Cannes. Non è un festival di élite, anzi serve a portare in sala e a divulgare film di nicchia

 

Buongiorno, ho seguito con interesse il festival di Cannes, ma resto sbalordita dalla Palma d’Oro al film coreano “Parasite al posto dello strafavorito Almodóvar: evidentemente anche i critici sono stati beffati. E da anni ormai: non ricordo di aver visto un titolo vincitore di Cannes al cinema. Tutti film d’élite che poi in sala restano qualche giorno, nell’indifferenza dei più. Ma che senso ha un festival così di nicchia?

Aurelia Di Vincenzo

 

Gentile Aurelia, “Dolor y gloria” di Pedro Almodóvar non ha vinto la Palma d’Oro, è valso però ad Antonio Banderas il Prix d’interprétation masculine. Nelle nostre sale è uscito il 17 maggio realizzando il miglior weekend d’esordio di sempre del regista spagnolo: a oggi ha incassato 2.133.458 euro, risultato più che buono.

Non si conosce ancora quando Academy Two distribuirà “Parasite” di Bong Joon-ho nel nostro Paese, ma una cosa la sappiamo già: a Cannes, il film coreano era il prediletto dei critici internazionali (3,5 stelle su 4 su Screen Daily), che dunque non sono stati beffati, bensì esauditi.

Invero, non è l’unica, Aurelia, a non aver visto in sala un film Palma d’Oro negli ultimi anni: la media degli incassi dei film vittoriosi a Cannes nel quinquennio 2014-2018 è scesa a 918.707 euro, rispetto ai 1.285.931 del quinquennio precedente, e addirittura i 2.669.180 nel periodo 2004-2008 (fonte: cineguru). Eppure, senza Palma quanto avrebbero incassato questi film? “Un affare di famiglia” del giapponese Kore-eda Hirokazu l’anno scorso ha staccato biglietti per 1.242.878 euro: un successo.

Un festival come Cannes, come Venezia, forse come Berlino, dunque, serve a rendere quella che chiama nicchia meno nicchia, serve a fare breccia nell’indifferenza dei più, che rimane sempre e comunque un disvalore, e non solo al cinema.

Bong Joon-ho ha più bisogno di Almodóvar di questa Palma, sebbene Pedro non l’abbia mai vinta. Nondimeno, il regista spagnolo continua a portare i propri film a Cannes. L’importante non è vincere, ma farli vedere. E, sperabilmente, andarli a vedere. Palma o non Palma.

PS: L’opera prima di Almodóvar è “Folle… folle… fólleme Tim” del 1978, e non so quanti in Italia l’abbiano vista. Di nicchia si nasce, popolari si diventa.

O, almeno, ci si prova.

Federico Pontiggia

La disfatta sinistra di chi è benedetto (dagli intellettuali)

L’altro grande sconfitto – coi 5Stelle – delle Europee è la cosiddetta sinistra radicale. E questa non è certo una novità, perché dalla “Sinistra Arcobaleno” in giù è sempre stato un pianto. Eppure non imparano mai. Ormai i social servono più che altro come balconcino per qualche para-intellettuale “de sinistra”. Mentre le Murgia e altri geni spelacchiati gridavano al fascismo & nazismo, indignandosi già che c’erano pure sulla Nutella, Salvini riempiva le piazze e collezionava consensi. È la differenza tra Paese reale e seghe mentali, baby. Da mesi gli intellettuali engagé ci smerigliano le gonadi sull’imminente apocalisse. Yeown. Vivono sui social, criticano pensosamente ogni ruttino del “Capitano”, scrivono libri che si leggono da soli e – tra un appello e l’altro pro-Cesare Battisti – si autoproclamano “intellettuali”. Quarta Repubblica ha di recente mostrato uno spaccato emblematico della autoreferenzialità cara alla sinistra dura e pura. C’era la Murgia, in un soffitto poco frequentato di una libreria, che presentava una sua pubblicazione. A un certo punto, con aria compiaciuta, Ella ha detto in soldoni che “Ieri c’era Pasolini e oggi noi”. E già qui son partite le ambulanze. Purtroppo però Ella è andata pure avanti: “Finalmente noi intellettuali siamo tornati a parlarci”. Finalmente, sì: proprio non ci dormivo la notte. Gran finale: “Abbiamo anche una chat su whatsapp dove ci confrontiamo”. Dagli Scritti corsari alle chat su whatsapp: son soddisfazioni. Ora: questi allegri (neanche tanto: “indossano” tutti quello sguardo funereo di chi la sera preferisce al sesso le paratattiche di Marcuse) intellettuali in mancanza di prove ci avevano dettato la linea. Niente Lega, che son scimmioni nazisti. Niente 5 Stelle, che son coglioni fiancheggiatori. Niente Pd, o meglio “facciamo finta che noi siamo alternativi”, perché la cosiddetta sinistra radicale (tranne Rizzo e i desaparecidos di Potere al Popolo) si è poi alleata al Pd. Dall’esito di tale onda rossa si sarebbe alfin soppesata la portata quantitativa di questi Casarini convinti d’esser Gobetti. E sia. Nelle realtà-simbolo dell’accoglienza, Lampedusa e Riace, Salvini ha preso 45% e 30%. Tutti emuli di Himmler? Astensione al 44%, e tanti son proprio di sinistra. Bonino & Pizzarotti, che volendo fan brodo proletario anche loro: 3,09%. Oltre ogni marginalità immaginabile, nonostante appelli, digiuni e altre frignatine a favor di telecamera. Europa Verde (?), dal quale Civati – un altro col tocco magico – è sceso un attimo prima dello schianto: 2,29%. Quindi “La Sinistra”, con queste maiuscole goffamente altisonanti e con dentro pure la mai anacronistica Rifondazione comunista. C’erano stati gli appelli di Mannoia & Marescotti. C’erano state le tirate acritiche pro-Ong. E c’erano stati i tweet dei soliti intellettuali “wuminghioni”, pronti a dirci che Salvini è Farinacci.

