Renzi e Grillo la prima volta dei figli

Uno è l’ex segretario, trionfatore delle ultime Europee (quelle del 40,8%) ora seconda fila del Pd. L’altro è il garante, un tempo trionfatore delle piazze a 5 Stelle, per la prima volta assente dal comizio di chiusura della campagna elettorale M5S. Matteo Renzi e Beppe Grillo, ieri, sono stati accomunati da un’altra cosa: entrambi sono andati a votare insieme a uno dei rispettivi figli, entrambi neo 18enni, dunque ai seggi per la prima volta. Francesco Renzi, primogenito di Matteo, calciatore nella Primavera dell’Udinese, li ha compiuti due settimane fa. Nessun commento da parte di Renzi, solo la certezza che oggi Dario Nardella, sarà riconfermato sindaco di Firenze (dove, ieri, si è votato anche per le amministrative). Anche da Grillo nemmeno una battuta: si è limitato a sorridere, salutando e risalendo in macchina insieme alla moglie e a uno dei suoi figli.

“Se è così, è un disastro”. Ora Di Maio è nel mirino

Una disfatta. Anzi, come riassume un big “un disastro”, che fa rima con processo. Tutto per lui, per il capo che probabilmente finirà terzo. Quel Luigi Di Maio che resta zitto fino a notte tarda dentro Montecitorio con i capigruppo e un po’ di graduati di governo, nella sala Tatarella che pare un fortino, mentre Matteo Salvini già festeggia, già ringrazia, perché “la Lega è il primo partito”. Invece il Movimento sprofonda dietro il Pd, addirittura sotto il 20 per cento. Perché gli exit poll delle 23 della Swg erano già stati una spietata sentenza, con i dem al 23 per cento e i 5Stelle solo al 20,5, sotto al dato già fosco delle Europee del 2014.

Ma le prime proiezioni della mezzanotte sono perfino peggio, con i 5Stelle a un catastrofico 19,6 per cento, il Pd al 21,7 e Salvini al 32 per cento. Un tonfo che echeggia nella sala della Lupa, dove tra arazzi e marmi telecamere e cronisti aspettano un segnale di vita dai 5Stelle. Ma arriva solo il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, con un po’ di colleghi dell’ufficio stampa. “Parleremo a spoglio ampiamente in corso” è il messaggio. Cioè si prende tempo, nella speranza che con il passare delle ore la notte diventi un po’ meno buia, ossia che il Pd diventi agganciabile. Però le chat interne grondano malessere, con un candidato alle Europee che già reclama il tributo di sangue: “In un Paese normale Di Maio dovrebbe dimettersi stasera”. L’onda del malessere, contro il capo che troppo spesso è stato autocrate. Perché è stato lui a calare da lassù cinque capolista esterne, per l’ira degli europarlamentari uscenti e di tanti candidati. “Anche venerdì al comizio finale a Roma hanno parlato solo loro” ricorda un veterano in lista. Veleni che potrebbero essere i primi germi di un processo al leader che quasi tutto ha deciso e che molto potrebbe aver sbagliato. Per esempio, potrebbe aver sovrastimato la ricaduta nelle urne del reddito di cittadinanza. Il totem del Movimento, che doveva portare percentuali da vittoria, e invece no. Lo riconoscono gli stessi 5Stelle: “Il Sud non è andato a votare, quindi il reddito non ha funzionato”.

Perché speravano nel traino della loro abituale riserva di caccia, ai piani alti. Consapevoli che al Nord sarebbe andata male, visto che sondaggi e stime informali interne raccontavano di un M5S sotto il 15 per cento in tutto il Nord Ovest. Guai che rimbalzano sul silenzio del Movimento asserragliato alla Camera. “Sono disperati” racconta un deputato che compulsa i maggiorenti tramite sms. Di Maio, rinchiuso con Alfonso Bonafede, Laura Castelli, Stefano Buffagni e altri big riflette su come ripartire. Ma già pare di sentire il rumore di Salvini, mentre al primo vertice governo porta al tavolo la nuova agenda dell’esecutivo. Un menu tutto in salsa leghista, con flat tax, autonomie e decreto sicurezza. E poi magari separazione delle carriere per i magistrati e revisione dell’abuso di ufficio, Così al Di Maio più che indebolito non resterà che rivendicare quanto già rammentato nell’ultimo comizio di tre giorni fa: “La maggioranza in Parlamento e in Consiglio dei ministri ce l’abbiamo noi”. Però da oggi si apre un’altra partita. Anche dentro il Movimento, “perché a Luigi presenteranno il conto” profetizza un parlamentare.

