La fase 2 di Salvini: comandiamo noi o andate tutti a casa

Eccola qui la fase due del governo: la presenta Matteo Salvini. Entra in camicia bianca nella sede di via Bellerio, dopo una notte di ovazioni e brindisi e appena un paio d’ore di sonno. Parla esattamente come un premier appena investito: “Ho ricevuto le telefonate dei vertici del mondo dell’impresa, dell’industria, del commercio, della cultura e dello sport di questo Paese. Mi dicono ‘adesso tocca a voi’. E noi ci siamo”. Stavolta niente rosario e niente occhi arrossati dalla commozione. Il nuovo Salvini non sarà più (solo) il ministro dei porti chiusi, ma pretende il timone dell’Economia: “Va bene l’immigrazione, entra chi ha il diritto di entrare, però il tema su cui vincere per gli italiani è quello delle regole e dei vincoli fiscali. La riduzione delle pressione fiscale è un dovere. Prevista dal contratto di governo”.

È l’annuncio di una svolta: la campagna sui migranti sarà meno arrembante, d’ora in poi si parlerà più di soldi e lavoro. Con una priorità assoluta: la flat tax. E un ringraziamento speciale ad Armando Siri, l’uomo che ne ha gettato le fondamenta: “Il voto ha dimostrato che le campagne d’inquisizione non pagano”. È una delle pochissime frecciate ai Cinque Stelle. Perché la strategia della Lega è chiarissima, ripetuta come un mantra dal segretario fino all’ultimo degli uomini di partito: niente ripicche, nessuna richiesta di poltrone, niente rimpasti. Si va avanti: “Ho già sentito Conte, sono pronto per un vertice oggi, domani, dopodomani”. Il completo ribaltamento dei rapporti di forza tra gialli e verdi si farà pesare tutto sul programma. Le autonomie regionali sono considerate inevitabili e praticamente già acquisite, il decreto Sicurezza bis sarà realtà già dal prossimo Consiglio dei ministri, il Tav – secondo la Lega – è stato oggetto del “referendum in Piemonte” e quindi si farà. La vera battaglia sono le tasse.

Eccola qui la fase due: ora decide la Lega, i Cinque Stelle si dovranno adeguare. Ufficialmente si professa lealtà: “Non cambia nulla, la parola data vale più dei sondaggi, vale più dei voti”. Lo dice Salvini e lo ripetono a cascata i colonnelli che sciamano per la sala stampa di via Bellerio con sorrisi a 64 denti: Claudio Borghi, Stefano Candiani, Lorenzo Fontana. Ma sotto la superficie delle parole di conforto, ribolle il rancore per settimane di campagna elettorale aggressiva. E fa capolino un senso di vendetta. Ecco il sottosegretario Candiani, ad esempio: “Ora bisogna smetterla con le entrate a gamba tesa di kamikaze come Buffagni” (Stefano, sottosegretario 5Stelle a Palazzo Chigi, ndr). Ma Candiani si è beccato pesantemente pure con Carlo Sibilia, il suo omologo grillino al Viminale. Al leghista scappa un ghigno, sta per dire “Sibilia chi?” ma si trattiene. E articola: “Certi rapporti si sono deteriorati. Non esistono calci nel sedere dati in amicizia… i calci nel sedere non si danno. E basta”.

Il ministro della Famiglia Fontana usa parole molto simili: “Certi rapporti umani saranno molto difficili da recuperare”. Sui diritti civili – sostiene – non ci saranno svolte, perché non sono previste dal contratto. Ma di certo la parola del governo su quei temi non sarà più quella dei Cinque Stelle, che l’hanno attaccato per il patrocinio al congresso ultra-cattolico di Verona. “Una battaglia che ha fatto male solo a loro”… Non lo cita, ma ogni riferimento a Vincenzo Spadafora, braccio destro di Di Maio e sottosegretario con delega alle Pari opportunità, è puramente voluto. Non preferirebbe avere interlocutori diversi da Spadafora? Fontana non trattiene un sorriso: “Ma bisognerebbe tornare alle elezioni, fare un’altra campagna… sarebbe rischioso”. Invece così il cerino è dei Cinque Stelle. “In questo momento sì, dipende soprattutto da loro”. Insomma, il messaggio di via Bellerio per gli alleati suona più o meno così: l’alternativa è tra rompere e lasciarsi umiliare.

Il tormento di Di Maio: “Stacchiamo la spina o no?”

Il capo schiantato dai numeri lo chiede ai suoi: “Che si fa, stacchiamo la spina al governo?”. E loro, i big del M5S convocati dall’autocrate che da oggi non potrà più esserlo, se la cavano con un compromesso: “Proviamo ad andare avanti”. Di più non possono promettere e “prevedere i Cinque Stelle ancora guidati da Di Maio, a cui Matteo Salvini risponde già ieri sera da Porta a Porta, serafico come può esserlo chi ha stravinto: “ Come staccare la spina…Dobbiamo fare la flat tax, aspettiamo 4 anni?”. Ed è è lo specchio del governo dai pesi ribaltati, dove il Movimento ora è all’inferno e la Lega fortissima, abbastanza per pretendere di dare tutte le carte. Una calamità per Luigi Di Maio, che per sopravvivere lassù, nel governo, deve innanzitutto ricompattare i suoi. Così il giorno dopo il diluvio promette una segreteria politica con Alessandro Di Battista primo consigliere. Si affida a lui, a quello che per la base rappresenta il Movimento che forse non c’è più, e al premier che ora è il primo ostacolo a Salvini, Giuseppe Conte.

