Sfiduciato cancelliere Kurz

Il cancelliere Sebastian Kurz, 32 anni, e il suo governo conservatore di minoranza sono stati sfiduciati in Parlamento dal voto congiunto delle opposizioni. A votare contro Kurz sono stati i Socialdemocratici (Spoe) e l’estrema destra del Partito della Libertà (Fpoe) che accusano il cancelliere di avere sfruttato le accuse di corruzione contro l’ex vicecancelliere Heinz-Christian Strache per indire elezioni anticipate. La sfiducia giunge dieci giorni dopo lo scandalo Ibizagate che ha travolto l’ex leader del Fpoe. Strache aveva incontrato una emissaria russa accettando uno “scambio di favori”; il video è stato reso pubblico. Si tratta di un voto senza precedenti in Austria: Fpoe e socialdemocratici hanno una maggioranza di 103 seggi sui 183 dell’emiciclo. Il presidente Alexander van der Bellen dovrà nominare un governo tecnico che porti l’Austria alle elezioni. Ansa

Weber rivendica la Commissione, Macron pone veti

“La giornata delle porte chiuse”: nella sintesi di chi lavora ai piani alti di Bruxelles, il day after delle Elezioni viene definito (anche) così. Nella Capitale europea si fanno conti, strategie, trattative. In un gioco strano, in cui i vincenti non danno le carte e i perdenti cercano sponde. La Lega di Matteo Salvini, che sfonda in patria, non è nelle condizioni di formare una maggioranza e dunque di essere determinante per la scelta del presidente della Commissione. Lo stesso è per la francese Marine Le Pen. Mentre l’ungherese Viktor Orbán, dato in uscita dal Ppe, punta a fare l’ago della bilancia dei partiti alla destra del suo quasi ex gruppo.

Poi c’è la partita degli Spietzenkandidat: Manfred Weber (Ppe) rivendica per sé il ruolo di guida della Commissione. Ma con il crollo della Cdu in Germania non ci crede neanche lui. Frans Timmermans (Pse), cerca una sponda con l’Alde e con Margrethe Vestager.

Il percorso che porterà a una nuova maggioranza e al rinnovo dei vertici Ue inizia ufficialmente oggi. Stamattina, ci sarà la Conferenza dei presidenti dei gruppi uscenti: l’ha voluta Weber per far pressioni sul Consiglio (i governi) perché scelga per la guida della Commissione uno degli Spietzenkandidat. Sembra già una strada preclusa, vista la ferma opposizione di Emmanuel Macron, che con i suoi 21 eurodeputati vuol contare nell’Alde. Già ieri sera ha iniziato gli incontri preliminari con lo spagnolo Pedro Sánchez. E oggi vedrà i rappresentanti di Visegrad. Il Consiglio europeo inizierà a discutere in un vertice informale stasera a cena. Ma tutto verrà rimandato al 20 e 21 giugno. Mentre il Parlamento inizierà a votare il suo presidente il 2 luglio.

Oggi Bruxelles sarà piena di incontri formali e informali: alle 12, una colazione di lavoro del Pse, alle 13 un vertice del Ppe. Primo obiettivo: definire la maggioranza. Potrebbe contare su 504 voti un’alleanza fra Ppe (180 seggi) e Sd (145), con Alde (109) e Verdi (69). L’altra ipotesi vede insieme Ppe, Pse e Alde (425 voti), senza i Verdi. Ma Timmermans ha già detto che si parte da una “coalizione progressista”, incentrata sulla lotta al cambiamento climatico, la giustizia sociale, la giusta tassazione delle multinazionali, la difesa dello Stato di diritto. L’asse privilegiato sarebbe con Verdi e Alde, il Ppe sarebbe costretto a seguire. Un prezzo da pagare al fatto che stare in maggioranza significa occupare i posti che contano, conquistare presidenze delle commissioni e delle delegazioni.

