La Lega è sovranista quanto Povia è metallaro

Salvini ha vinto le Europee ma non andrà a Bruxelles. Come l’altra volta. Commenta a caldo: “Domattina sarò nel mio ufficio al Viminale”. Un risultato senza precedenti. “Per chi è stufo di un’Europa serva dei poteri forti che vuole imporci l’austerità”. Salvini convince perché in Italia nessuno fa il fact cecking. In virtù del suo potere forte vuole abolire l’abuso d’ufficio (se un immigrato commette un reato si espelle l’immigrato, se un leghista commette un reato si espelle il reato). Si erge a paladino della famiglia tradizionale avendo figli fuori dal matrimonio e a paladino della sovranità nazionale facendosi dettare l’agenda da Juncker.

La Lega, in ossequio ai trattati europei, ha votato a favore del pareggio di bilancio in Costituzione. La quale stabilisce che la sovranità appartiene al popolo e il popolo ha diritto a stipendi decenti, ferie, riposo, servizi pubblici finanziati con tasse proporzionali al reddito. Salvini ha preferito la legge “dell’Europa dei poteri forti che vuole imporci l’austerità”: non ripristinare l’articolo 18, confermare i contratti a termine senza causale, fare la flat tax, obbedire alla Nato che chiede di spendere il 2% del Pil in armi invece che in servizi, nell’Italia con la metà dei dipendenti pubblici dell’Inghilterra del dopo Tatcher. Se Salvini è sovranista, Povia è metallaro. È però aiutato da giornali e Pd che invocano la minaccia del “Sovranismo” come improbabile unico fronte di forze opposte, da Le Pen o Mélenchon.

Dell’equivoco è vittima anche “La Sinistra”, lista erede dell’unico partito che aveva votato contro i Trattati di Maastricht per non “consegnare l’Italia a un regime di sovranità limitata”. Rifondazione e SI inseguono il miraggio del “terzo spazio tra sovranisti e destre liberali”, Lega pro Le Pen e Pd pro Macron. Ma lo schieramento di chi fa le riforme liberiste imposte dall’Ue è il medesimo. Ne fanno parte tanto FI e Pd quanto la Lega. E i 5 Stelle, oggi d’accordo a non ripristinare l’art.18 e comprare gli F35. Al governo del cambiamento si cambia idea.

Eurotrombati e imbarazzanti: chi ce la fa e chi resta a casa

E alla fine la guerra dei Duces si è conclusa zero a zero. Nessun Mussolini andrà in Parlamento europeo, malgrado l’effetto galvanizzante che avrebbe dovuto sortire il nome di Lvi sulla scheda elettorale. “Scrivi Mussolini”, recitava infatti lo slogan paraculo del pronipote Caio Giulio Cesare (un concentrato di romanità imperiale sulla carta d’identità), la testa di ferro usata da Giorgia Meloni per strappare qualche voto in più. Hanno scritto “Mussolini” 21.561 persone. Non è bastato: Caio è arrivato solo quinto tra i suoi Fratelli d’Italia al Sud. Per Alessandra Mussolini, sua cugina e nipote del Duce, le preferenze sono state 15.794 (terza piazzata nella lista di Forza Italia al Centro, dove gli azzurri eleggono solo Antonio Tajani). Si ferma quindi a due legislature in Europa: continuerà da semplice militante nel non proprio vivacissimo partito di Berlusconi.

Anche a sinistra si piange, e abbondano quelli che in lessico giornalistico vengono volgarmente definiti “trombati”.

Non è stata confermata per esempio Cecile Kyenge, ex ministra e ora pure ex eurodeputata. Ed ex moglie di Domenico Grispino, candidato nelle liste della Lega a Castelfranco Emilia (Modena). Il Carroccio – non sfuggirà – è il partito di Calderoli, lo stesso uomo che definì la Kyenge “un orango”. A Castelfranco la Lega con il suo 23,27% ha trascinato il candidato di destra al ballottaggio: se il signor Grispino risultasse eletto sarebbe davvero l’ultima beffa.

