Ilva, il piano ambientale dovrà accelerare

L’annuncio era nell’aria e, peraltro, atteso dai cittadini di Taranto che il 24 giugno vedranno di nuovo sfilare il governo in città: “Il ministero dell’Ambiente ha provveduto all’emanazione del provvedimento di riesame dell’Aia, l’Autorizzazione di impatto ambientale per l’ex Ilva di Taranto”.

Il provvedimento è datato 27 maggio, lo stesso giorno in cui una delegazione della multinazionale di ArcelorMittal – i nuovi proprietari dell’Ilva – ha incontrato i tecnici del ministero a Roma venendo ragguagliata sulla situazione. La decisione segue un’istanza presentata il 21 maggio dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci del Pd. A quel punto il ministero ha potuto agire aprendo la procedura di riesame dell’Aia, cioè delle prescrizioni ambientali che l’acciaieria più grande d’Europa deve seguire fino al 2021 per poter rimanere aperta abbattendo le emissioni di sostanze inquinanti che uccidono i tarantini.

L’istanza del sindaco Melucci è avanzata per ragioni sanitarie sulla base degli “esiti del rapporto di valutazione del danno sanitario elaborati da Arpa Puglia e Asl Taranto”, in cui si evidenzia “un rischio residuo non accettabile per la popolazione” anche alla fine del “completamento degli interventi previsti” dall’Aia del 2012. L’istanza ha consentito dunque al ministro Costa di far partire il riesame.

Ora inizia un percorso di 120 giorni che vede coinvolti i ministeri della Salute e dell’Ambiente insieme all’Ispra, che lavoreranno sui dati della Asl di Taranto per quella che tecnicamente si chiama “valutazione del danno sanitario” dell’Ilva aggiornata ai livelli di produzione e alle prescrizioni ambientali attuate finora.

In sostanza, il sindaco di Taranto sostiene che l’acciaieria sia ancora troppo pericolosa: il “rischio residuo non accettabile” a cui fa riferimento l’istanza è quello basato sui criteri Epa, l’agenzia sanitaria degli Stati Uniti, più stringenti di quelli europei, per – ad esempio – alcuni tipi di tumori, le malattie cardiorespiratorie o polmonari (uno ogni diecimila abitanti). È questo che il lavoro di questi mesi dovrà accertare definitivamente.

Il primo effetto, se i dati non riserveranno sorprese, è che la nuova Aia acceleri il piano ambientale di ArcelorMittal: i famosi filtri che dovrebbero abbattere le emissioni, ad esempio, andranno installati assai prima del 2021 scritto nell’addendum al contratto di vendita; non è escluso nemmeno che, se dovessero emergere rischi per la salute, il tetto alla produzione venga lasciato a 6 milioni di tonnellate (alla fine del piano è previsto che salga a otto milioni).

Arcelor conosce la situazione e pare non avere obiezioni. Forse non a caso, sempre ieri, il sindaco di Taranto Melucci ha diffuso questa nota: “Apprendo che l’attuale gestore avrebbe dato nuove aperture sul rifacimento del principale altoforno nella direzione della decarbonizzazione. Non posso che compiacermene”. Forse su questo Arcelor sarà meno dialogante però: produrre a gas costa assai di più che farlo col carbone.

Merkel, Lagarde, o un’outsider: la Ue sceglie i nuovi leader. E l’Italia resta a guardare

Sono da poco passate le 22 quando Donald Tusk e Jean Claude Juncker, rispettivamente presidente del Consiglio e della Commissione uscente, escono dopo il vertice informale per dire che i 28 premier e capi di Stato Ue non sono arrivati a una quadra sul risiko delle nomine. Nessuno s’aspettava una fumata bianca: la trattativa si delinea tattica e complicata, con i principali attori indeboliti in patria, ma contrari a mollare il potere. S’inizia senza particolari liti e con i criteri di base definiti: alternanza di genere, equilibrio tra piccoli e grandi paesi. Per la guida della Commissione dovrà essere scelto un nome che possa essere votato dal Europarlamento, ma senza farselo imporre. E poi, sarà una spartizione tra i principali gruppi che dovranno comporre la maggioranza (Ppe, Pse e Alde). Si scelgono il presidente della Commissione, l’Alto rappresentante per la politica estera, il presidente del Consiglio europeo e quello della Bce. Nelle trattative entra anche il presidente del Parlamento.