Stasera si cominciano a vagliare i nomi. Weber non ha praticamente possibilità. Qualcuna in più ne ha Timmermans, galvanizzato dal successo personale in Olanda. Che però sarebbe pronto ad appoggiare la Vestager, la quale, oltre a essere una donna ed essere stata un Commissario Antitrust con un profilo forte, gioca nel gruppo vincente. Ma non gode di enorme consenso in patria (è danese). Tornano gli outsider. Tra i favoriti della vigilia, Michel Barnier, il negoziatore della Brexit (Ppe), voluto da Macron. E poi l’ex commissaria bulgara e presidente della Banca mondiale, Kristalina Georgieva, o il premier croato Andrej Plenkovic.

Uno dei paradossi dell’Europa che esce dalle urne è proprio l’Italia le cui forze di governo non saranno nella maggioranza. Ieri Salvini ha rivendicato per la Lega la scelta del commissario che spetta all’Italia nella nuova Commissione: “Ne chiederemo uno di economia: commercio, agricoltura o concorrenza”. Sui nomi sostiene di non aver ancora deciso. La scelta non è semplice. Il Carroccio deve valutare se indicare un nome più tecnico, come i ministri Enzo Moavero o Giovanni Tria. Oppure uno dei suoi pesi massimi nel partito, come Luca Zaia, il governatore del Veneto. O il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, che avrebbe sia il profilo del leghista doc sia l’autorevolezza per essere votato da una maggioranza europeista. Optare per un leghista tipico, come Lorenzo Fontana, vorrebbe dire rischiare una bocciatura. Il tutto va tenuto insieme con quello che sarà il gruppo: Salvini ha ribadito di puntare a 100/150 eurodeputati. Punta a saldare il suo Enf (58 seggi) con l’Ecr (59), Fidesz di Orbán (13). Forse persino con Nigel Farage, che con il suo Brexit Party è la prima delegazione (29 eurodeputati). Tra le scelte preliminari: spingere per la distruzione dell’Europa o stare dentro le regole del gioco?. In piena crisi i 5Stelle: tra i loro alleati, solo i croati di Zivi Zid hanno guadagnato un seggio. Guardano ai Verdi e all’Alde, ma è tutto da capire. Situazione difficile per il premier Conte, che già da oggi dovrà sedersi a un tavolo dove l’Italia è in minoranza e con una compagine di governo indebolita. Ora il nostro Paese esprime il presidente della Bce, Mario Draghi, Mrs. Pesc, Federica Mogherini e il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani. In questa nuova fase già sarà tanto avere un commissario di peso.

Sánchez è la stella socialista. Popolari senza una Merkel

La torta del nuovo Parlamento europeo aiuta a capire il processo di polarizzazione in corso. Da un lato formazioni chiaramente europeiste, votate in larga misura dai giovani, come i Liberali e i Verdi; dall’altra i nazionalisti, più o meno populisti, che pur rappresentando circa il 22% del Parlamento europeo (i Conservatori dell’Ecr, i nazionalisti dell’Enl e gli alleati dei grillini dell’Efdd), rappresentano la seconda tendenza, opposta alla prima.

Il gruppo dei liberali è quello che cresce di più, con 109 seggi contro i 69 del 2014: +57%. E fa il paio con i Verdi che passano da 52 a 69 seggi, +32%. Ma i nazionalisti dell’Eln passano da 36 a 58 seggi con un +61%.

Al tempo stesso, i Popolari scendono da 216 a 180 seggi (-16%) e i Socialisti e Democratici da 185 a 145 seggi (-21%). Giù anche i conservatori tradizionali (dove siedono i Conservatori inglesi) che passano da 77 a 59 seggi. Dato negativo anche per la sinistra più radicale del Gue, che passa da 52 a 39 seggi.

Il dato da scorrere con più attenzione è invece quello interno alle varie famiglie politiche per capire che tendenze si registrano al loro interno, quali rapporti di forza e quindi quali politiche potranno essere condotte dai vari gruppi.