Non ce l’ha fatta nemmeno Emma Bonino: la sua creatura +Europa si è fermata un punto sotto il quorum del 4%, trascinando con sé anche l’alleato ex grillino Federico Pizzarotti e la sua lista di sindaci. Resta fuori, di nuovo, anche Pippo Civati. Dopo la beffa del 4 marzo – grazie alle manovre degli ex fratelli-coltelli di LeU che lo tennero fuori dai posti “nobili” delle liste – stavolta Civati ha condotto una campagna grottesca, mezzo dentro e mezzo fuori: dopo aver scoperto che nelle liste dei suoi Verdi erano “imboscati” due candidati di estrema destra, non potendosi ritirare, ha semplicemente smesso di chiedere voti. Ne ha presi comunque 8.096.

L’altro ex libero e uguale Nicola Fratoianni ha collezionato l’ennesima sconfitta di ciò che resta – almeno nominalmente – della sinistra italiana. Le sue 17.684 preferenze non hanno sollevato un risultato nazionale drammatico (si consolerà conservando lo scranno alla Camera, a differenza dell’ex senatore Corradino Mineo, pure lui rimasto seppellito sotto la stessa slavina rossa).

A Daniela Santanchè non sono bastati nemmeno i meloni. La pasionaria ex An, ex Destra, ex Forza Italia ora fiera sorella d’Italia, aveva pubblicato il più acuto degli slogan politici aggirando il silenzio elettorale: “Io domenica coltivo meloni”. Nel senso ovviamente di Giorgia. Santanchè ha preso quasi 8 mila voti, non abbastanza. E non sono abbastanza nemmeno quelli di Elisabetta Gardini, fuggita dalla decadente Forza Italia giusto in tempo per trovare un posto nelle liste meloniane, alle quali ha contribuito con 14.640 preferenze. Anche queste inutili.

A fronte di questo cospicuo elenco di sconfitti c’è quello di chi c’è l’ha fatta, malgrado guai piccoli e grandi con procure e tribunali. Per esempio l’eterno Lorenzo Cesa, ancora importante per Forza Italia al Sud con le sue 42.192 preferenze. Il nostro ha avuto un discreto numero di procedimenti a carico ma se l’è sempre cavata. A volte rocambolescamente: nel 2001 fu condannato a 3 anni e 3 mesi per corruzione, ma due anni più tardi la Corte di appello ha annullato tutto per una questione di competenza del Tribunale dei ministri, determinando il “non luogo a procedere”. Cesa però non è ancora sicuro di entrare a Bruxelles: dipenderà da quale collegio sceglierà Silvio Berlusconi (eletto da capolista in quattro circoscrizioni). Appesi all’ex Cavaliere ci sono anche Lara Comi (nei guai per la recente inchiesta sulle tangenti lombarde) e Nicola Milazzo (indagato per abuso d’ufficio). È sicuramente dentro, invece, un altro fuoriclasse azzurro delle preferenze, il molisano Aldo Patriciello, che anche stavolta ha portato a casa una ricca dote: 83.502 voti. Gli elettori gli hanno perdonato (di nuovo) il gran numero d’inchieste in curriculum (con diverse assoluzioni ma pure una vecchia condanna a 4 mesi per finanziamento illecito).

Nessun imbarazzo, tra gli elettori leghisti, nel confermare la fiducia ad Angelo Ciocca, che farà il bis a Bruxelles nonostante la condanna in primo grado (1 anno e 6 mesi) nella Rimborsopoli della Lombardia. Ma tra gli eletti salviniani c’è pure Cinzia Bonfrisco, beniamina della Giunta per le autorizzazioni del Senato, che l’ha sottratta a un processo per corruzione associazione a delinquere.