A sentir loro, le masse avrebbero sgomitato a milioni per tributare all’onnipresente mediatico Fratoianni il sacro ruolo di nuovo Marx. II risultato? Uno stiticissimo 1.7%. Dopo una batosta così, certi “scrittori” e certi “politici” dovrebbero – come minimo – domandarsi se abbiano o no il polso della situazione. Non lo faranno: dall’alto della loro smisurata evanescenza bolsa, continueranno a trattare chi non la pensa come loro da minorati. Ah: se si fossero presentati insieme, Europa Verde, La Sinistra e Rizzo avrebbero (di poco) superato lo sbarramento. Ma – da sempre – preferiscono correre da soli per giocare a chi ce l’ha più lungo. Cioè più corto. Protetti e benedetti dai peggiori “intellettuali” della galassia.

Abuso d’ufficio, il grimaldello di tangentopoli

Nell’editoriale di venerdì scorso, il direttore del Fatto Quotidiano – prendendo lo spunto dalla incredibile proposta del ministro degli Interni Matteo Salvini di abrogare il reato di abuso di ufficio – ha ricordato, con dovizia di particolari, l’avversità sempre dimostrata dai politici nei confronti di tale reato tanto da indurli a modificarne legislativamente, più volte, la struttura onde limitarne il più possibile l’ambito di applicazione per ridurre gli effetti penalmente pregiudizievoli per il pubblico ufficiale che abusava dei propri poteri.

Alle puntuali osservazioni del direttore, possono aggiungersi due considerazioni: la prima è che il reato di abuso di ufficio fu lo strumento giuridico che consentì ai pretori – quelli che esercitavano veramente e pienamente tali funzioni – di contrastare efficacemente la dilagante speculazione edilizia che, negli anni 70/80, aggredì gran parte delle coste italiane. In realtà, la vera speculazione non consisteva nel costruire abusivamente o in difformità un manufatto (il più delle volte: un aumento di volumetria, una sopraelevazione, un sottotetto reso abitabile, ecc.), bensì nel realizzare ville, alberghi, residence e lottizzazioni con licenze (oggi: concessioni) illegittime che i pretori – in contrasto con le decisioni, anche a Sezioni Unite, della Corte di Cassazione, che, però, in seguito, perverrà alle medesime conclusioni dei pretori – ritenevano tamquam non essent, così equiparando la situazione di chi costruiva senza licenza a quella di chi realizzava opere con un titolo autorizzativo illegittimo perché rilasciato in violazione di prescrizioni di legge o di strumenti urbanistici (regolamenti edilizi e piani regolatori). Di qui la potestà del giudice penale di sindacare l’atto amministrativo per coglierne la conformità o meno alle norme, con la duplice conseguenza che fu possibile contestare al privato, pur munito di licenza, il reato edilizio e al sindaco (oltre che al tecnico comunale e ai componenti la commissione edilizia) quello di abuso di atti di ufficio per avere autorizzato un’opera contraria rispetto all’elemento normativo della fattispecie. Le incriminazioni e le susseguenti condanne costituirono decisa remora al disinvolto uso di rilasciare licenze illegittime, il più delle volte finalizzate al voto di scambio, se non alla corruzione.