Addio a Merkel. Un problema di leadership si presenterà presto per i Popolari all’interno dei quali la Germania mantiene un ruolo importante ma in cui sta per svanire la stella di Angela Merkel. La Cdu ha ottenuto il 28,9%, si conferma il partito più importante, ma tra la famiglia dei conservatori cattolici avanza il ruolo del premier austriaco Sebastian Kurz che ha ottenuto una chiara vittoria con il 34,9% e, ovviamente, l’incombente Viktor Orbán che con il suo 52% (in un Paese di meno di dieci milioni di abitanti) continuerà ad avere un ruolo rilevante. I Popolari, poi, possono salutare il nuovo primato dei greci di Nea Democratia che vincono in Grecia con il 33,2%, una buona presenza a est con le vittorie in Romania, Croazia, Lettonia, Lituania, ma anche in Irlanda. Non hanno però alcuna linfa dall’Italia dove Forza Italia arranca sotto il 10%.

La stella di Sánchez. Il campo socialista si sposta decisamente sulla penisola iberica. Pedro Sánchez, primo ministro spagnolo che migliora, con il 32,8%, la vittoria alle Politiche, è il socialista di riferimento. Dopo i fasti del 40% renziano, rapidamente dimenticato, oggi il gruppo socialista fa i conti con la débâcle dei socialdemocratici tedeschi, scesi al 15%, con la quasi scomparsa dei socialisti francesi, fermi al 5%, con il tracollo dei Laburisti inglesi che precipitano al 14% mentre dall’Italia arriva un apporto ridotto al 22%. La penisola iberica è invece più soddisfacente perché oltre a Sánchez vede la performance del premier portoghese Antonio Costa, con il 33%, indicando come modello una linea non barricadera ma attenta alla giustizia sociale e alla redistribuzione del reddito.

L’exploit liberale. Chi in prospettiva potrebbe rappresentare un polo decisivo nel futuro governo dell’Unione sono invece i liberali. Vincono in Danimarca, Estonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, giungono al secondo posto in Gran Bretagna, scalzando i due partiti storici, tengono bene in Francia con il voto al partito di Emmanuel Macron, che arriva secondo ma regge alla prova della contestazione sociale, battono Jean-Claude Juncker in Lussemburgo. Di fronte all’avanzata dei sovranisti, gli europeisti più coerenti sembrano avere più fiato di tutti.

L’Europa si fa verde. E con loro anche i Verdi che oltre a salvare l’ambiente puntano a una Europa solidale. Il “fenomeno Greta” è più profondo di quanto certa stampa immagini e dominerà l’agenda di domani (se ne tenga conto in Italia, dove la semi-nascosta lista di Europa verde ha ottenuto un sorprendente 2,2%). Oltre al boom tedesco, con il 20%, si affermano in Francia, 13%, Austria, 14%, Irlanda, 15% e ancora, Olanda, Belgio, Danimarca. A guidare il processo saranno i Gruenen di Ska Keller, specialmente se entreranno nel governo.

La truppa di Salvini. A questi risultati di stampo europeista si contrappongono le forze nazionaliste. Gli alleati di Salvini, a parte qualche flop, vanno piuttosto bene a cominciare da Marine Le Pen, primo partito di Francia. Bene anche i danesi con il 10%, i finlandesi con il 14 e gli estoni con il 12%. Va invece male per le alleanze del M5S che vedono eletti solo un deputato della croata Zivi Zid e vedono crescere il loro gruppo dell’Efdd grazie al boom di Nigel Farage in Gran Bretagna.

C’era una volta Tsipras. A sinistra, la stella di Alexis Tsipras, che aveva guidato il successo parlamentare del 2014, si è ampiamente offuscata, scendendo al 22%. Podemos in Spagna accumula una crisi endemica e anche Jean Luc Mélenchon si deve accontentare del 6,7% mentre alle Presidenziali aveva superato il 17%. Segno che il sovranismo premia la destra e non la sinistra. Sola controtendenza, anche qui, il Portogallo dove il Bloco de Esquerda, al governo con Costa, sfiora il 10% raddoppiando i seggi. Non pervenuti gli italiani.