Il Tg2 e un trionfo che fa epoca

Sarà la festa, saranno tutti quei brindisi, il tasso alcolico che sale, la memoria che viene meno… il Tg2 però stavolta ha esagerato un pochino. Pure rispetto ai suoi standard. Il day after del trionfo di Matteo Salvini è stato celebrato dal direttore Sangiuliano e dai suoi ragazzi con una struggente intervista a tu per tu con il Capitanissimo. A tenere il microfono è la salvinista (ovvero l’addetta ai servizi sulla Lega) Maria Antonietta Spadorcia. L’incipit è un inno alla gioia in cui la giornalista però si fa prendere la mano: “Ministro, un risultato straordinario: oltre il 34%. Mai raggiunto da Forza Italia. Mai raggiunto, nemmeno nell’84 dal Pci che sull’onda emotiva della morte di Berlinguer raggiunse oltre il 33”. Un plebiscito! Un’affermazione epocale! Mai nessuno come il Capitano. Mai nella storia di questo disgraziato Paese. Né Berlusconi, né Berlinguer. Ma forse nemmeno nel Venezuela degli anni d’oro del caudillo Hugo Chavez. Bisogna sfogliare gli annali della politica italiana per andare a rintracciare una vittoria di questa entità. Bisogna tornare a ritroso, sfidare la memoria, compulsare i manuali, interrogare il corso della democrazia. Oppure bastava ricordarsi che cinque anni fa, nel 2013, Renzi prese il 40,8%.

Dalla Lombardia alla Calabria è corsa al taglio dei vitalizi

Consensi quasi unanimi nei Consigli regionali per l’approvazione della norma sul taglio dei vitalizi. Da nord a sud, arriva l’assenso sulla legge cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, che tanto aveva fatto discutere. Lombardia, Liguria, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Molise, Campania e Calabria hanno detto sì. Le Regioni non hanno avuto dubbi: la legge sulla “Rideterminazione della misura degli assegni vitalizi diretti, indiretti e di reversibilità” è una misura da attuare.

Il provvedimento, inserito dal governo nel Decreto Crescita, sancisce il passaggio dei vitalizi dei consiglieri dal sistema retributivo a quello contributivo, partecipando al sistema previdenziale nazionale con delle trattenute rapportate all’importo dell’attuale assegno. Le percentuali contenute nella legge sono quelle fissate nel corso dell’ultima riunione della Conferenza Stato-Regioni.

Le Regioni mancanti dovranno pronunciarsi presto: il termine ultimo per evitare sanzioni per l’approvazione della legge è il 30 maggio.

5Stelle al governo o all’opposizione?

 

Il vicepremier ha sbagliato tanto: prima pavido, poi picconatore

Il fatto stesso che molti si siano stupiti della scoppola fa capire quanto i 5S abbiano perso contatto con la realtà. E dunque con se stessi. Di Maio non è “il” problema del M5S e men che meno di questo Paese (imbarazzante il livore che molti intellò stanno vomitando su di lui), ma ha sbagliato tanto. Prima troppo pavido e poi troppo picconatore con Salvini. Si è sopravvalutato (vicepremier, capo politico, 2 volte ministro: anche meno, Luigi). Qualche scena patetica (il balcone, “aboliremo la povertà”, la “sacra teca” con la tessera numero 1 del reddito di cittadinanza). Alcuni colleghi tremebondi (Castelli, Sibilia). Avere avallato l’osceno salvataggio di Salvini sulla Diciotti. C’è poi il peccato di fondo per molti elettori di sinistra che li avevano appoggiati nel 2018: governare con la Lega. Quei voti non torneranno, altri forse sì. Unica strada: far saltare al più presto il Salvimaio, prendendo uno dei mille (giusti) pretesti che arriveranno, e tornare a fare l’opposizione: la cosa in cui più eccellono. Più faranno il predellino di Salvini e più evaporeranno.

Andrea Scanzi

 

L’Italia ha scelto l’uomo forte: la colpa è anche del Movimento

L’impressione che si riceve dai dati elettorali in Italia è che sia stato scelto “l’uomo forte”, con le sue lusinghe, le promesse di risolvere tutto in un battibaleno – anche i problemi gravi, gravissimi, quelli complessi, intricati, epocali. Lo schema si ripete. Come se non ne avessimo già avuto abbastanza nel passato… Altro che politica delle donne! Se però gli elettori compiono scelte del genere, immaginando di uscire dalla storia (senza valutarne il prezzo), la colpa va attribuita anche ai 5S che dovrebbero far riflettere, evitando quelle scorciatoie che portano solo a un pantano. Se si guarda all’esito dei voti in Europa, viene fuori che i sovranisti non hanno avuto la meglio. La profonda crisi ha aiutato a comprendere che l’Europa resta un grande progetto politico a cui non si può rinunciare. Sbaglia il M5S quando continua a indicarla come un nemico. Per modificarla serve, tuttavia, una chiara agenda di valori che rilancino la giustizia sociale dentro e fuori i confini nazionali.