Ergo, arriverà un’assemblea congiunta, in cui gli chiederanno innanzitutto di delegate e spartire un bel pezzo del suo potere. Quindi di varare in fretta una vera segreteria politica, nel quadro di una riorganizzazione congelata per le urne, ma ora urgente. Ma ora sulla graticola c’è anche lui, il vicepremier, capo politico per i prossimi tre anni (rinnovabili) da Statuto, e non è un dettaglio.

E c’è anche Alessandro Di Battista, che ha una voglia di matta di rientrare in gioco. Un possibile nuovo capo, per un pezzo rilevante di base e una porzione di eletti. Anche se lui, giurava e giura, non vuole detronizzare Di Maio, il quale anzi potrebbe appoggiarsi all’ex deputato per resistere, a patto però di riprenderlo nella stanza dei bottoni, con facoltà di incidere. Poi però c’è anche Roberto Fico, che potrebbe avere gioco facile nel rimproverare al capo di aver concesso troppo al Carroccio sull’immigrazione. E che non ha dimenticato il processo risparmiato a Salvini per il caso Diciotti, erita che non si è rimarginata anche per un altro veterano come il presidente dell’Antimafia Nicola Morra. Non certo dimaiano, nel Movimento dove da oggi tirerà brutta aria. Un’aria da processo.

Zingaretti e il “fattore C”. Il miracolo del sorpasso

Esorpasso fu. Grazie a Zinga e al fattore C. A largo del Nazareno non hanno dubbi, “tutti lo sanno”, spiega sorridente il suo vice Andrea Orlando, che Nicola Zingaretti è apparentato a Romano Prodi per questa sua capacità di accompagnarsi alla fortuna, trovarla sulla sua strada, farsi anticipare o seguire da questa dea bendata. Voleva il venti per cento, “almeno il venti per cento, partiamo da qui per dirci veramente soddisfatti”, e quest’oggi sembra che il risultato sia stato raggiunto di slancio. “Si ricresce dopo tanto tempo, ed è la prima notizia. Esistono tre poli, ed è la seconda. E forse c’è il sorpasso. Ed è la terza”, comunica il suo portavoce. A largo del Nazareno non c’è aria di quaresima e finalmente già sull’uscio l’odore del miracoloso sorpasso, che gli exit poll stanno spargendo da qualche ora, accoglie e si espande come il profumo dei gelsomini di questa stanca primavera. Ventidue per cento, se le proiezioni sono azzeccate, con i cinquestelle finalmente sotto e quel burrone del 18,7 per cento, che è stata la bara del renzismo, lontano. La corsa della vittoria o della sconfitta è tutta nella misura del conto che Di Maio deve pagare alla sua sinistra, agli elettori che lo hanno abbandonato e in quello che raccoglie Zingaretti, che da quell’esodo, stando immobile, ora trova balsamo e conforto.

Il tempo passa in fretta e il successo del Pd, perché questo dicono gli exit poll, appare più travolgente dopo la gelata della stagione appena conosciuta.

Crederci allora? Nell’attesa di verificarlo con i risultati veri, ecco che però il fattore C del segretario trova una sua dimensione politica. Il faccione pelato ma gioioso, con accenti di umiltà che erano scomparsi nella muscolare regia renziana, aiutano questo giovane vecchio, figlioccio di Goffredo Bettini, il demiurgo del Pci romano, organizzatore e dispensatore di incarichi e prebende negli anni del monopolio rosso del Campidoglio, a ottenere più di quanto si potesse mai immaginare.

Zingaretti non si è mai allontanato da Roma, dove dirige la Regione (con una desistenza dei cinquestelle tutt’altro che irrilevante) dopo aver guidato la Provincia.

È riuscito, restando immobile, a raccogliere le spoglie del partito che il mattatore fiorentino (prima di farsi autoesplodere) aveva disseminato ovunque e reso detriti. Dalla destra di Carlo Calenda alla sinistra bersaniana, in un riavvicinamento che ha ritrovato in Massimo D’Alema l’analista del nuovo corso: “Mai come adesso è necessario andare a votare”.

