di lusso” (in dote a Fca di cui si riconoscono, va notato, “i ritardi sulle nuove tecnologie”). Il Corriere della Sera, di proprietà di un piemontese lontano dagli Agnelli come Urbano Cairo, è un po’ più cauto ma comunque annuncia “il rilancio della Fiat con nuove utilitarie: l’idea di una Punto elettrica”. Già si intravedono file ai concessionari. I dipendenti Fca superstiti, intanto, si chiedono quale sarà il loro destino nei prossimi anni.
Anche il ministro per purificare dal Gay pride
Guerra a colpi di aspersorio. Una volta nella Bassa di Modena Peppone si scontrava con don Camillo. Oggi la parte del diavolo tocca al Gay Pride, ma come avversario c’è il ministro Lorenzo Fontana. Dopo gli scudo crociati in politica sono arrivati i crociati.
Sabato le bandiere arcobaleno si troveranno di fronte i cattolici conservatori armati di acquasanta, pronti a purificare la città macchiata dal passaggio della manifestazione “contro natura”.
Sono giorni ormai che a Modena si sventolano le bandiere arcobaleno in attesa del corteo che il primo giugno sfilerà per le strade. “Una manifestazione piena di felicità”, promettono gli organizzatori. C’è anche il patrocinio del Comune. Ma, come ha raccontato il vaticanista Marco Tosatti, non a tutti è andata giù l’idea di vedere la città conquistata per un giorno da carri con drag queen. Da giovani che ballano e si baciano. E allora ecco pronta la ‘processione di pubblica riparazione’. A organizzarla il Comitato San Geminiano Vescovo (il patrono della città) che si è costituito per l’occasione. E che da giorni batte le strade cittadine inalberando giganteschi manifesti. Gli organizzatori della manifestazione non usano toni diplomatici: “Processione di pubblica riparazione contro lo scandalo manifesto del Modena Pride”. Poi l’immagine del Sacro Cuore sanguinante e una frase di San Tommaso: “Nei peccati contro natura, in cui viene violato l’ordine naturale, viene offeso Dio stesso in qualità di ordinatore della natura”. Per chi avesse ancora dubbi basta leggere il post sulla bacheca Facebook del gruppo, piuttosto sparuto a dire il vero: “Il popolo cattolico fedele alla Chiesa e al Magistero che condanna l’omosessualismo tracotante – oggi più che mai in auge – e l’omosessualità stessa, non potrà rimanere inerme, silente e fermo davanti a sì grave oscenità quale lo scandalo pubblico del “Gay-Pride”, che rappresenta il più basso livello di civiltà, oltre che di ragione (purtroppo, ottusa ed accecata dal peccato impuro contro natura)”. Il comitato si scaglia contro la ‘provocazione’ di aver disegnato un simbolo per il Gay Pride che ricorda il rosone del Duomo. Un post che ha raccolto decine di commenti. Praticamente tutti contrari. Si va da chi si limita a urlare online “Viva l’amore” a chi chiede “una processione di riparazione per la pedofilia della Chiesa”.
La polemica è servita. Anche se la processione “sarà seguita da quattro gatti e da mille telecamere”, come la liquida qualcuno con una scrollata di spalle nei bar tra piazza Grande e via Duomo.
Paradossalmente il disagio maggiore la processione potrebbe provocarlo proprio alla Chiesa. Vista la presenza, annunciata dagli organizzatori, di un sacerdote diocesano.
E c’è poi, immancabile, l’intervento del ministro leghista per la Famiglia e le Disabilità, lo stesso Fontana protagonista del congresso delle famiglie tenutosi in marzo a Verona: “Credo sia assolutamente condivisibile la vostra processione”. Il Ministro Fontana getta acqua (santa) sul fuoco: “Nessuno – si augura – tenti di ostacolare un raduno di preghiera pacifico e democratico. A differenza di quanto qualcuno auspicherebbe, è importante mostrare in pubblico i simboli cristiani che sono di fatto le nostre radici”.
A placare gli animi, però, dovrebbe arrivare la “Beata Vergine Maria” invocata dagli organizzatori a “rischiarare i cuori e le anime della società intera”. La Madonna invero di questi tempi è piuttosto impegnata: deve correre avanti e indietro, dai comizi di Matteo Salvini a Milano fino a Modena.
