I talk prendono tanti seggi. Dentro Mr. Papeete e Fitto

Chi farà l’Europa nuova? Aspettiamocela da Silvia Sardone, avanguardista e sovranista, autenticamente salviniana, il cui sito web è zeppo di marocchini ubriachi, nordafricani che danno legnate alla polizia, nullafacenti dalla pelle scura, anche puzzolenti.

Una cavallerizza questa Silvia, pasionaria berlusconiana escussa, nel mercato interno del centrodestra, dalla Lega e posizionata nel collegio nord ovest, quindi eletta. Se la ricordano i telespettatori in una memorabile sfida vocale col conduttore di Piazzapulita Corrado Formigli che, stremato dalla capacità della Sardone di mettere zizzania, chiese al direttore di Libero (Libero!) Pietro Senaldi di acquietarla. Era infatti giunta in studio con suo marito, il sindaco di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano, a illustrare le norme che vigono in città per accedere alle case popolari. Per i non italiani è previsto un pellegrinaggio per tutti gli uffici del catasto del Paese d’origine a dimostrare di non essere latifondisti. Una egiziana che in studio provò a dirle che il giro le sarebbe costato trentamila euro, venne triturata da Silvia: “Vuol per caso dire che intende truffare la legge?”. La trasmissione finì senza feriti e collusi, ma Sardone si propose, scrivendo ad autori e conduttori, di essere disponibile per altre prove vocali.

È la tv che costruisce un candidato e infatti Francesca Donato, avvocatessa palermitana, benedice il giorno nel quale con suo marito decise di mettere su Euroexit. Un’associazione di famiglia che apriva però gli occhi sul mondo e liberava, dal salotto di casa, l’Europa dal giogo dell’euro. La televisione, sempre affamata di volti piuttosto singolari, se l’è accaparrata e l’avvocatessa oggi è una perla, la prima linea della falange sovranista a Bruxelles. Anche più televisiva di Antonio Maria Rinaldi, detto Bombolo (così lo chiama Alberto Bagnai, suo collega di partito, economista e senatore nonché twittatore compulsivo). Antonio Maria, figlio del banchiere Rodolfo, rappresentante in Italia dei Rockefeller, e di Isabella Rossini, nobildonna dal portamento regale (favolosa la sua collezione di almeno quattrocento abiti realizzati su ordinazione da Yves Saint Laurent, Hermes, Gucci, Valentino) è dentro il gorgo della battaglia a favore dei popoli e degli ultimi. Illustratore peripatetico delle formidabili potenzialità della lira, teorico del sogno autarchico, ha anche indossato un giubbotto giallo per solidarietà con i Gilet francesi, prima ancora che Di Maio gli rubasse l’idea. Rinaldi & Donato fanno una bella coppia e a Strasburgo lotteranno per costruire l’Europa dei popoli, l’Europa bassa.

Sappiamo che avranno con loro la forza delle idee di Vincenzo Sofo, quasi maritato Le Pen, legato infatti a Marion, nipote di Jean-Marie, che purtroppo da poco ha deciso di disfarsi del pesante cognome e conservare solo quello del papà, monsieur Maréchal. Sofo, “calabrese al 100 per cento”, dirige con successo il suo blog Il talebano. Poche visite ma tutte ultranazionaliste. Patriottico, di destra virtuosa, il meglio che avesse Storace, dalle cui file proviene.

Strasburgo è invece solo un passaggio nella vita di viaggiatore di Massimo Casanova, industriale alberghiero di Milano Marittima, inventore dell’happy hour e proprietario del Papeete, un locale favoloso. Lui, che d’inverno aspetta l’estate, e perciò viaggia attraversa il mondo alla ricerca di suggestioni (Armenia, Tanzania, Florida, Maldive) è il personal trainer dell’happy hour del Capitano. Salvini infatti si rifugia nel suo bosco di mare, a Lesina in Puglia, per ritemprarsi. È l’amico delle vacanze che anche Elisa Isoardi, la ex di Matteo, ha conosciuto. Leghista romagnolo di antica data, viene chiamato a Strasburgo per dare vitalità, vigoria fisica, e anche quel tocco di edonismo che manca al mondo ingessato degli euroburocrati.