E infatti Zinga – in nome del voto utile – ha fatto proseliti, richiamato la vecchia guardia, riabilitato alla grande Enrico Letta (“Ho votato di mattina presto, oggi era troppo importante farlo subito”), reclutato renziani di antica obbedienza ( Simona Bonafè, per esempio, che ha ottenuto di guidare la circoscrizione Centro), e imposto in campo importanti new entry. Quella di Calenda, l’ala destra, e quella di Giuliano Pisapia, a sinistra. Un lavoro da ebanista, un modo di richiamare tutte le forze disponibili e raccogliere il massimo possibile. E oggi, nel suo studio di largo del Nazareno, davanti a una libreria vuota, si fa la foto ricordo: sorride di gusto. Di fronte a lui Paolo Gentiloni, anche lui elettrizzato.

Se gli italiani risponderanno come sembra è anche perché il nord ha votato più del sud, le regioni di antico lignaggio rosso un po’ si sono ravvedute, e l’affluenza piuttosto robusta lungo l’appenino tosco-emiliano, riconduce all’ovile un numero imprecisato di disertori. E qui la seconda nota: se sono ritornati, lasciando l’astensione o il voto ai cinquestelle, vuol dire che il partito democratico non è l’unico interprete dello spirito progressista. Certo, e qui l’altro merito di Zingaretti, alcune candidature sono state particolarmente felici e sicuramente appetibili e imposto nomi, come quello di Pietro Bartolo, medico di Lampedusa e figura esemplare dell’accoglienza e dell’umanità, che più hanno dato slancio alla battaglia antisalviniana. Al sud poi, con la proposta del magistrato anti camorra Franco Roberti, il profilo del partito è ritornato nell’alveo della tradizionale colleganza col un mondo di sinistra disilluso e lontano.

Lo spumante è in frigo, diciamo così.

La Lega sopra il 30% mette il “turbo”: Tav, flat tax e autonomie

In via Bellerio, casa storica di quella che fu la Lega Nord, c’è il clima della festa imminente. Le bottiglie di spumante sono in fresco, lo champagne è quello evocato da Giancarlo Giorgetti pochi giorni fa nella sede della stampa estera: “Se raggiungiamo il 30% offro da bere a tutti i presenti”. La Lega finirà attorno a quella soglia. I tappi iniziano a saltare verso mezzanotte, dopo la prima proiezione, quasi trionfale: 32%. Il senso è chiaro: Matteo Salvini ha vinto le elezioni. Arriva in sede verso le 23 e 15, poco dopo gli exit poll e la partita del Milan. Si fa scattare una foto in ufficio. Sorrisone e cartello A4: “Primo partito in Italia. Grazie”. Lascia i giornalisti fuori e si barrica nella sua stanza (circondato, in ordine sparso, da un effigie di Cristo, un tapiro d’oro, una foto di Franco Baresi, un gufetto di renziana memoria, una foto di Putin, un cappello dei Carabinieri e uno di Donald Trump). Arrivano alla spicciolata parlamentari e candidati, il tele-sovranista Antonio Maria Rinaldi si accende un sigaro. Della vittoria? “È ancora presto”. Ma più passano i minuti più cresce l’euforia. Infine si brinda nell’ufficio di Salvini: ci sono, tra gli altri, Giorgetti, Claudio Borghi e lo spin doctor Luca Morisi. All’una di notte parla e ostenta il crocifisso del rosario: “Ringrazio lassù, non ho affidato al Cuore Immacolato di Maria un voto ma il futuro dell’Italia e dell’Europa. Si torna a lavorare”.

Il problema ora è dall’altra parte del muro. È tutto degli alleati. Un leghista di sottogoverno (con promessa di anonimato) confessa la sua preoccupazione: “Dico la verità, spero che i 5Stelle prendano almeno il 24%, altrimenti non reggono” (la prima proiezione li dà addirittura sotto il 20). L’ultimo paradosso di questa campagna elettorale in cui se le sono date di santa ragione, è che i “governisti” della Lega finiscono per tifare per un buon risultato dei loro rivali. “Perché Matteo vuole andare avanti, ve lo assicuro. Continua a dirci che non vuole staccare la spina”. Lo dice ai giornalisti, per primo, il ministro dell’Agricoltura Gianmarco Centinaio: “Dopo queste europee non cambia nulla per il governo”. Gli fa eco il capogruppo salviniano alla Camera, Riccardo Molinari: “Non è all’ordine del giorno né cambiare premier né pretendere poltrone”. Salvini continua a giurare in pubblico e in privato di non volere rimpasti. Non dovrebbe chiedere la testa di nessuno dei ministri. Nemmeno quell’Elisabetta Trenta, titolare della Difesa, con cui si è scontrato ripetutamente nelle ultime settimane.