Donatella Di Cesare

 

È stata una Caporetto: adesso governo col Pd o elezioni

Per capire il crollo del Movimento 5 Stelle bisogna tenere conto che un anno fa avevano preso troppi voti, nel senso che grazie alle molte promesse elettorali ha attratto voti molto al di fuori del suo elettorato, che alla prima delusione se la sono squagliata. L’accordo con la Lega ha fatto il resto. Adesso ci vorrà tempo, è stata una Caporetto. Se restano al governo e continuano come nulla fosse scompariranno alle prossime elezioni. Io, fossi nei 5Stelle, lascerei un po’ il cerino a Salvini, andando al contrattacco e facendomi dire di “no” su alcune iniziative sensibili. Dopodiché le strade sono due: o un governo con il Pd, soprattutto in vista dell’autunno e della manovra, oppure elezioni anticipate in cui pagheranno un sicuro scotto, ma che se non altro sarebbero la fine della discesa, dopo cui inizierebbe una fase nuova. Tutto questo ovviamente non più con Di Maio: dopo la sconfitta consiglierei una leadership collegiale, magari riconsegnando un ruolo diverso a Grillo.

Aldo Giannuli

Papa Francesco: “Che tristezza i porti chiusi”

Per rassicurare il premier Giuseppe Conte, ieri il vice Matteo Salvini ha citato papa Francesco e una tensione con la Chiesa che nelle ultime settimane di campagna elettorale il leghista ha tentato di stemperare, pur continuando a baciare rosari e a invocare l’aiuto divino: “Io non pongo condizioni. Conte è il presidente del Consiglio e ha la mia piena fiducia, hanno provato a farmi litigare con il Papa figuratevi se litigo con altri”.

Jorge Mario Bergoglio non ha mai pronunciato il nome di Salvini, per ragioni di decoro istituzionale che sono semplici da comprendere (fare diversamente sarebbe una ingerenza), ma non rinuncia a segnalare temi che gli stanno a cuore, come l’accoglienza ai migranti, che di fatto marcano la distanza da Salvini, e qui non c’entra l’udienza privata mai concessa che prima o poi ci sarà.

È accaduto di nuovo ieri durante una lunga e bella intervista a Televisa, una emittente messicana. Bergoglio introduce l’argomento: “Tutti i giorni veniamo a sapere che il Mediterraneo sta diventando sempre più un cimitero, solo per fare un esempio”. E poi alla domanda sui “porti chiusi”, risponde: “È triste, vero? In ogni modo, non ho detto solo questo io. Dei migranti dico, primo, che bisogna avere il cuore per accoglierli. Secondo, che ‘li accogliamo e poi li lasciamo’, no. Bisogna accompagnare, promuovere e integrare. È un intero processo. E ai governanti dico: vedete fino a che punto potete. Non tutti i paesi possono. E a tal fine è necessario il dialogo e che si mettano d’accordo. Bisogna integrare tutto ciò, non è facile affrontare il problema dei migranti, non è facile. Ora stiamo cercando, attraverso i canali umanitari, di portare alcuni da Lesvos e uno da Moria, non so se di uno o dei due campi, perché è un’emergenza mondiale.

Faccio sempre l’esempio della Svezia, che conosco molto ben in quanto dalla dittatura del ‘76 in poi in Argentina e in America Latina nella Operación Cóndor, gli svedesi operarono molto bene. È pieno di latinoamericani in Svezia”.

E poi Francesco segnala anche la questione dei rimpatri: “Non so se lei ha visto i filmati clandestini girati quando li ricatturano: le donne e i bambini vengono venduti, gli uomini li tengono come schiavi, li torturano. Quei filmati sono terribili. Se non li ha visti, io li ho e posso passarglieli. Allora dico, attenzione anche con i rimpatri senza sicurezza. Anche per rimpatriare occorre un dialogo con il Paese di origine e non semplicemente alzare un muro o chiudere le porte di casa. Perché il Papa si occupa oggi tanto dei migranti e parla tanto dei migranti? Perché è un problema scottante, attuale”.