Prime elezioni in 11 anni

Dopo uno scioglimento per infiltrazioni mafiose durato addirittura 11 anni, finalmente San Luca (Reggio Calabria) ha di nuovo un sindaco eletto democraticamente. Il primo cittadino è Bruno Bartolo. Ha ottenuto il 90,2% delle preferenze alla guida della lista “San Luca ai Sanluchesi” sconfiggendo nettamente il suo sfidante, il massmediologo Klaus Davi, che si è fermato al 9,79%. Davi è comunque soddisfatto dell’esperienza: “Missione compiuta: abbiamo riportato la democrazia a San Luca. Il sindaco finalmente c’è e questo è fondamentale. La lista di Bartolo è nata come reazione alla nostra. Siamo nati un anno fa, mentre la lista di Bartolo 2 mesi fa. Senza di noi non avrebbero vinto perché solo con la presenza di due liste sarebbe caduto il quorum”. Il volto televisivo ha poi aggiunto: “I cittadini di San Luca hanno legittimamente deciso di votare un candidato locale. Il voto d’opinione evidentemente è ancora circoscritto. Di certo ci aspettavamo di più, ma della mia lista siamo comunque stati eletti in 4. È un buon inizio. Bartolo è riuscito a catalizzare il consenso e ha predominato. Cosa dico al sindaco? Ha ottenuto un consenso bulgaro e ora ha la possibilità di gestirlo al meglio”.

Un sorpasso storico

La destra vince anche nel paese natale di Benito Mussolini. A Predappio (provincia di Forlì), rocca storica del centrosinistra, per la prima volta vincono gli altri. Il nuovo sindaco è Roberto Canali, esponente della lista civica “Uniti per Predappio”, sostenuta da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ha ottenuto il 60,1% dei voti. L’altro candidato, Gianni Flamigni, sostenuto dalla lista “Generazioni Predappio”, si è fermato al 39,9%. Canali ha un passato in Forza Italia e ne Pdl. Aveva abbandonato l’agone politico ma è tornato in corsa per queste elezioni. “tempi erano maturi per un cambio di passo – ha detto – e i consensi del centrosinistra avevano ormai, da 10 anni a questa parte, un calo fisiologico. Qui la destra non ha mai governato, ma ora la gente non è più radicata nell’ideologia. Io non sono un nostalgico del fascismo”.

Il Piemonte va a destra. Chiamparino: “Mi ritiro”

Se ne va Sergio Chiamparino, 71 anni, l’ultimo “ragazzo rosso” di Torino, uno di quelli che avevano ancora frequentato la vecchia sede del Pci in via Chiesa della Salute. Tre anni fa era toccato a Piero Fassino, portato via assieme alle sue presunzione dal “vento a Cinquestelle” di Chiara Appendino. Ieri pomeriggio invece, proprio nel giorno del fiasco subalpino del M5S fotocopia di quello nazionale (il candidato Giorgio Bertola è piombato al 13 per cento), è stato l’ex sindaco torinese dei trionfi olimpici a dover ammettere la sconfitta: “Ho telefonato al mio avversario Alberto Cirio e gli ho detto: spero tu faccia meglio di me”.

Subito dopo, l’annuncio: “Lascio la politica e anche il seggio che mi spetterebbe nel consiglio regionale”. I dati delle urne parlano chiaro, addirittura peggiori degli exit poll: ieri sera, quando mancavano 700 sezioni su 4807, le urne piemontesi offrivano un risultato umiliante, prima ancora che per il Pd, per lo stesso Chiamparino. Quasi il 50 per cento a Cirio e solo il 36,5 per cento al governatore uscente.

Addio, dunque, sogni di “anatra zoppa” o, come lo aveva ribattezzato lo stesso Chiamparino, di un “miracolo di Giandoja”: la possibilità, cioè, di una sconfitta del centrosinistra, ma di una vittoria all’ultimo voto per il suo candidato presidente. Se ne va così una generazione di ex comunisti torinesi che avevano conosciuto Giancarlo Pajetta e amato Enrico Berlinguer e che, dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, avevano ereditato il ruolo del Psi travolto da Craxi, stringendo un’alleanza con la borghesia subalpina e con gli uomini degli Agnelli e della Fiat. Guidando le istituzioni piemontesi, prolungando la propria vita politica per quasi un trentennio e intessendo una rete fittissima di rapporti e di potere.