La notte che ha sprofondato il M5S al 17,07 per cento è finita da poco, quando il capo politico comincia a compulsare ministri e big vari. Prima per telefono, partendo con Beppe Grillo e Davide Casaleggio e poi nel pomeriggio anche di persona, in una riunione fiume dentro uno dei suoi due ministeri, quello dello Sviluppo economico, trasformato in ultima ridotta con buona pace dell’etichetta istituzionale. Ma il capo ha fretta: urgenza di capire se vogliono la sua testa, prima di tutto, e poi di chiedere consigli e sponda. E li cerca innanzitutto da Di Battista, l’ex trascinatore che non ha voglia di detronizzarlo, “perché si vince e si perde tutti assieme” come dice pubblicamente, grosso modo sincero. E come lui, anche gli altri dignitari a 5Stelle non vogliono lo scalpo del leader: anche perché ad oggi non c’è una vera alternativa, e non può esserlo neppure Dibba, amato dagli iscritti ma non da tutti gli eletti, anzi. Piuttosto la certezza è che “adesso bisogna cambiare molto”. Lo dicono più o meno tutti i maggiorenti, a Di Maio. Ma lo dice specialmente lui, Di Battista: “Luigi, ora dobbiamo rilanciare su quattro o cinque delle nostre battaglie, dobbiamo tornare a parlare di ambiente e insistere sulla corruzione”. Insomma, bisogna riprendersi la vecchia identità, non avere paura di essere o meglio tornare se stessi. D’altronde “le elezioni sono andate male, abbiamo appreso una grande lezione” concede Di Maio in una conferenza stampa nel primo pomeriggio sempre lì, al Mise.

Molte ore prima, a urne ancora calde, dentro la Camera aveva riconosciuto solo un errore di fronte a un pugno di big: “Abbiamo scelto alleati del tutto sbagliati in Europa”. Una verità urlata dalle cifre, perché dei quattro partiti reclutati per un ipotetico gruppo solo i populisti croati di Zivi Zid piazzano un eurodeputato. Gli altri non hanno toccato palla, ed è un nodo. Ma non quanto l’astensione. “Al Sud non ci hanno votati” sillaba il vicepremier. Cioè il reddito di cittadinanza non ha portato folle alle urne, e il ricasco mancato nelle urne rende friabile l’esecutivo, fa saltare gli equilibri dentro una maggioranza che ha già le mura assediate. Perché nel lunedì del dopo diluvio c’è pure l’avviso dei naviganti di Bloomberg, secondo cui la Commissione europea valuta di proporre per l’Italia una procedura di infrazione sul debito del 2018, con una sanzione da 3,5 miliardi. Una minaccia che potrebbe arrivare per lettera il 5 giugno, e la cui eco basta per far schizzare lo spread a 280. Non a caso a Palazzo Chigi Conte incontra i funzionari economici, e riflette sui numeri, come sul futuro dell’esecutivo. “Al presidente non sfugge affatto il peso politico di queste urne” dicono. Per questo sente al telefono Di Maio e Salvini, per raccomandarsi: “La campagna elettorale è finita, ora abbassiamo i toni e pensiamo alle cose da fare”.

Ma il premier parla anche con la cancelliera Angela Merkel, in vista del vertice informale dei capi di Stato e di governo di oggi, a Bruxelles. Insomma Conte tasta il terreno sotto ai suoi piedi. Proprio mentre Di Maio davanti alle telecamere semina le sue verità: “Noi pensiamo che il governo debba andare avanti per fare le cose. Ma su 10 provvedimenti realizzati fino ad ora 9 sono del M5S”. Il vicepremier sconfitto resta reattivo: “Il nostro alleato è il contratto di governo”. E pone paletti: “Le autonomie si faranno, ma rispettando la coesione nazionale”. Però concede: “Il ministro Tria dice che i soldi per la flat tax ci sono? Facciamola”. Soprattutto, sul Tav svicola e scarica, su Conte: “Il dossier è nelle sue mani, e il tema non è cercare lo scontro, valuteremo dopo che si saranno parlati Conte e il presidente francese”. E suona come una resa. Ma è eresia per Di Battista, che dopo mesi torna in una riunione. Così dentro il Mise fa muro: “Sul Tav non possiamo cedere, è una nostra battaglia”. Una bandiera non ammainabile. Un problema, in una riunione che è un rosario di guai. Con un sottosegretario che fa notare: “Abbiamo fatto troppe promesse, a tutti”. Ma soprattutto, dicono in tanti, “dobbiamo anche difendere il Movimento, finora ci siamo presi tutti le responsabilità di governo”.

Tradotto, che si fa con la Lega? Così Di Maio mette i suoi di fronte al bivio: “Stacchiamo la spina?”. E davanti a sè ci sono facce preoccupate. “Non so cosa fare” ammette un membro del governo. Ma alla fine la linea è provare a insistere, “perché se facciamo cadere il governo la gente non capirebbe”. Al limite lo facesse lui, Salvini. Il vincitore, che le carte le ha tutte in mano.