A Telt le “lettere” di chi vuol fare il Tav: 3 mesi per dire sì

La data cruciale, 28 maggio, è caduta proprio ieri, due giorni dopo le elezioni. È il termine entro cui dovevano arrivare le “manifestazioni d’interesse” delle aziende che si candidano a realizzare il tunnel Tav tra l’Italia e la Francia. Lavori per 2,3 miliardi di euro, una bella fetta del costo totale della super-galleria, 9,63 miliardi. Arrivate per via telematica, le candidature ora sono chiuse nell’hard disk della Telt, la società pubblica metà italiana e metà francese incaricata della realizzazione della Torino-Lione.

Nei prossimi giorni una commissione dell’azienda stilerà l’elenco di chi ha chiesto di partecipare e poi Telt ha 90 giorni per le verifiche e la prima scrematura: dovrà ammettere chi ha i requisiti e scartare chi non li ha. Infine, ai primi di settembre, potrà partire la gara vera e propria, con i capitolati d’appalto e la presentazione delle offerte da parte delle aziende ammesse. La procedura per scegliere i vincitori dei tre lotti durerà circa 12 mesi, dunque potrebbe concludersi attorno al settembre 2020.

Questa fase definitiva, però, non prenderà l’avvio prima del via libera che dovrà essere concesso dai governi italiano e francese: un passaggio chiesto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella sua lettera inviata nel marzo scorso al presidente di Telt, Hubert du Mesnil, e al suo direttore generale, Mario Virano. Il governo ha dunque tre mesi per decidere se andare avanti oppure no sul Tav. I risultati delle elezioni, con il prevalere della Lega (favorevole alla Torino-Lione) sul Movimento 5 Stelle (unica forza politica che la considera una grande opera inutile), sembrano preparare un sì. Lo ha subito annunciato l’appena eletto presidente delle Regione Piemonte Alberto Cirio: “Dobbiamo far ripartire la regione e farla correre veloce. Il Tav si farà, senza se e senza ma. L’opera era nel programma delle politiche di centrodestra dello scorso anno e ancora di più c’è nel mio programma per governare la Regione”.

Anche in Val di Susa, dove dovrebbe essere scavato il tunnel e dove è radicato da anni un forte movimento No Tav, i risultati elettorali della Lega sono stati migliori di quelli dei Cinquestelle. “Ma queste elezioni non possono essere lette come un referendum sul Tav”, sostiene Francesca Frediani, NoTav della prima ora e prima degli eletti Cinquestelle in Regione, con un numero di preferenze superiore alla tornata precedente. Anche l’unica del M5S eletta in Piemonte per il Parlamento europeo, Tiziana Beghin, è una decisa NoTav.

Al movimento contro la Torino-Lione è andata male a Susa, dove un leader storico come Sandro Plano è stato battuto, come sindaco, dal pro Tav Piero Genovese. È andata bene invece a Salbertrand, dove il sindaco Sì Tav Riccardo Joannas è stato sconfitto dal NoTav Roberto Pourpour. Salbertrand sarà importante nei prossimi anni, perché lì è previsto il grande cantiere lungo un chilometro dove dovrebbero essere portati tutti i materiali di scavo del tunnel e dove dovrebbe sorgere la fabbrica dei conci, gli anelli di calcestruzzo per rivestire la galleria.

Per ora non è possibile sapere quali e quante sono le imprese che hanno presentato a Telt la loro “manifestazione d’interesse”. Sono state però 106 le aziende che hanno partecipato, tra aprile e maggio, ai tre incontri a porte chiuse organizzati dalla società italo-francese a Roma, Parigi e Napoli. Provenienti da 16 Paesi tra cui Italia, Francia, Spagna, Olanda, Gran Bretagna, Svizzera, Australia, Hong Kong, Giappone, Corea, Malesia. Tra le italiane, hanno partecipato Pizzarotti, Cmc, De Eccher, Ghella.