Per Piero Fassino sino alla primavera del 2016, per Sergio Chiamparino, invece, sino a ieri sera: lunedì 27 maggio 2019.Con delle differenze profonde tra i due, segnate soprattutto dai sorrisi e dalle battute in dialetto piemontese di Chiamparino, da una certa bonomia e da una capacità di interloquire con la gente appena un po’ attenuata da una qualche dose di cinismo: lo stesso che in un’intercettazione dell’inchiesta sul Salone del Libro, registrata dopo la vittoria dell’Appendino, proprio Fassino rimproverava con rabbia all’antico compagno.

E assieme ai sogni di vittoria, sparisce anche l’illusione che la battaglia a favore dell’Alta velocità in Valle di Susa potesse trasformarsi in una piattaforma politica e in un totem ideale, alimentati dalle piazze mediatiche e un po’ illusorie delle “madamine” e degli esponenti della buona borghesia torinese (che, in dialetto, il Chiampa chiamava i “fafiuché”: quelli che sono talmente rompiscatole da far persino nevicare e pronti, tre anni fa, a passare dalla parte dell’Appendino e a rientrare adesso all’ovile, in nome del sì al Tav).

I dati elettorali della Valle di Susa, compresi quelli del piccolo comune di Venaus (teatro anni fa di un durissimo scontro tra i No-Tav e le forze dell’ordine), dicono che in quei luoghi hanno preso più voti i due partiti favorevoli al treno veloce: la Lega e il Pd. Ma secondo chi conosce bene quei posti e quella gente, lo scontro sull’alta velocità c’entra poco: si tratta invece di voler stare con Matteo Salvini o contro di lui o, al massimo, di scegliere i leghisti come gli interlocutori più affidabili per chi vuole la nuova linea ferroviaria internazionale. E a riprova di quanto fosse spuntata (o perlomeno divisa equamente tra i due schieramenti) l’arma del Tav, ecco la percentuale raccattata, questa volta nel campo di Alberto Cirio, dalla lista di Mino Giachino, il vero inventore delle piazze delle madamine: un misero 1,4 cento.

Un treno virtuale che non ha saputo far correre l’ultima scelta, comunque coraggiosa, del “ragazzo rosso” Chiamparino, e capace invece di spiegare che i miracoli sono già difficili per i santi, ma più che mai per le maschere del Carnevale.

I dem vincono nei grandi Comuni, il M5S scompare

Se le elezioni fossero solo Comunali il centrosinistra potrebbe pensare di essere ancora in grado di battere Matteo Salvini e soci. Nella corsa per i 3.654 sindaci rinnovati domenica, infatti, il Pd e i suoi alleati se la sono cavata più che bene e specie nelle città più grandi.

A valanga hanno vinto per esempio a Bari, dove pure alle Europee sono andati male: il renziano Antonio Decaro, sindaco uscente, straccia l’anonimo sfidante Pasquale Di Rella del centrodestra flirtando col 70% dei voti; la grillina Elisabetta Pani, invece, racimola un 8% misero se paragonato al 27,6% raggiunto in città alle Europee. Anche altri renziani di primo piano sono andati assai bene (e l’ex premier s’è precipitato a farlo notare sui social): Dario Nardella tiene Firenze, già capitale del giglio magico, al primo turno col 57% circa dei voti, stessa percentuale di Matteo Ricci a Pesaro, mentre Giorgio Gori a Bergamo si ferma – per così dire – al 55% contro un leghista di peso come Giacomo Stucchi.

Ma, a dire che non si tratta solo degli ex sindaci della corrente rignanese, il centrosinistra dovrebbe aver conquistato al primo turno anche Lecce con Carlo Maria Salvemini e risulta avanti anche in altri capoluoghi di provincia come Lecce, Avellino, Cremona (il Pd schiera il sindaco uscente Gianluca Galimberti) o Prato dove però sarà necessario il ballottaggio coi candidati del centrodestra, essendo quelli dei 5 Stelle residuali quasi dovunque. Alle amministrative, in buona sostanza, è come se ancora funzionasse il vecchio bipolarismo di quando c’era lui, nel senso di Silvio Berlusconi.