Proprio il Parlamento prova a mettere i paletti: Ppe, Pse e Verdi chiedono che a guidare la Commissione sia uno degli Spietzenkandidat. Il primo a rivendicare l’incarico è Manfred Weber (Ppe). Ma è già fuori gioco. Emanuel Macron lo ha già stoppato e ha passato la giornata a tessere la sua rete, per portare alla guida della Commissione Margarethe Vestager, in quanto candidata per l’Alde, o un francese (Michael Barnier, Ppe, negoziatore della Brexit). La prima con cui negoziare è Angela Merkel: i due stavolta sono antagonisti, con l’Alde e il Pse che rivendicano un ruolo di traino rispetto al Ppe.

Se dovesse spuntarla la Vestager, a capo della Bce potrebbe andare un francese (si parla di Christine Lagarde) e la Merkel alla guida del Consiglio. Viceversa, se Barnier andasse alla Commissione, la Germania punterebbe alla Bce e il Consiglio andrebbe a un paese piccolo (alla Bulgaria con Kristalina Georgieva?).

Alla riunione del Ppe arriva un redivivo Silvio Berlusconi. Assente il sospeso Viktor Orban, praticamente già fuori. I Popolari insistono su Weber: ma pronti a ripiegare per portarlo alla guida dell’Europarlamento. Il Pse resta fermo su Frans Timmermanns. Ma per lui ci sarebbe pronta la poltrona di Mr Pesc: l’importante è la sponda con l’Alde. Intanto, Conte cerca di limitare i danni: un presidente della Commissione non ostile e un banchiere centrale in continuità con Draghi. Alla cena, i grandi sui nomi restano coperti: sarà Tusk a negoziare con gli Stati.

“Voglio un accordo chiaro altrimenti un lavoro ce l’ho”

“Li lascio sfogare qualche giorno, ma poi li convoco tutti e due e ci mettiamo attorno a un tavolo: o ci sono le condizioni per andare avanti o lasciamo perdere, io non resto qui a ogni costo, un lavoro a cui tornare ce l’ho”. In queste ore il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, tiene un profilo molto basso (unica dichiarazione: “Non mi sento commissariato”), ma ha chiara la strategia per gestire il dopo-elezioni: entro il weekend vuole un confronto di persona con Luigi Di Maio e Matteo Salvini, perché ha già capito l’aria che tira.

Uno, Di Maio, deve gestire i drammi interni ai 5Stelle che hanno dimezzato i voti e ora mettono in discussione il leader. L’altro, Matteo Salvini, ne approfitta per dettare a siti web e social l’agenda di un governo immaginario, una lunga lista di provvedimenti incompatibili con l’attuale maggioranza parlamentare e con il contratto Lega-M5S: Tav, decreto Sicurezza-bis, una flat tax da 30 miliardi… Conte non intende prestarsi a questo schema, cioè vedere Salvini che gioca a fare il vero capo del governo, nascondendo gli intenti egemonici dietro dichiarazioni di circostanza come “Conte ha la mia piena fiducia”.

Per questo il premier ha bisogno di quella che nella Seconda Repubblica si sarebbe chiamata una “verifica” di governo. Ristretta ai due vicepremier. Di Maio e Salvini, nella stessa stanza, magari con il contratto di governo sul tavolo, per definire insieme una lista di priorità su cui c’è un accordo e un’altra di temi su cui va cercato un compromesso. Così, se quello di Salvini è un bluff e la Lega vuole soltanto andare a votare provocando la rottura, si capirà. E lo stesso dal lato M5S: se il Movimento non è più abbastanza compatto da riuscire ad accettare qualche inevitabile concessione all’alleato di governo, meglio capirlo adesso invece che passare settimane in attesa di un incidente parlamentare, di qualche inchiesta giudiziaria, di una minaccia di elezioni anticipate. “Io non governo sotto la spada di Damocle del voto: chi lo vuole lo chieda subito o mai più, i bluff voglio scoprirli adesso” è la sintesi che usa Conte con i suoi collaboratori per spiegare che lui, di solito interprete anche degli auspici del Quirinale, ha bisogno di un chiarimento rapido.