Non cambieranno gli uomini, ma ovviamente saranno stravolti gli equilibri. La svolta sarà nel programma: la Lega è pronta a mettere davvero il turbo. “Ora gli italiani si aspettano che il pallino ce l’abbiamo in mano noi”, riassume Molinari. E dunque: subito le autonomie regionali, tanto più vista la probabilissima vittoria del centrodestra con Alberto Cirio in Piemonte. Subito la flat tax: le risorse per finanziarla in qualche modo saranno fatte comparire. E poi, a proposito di Piemonte, c’è la partita Tav: nelle condizioni in cui usciranno da queste Europee, difficilmente i Cinque Stelle avranno ancora la forza di imporre il loro no.

Ecco, insomma, cosa si dice in via Bellerio: la gestione di questo lunghissimo lunedì, e di quello che seguirà, è un problema di Luigi Di Maio. La Lega ora è ufficialmente il primo partito d’Italia, non più solo nella percezione collettiva e nei numeri dei sondaggi. E in quanto tale ora pretenderà di avere il timone. Basta guerriglie, basta consigli dei ministri inconcludenti e bizantini che servono solo a far pareggiare le ambizioni dei gialli con quelle dei verdi. Ora si cambia. Se agli altri sta bene si continua, altrimenti…

Una linea che Salvini aveva preparato nelle ultime settimane. E anticipato già nel pomeriggio, con i numeri degli ultimi sondaggi in tasca. Di fronte ai giornalisti che l’aspettavano di fronte al seggio della scuola Tommaso Gulli a Bande Nere, il quartiere di Milano dove è cresciuto, il capo della Lega ha ostentato un sorriso ecumenico: “I Cinque Stelle sono i miei alleati. I nemici sono altri”. Ma pure l’avvertimento di chi sapeva cosa stesse per succedere: “Di certo da domani serve che tutti la smettano di attaccare, insultare, criticare”. Alle passate Europee del 2014 – la prima vera uscita da segretario della Lega – prese il 6,15%. Sembrava già un miracolo. In questi cinque anni Salvini ha ribaltato l’universo politico nazionale. Oggi raggiunge il vertice di questa impressionante rincorsa: la Lega è il primo partito d’Italia. Con quali numeri e con quale distacco lo dirà la notte elettorale. Con quali conseguenze per il governo del Paese, lo scopriremo nei prossimi giorni.

B. è vivo e “vede” il 10%. Meloni non fa il sorpasso

Non ci credeva nemmeno lui, quando ha iniziato la campagna elettorale. Ma Silvio Berlusconi è riuscito ancora a fare il miracolo e a tenere in vita Forza Italia, nonostante nell’ultimo anno sembrava fagocitata sempre di più dalla Lega di Matteo Salvini. E invece l’ex Cavaliere è riuscito nell’impresa, quella di tenere il suo traballante partito sulla soglia vitale del 10% (tra l’8 e il 10 secondo gli exit poll, 9,4% secondo le prime proiezioni) e, al contempo, frenare l’avanzata sovranista di Lega, che non ha sfondato, e l’opa ostile di Fratelli d’Italia, che puntava al sorpasso e invece si sarebbe fermata intorno al 5,8%.

Una sfida, la sua, combattuta più verso gli alleati di centrodestra che contro Pd e 5 Stelle. Con la ciliegina sulla torta del successo in Piemonte, con il candidato forzista Alberto Cirio tra il 45 e il 49% e Sergio Chiamparino indietro, tra il 36,5 e il 40,5. “Ci siamo ancora. Chi pensava di conquistarci ha fallito. E il centrodestra è la coalizione vincente nel Paese grazie a noi”, è il commento che filtra da Arcore, dove Berlusconi è rimasto a seguire i risultati elettorali fino a tarda notte in compagnia della sola Francesca Pascale.