Guai ai vincitori

Il consueto affollamento del giorno dopo sul carro dei vincitori aggiunge caos a quello di sondaggi, exit poll, proiezioni e previsioni sballati (compresi i nostri). Eppure il risultato delle elezioni europee è chiaro e limpido.

Chi vince, chi perde. Hanno vinto Salvini (+3,5 milioni di voti in un anno) e la Meloni (+300 mila), che da soli raggiungono ormai il fatidico 40% del Rosatellum e possono persino fare a meno di B., sempreché alle prossime elezioni politiche confermino o aumentino i consensi. Tutti gli altri hanno perso: moltissimo i 5Stelle e FI, che hanno praticamente dimezzato i voti (-6 milioni M5S, -2 milioni FI); e un po’ anche il Pd, che sorpassa i 5Stelle, ma in retromarcia, visto che riesce a perdere altri 110 mila voti, facendo addirittura peggio della débâcle renziana. Se Zingaretti guadagna 4 punti percentuali è grazie al calo dei votanti e al minor astensionismo del suo popolo rispetto a quello dei 5Stelle, grazie al fattore “fascismo” che in campagna elettorale ha spostato l’asse dalla contrapposizione fra vecchio e nuovo a quella fra destra e sinistra: terreno che premia i vecchi partiti ideologici, infatti fa comodo al duo Salvini&Zinga e taglia fuori i 5Stelle post-ideologici.

Leader usa&getta. Di Maio era primo sul podio e ora è terzo, dunque il tonfo che fa più rumore è il suo. La sua parabola politica, salvo improbabili resurrezioni, è durata 20 mesi: dall’elezione-plebiscito a capo politico nel settembre 2017 al trionfo esagerato del 4 marzo 2018 alla disfatta dell’altroieri. Il che conferma che, con questo elettorato sempre più liquido, ondivago, sbandato, isterico, impaziente e insofferente, la vita media dei leader è sempre più breve: dopo il ventennio berlusconiano, Monti durò due anni scarsi, Renzi tre, Di Maio meno di due e ora non vorremmo essere nei panni di Salvini. Che rischia di aver toccato domenica l’apice della sua carriera e dovrà guardarsi ogni giorno dal pericolo di stufare gli elettori, di perdere terreno e di ritrovarsi rottamato alle prossime elezioni se, com’è probabile, non supererà più il 34%. Le elezioni sono ormai un gioco al massacro per buttar giù ogni volta il capo del momento, senza neppure dargli il tempo di realizzare riforme di medio respiro. Molta gente vota come twitta, passando immantinente dall’Osanna al Crucifige. E non solo in Italia: due anni fa Macron era l’imperatore di Francia, ora la Le Pen appena sconfitta l’ha di nuovo scavalcato. Per sopravvivere a questo sadico, frenetico tiro al bersaglio bisogna essere proprio una Merkel.

Cioè avere un partito strutturato, un Paese prospero, 14 anni di buon governo ed elettori tedeschi. La Lega dovrebbe pensarci per tempo, perché al momento ha un solo capo spendibile, mentre il Pd ne ha diversi (sia pur di seconda mano) e i 5Stelle vantano una panchina lunga (Di Battista, Fico, Bonafede, Appendino e altri, più Conte come candidato premier). Del resto gli ultimi due trionfatori alle Europee – B. nel 2009 e Renzi nel ’14 – si sono ben presto trasformati in perditori professionisti alle Politiche. E, potendo scegliere, è meglio perdere le Europee che le Politiche.
Gialloverdi o verdigialli. Ora Salvini è il Di Maio di un anno fa e viceversa: le percentuali di Lega e 5Stelle si sono invertite, infatti la somma dei giallo-verdi, anzi dei verdi-gialli è sempre sopra il 50%. Teoricamente, il Carroccio diventa l’azionista di maggioranza del governo. Ma con la metà dei seggi dei 5Stelle: finché non si tornerà alle urne, i voti in Parlamento restano quelli del 2018. Il che diminuisce le responsabilità del M5S e paradossalmente aumenta il suo potere contrattuale. Almeno finché Salvini vorrà tenere in piedi il governo, avrà bisogno dei voti pentastellati. E si vedrà se Di Maio si riavrà dallo choc e sarà così lucido e abile da fare a Salvini ciò che fino all’altroieri Salvini ha fatto a lui: fargli pesare e penare la propria forza parlamentare. Se prima la stabilità di governo stava a cuore soprattutto ai 5Stelle – disposti perfino a tradire i princìpi di legalità e uguaglianza sul caso Diciotti pur di salvare l’alleato dal processo –, ora che si sono dissanguati a causa dell’alleanza con la Lega sarà Salvini a doverli rincorrere e blandire. E una crisi di governo, col contorno di spread e caos, danneggerà più lui di Di Maio (che più danneggiato di così si muore). Un periodo di opposizione non farebbe che bene ai 5Stelle, per tentare di recuperare l’identità smarrita, riorganizzarsi sui territori abbandonati e darsi una gestione più collegiale con Grillo, Di Battista, Fico&C.. Una prospettiva che consente fin da subito al M5S di poter scegliere il terreno e il momento più propizio per rompere con Salvini: su una grande questione di principio che restituisca l’identità a quel che resta del Movimento e coinvolga altri settori dell’opinione pubblica. Come la difesa dell’unità nazionale dal dl sulle autonomie, o il salario minimo, o la lotta all’evasione fiscale, o la prescrizione (se la Lega tenterà di ripristinarla). Per azzeccare il momento e il terreno, il M5S dovrà discutere impietosamente le ragioni del disastro: per evitare di pentirsi delle tante cose buone fatte e dette (tipo il no al Tav o il reddito di cittadinanza, che va difeso come giusto, a prescindere dai voti che ha portato o sottratto: e i risultati di M5S e Lega al Sud dicono che ne ha portati) e fare mea culpa sui veri errori. Soprattutto uno: per inseguire prima Salvini, poi i sondaggi, si sono perduti prima l’identità e poi l’appuntamento con l’onda verde che premia gli ecologisti in tutta Europa, ma incredibilmente non viene intercettata da ambientalisti nati come i grillini. Leggere di più il blog di Grillo e meno i giornaloni non guasterebbe.