Anche perché ieri lo spread, cioè la differenza di costo tra debito pubblico italiano e tedesco, è arrivato a 290 punti, prima di scendere a 284. I tecnici del ministero del Tesoro fanno quello che possono per arginare le speculazioni al ribasso e le pesanti vendite del debito che sono meno ovvie di quello che potrebbe sembrare. Dopo i risultati di domenica sera, molti analisti dei grandi fondi si sono sentiti rassicurati: con una Lega al 34 per cento ora è chiaro chi comanda e i due partiti smetteranno di sommare promesse insostenibili. Ci saranno solo quelle della Lega. Poi è arrivata la notizia della lettera della Commissione europea che il 5 giugno potrebbe fare il primo passo verso la procedura di infrazione per debito eccessivo. E soprattutto è arrivata la reazione di Salvini alla notizia: anziché rassicurare il mercato, come nuovo azionista di maggioranza della coalizione, il vicepremier leghista ha detto che “lo spread aumenta per convenienza di qualcuno”. E poi ha rilanciato un piano di flat tax da 30 miliardi difficilmente compatibile con una legge di Bilancio dove già bisogna trovare 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, altrimenti il deficit schizzerà al 3,5 per cento (garanzia di un’altra procedura d’infrazione).

Conte, appena arrivato a Bruxelles per la cena informale dei capi di governo sulle nomine Ue, chiarisce con i toni che gli sono propri che quelle di Salvini sono parole in libertà: “Non abbiamo ancora iniziato a discutere di manovra e riforma fiscale, fatemi riprendere dopo la competizione elettorale le fila del dialogo con gli esponenti di maggioranza, e inizieremo a esaminare tutti i dossier”. I tempi saranno rapidi: pochi giorni per fare il punto con Salvini e Di Maio. Meno di tre settimane per definire una strategia di bilancio, visto che il 5 giugno la Commissione, oltre a contestare il debito eccessivo del 2018, formulerà le raccomandazioni su 2019 e 2020. E al Consiglio europeo del 20 e 21 giugno Conte dovrà dire se le accetta oppure se l’Italia seguirà i bellicosi proclami di Matteo Salvini.

Nel bunker del Mise, Di Maio medita le dimissioni da capo

Due giorni e qualcosa dopo il diluvio, e i Cinque Stelle stanno già impazzendo. Luigi Di Maio trasforma il Mise in un bunker, dove raduna capigruppo e fedelissimi e medita con loro se offrire le sue dimissioni da capo politico all’assemblea congiunta di stasera, assieme a quelle dei Direttivi di Camera e Senato. Proposta che andrebbe poi votata dagli iscritti sulla piattaforma web Rousseau, con l’ovvia speranza di vederla respinta. Mentre di sicuro verrà offerta una segreteria politica con cinque membri, anche questa da votare su Rousseau, con cui spartire potere e oneri.

Così Di Maio e la sua cerchia ristretta sperano di uscire dall’angolo del 17 per cento delle Europee. Riottenendo la fiducia di eletti e base, e sminando così una congiunta che si presenta come uno psico-dramma, con rivoltosi di vario orientamento che lo aspettano per saltargli alla gola, muniti di uno o più documenti che dovrebbero certificare lamentele e richieste, e magari chiedergli di lasciare. E a guardare da fuori ci sono loro, i leghisti, che dentro la Camera sogghignano e infieriscono: “Ora l’agenda la detteremo noi, certo. Vediamo piuttosto se Di Maio regge…”.

Nell’attesa, il Carroccio mette tanta paura ai coinquilini chiedendo modifiche al Decreto sulla sanità della Calabria, in Aula a Montecitorio. Un testo che vorrebbe imporre a tutte le Regioni di nominare i direttori sanitari in base a graduatorie di merito. Ma la Lega si (ri)mette di traverso, e chiedeche la norma valga solo per le Regioni sottoposte a piano di rientro. “Quell’emendamento va contro il principio dell’autonomia” lamenta una leghista in commissione Affari regionali. E la ministra alle Autonomie Erika Stefani sta al gioco: “Non ne sapevo nulla”. Si discute di un voto di fiducia sul testo. Ma il Movimento dice no, perché teme l’agguato, ha paura che il Carroccio spinga il bottone rosso della crisi con un incidente. Così il voto viene rinviato a oggi. Si balla sulle uova, mentre Di Maio viene a sapere di capannelli a 5Stelle dove organizzano l’assemblea di oggi. Mentre dal Senato arrivano voci sul Carroccio che alza il tiro anche sullo Sblocca cantieri: e c’erano stati “problemi” anche nel vertice mattutino a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte e sottosegretari vari.