Il risultato per il partito azzurro è inferiore rispetto alle Europee del 2014 (16,8%) e anche alle Politiche del 2018 (14%) ma, visti i numeri da cui partiva, sembra davvero un bel colpo. All’inizio della campagna elettorale, infatti, i dati che arrivavano sulla scrivania dell’ex premier erano sconfortanti: si viaggiava intorno al 7%. Con qualche timore anche per la sua elezione a Strasburgo. Poi ci si sono messi anche i problemi di salute del leader, con un’operazione per occlusione intestinale il 30 aprile scorso che sembrava averlo messo fuori gioco. E invece non è stato così. Rimessosi in pochi giorni, si è buttato in una campagna mediatica massacrante, che l’ha visto partecipare a quasi tutte le trasmissioni d’informazione sui diversi canali e rilasciare interviste a quotidiani e radio. Un overbooking mediatico che alla fine è servito. Escluse, invece, le kermesse di piazza, tranne il Piemonte, dove ha chiuso la campagna di Cirio.

“Se questi primi dati verranno confermati, è la dimostrazione che Forza Italia è viva e vegeta e qualsiasi ipotesi un centrodestra senza di noi non esiste”, è la linea che filtra da Arcore. “Un risultato importante portato a casa ancora una volta grazie all’impegno del nostro leader, che ancora sposta voti”, si aggiunge.

Insomma, FI come argine ai sovranisti di casa nostra, Salvini e Meloni. Soprattutto con la seconda i rapporti nelle ultime settimane si erano molto raffreddati, per via della sfida lanciata da FdI ai berluscones e lo scippo di candidati, tra cui Elisabetta Gardini: Meloni puntava al sorpasso e, per la prima volta, aveva escluso future alleanze con Berlusconi, ipotizzando l’autonomia del suo partito e della Lega per il centrodestra del futuro. “Senza FI il centrodestra non esiste, gli alleati se ne facciano una ragione, l’opa contro di noi è fallita”, si fa notare da Arcore.

Anche FdI, però, può cantare vittoria. Il 6%, secondo le prime proiezioni, è un notevole passo avanti rispetto al 3,7 delle precedenti Europee e anche al 4,4 delle Politiche di un anno fa. Al quartier generale di FdI, a Roma c’è grande soddisfazione. “È un risultato straordinario”, dice Fabio Rampelli. E qualcuno lascia intendere che l’ipotesi di sorpasso nei confronti degli azzurri sia stata più una strategia di marketing elettorale che una reale possibilità.

Berlusconi, candidato al nord e al sud e isole, ha atteso l’esito del voto ad Arcore, ma nel pomeriggio, al seggio elettorale, non è riuscito a fare a mano del suo piccolo show, violando il silenzio elettorale. “Vengo a votare ancora qui per scelta sentimentale, perché ci venivo sempre con la mia mammina (Rosa Berlusconi, ndr)”, ha detto il leader Fi appena uscito dal seggio di via Scrosati a Milano, dove si è concesso a numerosi selfie. “Il risultato delle urne sancisce la bocciatura di questa maggioranza di governo da parte degli italiani. Se Salvini ancora non ci sente…”, si sussurra ancora, ormai a notte fonda, da Arcore.

Che libidine

I miei amici ce l’hanno quasi tutti, soprattutto i maschi. Ce l’hanno grosso, ma via via mi sembra che facciano a gara a chi ce l’ha più piccolo. Le dimensioni si riducono perché così è più facile nasconderselo sotto i vestiti, nel silenzio di una tasca, e questo vale specialmente per chi non vuole vantarsi solo per il fatto che ce l’ha. Un’estensione eccessiva può essere scomoda per molti motivi: dove lo infili? Non lo metti da nessuna parte, sei costretto a tenertelo in mano costantemente, e non sta bene. Alcuni pensano che ce l’hanno solo loro, e non fanno che guardarselo, lisciarselo, passarselo di mano in mano, nell’attesa di usarlo in qualche modo. Sembra che affidino a lui le qualità della propria personalità e anche le proprie aspettative di successo: se ce l’hai bello, sfavillante, che funziona, s’accende bene, sicuramente sei una persona affidabile, dinamica, efficiente, che nella vita combinerà qualcosa di straordinario. Quindi è chiaro che in breve tempo ce l’avranno tutti e te lo spiattelleranno in faccia senza ritegno. I più timidi non faranno che alludere al fatto che anche loro ne hanno uno, e nell’attesa di potertelo mostrare. A me questo cazzo di cellulare m’ha già stufato. Quando squilla sembra che esista solo lui, come il pianto improvviso di un neonato catalizza l’attenzione di tutti i presenti, il trillo del telefonino rende marginali tutte le altre occupazioni. Manolita se l’è comprato, un Motorola che si apre a libretto. Lei è buddista e lo tiene in carica accanto al gonzo, su un altarino con le candele. Non m’inquieta la cosa in sé, ma il fatto che lei non si accorga di aver collocato nella sua vita un dio minore, un pezzo di plastica che credo, a breve, diventerà se non onnipotente e onnisciente, di sicuro onnipresente.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Inter in Champions all’ultimo respiro: Milan beffato, Dea terza, Empoli in B