Ecco, parlando dell’ex Cavaliere e del centrodestra ormai a trazione leghista, non stravince come alle Europee, ma si prende le sue soddisfazioni anche nei Comuni: vince al primo turno in capoluoghi come Pavia (Fabrizio Fracassi), Pescara (Carlo Masci) e in quelli della già rossa Umbria Urbino e Perugia coi sindaci uscenti Maurizio Gambini e Andrea Romizi. I candidati lega-forzisti vanno poi al ballottaggio da favoriti anche in molti altri centri importanti dal profondo Nord al profondo Sud: a Verbania come a Vercelli e Biella, ad Ascoli e ancora a Foggia, Campobasso, Vibo Valentia e molti altri.

Parlando dei 5 Stelle, particolarmente significativo pare il tracollo a Livorno, città amministrata finora da Filippo Nogarin, che peraltro non è andato benissimo alle Europee: terzo tra i candidati grillini, ha raccolto solo 1.936 preferenze nella sua città. A Livorno, si diceva, il Movimento 5 Stelle resta fuori dal ballottaggio e si ferma al 16%: si sfideranno centrosinistra (Luca Salvetti col 34,2%) e centrodestra (Andrea Romiti col 26,6%).

Notevole anche la situazione a Potenza e per due motivi. Il primo è che Mario Guarente – che andrà al ballottaggio forte del 44,7% dei consensi – potrebbe essere il primo candidato leghista a guidare un capoluogo di regione nel Mezzogiorno. Il secondo motivo di interesse è che al ballottaggio va Valerio Tramutoli (27,7%), candidato da Possibile e dagli ambientalisti, che ha battuto Bianca Andretta, sostenuta dal Pd e scelta dal “bersaniano” Roberto Speranza.

Interessante approfondire la situazione in Emilia Romagna, meno scontata di quanto i precedenti storici lascerebbero supporre. Il Pd e il centrosinistra centrano la vittoria al primo turno a Modena (Gian Carlo Muzzarelli) e la sfiorano a Reggio Emilia, dove Luca Vecchi dovrebbe fermarsi al 49%. Anche a Cesena dem e soci avanti, ma al ballottaggio: Enzo Lattuca ci arriva col 42% circa, Andrea Rossi col 34. Fin qui tutto nella norma, ma i candidati targati Lega (primo partito alle Europee in regione) non guardano gli sfidanti solo da dietro: a Sassuolo il centrodestra vince al primo turno (Gian Francesco Menani); a Ferrara, invece, ha ottime possibilità di vincere al ballottaggio (Alan Fabbri sfiora il 49% e lo sfidante Aldo Modonesi il 32); destra favorita al secondo turno anche nell’altro capoluogo al voto, Forlì, dove Gian Luca Zattini chiude il primo turno sopra il 45% dei consensi, mentre il democratico Giorgio Calderoni si ferma al 37. Tutti segnali non rassicuranti per l’eterno potere del Pci-Pds-Ds-Pd in vista delle regionali che dovrebbero tenersi tra novembre e dicembre prossimi.

É la Lega “pigliatutto”: la prossima preda sarà l’Emilia Romagna

Il giorno dopo, coi risultati definitivi, la vittoria leghista assume i toni di una valanga e di una rivoluzione nel sistema politico italiano: 9,1 milioni di voti – 3,4 in più rispetto alle Politiche del 2018 e 7,4 milioni sulle Europee 2014 – pari al 34,3% dei consensi (l’affluenza si è fermata al 56%, oltre due punti in meno di cinque anni fa).