E ovviamente ai piani alti del M5S notano l’assalto. Ma la ferita vera la apre il senatore Gianluigi Paragone, tra i presenti alla prima riunione al Mise di lunedì, che ringhia al fattoquotidiano.it: “ La generosità di Luigi Di Maio di mettere insieme 3-4 incarichi deve essere rivista. Serve discontinuità, per ripartire il M5S ha bisogno di una leadership politica non dico 24ore su 24 ma non siamo lontani”. Abbastanza per far imbestialire Di Maio, che aveva appena appreso delle dimissioni da vicecapogruppo a Palazzo Madama di Primo Di Nicola: “una decisione per favorire una discussione democratica” spiega il senatore. Il problema è un altro, è Paragone, su cui piovono i sospetti dei dimaiani: “Lunedì sera è andato a cena con Alessandro Di Battista, il più duro nella riunione”. Ergo, la paura è che i due lavorino contro il capo. Così Di Maio e altri graduati, tra cui i ministri Bonafede e Fraccaro, telefonano al senatore. Conversazione tesissima, con lui che si giustifica: “Luigi, volevo solo dire che dovresti lasciare uno dei due ministeri, non era contro di te”. C’è una mezza riappacificazione. Ma il capo è agitato. Così convoca una nuova riunione al ministero dello Sviluppo economico, con Bonafede, Fraccaro, i capigruppo D’Uva e Patuanelli, e l’onnipresente Pietro Dettori. Questa volta, niente Di Battista. Da fuori, l’eco del capogruppo della Lega in Senato Francesco Romeo: “In caso di condanna il sottosegretario Rixi dovrà restare al suo posto”. Ma il dimaiano Stefano Buffagni resiste: “C’è un contratto di governo, il Carroccio dica se vuole farlo saltare”.

Un nodo di cui Di Maio e i suoi parlano, perché è in gioco il governo. Però ora balla innanzitutto lui, il capo, che propone: “Magari potrei lasciare il Mise”. Abbandonare una poltrona, per sedare le proteste. “Però questo farebbe il gioco del Carroccio, chiederebbero un rimpasto largo” gli fanno notare. Allora si vira sull’ipotesi delle dimissioni da capo politico, per ripartire. E sulla segreteria politica. Così arriva un post del presidente dell’Antimafia Nicola Morra, consultato in giornata. “Ora dobbiamo costruire, non cercare colpe o responsabilità” inizia, ed è un segnale da un chiaro oppositore. Segue proposta: “Troviamo 5 o più componenti del M5S, scelti con tutti gli attivisti, in grado di trovare la sintesi. Serve collegialità”. La strada per non morire, per Di Maio. E chissà se può salvare anche il M5S.

Monumento ai caduti

Non vorrei che i funerali anticipati dei 5Stelle e i festeggiamenti del Pd per il suo minimo storico e il massimo storico delle destre oscurassero eventi ben più certi e definitivi. Il primo pensiero di cordoglio va a Sandro Gozi da Sogliano al Rubicone (Forlì-Cesena), nostro idolo ex prodiano poi renziano poi gentiloniano, una sorta di eroe dei due mondi, anzi tre, visto che si divide fra l’Italia, la Francia e San Marino (della cui banca è consulente). Siccome in Italia non lo vota nessuno e lo trombano sempre, aveva deciso che la patria non lo merita e si era candidato in Francia, dove invece si sente popolarissimo. Ovviamente nel partito di Emmanuel Macron “La République En Marche”, di cui è un po’ il padre nobile, visto che il presidente francese – come rivelò lui stesso (Gozi, non Macron) aveva consultato proprio lui prima di fondarlo. “Scusa, Sandro, hai niente in contrario se faccio un partito?”. E lui, pancia in dentro e petto in fuori: “Fai pure, Emmanuel! Marchons!”. Di qui l’ideona (“al servizio di una nuova avventura che spero sia replicata altrove”, “una scelta pannelliana”, ma anche “una decisione che viene da lontano”, forse da San Marino) di cedere alle pressioni dell’Eliseo e di “rendermi disponibile” per il partito macroniano, che mai avrebbe osato sperare in un simile apporto di consensi e anche, diciamolo pure, di prestigio. Non capita a tutti il privilegio di avere un Gozi in lista. Uno che promette di “reinventare la politica in Europa” in senso “transnazionale” con la sola forza del pensiero, in qualità di “europeo di cittadinanza italiana” e “figlio rifondatore” dell’Ue dopo i “padri fondatori”, nonché di sbaragliare “l’incompetenza, l’improvvisazione e le fake news dei sovranisti” con le nude mani.