Icardi sbaglia il rigoredella sicurezza (e potrebbe chiudere così la sua storia con l’Inter), dall’altra parte del campo Handanovic compie tre interventi decisivi e salva la Champions dell’Inter che era rimasta esclusa dai 4 posti legati ai risultati di Milan e Atalanta. La Dea vince e si merita il 3° posto, con l’ultimo utile agguantato da Spalletti (anche lui agli addii). La sconfitta immeritata dell’Empoli la spinge in B, cancellando le paure di retrocessione di Fiorentina (che aspetta il nuovo proprietario italo-americano Commisso) e Genoa che si affrontavano al Franchi.

Su tutto questo l’addio pieno di pioggia, lacrime e abbracci di un De Rossi al quale l’Olimpico tutto esaurito tributa l’ovazione al momento della sostituzione (la Roma vince 2 a 1 contro il Parma, con il gol dell’ex Gervinho). Nel dopo partita al giro d’onore “Capitan Futuro” si inginocchia alla Curva Sud in un tripudio meno polemico di quello del “Capitano” Totti un anno fa. A San Siro pieno fino alla fine i tifosi dell’Inter attoniti si godono la vittoria e trattengono i fischi che pure la prestazione di Nainggolan (autore del gol decisivo) e compagni ha attirato per lunghi tratti e che per parecchi minuti aveva permesso al Milan (vittorioso in trasferta a Ferrara) di sognare il sorpasso-Champions. Invece per Gattuso (la cui riconferma è in ballo) sarà solo Europa League, insieme a Roma e Lazio (in quanto vincitrice della Coppa Italia).

Alla fine, sciolta la tensione e “il carico emotivo” come ha definito Spalletti, ormai prossimo ex difende i suoi per la prestazione e si dice “tranquillo” e di “godersi il momento”. Quagliarella è capocannoniere con 26 gol, dietro di lui Duvan Zapata a 23 (e a segno ieri sera), Piatek a 22 e Cristiano Ronaldo a 21.

Guardia di Finanza, oggi inizia il nuovo ciclo di Zafarana

La cerimonia ufficiale è prevista per il 21 giugno ma l’avvicendamento al vertice della Guardia di Finanza è ormai operativo. Oggi per il generale di corpo d’armata Giuseppe Zafarana, dopo il passaggio di consegne del 25 maggio, inizia la guida delle Fiamme Gialle. Ha preso il posto di Giorgio Toschi, anche egli generale di corpo d’armata, che gli ha lasciato il posto durante la cerimonia al Comando Generale.

Zafarana è stato Capo di Stato Maggiore e Comandante interregionale dell’Italia Centrale. “Sento tutta la responsabilità di assumere la vostra guida – ha dichiarato Zafarana ai finanzieri – e la affronterò con la passione e l’amore che provo per l’istituzione”. “Al comandante Toschi va tutta la mia personale riconoscenza per il merito di averci fatto raggiungere risultati straordinari”. “Sosterrò il compito nella convinzione che l’esempio costituisca il più efficace e formidabile esempio di leadership e che lo spirito di servizio, ad esso connesso, non possa che ispirarsi all’umiltà di atteggiamento, alla disponibilità verso tutti, alla comprensione delle ragioni altrui, alla sobrietà, alla discrezione e alla riservatezza nell’agire”.