La seconda considerazione è che, alcuni anni dopo, il reato di abuso di ufficio fu il grimaldello che consentì al pool mani pulite di scoperchiare Tangentopoli perché, partendo dalla contestazione dell’abuso del Pubblico Ufficiale, fu possibile ai pm pervenire, nel corso delle indagini, ad accertare una serie incredibile di episodi corruttivi, concussivi e di turbativa d’asta. Fu per questi motivi che i partiti corsero ai ripari al punto da far adottare dal Parlamento, in poco meno di 20 giorni, (dal 16 luglio al 7 agosto 1997) due leggi che sancirono la fine di Tangentopoli. La prima (L. n° 234/1997) ridusse l’ambito di applicazione dell’art. 323 c.p. così consentendo l’archiviazione di vari procedimenti in corso per abuso anche a carico di esponenti politici di primo piano. La seconda (L. n° 267/1997) modificò i criteri di acquisizione a dibattimento delle dichiarazioni accusatorie (richiedendo, a tal fine, il consenso dell’imputato, naturalmente mai dato dallo stesso), con ciò determinando una valanga di assoluzioni e prescrizioni (queste ultime, ovviamente, spacciate per assoluzioni). Ora, la proterva proposta di Salvini di abrogare il reato, nell’evidente tentativo di salvare esponenti leghisti dalla ondata di scandali che li sta travolgendo, va decisamente respinta, così come è da ritenersi inaccettabile la tesi del capo dell’Anticorruzione Cantone secondo cui occorre “prevedere una migliore tipizzazione della condotta, per punire meno, in modo più selettivo e mirato”. Questo – come osserva il direttore Travaglio – “è esattamente il contrario di ciò che andrebbe fatto”.

L’Italia va da sola contro l’austerità

Matteo Salvini aveva promesso che il giorno dopo le elezioni l’Unione sarebbe cambiata. Anche nei commenti alla vittoria della Lega continua ad annunciare imminenti svolte nel modo in cui l’Ue applica le regole di bilancio. Al momento, però, c’è soltanto l’indiscrezione di Bloomberg sul fatto che il 5 giugno la Commissione europea è pronta a fare il primo passo per aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per l’eccesso di debito nel 2018. Il rischio è una sanzione da 3,5 miliardi di euro, se il governo non si adeguerà alle richieste. L’attuale Commissione Ue, quella guidata da Jean Claude Juncker e con Pierre Moscovici agli Affari economici, resterà ancora qualche mese e gestirà il tutto. Pur se scaduta, pare quasi rafforzata da un voto che ha visto frenare i partiti euroscettici (con l’eccezione della Lega) e che ha delineato un Parlamento europeo non troppo diverso da quello attuale. Con una maggioranza probabile tra Socialisti, Popolari e Liberali con i sovranisti ai margini.

L’avviso della possibile procedura d’infrazione arriverebbe il 5 giugno assieme alle raccomandazioni specifiche per ogni Paese, da discutere e votare nel Consiglio europeo del 20 giugno. L’Italia verde di Salvini dovrà quindi approvare raccomandazioni che già incorporeranno la contestazione sul debito e indicheranno i passi da fare per i prossimi due anni. Sulla base di quelle, andrà impostata la legge di Bilancio in autunno: l’attenzione dei mercati, pur bendisposti verso la Lega, sarà massima. Difficile replicare lo schema dello scorso anno, con il premier Giuseppe Conte che approva a Bruxelles le raccomandazioni e poi in Italia vara una legge di Bilancio che non le rispetta. Già ieri lo spread, placido fino a metà pomeriggio, è balzato a 280 punti alla notizia della possibile procedura d’infrazione.

La Lega di Salvini è piuttosto isolata nella nuova Unione: può contare giusto sulla sponda di Viktor Orbán, almeno finché il leader ungherese non deciderà di rientrare in quel Ppe da cui è sospeso. Orbán ha rafforzato il suo potere individuale minacciando di creare un gruppo alla destra dei popolari, ma i risultati elettorali rendono questo scenario assai poco plausibile. Di altri alleati Salvini non ne avrà. Men che meno nel chiedere revisioni delle regole di bilancio.