Da Rixi alla “secessione 2.0”: i dieci temi per aprire la crisi

Uno ha vinto molto, l’altro ha perso moltissimo: i rapporti di forza tra Lega e 5 Stelle si sono rovesciati in modo traumatico rispetto al 4 marzo e l’hanno fatto quando la relazione anche personale tra i due gruppi dirigenti ha toccato i minimi storici. Tornare a governare insieme d’amore e d’accordo, insomma, è difficile, quasi impossibile: resterebbe, a quel punto, da individuare la causa della possibile crisi, che dev’essere tanto per i gialli che per i verdi “vendibile” al loro elettorato. Quali sono? Ne abbiamo elencate dieci in ordine di “pericolosità” immediata. Rixi. Nel senso di Edoardo, sottosegretario ai Trasporti e ras della Lega in Liguria: è sotto processo per peculato (per via delle cosiddette “spese pazze” in consiglio regionale) e da domani è attesa la sentenza. Il contratto di governo è chiaro: Rixi, anche se condannato in primo grado, non potrebbe più far parte dell’esecutivo. I leghisti però, dopo il caso di Armando Siri, non ci stanno: “Abbiamo già detto che Rixi resta al suo posto, la Lega ha deciso”, sostiene Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato, curiosamente già condannato per peculato anche lui. Il sottosegretario grillino Stefano Buffagni non è meno perentorio: “Se vogliono far saltare il contratto non hanno che da dirlo”.

Autonomie. Salvini – e soprattutto il suo partito al Nord – ora pretende che l’iter di approvazione delle intese con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna riprenda e sia veloce: com’è noto le proposte in particolare delle due regioni a guida leghista sono inaccettabili per i 5Stelle (e anche per la Costituzione, sostiene il ministro Tria), ma lo spazio di trattativa potrebbe essersi esaurito. La devoluzione di tutti quei poteri (e relativi fondi) alle Giunte regionali è di gran lunga una delle più importanti riforme istituzionali della storia repubblicana: difficile pensare di approvarla per quieto vivere e poi una rottura su questo sarebbe facilmente spiegabile da entrambi i partiti al loro elettorato.

Tav. L’Alta velocità Torino-Lione ha un enorme valore simbolico, ma il voto europeo e regionale in Piemonte sembrano averla spinta nella direzione del “si farà”: per bloccare l’opera, visto che i contratti per ora sono stati solo congelati, serve un voto del Parlamento e alle Camere non c’è una maggioranza No Tav. Forse il progetto sarà rivisto e reso meno oneroso (e ancor più inutile), ma è difficile pensare a un M5S che apre la crisi su un tema importante ma locale.

Dl Sblocca-cantieri. La Lega vorrebbe più “semplificazioni” nel settore degli appalti, il M5S fa resistenza: difficile, però, immaginare una crisi dichiarata sulle soglie per non fare la gara europea. Alla fine troveranno il modo di approvarlo, ma l’incidente d’aula sui decreti è sempre in agguato.

Dl Sicurezza bis. Salvini si aspetta l’approvazione in Consiglio dei ministri già questa settimana e, magari non così in fretta, dovrebbe ottenerla: a quel punto la palla passerebbe a Sergio Mattarella visto che alcune delle norme – pur ritoccate – presentano parecchi dubbi di costituzionalità (dalle multe per comandanti e proprietari delle navi che portano migranti in Italia fino alle misure irragionevoli e non proporzionali pensate per criminalizzare il dissenso di piazza).

Flat tax. Ieri Salvini ne ha annunciata una dal costo di 30 miliardi per l’erario: “Questa è la proposta documentata centesimo per centesimo che siamo pronti a portare in Parlamento, studiata nel dettaglio dagli economisti della Lega: riduzione fiscale e tassa piatta sui redditi di imprese e sui redditi delle famiglie sino a 50 mila euro”. Di Maio non può dire no a una riduzione delle tasse, tanto più che una misura del genere (la bizzarra flat tax a due aliquote) è nel contratto di governo: il tema rimanda, però, più in generale a quello dei conti pubblici; una misura del genere è compatibile solo con un massiccio sforamento dei vincoli Ue a cui – in campagna elettorale – il capo grillino si è detto contrario. Per Salvini, però, sulla flat tax a partire dal 2020 non si tratta.