La pattuglia sovranista è molto più numerosa, ma queste sono le teste di cuoio, la forza naturale, patriottica, sulla quale gli altri innesti daranno l’esatta dimensione del rilievo della disfida. Se la dovranno vedere con fior di combattenti dell’altro campo. Non sappiamo come Dino Giarrusso, l’ex Iena votatissimo dai Cinquestelle, riuscirà a fronteggiare lo sbarco. Sappiamo che la squadra europeista, aperta alla ragione, trova in Giosi Ferrandino, che il Pd ha voluto fortissimamente, un suo interprete autentico. Chi è Giosi? Ingegnere, già sindaco di Casamicciola e di Ischia, già arrestato per lo scandalo Cpl Concordia, già assolto in primo grado, è l’uomo che Cirino Pomicino ha affidato al nuovo partito di Zingaretti. Dc di antico lignaggio, gran mangiatore di voti è riuscito a fare il botto e piazzarsi al secondo posto nella circoscrizione Sud, a un passo dal magistrato Franco Roberti. Cani e gatti insieme, la teoria sulla quale Zingaretti fa affidamento e che in qualche modo ha già dato giovamento. Ricordiamo che i 5S nell’isola d’Ischia hanno fatto flop, nonostante il condono edilizio per i terremotati del luogo.

In Europa ritorna a nome di Berlusconi Aldo Patriciello, latifondista del voto molisano, aperto a ogni richiesta (“Ci sono sempre, notte e giorno”) e disponibile a ogni avventura. Fantastica la sua dichiarazione d’intenti: “Agli amici non chiedo mai quale fede politica professino. Lascio liberi tutti, e non mi permetterei. Sei comunista? Va bene. Sei fascista? Va bene. Basta che voti me”.

Lo hanno votato, anzi rivotato, anzi stravotato. E ora è lì. Gradito ritorno invece per Raffaele Fitto, che ha dovuto chiedere a Giorgia Meloni asilo politico dopo la rottura con il Cavaliere di Arcore.

Sarà tutto bellissimo.

All’80 per centoLa sindaca conti

La sindaca “anti cemento” ha vinto ancora. Isabella Conti, prima cittadina di San Lazzaro di Savena – 32mila abitanti, in provincia di Bologna – è diventata famosa per aver denunciato le pressioni e le minacce ricevute quando ha deciso di bloccare un mega progetto edilizio sul suo territorio. Ieri i suoi concittadini le hanno confermato la fiducia con percentuali bulgare. La sindaca del Pd ha ottenuto il secondo mandato addirittura con l’80,84% dei voti. Un autentico plebiscito. Lontanissimi ovviamente gli sfidanti: il candidato del centrodestra, Carmine Campitelli, ha conquistato il 13,28% dei voti mentre il pentastellato Luciano Tentoni si è fermato al 5,88%. Il risultato della sindaca è ancora più notevole confrontando i risultati del voto amministrativo con quelli del voto europeo. La cittadina bolognese è da sempre un feudo della sinistra, ma domenica nel voto di lista delle Europee la Lega ha preso il 26%, il Movimento 5 Stelle il 12,06%, Forza Italia 5,63%, Fratelli d’Italia il 4,67%; il Partito democratico che sostiene la sindaca invece ha portato a casa “solo” il 38,2%. Quindi la stragrande maggioranza degli elettori che nel voto europeo hanno votato altre liste, in quello amministrativo hanno spostato le proprie preferenze sulla Conti, portandola all’80%.

Il caso Bonino +Europa fuori dall’Ue

Il partito di Emma Bonino non ce l’ha fatta nemmeno stavolta: +Europa si è fermata al di sotto della soglia di sbarramento del 4% e non elegge neanche un deputato nel prossimo Europarlamento (ha raccolto il 3,09%). La leader dei Radicali ha commentato così: “Sono dispiaciuta, non delusa, perché non avevo illusioni, ma fiducia e speranza. Il risultato è comunque il consolidamento di un gruppo nato un anno fa. Ci siamo già dati appuntamento per programmare il rilancio”. Secondo Bonino la colpa è soprattutto della dimensione provinciale della politica nazionale: “So che abbiamo dato tutto quello che potevamo per cercar di far entrare temi europei in una campagna elettorale che invece è stata una conta italiana. E in Italia hanno vinto i sovranisti. Cosa che invece non è successa in Europa”.