Lega. Il partito di Salvini è primo in 3 circoscrizioni (Nordovest, Nordest e Centro), 13 regioni e 5.868 comuni (il 75% del totale): insomma è ormai un vero e proprio catch-all party, un partito pigliatutto. Ovviamente ottiene i suoi risultati migliori al Nord (sopra il 40% e poco sotto al 50% in Veneto), ma è il primo partito anche in tutte le regioni del centro (esclusa, per poco, la Toscana) e supera il 20% agevolmente anche al Sud, dove comunque batte i 5Stelle in Abruzzo e Sardegna. La Lega, secondo le prime analisi dei flussi elettorali, si tiene quasi tutti i suoi voti delle Politiche e “prosciuga” Forza Italia e M5S (ma ne ruba qualcuno persino al Pd). Salvini fa il pieno di preferenze: 2,3 milioni.

La prossima tappa di questa avanzata è prevista per l’autunno: la conquista dell’Emilia Romagna, che regalerebbe al centrodestra tutta l’area “padana” (ieri è passato a Salvini e soci anche il Piemonte). Il risultato non è scontato, ma più che possibile sì: alle Europee di ieri i voti in regione di Lega (33,7%), Forza Italia (5,8%) e Fratelli d’Italia (4,6%) portano la coalizione oltre il 44%; il Pd (31,2%) sommato a tutti i suoi possibili alleati (+Europa, Europa Verde e La Sinistra) non arriva al 40%. Sono solo le province di Bologna e Reggio Emilia (e in parte Ravenna), specie i capoluoghi, a tenere in piedi il corpaccione dem nel suo (ex) regno: i prossimi saranno i mesi della grande paura e non è escluso che i 5Stelle sentano sirene da sinistra.

La situazione, a dirla tutta, è favorevole alla Lega anche in Toscana (si vota nel 2020): la coalizione di centrodestra (42,2%) è davanti a quella “vasta” di centrosinistra (41,2%), anche se il Pd resta primo partito in Regione (33,1% contro il 31,5% della Lega) grazie soprattutto alla provincia di Firenze (i dem sono avanti in tre province, i leghisti in 7). Quando si voterà in Umbria poi, dove la Giunta di Catiuscia Marini è caduta per lo scandalo sanità, il risultato è scontato: la Lega alle Europee è risultato il primo partito col 38,18%, il centrodestra è oltre il 50% e a Perugia conquista il Comune al primo turno. Insomma, quelle che un tempo si chiamavano “regioni rosse” sono diventate “verdi”.

M5S. Il negativo della foto trionfante di Salvini è il crollo epocale dei 5Stelle, fermi al 17%, mai così in basso da quando – nel 2013 – si presentano a elezioni nazionali: i 4,5 milioni di voti incassati domenica sono la bellezza di 6,2 milioni in meno rispetto a un anno fa e quasi 1,5 milioni in meno rispetto alle Europee del 2014. I 5Stelle non riescono a tenersi l’elettorato delle Politiche favorendo, oltre all’astensione, soprattutto Salvini (1,8 milioni il travaso secondo Ixè). Il disastro della squadra di Luigi Di Maio non deve far velo alla residua forza elettorale del M5S: primo partito nelle circoscrizioni Sud e Isole e in sei regioni, ma molto male nel resto d’Italia e specie in alcuni luoghi simbolici come le città in cui governano: 17,5% a Roma, 16,4% a Livorno, 13,3% a Torino.

Pd. È l’equivoco di queste Europee: resta primo partito solo in Toscana e i suoi 6 milioni di voti pari al 22,7% sembrano una vittoria solo per il tracollo dei grillini. Ingeneroso il paragone con le Europee 2014 (quelle degli 11,2 milioni di voti col 40,8% di Renzi), ma il partito di Nicola Zingaretti in termini assoluti in Italia perde 110mila voti anche rispetto alle Politiche 2018 (i voti all’estero non sono paragonabili). Dato non piacevole se si ricorda che l’anno scorso Bersani e soci erano concorrenti (LeU prese 1 milione di voti), mentre ora hanno messo i loro candidati nelle liste dem. Un altro elemento di riflessione riguarda l’origine del voto Pd: i dati più positivi vengono dalle città (primo partito a Roma, Milano, Torino, Firenze, Genova, Cagliari, Bergamo, eccetera) e, soprattutto, dai loro centri storici (il “partito delle Ztl”). Preoccupante se si tiene conto che alle Politiche o alle amministrative sale l’affluenza nelle periferie: insomma, i dem sono ancora in vita, ma assai malmessi.