Ora, è con somma costernazione che ci vediamo costretti a comunicare ai milioni di fan transnazionali e intergalattici di Gozi che il loro beniamino è stato trombato anche in Francia: candidato al 22° posto in lista, è arrivato 22°. E indovinate quanti europarlamentari ha eletto la lista? 21. Colpa, ovviamente, degli incompetenti e improvvisati elettori francesi, obnubilati dalle fake news sovraniste che gli hanno remato contro anche Oltralpe. L’unica speranza di essere ripescato è che la Brexit cancelli i neoeletti britannici liberando 5 posti per i macronisti. Ma ci rifiutiamo di credere che un euroarrapato come lui possa mettersi a tifare Brexit per una questione di vile poltrona. Anzi, siamo convinti che, per coerenza, rifiuterebbe sdegnosamente il repechage. A parziale consolazione delle masse goziane in gramaglie, c’è la certezza che il loro e nostro idolo abbia presa bene la trombatura transnazionale.

Un po’ perché è già abituato a quelle nazionali, un po’ perché è un tipo sportivo e decoubertiniano, che già in tempi non sospetti aveva avvertito: “La mia non è una candidatura con scopi elettorali”. Lui infatti si candida alle elezioni non per essere eletto, a scopo ginnico-dietetico: per fare un po’ di moto. Ora però non vorremmo che, non avendo un posto di lavoro neppure in Francia, il governo Macron lo scambiasse per un sans papier e lo rimpatriasse col foglio di via alla frontiera di Ventimiglia o di Bardonecchia, o che la Gendarmerie lo scaricasse nottetempo nei boschi di Claviere con i consueti carichi di clandestini. In ogni caso, gli sia lieve la terra.

Altre luttuose notizie giungono dalla lista +Europa di Emma Bonino che, a giudicare dai titoloni e dagli intervistoni sui giornaloni e dalle masse ritte sulle barricate per salvare i 14 milioni annui di fondi pubblici a Radio Radicale, prometteva sfracelli. Avendo perso le elezioni politiche del 2018 col 2,55% con la soglia di sbarramento al 3, anche grazie al decisivo contributo di Tabacci (un antiabortista con la madrina dell’aborto), +Europa aveva deciso di perdere altri voti alleandosi col fantomatico partito di Federico Pizzarotti “Italia in Comune” (detto familiarmente “il partito dei sindaci” perché, oltre a quello di Parma, vantava pure quello di Cerveteri). E candidando altri noti sfolla-urne come Taradash e Della Vedova, un paio di ex grillini e un esercito di riciclati e voltagabbana, senza contare il tentativo purtroppo abortito (con rispetto parlando) di imbarcare pure Calenda. Insomma, per dirla con la Emma, che siede in Parlamento appena dal 1976, “una sfida liberal contro i sovranisti”, un sostegno agli amici del Pd “per marciare divisi e colpire uniti i populisti”, visto che “una lista unica prenderebbe meno voti”. Invece, divisa, ha preso il 3,09 con la soglia al 4, buttando nell’eurocestino 832.544 voti. Ma anche Bonino &C. fanno sapere che non si candidavano a scopo elettorale, no di certo. L’importante non era vincere, né tantomeno eleggere eurodeputati, ma partecipare. “Ottimo risultato”, commenta il coordinatore nazionale di Italia in Comune Alessio Pascucci. Tanto lui fa il sindaco di Cerveteri, Pizzarotti di Parma e la Bonino la deputata Pd. Dunque, dichiarano entusiasti gli eurotrombati, “l’esperimento è riuscito”. E il paziente è morto.

Sull’altro fronte, sempre a leggere le inchieste, le analisi e i titoli dei giornaloni sull’Italia in preda all’“Onda nera” del rinascente nazifascismo, il redivivo Duce e il risorgente Führer, si paventava un’irresistibile avanzata dell’estrema destra, capitanata da CasaPound-Destre Unite e Forza Nuova, dipinte come padrone incontrastate d’Italia a partire dalle periferie romane. Risultato: CasaPound-Destre Unite raccoglie un formidabile 0,33% e Forza Nuova un ragguardevole 0,15 (ben al di sotto dello 0,23 del Partito Pirata). Neppure sommando i loro voti, le poderose falangi mussoliniane riescono a eguagliare lo 0,6 del Partito Animalista. In attesa della marcia su Roma, ci si contenta della retromarcia.