Gli altri leader. Da Conte a Zingaretti

Il primo a votare, ieri mattina, non poteva che essere il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha votato a Palermo: nonostante abbia la facoltà di votare ovunque, ha preferito tornare nella sua città. Poi hanno cominciato ad arivare i tweet degli altri leader. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è arrivato nel seggio allestito al liceo Virgilio di Roma poco prima delle 13 a piedi, ha salutato i presenti facendosi anche una foto con gli scrutatori. E all’uscita, a chi gli chiedeva come è andata, Conte ha risposto sorridendo: “Bene, ho fatto il mio segno. Buona giornata e buon lavoro”. Il vice premier Luigi Di Maio ha votato in una scuola di Pomigliano d’Arco (Napoli) e anche lui si è limitato ad augurare buon voto. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti è andato invece nel suo seggio allestito nella scuola Gioacchino Belli di Roma di buon mattino. “Un abbraccione a Daniele De Rossi”, ha scherzato lasciando il seggio con scrutatori e giornalisti. Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi sceglie invece il seggio di Mamma Rosa a Milano: “Sono venuto qui perchè qui sono venuto per tanti anni con la mia mammina, sono un sentimentale”. E poi ha spiegato: “Un candidato può scegliere dove andare a votare e io ho scelto il ricordo”.
Ansa

Silenzio violato. Il solito leghista

Lo aveva già fatto sabato, pubblicando sui social una serie di post. Ieri, di nuovo, Matteo Salvini ha violato il silenzio elettorale, parlando con i giornalisti che lo attendevano al seggio di Milano dove ha votato (rigorosamente in divisa: questa volta quella della nazionale di canottaggio): “Invito gli italiani a votare, perché cambiare l’Europa e un’occasione unica storica, e merita l’impegno e la partecipazione di tutti. Sono convinto – ha aggiunto – che in queste ore qualche potere forte a Bruxelles e a Berlino sia preoccupato, molto preoccupato…”. On line, si è scatenato ancora di più: post in difesa delle forze dell’ordine, slogan contro “barconi e buonisti”, foto delle piazze dove ha tenuto comizi negli ultimi giorni e ovviamente l’hashtag di riferimento per i suoi sostenitori, #oggivotoLega.

Le mani di Silvio&Matteo sul Piemonte: Cirio in vantaggio su Chiamparino bis

Non usa più il colore verde né la parola nord, ma la Lega di Matteo Salvini sta per completare la conquista – assieme a una più piccina Forza Italia – delle regioni del nord che fu patria del Carroccio.

Secondo gli exit poll, i sondaggi effettuati davanti ai seggi dal consorzio Opinio per i programmi Rai, in Piemonte il candidato di centrodestra Alberto Cirio (45-49 per cento) è in netto vantaggio su Sergio Chiamparino (36,5-40,5) del centrosinistra, governatore uscente e già sindaco di Torino, tra le poche bandiere rimaste al Pd. Cirio è un parlamentare europeo uscente di Forza Italia con un passato nel Carroccio, è l’emblema di un centrodestra che nei territori funziona e non permette, però, a Salvini di scaricare l’anziano (e ingombrante) alleato Silvio Berlusconi, anche se la Lega è la forza trainante della coalizione. Non è ancora tempo di bilanci, ma Matteo&Silvio pregustano il dominio nel nord con i governi regionali in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Friuli Venezia Giulia, aspettando le prossime competizioni, oggi davvero in bilico come non mai, nelle ex roccaforti rosse di Emilia Romagna e Toscana. Le elezioni europee hanno la precedenza, dunque lo scrutinio in Piemonte parte nel pomeriggio e il voto disgiunto rende più complicate le rilevazioni e la distribuzione dei posti, ma l’esperto Chiamparino, 71 anni, era chiamato a una rimonta con scarse risorse e scarso supporto del partito – il collega del Lazio nonché segretario dem Nicola Zingaretti ha latitato – contro il più giovane Cirio, 47 anni.

Chiamparino ha offerto la sua esperienza, cioè una solida continuità politica che va avanti dagli anni 70, da una formazione comunista con le varie fasi di evoluzione della sinistra italiana, dieci anni da sindaco, cinque da governatore dopo il mandato travagliato e monco di Roberto Cota, ex generale leghista, che adesso rappresenta un Carroccio che non esiste più. I piemontesi, però, se gli exit poll non mentono, hanno preferito una rottura, l’ennesima dopo la consegna di Torino ai Cinque Stelle, per niente spaventati di diventare una succursale della Lombardia, come ha preconizzato qualche dem.