Pareri

 

Sofia ventura

Una scatola vuota, la parabola grillina non risalirà facilmente

Considero il Movimento 5 Stelle una scatola vuota: in mancanza di contenuti definiti, se c’è una leadership forte e che funziona anche dal punto di vista comunicativo attira consensi, altrimenti no. Gli sbandamenti di Di Maio sono stati decisivi, in primis sul caso Diciotti, poi con un sostegno a Salvini – per esempio sui porti chiusi – rinnegato con una improvvisa sterzata a sinistra ben poco credibile. Anche perché, come dimostrano i flussi, credo sia un’illusione quella di vedere l’elettorato del M5S come un elettorato di sinistra. Continuo a pensare che sia un voto “contro”, per cui il Movimento si è avvantaggiato del carisma di Grillo fino a un certo punto, ma adesso ha trovato qualcuno più bravo di loro nel parlare alle persone e creare empatia. È difficile dire se si riprenderanno, ma credo che la parabola dei 5Stelle non abbia molta possibilità di ripresa e a poco servirebbe ora “piazzare” da dietro le quinte – ovvero da Casaleggio – un nuovo leader finto, che durerebbe ben poco.

 

Tomaso Montanari
Introdurre la democrazia interna e cambiare il capo

La profonda delusione, la rabbia, verso il M5S di governo non ha premiato il Pd (che perde altri 110mila voti rispetto a Renzi nel 2018: altro che festa!), né i pezzi di sinistra (obbligatorio il ritiro a vita privata del ceto politico). I voti perduti (6 milioni in 14 mesi!) sono andati o nell’astensione (aumentata rispetto al record negativo delle Europee 2014) o alla Lega. Dovrebbe essere chiaro che fare gli scendiletto di Salvini non paga: perché gli elettori che approvano questa linea di sottomissione, scelgono poi direttamente Salvini. Mentre chi non approva non va a votare: nonostante le messinscena “sinistrorse” dell’ultimo mese. Questa mancanza di alternative al centro (occupato dall’invotabile Pd) e a sinistra (vuota come la coscienza di un banchiere europeo) dovrebbe dare ai 5S la forza di ribellarsi: meglio far cadere il governo sui princìpi (esempio: il Tav), che continuare a essere mangiati vivi. Poi bisognerà cambiare (dopo questa ecatombe!) il capo politico: e interrogarsi su come sceglierne un altro. Democrazia interna cercasi.

Lucia Annunziata
È venuto meno il vantaggio dell’essere post-ideologici

Non mi aspettavo un crollo così netto del M5S. Penso che abbiano promesso troppo all’inizio, come fossimo alle porte di un risorgimento generale il cui emblema è stata la dichiarazione sull’abolizione della povertà. E poi è venuto meno il vantaggio dell’esser post-ideologici, scontratosi con la realtà di un contratto con un partito vero come la Lega. Quando si sono accorti che Salvini se li stava divorando, i 5S hanno provato una virata a sinistra che è stata fin troppo brusca ed è sembrata opportunistica. Dovrebbero staccare la spina al governo, ma non lo faranno perché sono in una situazione di debolezza che non si aspettavano. La loro è una situazione identica a quella che si è portata dietro il Pd: si tratta di recuperare peso politico, più che i numeri. E l’unico modo è fare una lettura cruda dei propri errori e ripensare a quello che si è. Non è un problema di leadership, di mettere Di Battista al posto di Di Maio: bisogna riandare fuori, nei territori, da quelli che ti hanno lasciato e su questo rapporto di fiducia ricostruire il futuro.