Il rock non è morto, lunga vita a Don Felder

C’è chi, nell’anno del Signore 2019, afferma con certezza che “il momento della chitarra solista” – una delle componenti principali del rock & roll – sia a rischio estinzione (Rolling Stone). Ma è proprio così? A sentire Don Felder, uno con 50 anni di carriera alle spalle, che ha fatto parte degli Eagles, ha contribuito a scrivere un brano immortale come Hotel California, ha imparato a suonare la slide guitar da Duane Allman e che ha dato lezioni di chitarra a un imberbe Tom Petty, parrebbe proprio di no. E per ribadirlo senza possibilità di smentita, ha inciso un nuovo album, il terzo della sua carriera da solista, intitolato American Rock ’n’ Roll, a cui hanno preso parte eroi della sei corde come Slash, Joe Satriani, Peter Frampton e tanti altri. La copertina con la Gibson doppio manico che Felder suonò in Hotel California adagiata su una bandiera a stelle & strisce, indica quello che è lo spirito che domina nel disco, undici pezzi rock di cui uno solo in stile west coast, la splendida Sun: alla faccia di chi vorrebbe il rock estinto.

Irene, una carriera in “Grandissimo” stile

“Tutto può succedere/ il vento può cambiare direzione/ e la felicità/ ha la forma delle nuvole”. Irene Grandi ha deciso di festeggiare i suoi 25 anni di carriera in grande, anzi in Grandissimo (Cose da Grandi / Artist First), come titola il suo album, in uscita venerdì.

Il disco, anticipato dal video-singolo I passi dell’amore, è un lungo viaggio in compagnia di tanti ospiti, tra inediti e vecchi successi. Sedici canzoni divise in tre parti: il Capitolo 0 intitolato Inedita, con le nuove canzoni; il Capitolo 1 dal titolo Insieme, raccoglie i brani arrangiati in versione unplugged; e infine il Capitolo 2 denominato A-Live, in cui l’artista rivisita i suoi brani più famosi. Con la sua inconfondibile voce la rocker fiorentina torna a cantare ballad d’amore, dal sapore anni ’60, come Quel raggio nella notte, tra i cinque inediti sicuramente quello più intenso. Un pop d’autore che, come sempre, mescola l’energia del rock con la passionalità del soul. Bella anche la versione di Amore amore amore, dove al piano ritrova l’amico geniale, Stefano Bollani.

Per festeggiare questi 25 anni di musica, Irene Grandi, ha invitato diverse voci femminili del panorama italiano: da Carmen Consoli a Levante, da Fiorella Mannoia che duetta in Un vento senza nome a Loredana Bertè che, più rock che mai, canta in La tua ragazza sempre. “Loredana è la ragazza perfetta – spiega l’artista – per duettare su questo brano, la prima vera cantante rock che l’Italia abbia avuto, che ci ha insegnato un’attitudine sul placo grintosa e sensuale.”

Inoltre spicca la rivisitazione di Time is on my side (il tempo è dalla mia parte, ndr), brano portato al successo dai Rolling Stones nel 1964. Cover che gli è stata proposta dallo stesso ospite, Terence Trent D’Arby, che dal 2001 si fa chiamare, Sananda Maitreya. Il disco si chiude con un arrangiamento in presa diretta di, Bum bum, puro rock in stile U2. Grandissimo è un ritorno e una partenza, una festa di voci, suoni e sentimenti. Un regalo che Irene Grandi ha fatto prima a se stessa e poi ai suoi fan.

Cinquant’anni di disperata (eterna) speranza

In fatto di anniversari tondi, il 2019 è una riserva aurea. Dopo aver celebrato i vari Tommy, Led Zeppelin I e concerti sul tetto dei Beatles, e in attesa di un’estate calda con Woodstock e Neil Armstrong (in fondo anche l’allunaggio fu un evento pop) la ricorrenza di questa settimana è il compleanno importante dell’esordio di Crosby, Stills & Nash. Un cinquantenne sorprendentemente ben conservato, sul quale non ha agito troppo l’usura del tempo (Long Time Gone, cantavano preveggenti), del mito a volte stucchevole della West Coast hippy e delle miriadi di imitatori succedutesi nei decenni (dagli Eagles ai Fleet Foxes) di quella formula semplice ma vincente. Canzoni come Lady of the Island, Helplessly Hoping, Marrakesh Express o You Don’t Have To Cry, nella loro delicatezza e nei loro magici intrecci vocali, hanno dimostrato di possedere una singolare qualità a-temporale, pur rimanendo legate a filo doppio alla memoria di quella stagione musicale, culturale e (anche) politica. E oggi suonano molto meno anacronistiche di quanto sembrassero solo dieci anni dopo, quando i tre protagonisti – più il quarto incomodo che sarebbe arrivato da lì a pochi mesi, cioè Neil Young – si erano già lasciati, ripresi e ri-lasciati qualche milione di volte.