Il “Chiampa” ha evitato lo scontro diretto con Cirio con l’illusione di non amplificare una figura non molto conosciuta, soprattutto a Torino. Forse non ha funzionato. Perché Cirio, nelle ultime settimane, ha pedalato parecchio nel cosiddetto Piemonte 2, nelle province che confinano con la Lombardia o nei paesini che sono lontani dall’influenza di Torino. E poi le differenze sostanziali, quelle che pesano in ambito locale, spariscono se prendiamo un caso, l’iconico Tav: il centrodestra e il centrosinistra sono per il sì al progetto ferroviario, una posizione che si riflette in alcune candidature e persino in una lista a sostegno di Cirio. Chi combatte il Tav, per esempio, ha giocato un ruolo più che marginale: i Cinque Stelle capitanati da Giorgio Bertola (12-16 per cento), già consigliere regionale e non proprio in sintonia con la sindaca Chiara Appendino, non è riuscito mai a inserirsi nel duello (non rusticano) tra il “Chiampa” e Cirio. Per ora, la sconfitta è virtuale, ma è assai dura per Chiamparino che ha ricevuto una visita di Zingaretti a due settimane dal voto e ha chiuso la campagna elettorale da solo, mentre Cirio è stato spinto dal tridente Berlusconi, Salvini, Meloni.

Subalterna a Salvini dalle politiche dal 4 marzo, Forza Italia ha insistito molto per la scelta di Cirio e dunque per intestarsi una vittoria con l’ambizione di sfruttare il Piemonte per scardinare l’asse della Lega con i Cinque Stelle e ripristinare la coalizione anche in campo nazionale. La speranza di Silvio. Il terrore di Matteo.

L’Italia del 4 marzo s’è ribaltata: incognita M5S e Conte su Chigi

L’Italia del Quattro Marzo di un anno fa non esiste più. Meglio: si è ribaltata. La Lega diventa il primo partito del Paese con una percentuale che sfiora il trenta per cento, in base alle prime proiezioni. Certo, ci sarà da capire se la soglia psicologica con il tre davanti sarà raggiunta, ma la sostanza non cambia. Al contrario, il M5S frana in picchiata al venti-ventuno per cento e anche qui ci sarà da conoscere se il dramma grillino precipiterà ancora più in basso, dopo aver subìto il sorpasso del Pd di Nicola Zingaretti.

In ogni caso è la somma che fa il totale e la maggioranza gialloverde può contare su un cinquanta per cento ancora reale sul territorio, seppur a parti invertite. Dettaglio non secondario, diciamo così, alla luce dell’ultimo tremendo mese di campagna elettorale con il batti e ribatti tra i due contraenti di un anno fa (il governo Conte festeggerà il primo compleanno sabato prossimo). Ma proprio la forchetta tra le due forze, dagli otto ai dieci punti, delinea un futuro pieno di incognite che può anche sfociare nella paralisi o nel pantano per una combinazione di fattori. In questo scenario nuovo come si modificherà il ruolo di garanzia del premier presunto terzo?

Da oggi, innanzitutto, i leghisti di Matteo Salvini, compreso quel partito del Nord di Giorgetti & Zaia, si presenteranno al premier e al vicepremier Luigi Di Maio con la lista della spesa: flat tax, autonomia, Tav, finanche la riforma dell’abuso d’ufficio. Sarebbe riduttivo pensare solo a un riequilibrio di poltrone con un rimpasto scontato. La vera questione è l’agenda dell’esecutivo. Senza dimenticare che fino all’esplosione del caso Siri (il sottosegretario del Carroccio “revocato” per l’inchiesta sull’eolica), è stato il vicepremier leghista a scandire il ritmo della narrazione gialloverde per oltre dieci mesi. Cosa accadrà ora che Salvini si sente virtualmente premier?

Non solo: per la prima volta nella storia repubblicana, la destra estrema o sovranista, cioè Lega più Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, tocca quota 35 per cento. Un terzo del Paese, un dato impressionante.

L’incognita però destinare a pesare di più è il processo critico, per usare un eufemismo, che si aprirà nel M5S dopo il tracollo di ieri. Cosa succederà? Nell’ultimo mese Di Maio ha tentato di recuperare terreno nei confronti della Lega con una sorta di svolta a sinistra. Allo stato gli elettori non ci hanno creduto e soprattutto hanno premiato di più il Pd come argine alla xenofobia salviniana. Questo il vero nodo per il capo politico grillino: non si può essere alleato e oppositore allo stesso tempo. Ma anche la Lega si ritrova con un fronte irrisolto: Silvio Berlusconi. Alla vigilia del voto, nel Palazzo ha tenuto banco il tema di un eventuale sorpasso meloniano su Forza Italia. Non dovrebbe esserci e l’ex Cavaliere Ottuagenario potrebbe galleggiare ben contento al dieci per cento. Il centrodestra, con lui, è al 46 per cento e se Salvini vorrà tentare nel breve periodo la scalata a Palazzo Chigi sarà costretto a fare ancora i conti con lui.