Marco Tarchi
Hanno trascurato il peso vincente dei temi populisti

Condurre una polemica quotidiana contro la Lega e spostarsi sempre di più dall’originario discorso grillino (quello sviluppato da Beppe Grillo al 2007 al 2014) per cercare di ottenere consensi da sinistra ha prodotto un risultato opposto alle aspettative: ha ridotto le distanze, anche psicologiche, fra l’elettore M5S e il Pd e non ha affatto frenato, ma semmai agevolato, l’esodo verso la Lega. Di Maio e i suoi hanno trascurato il peso che su molti (ormai ex) votanti Cinque Stelle hanno i classici temi di protesta populisti, che Grillo e Gianroberto Casaleggio avevano saputo raccogliere e interpretare efficacemente. Per risalire la china, occorrerebbe ripartire dai fondamentali delle campagne elettorali precedenti, ma sarà difficile, perché le divergenze interne cresceranno. In ogni caso, continuare a mantenere le tensioni alte nel governo sarebbe una scelta suicida: meglio cercare accordi mediati con il partner del contratto almeno sui temi abbordabili: tasse, sblocca-cantieri, sicurezza.

Daniela Ranieri
Bisogna ricostruire l’identità e costringere Salvini a governare

“Oh libro mio andrai a Roma, e andrai, a Roma, senza di me”. Come Ovidio sperava nella gloria dall’esilio di Tomi, così Beppe Grillo ha mandato la sua creatura al governo senza di lui. Quell’autoesilio è causa prima di acefalia; l’ironia del Padre (“Oggi Radio Maria e canti gregoriani”) è l’epitaffio di un’avventura. Il M5S ha perso identità: la parola “contratto” rimanda più al contagio che alla stipula; Salvini l’ha corroso. Di Maio ha un solo modo di reagire: dissolvere l’illusione ottica di Salvini di essere governo nelle misure percepite come ascrivibili al suo decisionismo (blocco degli sbarchi, sicurezza) e opposizione in quelle che non è riuscito a fare o mai farà (rimpatri, flat tax, Tav). Deve cioè costringerlo a governare, cosa che Salvini non ha mai fatto, e intanto ricostruire la sua identità, che è fatalmente di opposizione. L’ipotesi di allearsi col Pd è lunare: su gestione dei migranti, sicurezza, “decoro” e Tav, Pd e Lega sono più concordi di quanto lo siano Lega e M5S, e di quanto l’apocalittica mitologia pro-Europa abbia lasciato comprendere.

Massimo fini
Da noi la parola “legalità” non ha diritto di cittadinanza

Èla vittoria del variegato partito dei corrotti, cosa che non dovrebbe poi meravigliare più di tanto visto che in Italia sono la stragrande maggioranza. La parola “legalità” non ha diritto di cittadinanza nel nostro Paese. La sera di domenica nelle varie no-stop televisive i conduttori e soprattutto i commentatori non riuscivano a trattenere l’esultanza per il tonfo dei 5Stelle, mentre dalle finestre aperte delle ricche e borghesi case milanesi si udivano grida di trionfo, come dopo l’ultima nostra vittoria ai Mondiali di calcio, non tanto per l’exploit di Matteo Salvini quanto per la clamorosa caduta dei 5Stelle. Una buona mano l’han data le cosiddette sinistre attaccando per anni i grillini a spada tratta, con motivazioni molto profonde, basate soprattutto sui congiuntivi, e aprendo così la strada alla destra più becera, più antropologicamente razzista, più antisociale che si sia mai vista in Italia, perché anche il Fascismo un programma sociale almeno ce l’aveva.

Il Pd chiude ai 5Stelle: “Sono avversari”. Resta il rebus Renzi

Al Nazareno hanno ripristinato la strategia del semaforo, che richiama la prudenza del Romano Prodi di quel genio di Corrado Guzzanti: immobili, tranquilli, assai calmi. I toni sobri di Nicola Zingaretti segretario e Paolo Gentiloni presidente contro la frenesia di Matteo Renzi e la spigolosità di Matteo Orfini hanno riportato il Partito democratico davanti ai Cinque Stelle con un (quasi) insperato 22,7 per cento.

