Il pm Di Matteo via dal pool sulle stragi per un’intervista

L’intervista alla trasmissione Atlantide costa il posto nel pool sui mandanti esterni delle stragi al pm che più si è speso su questo tema: Antonino Di Matteo. L’ex pm di Palermo ora in forze alla Procura Nazionale Antimafia è stato rimosso dalla sera alla mattina con una mail dal pool che deve coordinare da Roma le indagini delle Procure territoriali su un tema delicato come le “entità esterne nelle stragi e negli altri delitti di mafia”.

La decisione è stata presa dal Capo della Direzione Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho. In realtà Di Matteo non ha svelato un solo fatto inedito nella sua intervista. Inoltre è stato attentissimo ad evitare ogni riferimento ai filoni più delicati politicamente. Per esempio non ha citato le intercettazioni in cella del boss Giuseppe Graviano nelle quali si fa riferimento a Berlusconi. Si è limitato a ricordare alcuni elementi oscuri da approfondire. Di Matteo ha citato la presenza di un guanto con tracce di Dna femminile e di un foglietto con il numero di un funzionario dei servizi segreti, trovati entrambi sul luogo della strage di Capaci, il 23 maggio 1992.

Poi si è domandato se fosse un caso che l’uomo che ha fornito il telecomando per la strage, Pietro Rampulla, fosse un estremista di destra. Infine ha ricordato l’interesse di Giovanni Falcone per gli elenchi di Gladio, l’organizzazione segreta anticomunista creata in accordo con i servizi americani e svelata da Giulio Andreotti.

Nessuno di questi elementi era segreto. Sono fatti emersi anni fa nelle inchieste e nei processi di cui la stampa si è occupata più volte. Ecco perché la decisione del Procuratore Cafiero de Raho, svelata ieri da Repubblica, è giunta come un fulmine a ciel sereno. Il pool di cui Antonino Di Matteo fa parte insieme ai colleghi Francesco Del Bene e Franca Imbergamo, sotto il coordinamento dell’aggiunto Giovanni Russo, è certamente quello più ‘delicato’ dal punto di vista politico. Sei mesi fa il Procuratore De Raho ha riorganizzato i suoi uomini in gruppi che perseguono scopi investigativi innovativi. Sulle stragi di mafia in particolare, De Raho ha finalmente deciso di andare oltre le responsabilità mafiose, in larghissima parte già accertate, per addentrarsi nel territorio, ben più oscuro e rischioso, dei possibili collegamenti tra Cosa Nostra e le ‘entità esterne’. E’ evidente che indagare sulle responsabilità di un mafioso morto come Riina è cosa semplice. Provare a individuare un possibile legame tra i servizi segreti (e altre entità politiche) con Cosa Nostra proprio in merito alle stragi, non è un passo facile né scontato.

Va detto che anche la scelta di chiamare Di Matteo, il pm più preparato ma anche il più esposto mediaticamente sulla materia, non era scontata. Cafiero De Raho però ha voluto Di Matteo vincendo i mal di pancia di chi soffre la grande popolarità del pm più scortato e minacciato d’Italia. Perché allora De Raho è stato così duro nei confronti di un collega che stima profondamente? Perché si è privato del suo contributo per dichiarazioni su fatti stra-noti?

Fonti della Direzione Nazionale Antimafia lasciano intendere che il Procuratore si è mosso per tutelare i delicati equilibri interni al suo ufficio e ancor di più quelli con le Procure territoriali. Quei fatti – fa notare sotto vincolo di anonimato una fonte che ha parlato con il Procuratore – erano sì noti ma Cafiero De Raho non ha gradito che Di Matteo raccontasse in tv la sua valutazione sui medesimi fatti. Il punto sarebbe che lo stesso Di Matteo sta valutando il senso da attribuire a quei fatti con i colleghi del suo gruppo nella DNA e con quelli delle Procure. Appena ha visto l’intervista, immaginando le reazioni dei colleghi a Roma, Caltanissetta e Firenze, il procuratore ha preferito dare un segnale: su questi fatti così delicati, ancorché noti, non sono ammessi ragionamenti in pubblico. I ragionamenti devono restare chiusi nel palazzo di via Giulia dove con tanta fatica De Raho è riuscito tutti i magistrati delle varie Procure a condividere i rispettivi segreti e anche i rispettivi punti di vista.

Chi ci ha parlato descrive un Procuratore Nazionale convinto di avere fatto quel che doveva ma anche molto provato e dispiaciuto per la sua stessa decisione. Un provvedimento così duro, contro una delle poche persone che da decenni lavora a suo rischio su queste materie, non ha precedenti. Il provvedimento è esecutivo ma De Raho lo ha trasmesso per le valutazioni al Csm. Se il Consiglio dovesse considerare eccessiva la cacciata di Di Matteo non è escluso che il Procuratore possa tornare sui suoi passi.