L’asse mediterraneo che negli anni della crisi si è contrapposto a quello dei Paesi nordici guidati dalla Germania si sta frantumando. La Grecia andrà a nuove elezioni: dopo la sinistra di Alexis Tsipras si profila un ritorno al potere di Nuova democrazia, il centrodestra. I mercati gradiscono, il costo del debito a dieci anni scende intorno al 3 per cento (l’Italia non è lontana, con il suo 2,6). Passati gli anni dei sacrifici, il centrodestra ellenico si prepara a beneficiare dei frutti di una crescita attesa per il 2019 al 2,2 per cento, con un bilancio quasi in pareggio. Ad Atene nessuno vuole ingaggiare battaglie contro un’austerità che i greci sperano di essersi lasciati alle spalle.

Lo stesso vale per Spagna e Portogallo, due Paesi a guida socialista ma un tempo (lontano) a fianco dell’Italia contro l’eccessivo rigore contabile. La Spagna cresce al 2,1 per cento, ha un deficit sotto controllo al 2,3 e soprattutto ha un premier socialista, Pedro Sánchez, che ha vinto contro gli inciuci domestici tra Psoe e Partido popular. Mai richiederebbe il suo capitale politico per tentare un’intesa con un Paese guidato dalla destra di Salvini. In queste ore, invece, sta negoziando con la Francia di Emmanuel Macron per far pesare il Psoe nel grande gioco delle nomine di vertice europee. Un gioco da cui Salvini è escluso.

La Spagna, inoltre, pur essendo ancora sotto procedura d’infrazione per deficit, è l’esempio virtuoso citato dalla Germania per dimostrare che la combinazione tra vincolo esterno (il fondo Salva Stati che ha evitato il tracollo del settore del credito) e riforme strutturali funziona. Stesso discorso per il Portogallo, crescita dell’1,7 per cento nel 2019 e deficit basso, allo 0,4. Il socialista Antonio Costa, forte del suo 33,4 per cento, si sta battendo perché il duro percorso di riforme e tagli non venga dissipato al primo ritorno alla normalità: in ottobre ha le elezioni politiche e il suo messaggio è che si può “voltare pagina” dopo l’austerità senza sfasciare i conti. Di sicuro non sarà un sostegno per Salvini, che vuole invece difendere il diritto ad avere più deficit per evitare un aumento dell’Iva già deliberato (23 miliardi) senza fare le riforme strutturali.

C’è poi il dettaglio che i vincoli europei sono stati trasformati in leggi italiane e inseriti in Costituzione (articolo 81). Avviare un dibattito sulla riforma dei trattati Ue non produrrebbe effetti senza modificare le leggi italiane. Ma mettervi mano subito significa dare ai mercati il messaggio che l’Italia vuole fare ancora più debito e più deficit. Se Salvini e Conte ci proveranno, la reazione non sarà indolore.

“Elezioni anticipate”: così Tsipras tenta di sopravvivere accerchiato dall’ultradestra

Il premier greco Alexis Tsipras, il cui partito di sinistra Syriza è stato sorpassato di 8 punti percentuali dal centro destra con la vittoria di Nea Demokratia al 33 per cento, ha dichiarato che chiederà elezioni generali anticipate. Le Legislative erano previste per ottobre ma ora si parla di due date: 30 giugno o 7 luglio. Tsipras, in carica dal 2015 grazie a una coalizione di governo con i nazionalisti di Anel (ora scomparso dal nuovo parlamento europeo), era sopravvissuto l’estate scorsa grazie al partito della Sinistra Democratica (anch’esso cancellato in questa tornata europea per non aver raggiunto il 4 per cento) al voto di fiducia da lui richiesto in seguito alla decisione del partner di minoranza di uscire dall’esecutivo. Si trattò di una ritorsione per la decisione di Tsipras di concludere l’accordo per la concessione del nome di Macedonia del Nord all’ex repubblica Jugoslava di Macedonia (Fyrom). Decisione imposta di fatto a Tsipras dall’Unione Europea e dalla Nato per consentire alla nuova nazione di entrare a far parte dell’Unione e dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a cui i nazionalisti, di Nea Demokratia , pur definendosi europeisti, e i fascisti di Alba Dorata erano e sono contrari perché riconoscono come Macedonia solo la regione settentrionale della Grecia che diede i natali ad Alessandro Magno. Ed è proprio lì che Syriza ha perso più voti, andati a Nea Demokratia e al nuovo partito nazionalista “Soluzione Greca”. All’ascesa di questa formazione ancora più estremista e antisemita si deve peraltro il calo di voti di Alba Dorata. Per evitare una pericolosa instabilità politico-economica da qui a ottobre e per capitalizzare il surplus finanziario grazie a cui il governo aveva iniziato il mese scorso a ridistribuire soldi e benefit alle fasce più disagiate, il primo ministro ha preferito chiedere elezioni anticipate. Stando ai primi sondaggi, sarà difficile che un solo partito riesca a raggiungere la maggioranza assoluta e Tsipras, per scamparla, dovrà tentare nuove alleanze, non solo con gli ex socialisti del Pasok.