Giustizia. La riforma che il Guardasigilli Alfonso Bonafede si appresta a portare in Consiglio non passerà tra le fanfare: la discussione non sarà facile, specialmente se Salvini vorrà inserire in quel testo la separazione delle carriere dei magistrati o la contro-riforma della prescrizione. Potrebbe essere rinviata sine die, ma non sarà l’argomento della crisi.

Conflitto di interessi. Un disegno di legge, per ora in fase larvale in commissione, che di sicuro non piace alla Lega: ma è appunto un ddl, l’iter di discussione e approvazione ne fa un “pericolo” assai lontano nel tempo. Probabilmente dalla commissione non uscirà mai.

Abuso d’ufficio. La sua abolizione è una delle proposte più bislacche di Matteo Salvini: non può passare in un governo coi 5Stelle e non sarà la causa della rottura.

Commissario Ue. Tocca alla Lega, non c’è molto da discutere: Salvini deve solo scegliere qualcuno che non faccia venire l’orticaria ai grillini.

Lady Giggino e aristide il giusto

Vola alto, altissimo la first lady dei Cinque Stelle, Virginia Saba. La fidanzata di Luigi Di Maio ha pubblicato un lungo post su Instagram in cui colloca il suo compagno (e il rivale Matteo Salvini) nella Grecia classica del V secolo avanti Cristo. “Aristide il Giusto – scrive Saba – era un politico ateniese così virtuoso che l’avversario Temistocle, noto per l’eloquenza, trovò con lui un’alleanza”. I due, Matteo e Luigi, non sono mai citati. Ma chi potrebbe essere mai il portatore di tante virtù? E chi c’è di più eloquente del Capitano, specie nelle sue imprescindibili dirette Facebook? “Una volta – continua la fidanzata del grillino – Aristide ebbe il compito di raccogliere gli ostrakon, tavolette di ceramica sulle quali gli ateniesi scrivevano il ‘no like’ (questa è una chicca, ndr) per giudicare democraticamente i politici. Gli si presentò un cittadino il quale consegnò il suo ostrakon per ‘quell’Aristide’, non sapendo di essere davanti a lui. Aristide da virtuoso prese il suo ostrakon senza dir nulla. Un po’ di tempo dopo il Giusto fu ostracizzato”. La politica è ingiusta, ragiona Lady Di Maio, perché “spesso la virtù sta nell’unico escluso”. Ma il tempo rimette ogni cosa al suo posto: “Fu poi la necessità a far sì che Aristide tornasse per sconfiggere i persiani”. Una meravigliosa e commovente lezione sulla politica. Una grande storia d’amore.

L’ex grillino contro la collega: “Quella va fermata con un colpo”

“Quella consigliera va fermata”. Un caso politico scuote il Movimento 5 Stelle a Catania. L’ex candidato sindaco Giovanni Grasso, nel corso di una telefonata con il vicesindaco Roberto Bonaccorsi (che non è del Movimento), sostiene che la capogruppo del suo stesso partito, Lidia Adorno, debba essere silenziata in qualche modo. “Questa non la finirà”, sbotta Grasso. Il suo interlocutore rilancia: “Ci vuole il colpo giusto”. E Grasso condivide: “Il colpo giusto ci vuole. È così”. Nella seduta consiliare del 20 maggio c’erano stati dei contrasti tra Adorno e Bonaccorsi, che l’aveva minacciata di querela. La capogruppo M5s di recente ha presentato un’interrogazione sull’appalto per la pulizia dei bagni comunali: 930 mila euro l’anno per soli 9 wc. Il collegio dei probiviri ha subito aperto un procedimento nei confronti di Grasso per valutarne l’espulsione, ma lui ha anticipato tutti lasciando i 5Stelle e aderendo al gruppo misto. “Respingo al mittente – ha fatto sapere – i tentativi di strumentalizzare una conversazione privata finalizzata solo a un chiarimento di natura politica”. Nella votazione a favore del dissesto Grasso aveva votato contro in dissenso col suo gruppo.