David Crosby, al quale i Byrds avevano da poco consegnato il foglio di via, Stephen Stills in pausa lavorativa dopo la fine dei Buffalo Springfield e l’amico inglese Graham Nash, desideroso di distaccarsi dal pop commerciale degli Hollies, si incontrano un giorno del 1968 in California a casa di Mama Cass (così narra la leggenda: in un’altra versione pare invece fosse chez Joni Mitchell). Armonizzano su una canzone scritta da Crosby e Stills, e scocca subito la scintilla. “Fu uno di quei momenti unici nella vita”, ha ricordato spesso Nash. Ed eccoli quindi nel maggio del ’69, svaccati su un divano sfondato, sulla copertina di un disco scritto e registrato quasi di getto, sull’onda creativa di quello “shining”. Le prime tracce vennero buttate giù a Londra a fine ’68, con Blackbird dei Beatles a suonare spesso sullo sfondo (e si sente nella costruzione di gran parte dei brani), ma è al sole della California che l’album prende la sua forma definitiva. I caratteri dei tre sono già ben definiti: il melodismo gentile di Nash, la tendenza al suono libero e ancora psichedelico di Crosby, le tentazioni latine (si senta il finale di Suite: Judy Blue Eyes, la dichiarazione d’amore per Judy Collins, nel quale si invita Nixon a togliere l’embargo a Cuba) e le tendenze accentratrici di Stills, che qui suona tutto il suonabile. A parte il successivo Déja Vu, con la Y di Young in più, la perfezione e la purezza di questo disco non verranno più replicate dai tre, almeno insieme. Riascoltarlo oggi, in tempi di “disperata speranza” e con la tentazione di prendere quale benedette Wooden Ships per scappare via dal mondo, può essere ancora confortante.

Lo squalo. “Roglic? Calcolatore Io invece do la mano”

“Non amo molto il contatto. Tutti vogliono un pezzetto di me. Ma a volte la rabbia, la stanchezza, lo stress mi fanno scappar via”.

Meglio farlo in corsa… e vincere questo Giro, no?

Non sono solito sbilanciarmi, né dire cosa farò o cosa penso di fare. Cercherò di provare a vincere.

Ovvio. Vincenzo Nibali di Giri ne ha già vinti due: nel 2013 e nel 2016. Uno ogni tre anni, dunque perché non nel 2019?

Bisogna che tutto funzioni: condizioni perfette, gambe che rispondano sempre bene. Il livello è altissimo: tra i migliori c’è davvero pochissima differenza. Occorre grande concentrazione (prudente per scaramanzia).

Pure tranquillità…

Io mi sento tranquillo. So qual è il mio valore. So cosa ho fatto in passato. So cosa posso fare (il verbo fare è fondamentale nel lessico del campione siciliano).

Nibali ama la discrezione, detesta le chiacchiere. Le interviste sono un dovere, non un piacere. Ieri no. Ieri è stato più loquace del solito. Nel giorno di riposo a due passi dall’aeroporto di Orio al Serio, si è allenato sotto la pioggia battente. Buon segno?

Non dico che mi piaccia pedalare sotto l’acqua, però mi trovo abbastanza a mio agio. (Un vantaggio che intende sfruttare. Il clima pessimo, infatti, condizionerà quel che resta di questo Giro. Le parole del ciclismo, diceva Fausto Coppi a Gianni Brera, le dettano i pedali. Sei tappe alla morte attendono Nibali e i suoi rivali).