Il nervosismo del Governatore Toti: si scaglia sui social contro il Fatto

“Delirio onirico”, “groviglio di affermazioni tutte indistintamente false”, “fantasie e suggestioni denigratorie”, “un record anche per il pessimo giornalismo di quel quotidiano”. Deve aver dato proprio tanto fastidio, a Giovanni Toti, l’articolo pubblicato sul Fatto ieri. Il Governatore della Liguria – che prima della carriera politica fu direttore di Studio Aperto e poi del Tg4 – ha dedicato due lunghi post sulla sua bacheca Facebook a Ferruccio Sansa, a cui augura di “superare quel groviglio di frustrazioni, complessi edipici, insoddisfazione per la vita” perché “per informare serenamente i lettori, prima bisogna essere sereni con se stessi” (oltre a impartire lezioni di giornalismo, si propone evidentemente anche come counselor).

Nell’articolo si riferiva, a partire dall’indagine sulla nuova tangentopoli lombarda, di un filone su cui stanno lavorando i pm di Milano che legherebbe l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, indagata per finanziamento illecito, ad alcuni nomi della Liguria azzurra vicina a Toti (come quello del noto avvocato savonese Maria Teresa Bergamaschi, molto vicina al capogruppo di Forza Italia in Regione Liguria Angelo Vaccarezza). È lo stesso governatore lombardo Attilio Fontana, indagato nell’inchiesta milanese per abuso d’ufficio, ad aver parlato, in riferimento a Luca Marsico, di Toti: “Ne ho parlato con Toti in maniera generica, rappresentandogli la situazione – ha detto Fontana interrogato nei giorni scorsi dai pm – forse mi disse che se Marsico aveva bisogno, magari poteva rivolgersi a lui”.

Una settimana di nervosismo, quella del Governatore Toti, che si era già scagliato contro un altro giornalista (Marco Preve di Repubblica) per un articolo sulla legge regionale che impedisce ai gestori di strutture ricettive di accedere ai fondi pubblici della Regione Liguria per riqualificare l’offerta turistica, se hanno già sovvenzioni dallo Stato per l’ospitalità ai migranti. “Credo che a Preve convenga trasferirsi in Corea del Nord”, aveva scritto Toti sempre sulla sua bacheca Facebook. “A scrivere sui social – si legge in una nota dell’Associazione ligure dei giornalisti, dopo l’ultimo attacco al Fatto – slitta la frizione che inibisce dallo scadere nell’offesa gratuita”.

Il nervosismo del Governatore, convinto di essere perseguito dai giornalisti, nasconde forse la paura per il suo futuro ruolo, nel tentativo di accreditamento nei confronti di Salvini, e i nuovi equilibri tra il leader leghista e Berlusconi, anche alla luce del risultato delle Europee. In Liguria, il prossimo anno si vota. Il bilancio della giunta Toti è piuttosto magro. Si ricordano più i tappeti rossi con cui Toti ha ricoperto la Regione, dopo pochi mesi andati in pezzi, e costati centinaia di migliaia di euro, che altro. Per non dire della recente campagna pubblicitaria (costo: 700mila euro) per richiamare turisti in Liguria. Centinaia di manifesti attaccati dove? In Liguria.

3 domande a Loredana Miccichè

La praticasul pm Nino Di Matteo sarà esaminata dalla Settima commissione del Csm. Il caso è di quelli altamente conflittuali, quindi è assai probabile che arriveranno memorie scritte sia di Di Matteo sia del procuratore Cafiero de Raho che lo ha estromesso dal “pool stragi”. Potrebbero anche essere sentiti. Presidente della Settima è Loredana Miccichè, togata di MI, la corrente conservatrice.

Presidente ha già letto il provvedimento di revoca?

Ho appreso della sua esistenza dai giornali, in Commissione non è ancora arrivato nulla. Questa, inoltre, è una settimana “bianca”, non sono previste sedute.


Che cosa dovrà stabilire la Commissione?

Dovremo valutare se il provvedimento sia conforme, o meno, alla circolare del Consiglio.

Se doveste ritenerlo non conforme, che succede?

In generale, si invita, eventualmente, il capo dell’ufficio ad adeguarsi alle conclusioni del Consiglio. Tengo a dire che per noi questa è una pratica come altre. Faremo il nostro dovere, applicando le regole.