I dem sono consapevoli di aver fatto molto senza fare nulla, di speciale, clamoroso, pirotecnico. Quello che li conforta è che il risultato europeo conferma la linea dura sul Movimento: altro che dialoghi e confronti, Di Maio & C. sono avversari. Dicono: “Mai con i Cinque Stelle, visto che funziona?”.

Al Nazareno e qui e lì per l’Italia, però, scorrono ancora tracce di renzismo e i reduci dell’ex premier si crogiolano con la matematica e ricordano che il fallimentare 4 marzo 2018 portò al Pd più consensi, ai 6,05 milioni di elettori di domenica scorsa mancano circa 110.000 voti. Renzi s’è speso soltanto per celebrare il trionfo al primo turno – mentre in campagna elettorale s’è risparmiato – di Dario Nardella a Firenze: nell’ex capitale del renzismo, i dem sfondano il 40 per cento: “La vittoria della Lega alle Europee è netta. È altrettanto evidente che la risposta più forte alla vittoria di Salvini arriva oggi da Firenze grazie al bravissimo Nardella”. Nei retroscena giornalistici, i renziani fanno sapere che il successo sta al centro e non a sinistra, messaggio a Zingaretti che con la tecnica del listone ha riaperto le porte di casa agli ex Mpd di Pier Luigi Bersani. Oltre a Nardella a Firenze, Giorgio Gori a Bergamo e Antonio Decaro a Bari premiano i dem nei comuni e premiano diversi esponenti con accentuati trascorsi renziani. Il contenzioso sulla vittoria non è la principale preoccupazione di Zingaretti e Gentiloni, ma la consistente presenza dei renziani nei gruppi parlamentari che possono far sbandare il partito, lasciato agonizzante per una decina di mesi dopo le dimissioni di Renzi e riabilitato un paio di mesi fa con le primarie. Come ha ripetuto più volte, forse anche per convincere se stesso, Zingaretti vede soltanto le urne se dovesse sfaldarsi il governo gialloverde anche per convertire in scranni e potere (reale) il 22,7 europeo che può crescere nel giro di pochi mesi. Come? Chissà, senz’altro con una nuova classe dirigente che va dalle 262.000 preferenze dell’ex sindaco Giuliano Pisapia alle 272.000 dell’ex ministro Carlo Calenda fino alle 220.000 in due circoscrizioni di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa simbolo dell’accoglienza ai migranti.

Al Nazareno sperano di raccogliere le spoglie dei Cinque Stelle assieme a Matteo Salvini e non considerano plausibile l’ipotesi di un’alleanza col Movimento per competere col centrodestra nei collegi. Zingaretti non è un campione di carisma, però gli attacchi immediati di Salvini lo lusingano, certificano un ritorno in vita dei dem e creano il campo per ilduello: “Noi siamo l’argine al sovranismo di Salvini”, è il mantra che serve pure a escludere i Cinque Stelle che sono al governo con la Lega nazionale.

La gioia pudica di Zingaretti e Gentiloni, circondati da una libreria vacante, è l’immagine perfetta di un Pd che non offre ancora niente di nuovo, ma almeno sembra aver rimosso il vecchio, quello che negli ultimi anni l’ha soffocato.

I renziani hanno riposto la tentazione di fondare un partito, resistono in disparte, almeno finché non si forma l’agognato spazio al centro che dovrebbe lasciare Silvio Berlusconi, se Urbano Cairo non ci si fionda. Così a Zingaretti conviene stare immobile, tranquillo, assai calmo. Come un semaforo.

Se tiri a campare, poi tiri le cuoia: ora opposizione

Se i 5Stelle vogliono tentare di ritrovare se stessi e i propri elettori (sapendo che molti fuggitivi difficilmente saranno recuperati) devono tornare a essere opposizione. Dirlo adesso, dopo la solenne legnata delle Europee potrebbe sembrare fuori dal mondo, alla luce soprattutto delle parole di Luigi Di Maio deciso ad andare avanti nell’autolesionismo di governo con Matteo Salvini. E anche se, perso per perso, se ne comprendono i motivi – meglio tenersi la maggioranza del 2018 in Parlamento che rischiare di tornarci dimezzati con nuove elezioni (e poi, comandare di meno è sempre meglio che non comandare per niente) – il dilemma grillino resta quello evidenziato da Alessandro Di Battista: “Il problema non è chi ma cosa si fa”. O meglio (aggiungiamo noi) cosa il M5S dovrebbe evitare di fare, per non rischiare la rapida estinzione.