Ed è per questo che l’autocritica grillina (con le variabili Di Battista e Fico) combinata con il fattore B. di Salvini potrebbe portare a un nuovo pantano di governo destinato a durare per mesi, alle prese però con il bivio della manovra autunnale. Lo sbocco potrebbero essere le elezioni il prossimo anno, nel 2020, ma quale governo sarà a gestire le ipotetiche urne anticipate? In questo contesto a stare felice alla finestra sarà il Pd di Nicola Zingaretti. Il sorpasso sul M5S è un dato decisivo anche a uso interno, facendo rosicare i gufi renziani. Con questi numeri, i vari colonnelli dem che fanno ancora capo all’ex Rottamatore non potranno aprire alcun processo interno. Sarebbero respinti con grossi sorrisi sarcastici.

Il nuovo segretario del Pd ha visto senza dubbio premiata la sua linea tattica, basata su voto anticipato e nessuna interlocuzione con gli attuali vertici del M5S. Anzi, le virtuali urne delle Politiche vedrebbero anche in questo caso rapporti di forza ribaltati: primo il Pd, indi i grillini, che però insieme non sono affatto maggioranza. Per arrivarci bisognerebbe sommare i voti europeisti di Bonino e Tabacci e quelli della sinistra di Fratoianni. Un fronte troppo variegato.

Ma sono ragionamenti prematuri. Da oggi a Zingaretti premerà capire se nel M5S si va incontro a un redde rationem tra Di Maio e gli altri pesi massimi del Movimento. L’uomo su cui si punta al nazareno è Roberto Fico, il presidente della Camera che tenne un mandato esplorativo un anno fa e varò un dialogo minimo tra democratici e grillini, poi stoppato in diretta tv da Renzi. Altri tempi. Quell’Italia già si è ribaltata e oggi comincia un nuovo mondo. Verdegiallo, non più gialloverde. Non è poco.

Stravince la Lega, bene Pd e B. I 5 Stelle finiscono sotto i dem

Iprimi dati di queste Europee si concludono con una conferma, una vittoria, una sconfitta, un paio di paradossi e una scomparsa. I numeri si basano sulle prime proiezioni sui voti reali.

L’affluenza. La conferma riguarda l’affluenza, che si è fermata a circa il 56%, due punti in meno rispetto alle precedenti elezioni per l’Europarlamento (il paragone con le Politiche – affluenza al 73% nel 2018 – è storicamente improprio). La partecipazione in Italia è comunque superiore alla media Ue (51%): il dato nazionale è frutto di un calo generalizzato, ma particolarmente rilevante nel Mezzogiorno (crollo in Abruzzo).

M5S. L’analisi dell’affluenza ci conduce all’unica sconfitta conclamata della giornata, cioè quella del partito che al Sud ha costruito i suoi successi nazionali. Ha perso il Movimento 5 Stelle che dovrebbe chiudere sotto al 20% (era al 21,1% nel 2014) e sotto e di parecchio anche al Partito democratico: anche cinque anni fa i grillini scesero rispetto alle Politiche del 2013, ma allora lasciarono per strada meno di 5 punti e non ben oltre 10 e, particolare non secondario, non erano al governo. La musica non cambia neanche guardando ai voti assoluti: all’epoca la differenza tra Politiche ed Europee fu di 1,8 milioni di voti, oggi in un anno ne perderanno oltre 5 milioni (un’enormità). Bruttissime notizie per Luigi Di Maio.

Lega. La vittoria è quella della Lega, che stravince e raggiunge percentuali che non s’è neanche mai sognata: le proiezioni mentre andiamo in stampa la quotano sopra al 32% dei voti, vale a dire 15 punti in più del 17,3% delle Politiche del 2018 e anni luce sopra il 6,1% delle Europee 2014. Anche in voti assoluti (per ora un conto che si può fare solo a spanne) Matteo Salvini cresce in maniera esponenziale. Ieri sul simbolo del partito che fu di Umberto Bossi dovrebbero essersi orientati quasi 9 milioni di italiani: tre milioni in più rispetto ai 5,7 del 4 marzo 2018 e addirittura sette se si guarda agli 1,7 milioni di elettori che scelsero la Lega cinque anni fa. Un enorme successo politico neanche depotenziato dai sondaggi che fino a poco fa davano Salvini e soci proiettati al 35% o anche oltre.

Pd. Un altro paradosso lo vive il Partito democratico, che vince pur dimezzando la sua pattuglia all’Europarlamento rispetto a cinque anni fa: allora fu il 40,8% di Matteo Renzi con 11,2 milioni di voti; oggi le proiezioni lo danno più o meno al 22% con – a spanne – 6,1 milioni di preferenze. Insomma, voti quasi dimezzati in cinque anni, ma assai aumentati rispetto al tracollo delle Politiche di un anno fa: minimo storico del 18,7% (un altro record targato Renzi) con 6,1 milioni di voti. La misura del successo di Nicola Zingaretti, però, è il sorpasso nei confronti dei 5 Stelle: bisognerà aspettare i voti reali, ma le proiezioni lo danno in vantaggio di oltre due punti. Va detto, e questo vale in ogni caso, che in voti assoluti il Pd di Zingaretti cresce rispetto a un anno fa, ma in una competizione in cui l’affluenza arrivò al 73%, quasi 20 punti più in alto.