Ernest Maragall, il separatista che fa piangere Ada Colau ora è la spina nel fianco del Psoe

“Sono repubblicana convinta: ma non ingannerò i cittadini. La Catalogna non è una Repubblica. Dunque, Barcellona non può essere la capitale di una repubblica che non esiste”. Potrebbe essere questa la frase che suggella la fine dell’amministrazione di Ada Colau, già sindaca di Barcellona non riconfermata alle comunali di domenica, seppure a parità di seggi con il suo sfidante, ma 5 mila voti in meno. A prendere il suo posto alla Casa della Ciutat, se non trova un’alleanza potrebbe essere Ernest Maragall, candidato indipendentista di Esquerra Repubblicana, fratello di Pasqual, sindaco della Barcellona olimpica e nipote del poeta Joan, nonché ex socialista. Colui che fece il gran rifiuto passando dai costituzionalisti ai separatisti, potrebbe essere a 76 anni il secondo Maragall a guida della capitale catalana, e il secondo sindaco indipendentista in 80 anni. Sostenuto dall’ondata favorevole del partito, Maragall II ha in mano l’alleanza con il partito di Puigdemont, ex presidente della Catalogna autoesiliatosi e eletto al Parlamento europeo, e con Barcelona en Comù della sindaca, spingendo verso un nuovo referendum per l’indipendenza. Classe 1943, Maragall è un economista e dopo un passaggio nel mondo del marketing negli anni ‘70, mette piede per la prima volta a comune di Barcellona come informatico e, sotto i socialisti fino al 2003 ricopre vari incarichi, da consigliere a presidente di municipio. Da lì, quando suo fratello Pasqual passa in Regione, diventa segretario del governo e poi consigliere. Militante del Fronte Operaio della Catalogna durante il franchismo, tra i fondatori del Partito socialista catalano, lo lascia nel 2012, critico con le posizioni della direzione contraria al processo di indipendenza. Da qui all’elezione nel 2017 come deputato di Esquerra il passo è breve, finché con Quim Torra nel 2018 diventa consigliere per gli Affari Esteri. Uno dell’establishment, per Colau. “La punta di lancia dell’indipendentismo per il vicepresidente della Generalitat Pere Aragones. Di certo una spina nel fianco per i socialisti.

Tracollo Labour, l’ambiguità sulla Brexit mette a rischio la leadership di Jeremy Corbyn

Fotografia del Labour post-Europee. In attesa del risultato nord-irlandese, si fermano al 14.1. (11.3 punti percentuali) – e 10 europarlamentari – in meno che nel 2014. Spazzati via in Scozia, sconfitti in Galles, superati dai Lib-Dem a Londra e persino nel quartiere di Islington, feudo elettorale del segretario Jeremy Corbyn. Colpa delle ambiguità su Brexit. “I Leavers pensano che siamo pro-Remain; i Remainers che siamo pro-Leave e gli iscritti sono così stufi che non hanno fatto campagna elettorale” spiega al Guardian un veterano laburista. E fibrilla la rivolta contro Corbyn: a chiedere urgentemente un sostegno chiaro a un secondo referendum sono il vice segretario Tom Watson, la ministra ombra degli Esteri Emily Thornberry, il ministro ombra per Brexit Keir Starmer, quello dell’Economia John McDonnell, che ha twittato: “Certo che voglio elezioni politiche, ma mi rendo conto che è difficile ottenerle, e quindi pur di evitare un no deal dobbiamo porre il quesito alla gente in un secondo referendum”. Corbyn non si scompone, anche se ribadisce che qualsiasi accordo dovrà essere sottoposto al vaglio popolare. La reazione ufficiale è su Twitter: “Con i conservatori disintegrati e non in grado di governare e il parlamento in stallo, Brexit dovrà tornare alla gente, tramite elezioni o una consultazione pubblica. […] Nei prossimi giorni apriremo il dialogo nel partito, e rifletteremo su questi risultati considerando i vari punti di vista”.