1. Non restare al governo con chi, in poco più di un anno, ti ha succhiato il sangue ricavandone energia e vigore e lasciandoti sul terreno esanime. Evidente che lui abbia tutto l’interesse a tenerti in vita per diventare ancora più forte. Ma perché e in nome di cosa condannarsi a una sopravvivenza di sottomissione?

2. Comunque nel disastro del 26 maggio c’è un messaggio preciso: l’elettorato ha sonoramente bocciato i 5Stelle di governo, mentre aveva promosso a pieni voti i 5Stelle di opposizione. Perché non prenderne atto?

3. Poche ore dopo il trionfo, Salvini ha già convocato al Viminale una riunione di rappresentanti delle “attività produttive” annunciando poi un fantomatico mandato per discutere delle questioni fiscali e agricole a Bruxelles. In poche ore si è cioè attribuito funzioni che spetterebbero ai ministri Di Maio e Tria. Nasce dunque un governo del Viminale in alternativa a quello di Palazzo Chigi. Ma può Giuseppe Conte accettare di essere un premier di nome mentre quello di fatto briga altrove?

4. Proseguire nell’alleanza gialloverde significa per il Movimento ingoiare il rospo leghista delle autonomie, che di fatto spaccano l’Italia tra un Nord prospero governato dal Carroccio e un Sud abbandonato al proprio destino. Per non parlare del decreto bis sulla Sicurezza, riguardo al quale i discepoli di Beppe Grillo non potranno più fare tanto gli schizzinosi. Infine, il no categorico al Tav Torino-Lione è stato derubricato da Di Maio a “progetto da ridiscutere” tra Italia e Francia, come da contratto di governo. Dunque, si farà comunque perché Salvini lo vuole? Dopo i dietrofront su Ilva e Tap un altro tributo salatissimo pur di restare al governo. Davvero ne vale la pena?

5. Nel Parlamento di Strasburgo la pattuglia grillina farà parte di un gruppo marginale mentre Salvini guiderà con Le Pen, Orbán e Farage il robusto fronte sovranista. Ciò che renderà ancora più squilibrato il rapporto di forza tra i due contraenti a Roma.

6. Salvini ha stravinto lucrando immagine e consensi sulla guerra all’immigrazione, quella che aveva già vinto il ministro del governo Gentiloni, Marco Minniti. I 5Stelle hanno straperso pur avendo varato riforme di forte impatto sociale: dal decreto Dignità al Reddito di cittadinanza. Il guaio è che hanno continuato a definirsi non di destra o di sinistra privandosi di un’identità precisa. Cosicché cercando di accontentare tutti hanno perso voti sia in direzione Salvini che Zingaretti.

7. Per tutto questo, intestardirsi a restare in un governo dominato da Salvini e lasciare interamente il ruolo e lo spazio dell’opposizione al Pd, che vi pascolerà come in una comoda rendita di posizione, rappresenta un errore politico e un danno per il Paese. Non sarebbe più razionale staccare la spina al governo su una questione identitaria per i grillini, come per esempio il Tav? Quindi prendersi una pausa di riflessione nella quale procedere all’indispensabile riorganizzazione interna? E nel frattempo ritornare a una sana battaglia parlamentare contro Salvini e il salvinismo, proprio sulla base delle critiche, spesso sacrosante, sollevate in campagna elettorale? Meglio tirare a campare che tirare le cuoia, diceva Giulio Andreotti. Ma se restano paralizzati dalla sconfitta i 5 Stelle rischiano entrambe le cose.

Migranti. Riace, Lampedusa e Capalbio

Sono i luoghi simbolo dell’accoglienza dei migranti, diventati terra di conquista della Lega. A Lampedusa – dove però il 74 per cento degli elettori non è andata a votare – la Lega fa il pieno sfiorando il 46 per cento dei voti, più del doppio del Pd e nonostante il boom di preferenze (135 mila nella Isole, 139 mila al Centro) dello storico medico che sull’isola si occupava dei migranti, Pietro Bartolo, eletto con i dem a Strasburgo.