Ora sembra molto più rilassato. Non c’è più la stizza al termine della tappa di Ceresole Reale, quando Primosz Roglic voleva stringerle la mano e lei hai tirato dritto…

La tappa di Ceresole Reale è stata complicata da troppo tatticismo. Quanto al gesto, per me la gara è una cosa, il fuori gara tutta un’altra. Quel giorno abbiamo perso tutti e due. È stata montata una polemica sul nulla. Lui mi ha dato il pugno, come fanno nel resto del mondo per salutarsi, io non sono abituato a quel gesto, andavo ancora veloce, non sono riuscito a frenare… però ci siamo parlati il giorno dopo… (piglia tempo, come a ripensarci… infatti parte la stoccatina). I miei nonni mi hanno insegnato a stringere la mano. Una stretta di mano può dirti tante cose: guardi l’altro negli occhi e capisci, da come ti stringe la mano, chi è.

Non è che c’era risentimento per il parassitismo di Roglic in corsa?

C’è rispetto, come sportivi. È la competizione che ci fa diventare molto più cattivi. Roglic è un calcolatore. Sta giocando le sue carte nelle tappe contro il tempo. Logico quindi il suo atteggiamento. Conta sulla cronometro finale, a Verona. Ha già vinto a San Marino e a Bologna. Corre in difesa, ha dimostrato di andar forte in salita. Può cercare di vincerlo lui il Giro, anche se ci sono molti scalatori pronti a dar battaglia, a cominciare da Richard Carapaz, la maglia rosa: è in grande condizione. È solido. Un altro probabile vincitore.

Dunque, partita a tre?

Al Giro non si deve dare mai niente per scontato. La terza settimana è cruciale: soprattutto in questo Giro con tutte le salite negli ultimi giorni e la cronometro finale, cosa che io non ho mai gradito. Significa che per battere Roglic si deve avere almeno tra un minuto e un minuto e mezzo di vantaggio, anche se il gap si accorcia perché la fatica accumulata livella le forze. Lungi da me criticare gli organizzatori, ma quest’anno non c’è stata una salita vera nelle prime tappe.

Si ricomincia con il Mortirolo, la salita delle salite: spauracchio od opportunità?

Non lo so. Potrebbe essere un’opportunità. Questa tappa ha perso il Gavia, e i suoi 2618 metri che avrebbero fatto la differenza. Senza, per colpa della neve, si toglie qualcosa al Giro. Non tutti i corridori sono abituati a quella quota. A parte Carapaz, la maglia rosa, che c’è nato.

La salita esalta il ciclismo. Ed affina le tattiche dei corridori…

Non so quale possa essere la tattica giusta… qualcuno in grado di far saltare la corsa c’è, l’Astana per esempio, con Lopez che non è mai da sottovalutare. Penso a Simon Yates, che deve recuperare parecchio. Però il Giro insegna che si può: ci è riuscito l’anno scorso Froome, capace di recuperare cinque minuti.

Nella tappa di Como, Roglic ha cambiato bici. Quella cambiata non è mai arrivata al traguardo. I sospetti di frode tecnologica avvelenano la corsa. L’Uci ha proposto una “punzonatura”, per evitare trucchi e scoprire eventuali motorini…

I cambi sono giusti: oggi le nostre bici sono sempre più sofisticate, c’è tanta elettronica, quindi è più facile che si guastino. Comunque, io mi aspetto sempre la massima correttezza dai miei rivali.

Salvini accostato alle leggi razziali: torna la prof sospesa

È rientrata ieri a scuola Rosa Maria Dell’Aria, la docente di Italiano e Storia dell’istituto Vittorio Emanuele III di Palermo, sospesa per 15 giorni da lezioni e stipendio per “mancato controllo” su un lavoro realizzato da alcuni suoi alunni della II E, nel quale si accostava il decreto sicurezza del ministro Salvini alle leggi razziali del ’38. “Continuerò a insegnare ai miei ragazzi a crescere, a riflettere a non essere indifferenti – ha detto l’insegnante ai cronisti – e a prendersi cura dell’altro, a essere consapevoli”. Baci e abbracci, omaggi dei colleghi e una lettera dai ragazzi: “Siamo orgogliosi di averla incontrata e conosciuta – hanno scritto gli alunni –. Grazie a lei abbiamo imparato a non avere paura di esprimere la nostra opinione e che il confronto è sempre la cosa migliore”. “La sospensione è apparsa ingiusta e sproporzionata a tutt’Italia”, ha detto il vicepreside Giuseppe Castrogiovanni. I ministri Matteo Salvini e Marco Bussetti avevano promesso una soluzione. Lei non chiede “clemenza” ma una “riabilitazione”. Nel frattempo ha scontato la sanzione del provveditore Marco Anello. I legali sono pronti a fare ricorso per annullarla, come ribadito dai sindacati.