In altri termini, se una parte della dirigenza Labour è pronta a scalzare Corbyn pur di sostenere il Remain, altri, fra cui il capo del potente sindacato Unite, non vogliono alienarsi gli elettori laburisti che sostengono il Leave. E quindi Corbyn continua a non scegliere. Il rischio è che questo scontro esistenziale non si risolva fino alla conferenza annuale del partito. A fine settembre.

“Basta grandi coalizioni anche nell’Ue, ora saranno i Verdi a dettare l’agenda”

È duro e puro Sven Giegold, candidato capolista dei verdi tedeschi insieme alla sua collega Ska Keller, e vincitore di questa tornata delle Europee in Germania. Ma il risultato storico del 20,5 per cento raggiunto dal suo partito non sembra avergli montato la testa e davanti alla stampa, all’indomani dei risultati elettorali, va dritto al punto: “Ha vinto il tema della protezione dell’ambiente e allo stesso tempo non ha vinto il blocco della politica europea della grande Coalizione” tra popolari e socialdemocratici, esordisce dritto per dritto. Nessun ammiccamento con l’uditorio, nessuna ricerca di complicità, nessun autocompiacimento. Il risultato delle urne è usato come una clava per perseguire l’obiettivo, senza inciampi narcisisti: “La protezione dell’ambiente e una più forte intesa al livello europeo devono essere oggi all’ordine del giorno”, dice il portavoce del gruppo dei verdi a Bruxelles, da dieci anni nel Parlamento europeo. Deve essere superato “il continuo blocco della grande coalizione sulla politica europea, per esempio sui dossier del cambiamento climatico, del commercio europeo, del cambiamento in materia di politica agraria in Europa ma anche sugli investimenti di progetti comuni europei” continua Giegold. Il 48enne del Nord Reno Westfalia, co-fondatore di Attac in Germania, mette subito in chiaro che devono essere i vincitori delle elezioni a dare il “la” alle trattative per le nuove alleanze di governo a Bruxelles e “non c’è alcun automatismo per cui i colloqui siano condotti dalle grandi famiglie europee”, cioè socialdemocratici e Ppe. “Noi siamo cresciuti nei consensi e non sarebbe serio se il Consiglio europeo cercasse di decidere ancora una volta da solo il destino dell’Europa” dice Giegold. “Per noi è chiaro che la Commissione deve tirare fuori una decisione dal Parlamento ed è altrettanto chiaro che non è in primo luogo una questione di posti o di nomi ma di progetto per una ripartenza dell’Europa su protezione dell’ambiente e maggiore collaborazione europea” continua. Questa è anche la risposta ai giornalisti che chiedono lumi su future alleanze. Non sarà una questione di partiti ma di progetti: “I giovani di Fridays for Future non sono scesi in strada chiedendo la vittoria di un partito o la caduta di un altro, hanno manifestato perché il problema ambientale fosse risolto”. Quindi si faranno alleanze con chi condividerà questo obiettivo e chi sosterrà un chiaro europeismo. Strada sbarrata ai populisti d’Europa, dunque. “Per noi i contenuti vengono prima di tutto”, dice il candidato verde, vegetariano, protestante e orgogliosamente senza patente di guida. “Bisogna sedersi tra formazioni che sono pro-europee e mettere giù un programma insieme”. Le sferzate maggiori sono poi per la coalizione tedesca: “Anche il governo tedesco, come quello francese, deve avere un progetto europeo ambizioso per una nuova partenza nella politica europea”. Basta parlare di Europa e fare orecchie da mercante quando si scende nel concreto, insomma.

Puigdemont rischia l’arresto

L’elezione all’Europarlamento del leader indipendentista catalano in autoesilio crea problemi giuridici e politici. Secondo la Commissione elettorale spagnola, dovrebbe rientrare a Madrid per ritirare il certificato da eurodeputato. In questo caso, rischia l’arresto per sovversione. A meno che Bruxelles non gli desse la possibilità di farselo inviare. Così, grazie all’immunità potrebbe viaggiare in Spagna. LaPresse

Spd, lascia la capogruppo

Dopo il disastroso risultato alle elezioni europee in cui la Spd ha ottenuto il 15,5 per cento dei voti, perdendo l’11,8 per cento, la presidente e capogruppo del partito socialdemocratico tedesco al Parlamento Andrea Nahles si è detta disponibile alle dimissioni nelle prossime settimane, rimettendo il suo mandato al voto del gruppo. Lo ha dichiarato la stessa Nahles in un’intervista. Ansa