Risultato simile a quello di Riace, dove si votava anche per le amministrative: nel comune dell’ex sindaco Mimmo Lucano, riconosciuto modello di integrazione a livello internazionale e ora nel mirino della magistratura, alle Europee il Carroccio è primo partito con il 30,75% dei voti. Identico risultato alle comunclai, dove ha vinto la poltrona di sindaco per “Riace Rinasce”, Antonio Trifoli, considerato vicino alla Lega. Arriva terza invece Maria Caterina Spanò, ex assessore della giunta Lucano e candidata sindaca per “Il Cielo Sopra Riace”, la lista in cui lo stesso Lucano correva come consigliere comunale. Anche in un altro Comune, in passato finito in polemica proprio per l’accoglienza dei migranti, la Capalbio patria dei radical-chic, ha vinto la Lega, primo partito alle Europee con il 47,64 dei consensi.

I tre bocciati Roma, Torino e Livorno

Non è stato un bel risveglio per i tre sindaci M5S in carica nelle tre città italiane. Solo uno di loro, Filippo Nogarin, correva in prima persona: dopo aver deciso di non ricandidarsi alla guida di Livorno – che ieri è andata al ballottaggio tra Pd e centrodestra – aveva raccolto la sfida di Bruxelles. Ma non ce l’ha fatta: al Centro, la circoscrizione che lo vedeva in lista, non è scattato il terzo seggio. E lui, con meno di 30 mila preferenze, è rimasto a casa. Diversa la posizione delle due sindache Chiara Appendino e Virginia Raggi. Al netto del risultato delle Regionali (il candidato M5S Giorgio Bertola è arrivato terzo), a Torino città il Movimento è andato malissimo: 13 per cento dei voti, doppiato dalla Lega e 20 punti sotto il Pd. Non proprio una bella notizia per la sindaca. Più o meno la stessa ricevuta da Virginia Raggi: Movimento fermo al 17,5 per cento, Lega al 25,8, Pd al 30.

“In Parlamento e fuori: quanti ‘no’ da Luigi”. La rivolta degli eletti (e i 50 pronti alla fuga)

Adesso che dalla parte dei soci di minoranza sono finiti loro, la schiuma viene a galla. Per un anno era rimasta sopita nelle riunioni di commissione, nei tavoli di lavoro, negli aperitivi in piazza delle Coppelle. Che se provavi a tirarla fuori, a chiedere spiegazioni, subito ti rinfacciavano quel 32 per cento con cui “si erano ubriacati” il 4 marzo. E chi non lo capiva era il solito rompicoglioni.

Ma così come si sono invertiti i rapporti di forza interni al governo, ora minacciano di ribaltarsi anche quelli dei gruppi parlamentari. “Sono tutti sul banco degli imputati: capigruppo, presidenti di commissione, sottosegretari, ministri, comunicatori”, ovvero la sparuta pattuglia che ha guidato il corpaccione di deputati e senatori in questo anno di governo. Che ora, mentre brandisce quel 17 per cento portato a casa ieri, è pronta a dirgli che non ha più intenzione di metterci la faccia.

A dirgli, sì. A lui. Perché tra quegli imputati, toccherà a Luigi Di Maio caricarsi la rabbia, domani sera, della vecchia e nuova guardia del Movimento. Ieri ha rimandato l’incontro – dice che non tutti avrebbero fatto in tempo a rientrare a Roma – e ha preferito chiudersi nel suo fortino di via XX Settembre, al ministero, prima insieme ai fedelissimi, poi anche a quelli che negli ultimi mesi erano finiti all’angolo, a cominciare da Alessandro Di Battista, unico possibile antagonista seduto ieri nella war room.