FI e FdI.Riassumendo, Silvio Berlusconi perde moltissimi voti, ma è ancora vivo; Giorgia Meloni invece ne guadagna molti, ma non riesce a diventare senior partner del centrodestra: 2,35 milioni di voti per Forza Italia (quasi la metà di un anno fa, un milione dei quali finiti alla Lega) con l’8,8%; 1,7 milioni per Fratelli d’Italia (300 mila in più) col 6,4%.

+ Europa. Partito assai presente sui media, meno nelle urne: col 3% e gli 800 mila voti già presi alle Politiche resta sotto la soglia del 4%.

Ue Verde e Sinistra. Prendono rispettivamente il 2,3 e l’1,7%: un’area che vent’anni fa valeva il 15% circa dell’elettorato non esiste più.

Riecco De Mita. Nusco non dimentica

Ancora lui. Ciriaco De Mita, l’originale, il vecchio leader della Dc della primissima Repubblica, è stato rieletto a 91 anni sindaco di Nusco, il paese in provincia di Avellino che gli ha dato i natali. Il leone democristiano si appresta quindi a iniziare il suo secondo mandato da primo cittadino. Con 410 voti di vantaggio – 1497 a 1087 – De Mita ha sconfitto lo sfidante Francesco Biancaniello, a capo della lista civica “Ricominciamo da Nusco”. Nella sua lunghissima carriera De Mita è stato presidente del Consiglio (1988-89), più volte ministro (Mezzogiorno, Industria, Commercio con l’estero), sottosegretario di governo, segretario e vicesegretario della Democrazia Cristiana, deputato in 11 legislature ed eurodeputato in 3. È in carica da primo cittadino nel suo paese natale dal 26 maggio 2014.

Gira la Fake News del Pd “di sinistra” e vincitore

Gira la fake news del “Buon risultato per la sinistra” (Corriere, Repubblica). Due fake news nella stessa frase. Per “buon risultato” si intendono i 6 milioni di voti che il Pd ha perso rispetto alle precedenti europee e gli oltre 100mila persi dalle politiche, con la Lega che guadagna 7,5 milioni di voti. Per sinistra si intende il Pd. Seconda fake news. “Sinistra”, cito il dizionario Treccani, sono le forze “popolari e progressiste”. Il Pd è la forza che ha ucciso la sinistra e le sue conquiste perdendo popolarità, al punto che 9 elettori su 10 hanno preferito astenersi o votare per un altro partito. Come ha fatto il Pd a diventare così impopolare? Smontando le leggi che hanno prodotto i progressi del ’900, dallo Statuto dei lavoratori alla Costituzione. Erano provvedimenti assai popolari, perché c’era scritto che nessuno poteva essere licenziato ingiustamente e ognuno ha diritto a una retribuzione sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa. Grazie alle ricette del Pd – lavoro interinale, a termine, cancellazione Articolo 18… – 17 milioni di lavoratori sono diventati a rischio povertà e altri si rifugiano all’estero per sfuggire allo sfruttamento legalizzato. Aumento dell’età pensionabile, pareggio di bilancio, leggi liberticide contro lavoratori e migranti messi in competizione per evitare che conquistino nuovamente i diritti negati (l’art.18, la Scala mobile, sono il frutto delle lotte dei migranti che hanno bloccato fabbriche e campi per ottenere i diritti. Dei migranti che nessuno voleva perché puzzavano e non parlavano italiano ma siciliano, pugliese, napoletano). L’elenco dei provvedimenti classisti del Pd non entra in 2000 battute perciò lo riassumo in una: Zingaretti dice che è tornato il bipolarismo. Tra la destra di Salvini e quell’altra.

P.S. Dubito che i quotidiani intendessero attribuire il “buon risultato” a “La Sinistra”, lista di Rifondazione Comunista e Si, vittima di uno scambio di persona: “Chiamiamoci come la tv ha chiamato Bersani, Renzi e Zingaretti!”. Ha preso l’1,7.