Berlusconi. È un paradosso: ha perso vincendo. Le proiezioni danno Forza Italia attorno a un lusinghiero quasi 10% considerando che si tratta di un partito che non esiste quasi più. L’ex Cavaliere, che torna su una scheda elettorale dopo l’estromissione dal Senato seguita alla condanna per frode fiscale, dovrebbe mettere assieme circa 2,9 milioni di voti, cioè 1,7 milioni in meno rispetto sia alle Politiche dell’anno scorso che alle Europee di cinque anni fa (in percentuale era rispettivamente al 14 e al 16,8%). Quale che sia la percentuale finale, Forza Italia si dimostra fondamentale per la coalizione di centrodestra: Silvio Berlusconi ha mille vite.

Fdi. Un altro bel paradosso è quello di Giorgia Meloni: va molto bene nelle urne, ma può essere annoverata tra gli sconfitti. Le proiezioni danno Fratelli d’Italia oltre il 6%, vale a dire un punto e mezzo in più circa rispetto alle Politiche 2018 (4,3%) e due rispetto alle Europee 2014 (3,6%). In voti assoluti, per capirci, Meloni e soci dovrebbero superare (di circa 200mila schede) anche il loro risultato di un anno fa nonostante l’affluenza assai più bassa. Insomma, un buon risultato che però non le consente di sostituire Berlusconi come senior partner della coalizione, né di immaginare un futuribile governo Lega-FdI su cui aveva puntato negli ultimi giorni di campagna.

+Europa. Secondo le proiezioni è di nuovo, seppur di poco, sotto la soglia di sbarramento (stavolta è al 4%), ma sale di quasi un punto rispetto a un anno fa: il suo 3,3% dovrebbe rappresentare poco meno di un milione di voti.

Gli altri. Il panorama politico italiano nel prossimo Europarlamento finisce con Fratelli d’Italia: a stare alle proiezioni, infatti, nessuna delle altre liste ha raggiunto la soglia di sbarramento e nel prossimo Europarlamento non ci sarà la sinistra radicale: molto male La Sinistra (messa in piedi, in sostanza, da Sinistra Italiana e Rifondazione comunista); fuori anche Europa Verde (un’anomalia nel panorama europeo) e gli altri partitini presenti sulle schede elettorali.

S’avanza la “mega-coalizione”: Ppe, Sd e Alde per non cambiare

Chi governa va male, chi sta all’opposizione cresce: la regola si conferma con le elezioni di ieri e pure quando il governo è quello europeo. Con un paradosso: Popolari e Socialisti, che escono perdenti dalle urne, sono pronti a tornare al governo della Ue. Ma avranno bisogno di un’alleanza larga, dove sarà l’Alde a dettare le regole. La fotografia del Vecchio Continente che esce dalle urne, forte di un’affluenza al di sopra delle aspettative (50,5%), dice che i sovranisti non sfondano, i Verdi hanno il vento in poppa, grazie ai risultati straordinari in paesi come Germania e Francia. Un po’ ovunque i partito tradizionali arrancano. Mentre i successi di Viktor Orban in Ungheria, Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini in Italia e Jaroslaw Kazynski in Polonia avranno risvolti imprevedibili. Mentre i Socialisti vanno meglio delle aspettative soprattutto in Danimarca e Olanda, tengono in Italia, sfondano in Spagna e Portogallo.

I numeri Stando alle prime proiezioni dei seggi sulla base degli exit poll nazionali, sono i Verdi e i liberali i veri vincitori. I Verdi si attestano come quarta forza politica, ottenendo 67 seggi, 15 in più rispetto al 2014. Alde, dovrebbe avere 108 seggi, ben 39 in più rispetto a 5 anni fa. Il Ppe scende per la prima volta sotto la soglia di 200 seggi, ottenendone 178, 38 in meno rispetto al 2014. Socialisti e democratici ne prendono 152, 35 in meno. Il gruppo di Salvini, Europa delle Nazioni e delle Libertà, ottiene 56 seggi, 20 in più del 2014, mentre il gruppo dei Cinque stelle, Europa della Libertà e della Democrazia Diretta ha 56 seggi contro 42. I Conservatori dell’Ecr prende 61 seggi contro 59. Il gruppo dell’estrema sinistra Gue ottiene 39 seggi, 13 in meno.

 

Le maggioranze Nessuna maggioranza è possibile, se non quella uscente allargata, alla quale nelle istituzioni si lavora sotto traccia da settimane. L’ago della bilancia verrà comunque spostato: da Alde e Gue si sfiora un centrosinistra di governo. E i centristi saranno più importanti, anche rispetto al Ppe. I tre “partitoni” Ppe-Sd-Alde avebbero pieno controllo dell’Europarlamento. I leader europeisti, uno dopo l’altro, arrivano nell’emiciclo di Bruxelles e mettono i puntini sulle i. “Nessuna maggioranza solida pro europea sarà possibile senza la partecipazione del nostro gruppo”, sottolinea il presidente del gruppo dell’Alde Guy Verhofstadt, E Margerithe Vestager coglie l’occasione per autocandidarsi alla presidenza della Commissione. Lo Spietzenkandidat del Pse, Frans Timmermans, arriva col piglio di chi ha qualcosa da rivendicare. Mentre Manfred Weber, omonimo del Ppe, interviene sulla difensiva. Però, le incognite crescono: l’uscita di Orban dal Ppe è data quasi per certa per entrare nei Conservatori. Fino a oggi, l’idea di fare un unico gruppo con Enf è stata esclusa, ma nel tempo tutto diventa possibile. Anche se Gert Wilders, l’olandese, non prende neanche un seggio e i tedeschi dell’Afp sono ridimensionati. I 5Stelle non hanno deciso con chi staranno. Non con la Lega, né con il britannico Nigel Farage (che potrebbe rafforzare i sovranisti). Ma i loro principali alleati, i polacchi di Kukitz 15 non entrano in Parlamento.