Ma è ai 320 parlamentari che domani dovrà rendere conto, e andare oltre le promesse sulla “riorganizzazione”, annunciate per attutire la sconfitta. Sono loro quelli pronti a chiedergli conto della gestione della legislatura “del cambiamento”. A cominciare da fatti concreti. Primo, la partecipazione. Non solo le assemblee ormai ridotte a riti da officiare una tantum, ma pure l’ordinaria amministrazione del lavoro parlamentare: “Ci è vietato presentare emendamenti che non siano concordati con il governo: sulla legge di Bilancio praticamente non siamo potuti intervenire”. E poi, la piazza, i territori: “Li abbiamo abbandonati, è vero. Ma anche perché Luigi non voleva che andassimo a prenderci i fischi, le manate in faccia… Siamo stati assorbiti dalla frenesia dei decreti, le cose da studiare, la tabella di marcia da rispettare”. E ancora, la comunicazione. “Hanno scientificamente deciso che tutto fosse ricondotto ai vertici, agli altri è negata qualsiasi iniziativa, qualunque contributo”.

Sembrerebbe una storia già sentita, il vecchio adagio di chi è rimasto fuori dall’inner circle del capo politico. E in tanti casi, probabilmente, lo è. Ma quelli che adesso sono delusi, lividi, sono quelli che questi dodici mesi se li sono fatti a testa bassa sui dossier, sui testi di legge, sugli archivi. E che adesso tuonano: “Se fa finta di niente, non ci tiene più”.

Poi, silenti ma affacendati, ci sono quelli che stanno già pensando a domani. Che la seconda fiche – quella di un altro mandato – hanno ormai capito di non potersela giocare, che questi numeri in Parlamento chi li rivede più. C’è un numero, arrotondato per difetto, e porta la cifra di 50: sono quelli che nel Movimento hanno dato per persi in partenza, pronti a salire su qualsiasi scialuppa dovesse portare ad ipotetici nuovi equilibri istituzionali.

E Grillo? Grillo, che è l’unico che se parla agli elettori oggi può pesare anche più di Di Maio, per ora medita ascoltando Radio Maria e i Canti Gregoriani. Il Dies Irae, ieri, in loop.

Carfagna e Toti processano “staff” di B. e Forza Italia

Non sono passate nemmeno 24 ore dalla chiusura delle urne e nel centrodestra già volano gli stracci. Tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ma pure all’interno di Forza Italia. Il risultato del partito berlusconiano, 8,8%, è deludente, ma poteva andare peggio, soprattutto se non ci fossero stati il Sud (12,2%) e le Isole (14,7%). Il sorpasso di FdI (6,4%) non c’è stato, a parte al Centro, dove il partito della Meloni ha raggiunto il 7% contro il 6,2% di FI. Un dato che segna la sconfitta di Antonio Tajani, rieletto in Europa con sole 48.142 preferenze. Numero lontanissimo da quello di Berlusconi, eletto con 593.957 voti, anche se in quattro collegi.

Il successo personale dell’ex Cavaliere è una delle poche cose che ieri gli ha regalato sorrisi, insieme all’affermazione in Piemonte di Alberto Cirio. Non gli è piaciuto, invece, l’attacco di Meloni, che è tornata a parlare di un centrodestra che può fare a meno di FI. “Un’alleanza di Lega e FdI sarebbe sufficiente a vincere le elezioni”, ha ribadito ieri l’ex ministro della Gioventù. Ma gli attacchi arrivano anche dal suo partito. Da Giovanni Toti, ma pure da alcuni coordinatori regionali e da Mara Carfagna. “FI non può più essere gestita da uno staff. Occorre rinnovare tutto. C’è bisogno di una struttura politica in grado di prendere decisioni e di assumersene le responsabilità”, dice la vicepresidente della Camera. E le parole “congresso” e “nuovo coordinatore” non sono più un tabù. “Il partito deve condurre un’operazione verità”, osserva Osvaldo Napoli. Giovedì s’inizierà con un ufficio di presidenza. Ieri Berlusconi ha ricevuto una telefonata di congratulazioni da Orbán, che vedrà già oggi a Bruxelles. A sua volta, B. ha chiamato Salvini per fargli i complimenti. Altra piccola soddisfazione: nessuno dei “traditori” ex FI è stato eletto, a partire da Elisabetta Gardini.