“Esplosivo del clan per la Raggi”: scorta con l’auto blindata
Da pochissimi giorni la scorta per la sindaca di Roma, Virginia Raggi, è stata rinforzata. L’agente della polizia municipale che finora l’ha accompagnata nei suoi spostamenti è stato sostituito da due poliziotti e ora tutti viaggiano su una macchina blindata, una Lancia Thesis. E poi ci sono le bonifiche nei luoghi che la prima cittadina deve visitare.
Insomma, c’è maggiore attenzione. Ma i motivi dell’innalzamento del livello di protezione sono tenuti riservati. Anche se c’è un episodio in particolare di cui è stato messo a conoscenza anche il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica.
Una circostanza che rimanda a una notizia che una fonte confidenziale ha trasmesso a un agente della polizia giudiziaria. La fonte ha rivelato che ci sarebbe l’intenzione di alcuni appartenenti ai Casamonica di colpire la sindaca ma anche la Procura di Roma che negli ultimi anni ha alzato l’attenzione sulle attività del clan sinti. Diverse operazioni giudiziarie hanno portato alcuni Casamonica in carcere e per la prima volta è stato contestato l’articolo 416 bis, ossia l’associazione a delinquere di stampo mafioso. La sindaca stessa, prima del ministro Matteo Salvini, era presente all’abbattimento di alcune villette di appartenenti al clan che ha sempre spadroneggiato a Roma.
La fonte confidenziale quindi avrebbe parlato anche della volontà di piazzare esplosivi. Naturalmente sono informazioni tutte da verificare, gli investigatori e le forze di polizia non si sbilanciano sulle connessioni tra la vicenda e il rafforzamento della scorta alla Raggi.
In ogni modo, non è la prima volta che chi si occupa di sicurezza, e anche quindi di quella della sindaca, viene allertato.
Appena nominata, la Raggi andò in Questura per segnalare pedinamenti sospetti. Disse di aver visto più volte diverse auto, sempre le stesse, che la seguivano durante alcuni suoi spostamenti nel periodo tra il primo e il secondo turno elettorale, nel giugno 2016, quando si votava per il nuovo inquilino al Campidoglio e pure nelle settimane successive.
Non si è mai saputo se si trattasse di giornalisti, fotografi o altro. Fatto sta che già in quell’occasione il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica le assegnò un primo servizio di tutela, ossia la presenza di un agente di polizia armato che doveva accompagnarla durante tutti gli spostamenti.
Non solo. Sono solo di pochi mesi fa notizie di altre minacce. In un articolo del 28 novembre scorso pubblicato su Il Messaggero si parlava di controlli “ambientali” della Questura “nei pressi della casa di Raggi, in Campidoglio e nei luoghi frequentati dalla prima cittadina per motivi ufficiali. Si tratta di bonifiche e verifiche preventive”, scriveva il quotidiano mettendo in relazione queste attività di prevenzione con il blitz al Quadraro, nella periferia Sud-est della Capitale, quando è stato dato il via all’abbattimento di alcune villette abusive dei Casamonica.
Ora un nuovo episodio racconta di una sindaca nel mirino, che da pochi giorni gira nella Capitale su un’auto blindata e accompagnata da due agenti.
Renzi sminuisce Zingaretti: “È stato solo un pareggio”
Riecco Matteo Renzi. L’ex segretario del Pd riaccende la polemica nel suo partito. Il risultato di Nicola Zingaretti secondo il fiorentino è “un buon pareggio” e non un sostanziale passo avanti dopo tante tornate elettorali negative. Scrive Renzi nella sua consueta e-news: “Abbiamo perso 120.000 voti assoluti rispetto alle Politiche del 2018 ma abbiamo recuperato quattro punti percentuali. Ma questo era abbastanza normale, visto che hanno votato Pd i D’Alema, Bersani o chi aveva votato per altri partiti come Prodi”. Il merito degli eventuali progressi, secondo Renzi, è… di Renzi, neanche a dirlo: “Oggi la tattica del pop-corn dona una nuova chance al Pd – scrive – e mostra l’insufficienza del Movimento Cinque Stelle. Se oggi vedono sgonfiare il palloncino, lo si deve ai tanti, mi ci metto anche io, che hanno lottato per non fare l’accordo con loro. Non ci devono dire grazie, basta che non ci riprovino più”. Dal Nazareno non arriva nessuna replica ufficiale. Viene solo fatta notare un’analisi di Youtrend secondo la quale, rispetto al 2018, il Pd avrebbe “guadagnato circa 150 mila preferenze”.