 

Germania L’Unione Cdu-Csu è il primo partito con il 27,5%, ma perde ben il 7,8%. Il suo peggior risultato storico, che mette a rischio il governo e indebolisce ancora la Merkel. Peggio fa l’Spd: ottiene il 15,6%, ben l’11,9% in meno rispetto alle scorse europee. I Verdi volano al 20,5%, con un clamoroso +9,8%, ben oltre le attese che li davano al 17. L’ultradestra di AfD è al 10,5%: cresce del 3,4% ma non si avvicina al 13% dei sondaggi.

 

Austria Il cancelliere Sebastian Kurz si scrolla di dosso lo scandalo Ibizia-Gate del suo ormai ex partner. Il partito popolare vola al 34,5% (+7,5%). I socialdemocratici restano secondi con il 23,6% (-0,6%), mentre i nazionalisti di Heinz Christian Strache limitano i danni e perdono il 2,2%, fermando la discesa al 17,5%.

 

Francia Il Rassemblement National di Marine Le Pen primo partito con il 24,7%dei voti contro la Republique en Marche di Emmanuel Macron, al 21,6%. E già chiede lo sfratto del presidente. I Verdi arrivano terzi quasi al 13% con il voto giovane andato in massa ad un personaggio come Yannick Yadot

 

Ungheria Il partito di Viktor Orban, Fidesz, si conferma il vincitore incontrastato con un netto 56%, 4 punti in più rispetto al 2014.

 

Polonia L’ultraconservatore Diritto e Giustizia (PiS/Ecr) di Jaroslaw Kaczynski bìva a 42,40%. Lo segue a stretto giro la Coalizione europea, lista unica formata dai principali partiti di opposizione, tra cui la Piattaforma civica di Donald Tusk. Kukiz’15, col 4,10% non supera lo sbarramento.

 

Danimarca I socialdemocratici sono il primo partito con il 22,9%, davanti ai centristi, che hanno il 20,5%, e all’estrema destra, con il 13,2%.

 

Spagna Il Psoe prende circa il 28% delle preferenze, che significa 18 eurodeputati a Strasburgo. Il Pp, al contrario, vede nero, con il 17%. Vox, l’ultradestra nazionalista, va al di sotto delle aspettative, arrivando fino all’8% rispetto al 10% delle politiche. Ma otterrà 4-5 seggi a Strasburgo.

 

Portogallo Con il 32,45 il partito socialista del premier Antonio Costa vince le elezioni europee, rilanciando la sua candidatura alla presidenza della Commissione. Il partito socialdemocratico si ferma al 22,9%, il Blocco di Sinistra al 10, 25%.

 

Grecia Il principale partito di opposizione Nea Dimokatia di Kyriakos Mitsotakis, che fa capo alla famiglia del Ppe è in testa con il 34%. Syriza di Alexis Tsipras, resta al secondo posto col 27%. Tanto che il premier annuncia nuove elezioni.

 

Gran Bretagna Paradosso: il nuovo Brexit Party di Nigel Farage trionfa con il 32%. I LibDem filo-Ue secondi al 19%, il Labour in calo al 16%, i Verdi (2 punti in più) all’11%, e i Tory crollano all’8%.

Riace, Lucano torna per votare

Ha dovuto avvertire i carabinieri prima di entrare a Riace per votare. Mimmo Lucano lo ha fatto ieri alle 11. Dopo 15 anni alla guida del piccolo Comune, il sindaco “sospeso” si è candidato a consigliere nella lista “Il cielo sopra Riace” guidata da Maria Spanò. Ancora sottoposto al divieto di dimora a causa dell’inchiesta sull’utilizzo dei fondi per l’accoglienza, Lucano è stato autorizzato dal Tribunale a recarsi a Riace per votare, come già era successo per il comizio di chiusura della campagna elettorale, venerdì. Prima un caffè al volo nel bar del borgo, poi al seggio e infine un passaggio a casa per salutare l’anziano padre (92 anni) che non vede da mesi. “Speriamo vada bene”. Nessuna previsione sull’esito delle elezioni. Per vincere, la lista di Lucano deve prendere un voto in più delle due rivali.

In mente sempre il progetto di far ripartire l’accoglienza dei migranti spazzata via dall’inchiesta che ha portato al suo rinvio a giudizio e dal ministero dell’Interno che ha bloccato i fondi con un provvedimento poi annullato dal Tar. “Riace può tornare a essere un modello – dice Lucano – anche se non vinciamo le elezioni. Le politiche dell’accoglienza sono state stravolte da questo governo e il mio auspicio è che presto non ci sia più”.