L’arte della lavanderia: Picasso ripulisce milioni

L’arte è “la parola che non ha nessuna definizione”, come sostiene il “Dizionario del Diavolo” di Ambrose Bierce. Forse anche questa è tra le ragioni per le quali il suo mercato è tra i più esposti al riciclaggio. Mentre molti credono che le opere d’arte più importanti siano quelle esposte nei musei, molti indizi invece dimostrano che spesso chi le compra le seppellisce in anonimi e insondabili magazzini per nasconderle al Fisco e agli inquirenti grazie ai porti franchi, zone delimitate nelle quali le merci non pagano tasse o imposte né dazi doganali. Le vendite globali di opere d’arte l’anno scorso hanno raggiunto i 67,4 miliardi di dollari (60,7 miliardi di euro), in crescita del 6% sul 2017. È il secondo valore di transazioni più alto dell’ultimo decennio, con un incremento del 9% dal 2008. Alcuni esperti ipotizzano che attraverso l’arte lo scorso anno sia stato “ripulito” denaro sporco per almeno 2,4 miliardi di euro. Stima considerata in difetto, perché il riciclaggio in questo settore è ritenuto molto più alto rispetto ad altri mercati globali.

Il Gruppo di azione finanziaria internazionale (Fatf), la task force dell’Ocse contro la criminalità finanziaria, nel 2010 ha pubblicato un rapporto secondo il quale l’arte e i reperti archeologici sono particolarmente esposti al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. La Task force doganale del Governo svizzero afferma che i legislatori hanno prestato poca attenzione al riciclaggio nel mercato dell’arte. Secondo Transparency International, l’analisi dei milioni di documenti contenuti nei Paradise Papers rivela un alto numero di opere d’arte in mano a società di comodo nei paradisi fiscali. Ma la definizione di “paradiso fiscale” non indica solo alcuni Stati caraibici che rimpinguano le proprie entrate consentendo ai faccendieri del mondo intero di aprire società anonime. Molti considerano paradisi fiscali anche i porti franchi della vecchia Europa. La stessa Fatf registrava che nel mondo i porti franchi sono aumentati da meno di 100 nel 1975 a circa 3mila in 135 Paesi nel 2008. Un rapporto del 2014 dell’Ufficio federale svizzero di controllo (Cdf) ha rivelato un enorme aumento del valore dei beni immagazzinati in alcuni porti franchi doganali svizzeri, spinto soprattutto dai beni ad alto valore unitario come le opere d’arte. Il report stimava che nel solo porto franco di Ginevra fossero immagazzinate oltre 1,2 milioni di opere, alcune delle quali non erano uscite dai magazzini per decenni, per un valore di 90 miliardi di euro.

Queste aree “off limits” sono finite anche nel mirino della ricerca “I rischi di riciclaggio e di evasione fiscale nei porti franchi” pubblicata a ottobre 2018 da Ron Korver del Servizio di ricerca del Parlamento Europeo (Eprs). A novembre 2017 nell’Unione europea esistevano 82 zone franche, di cui due in Italia. Nella maggior parte dei porti franchi chiunque può introdurre merci per conto terzi senza svelare l’identità del beneficiario finale effettivo della transazione, autodichiarando senza controlli il valore registrato delle merci. Dunque è semplice nascondere l’identità del proprietario reale dietro società offshore, trust, fondazioni, prestanomi, anche perché gallerie d’arte o case d’asta sono ancora riluttanti a rivelare i prezzi pagati per le opere e, soprattutto, l’identità di compratori e venditori. Inoltre le merci nei porti franchi sono registrate come “in transito” ma possono rimanerci senza limiti di tempo. Così le opere immagazzinate possono essere vendute esentasse un numero illimitato di volte, senza mai uscire dai magazzini. Solo dal 10 gennaio 2020, con l’entrata in vigore nella Ue della quinta Direttiva antiriciclaggio, chi opera nei porti franchi e nel mercato dell’arte sarà obbligato alle regole antiriciclaggio.

Uno dei casi più eclatanti citati nel rapporto dell’Eprs è quello della famiglia Nahmad, nota mercante d’arte, che si ritiene proprietaria della più grande collezione mondiale di dipinti di Picasso a parte la famiglia dell’artista. Questi e altri dipinti nella loro collezione sono presumibilmente tenuti nel porto franco di Ginevra in attesa della vendita. Nel 2011 i fratelli Nahmad sono stati coinvolto nella richiesta di restituzione dell“Uomo seduto con bastone”, dipinto nel 2018 da Amedeo Modigliani, reclamato da un erede di Oscar Stettiner, il commerciante d’arte ebreo di Parigi che fu forzato dai nazisti a “vendere” la tela tra il 1940 e il 1944. Il dipinto stato acquistato per 3,2 milioni di dollari in un’asta nel 1996 dall’International Art Center (Iac), una società anonima registrata a Panama dallo studio legale Mossack e Fonseca. Nel 2017, dopo che i Panama Papers rivelarono che la Iac apparteneva da oltre vent’anni alla famiglia Nahmad, un giudice di New York ha stabilito che la causa dell’erede di Stettiner contro i Namhad era fondata. Più di recente, il 2 marzo 2018 il Dipartimento di Giustizia Usa ha accusato 10 soggetti, tra cui la società d’investimento londinese Beaufort Securities, di una truffa da oltre 45 milioni di euro e di tentativi di riciclaggio legati a tele del maestro di Malaga. Da marzo 2014 a febbraio 2018 la Beaufort Securities avrebbe truffato gli investitori gonfiando i valori dei titoli venduti e, tra ottobre 2017 e febbraio 2018, avrebbe contattato il proprietario della galleria d’arte Mayfair Fine Art di Londra per riciclare 7,6 milioni di euro attraverso l’acquisto sotto anonimato della tela “Personnages – 11 aprile 1965” di Picasso.

Il porto franco di Ginevra è stato spesso al centro di scandali. Nel 1995 si scoprì che era l’hub per una rete internazionale di reperti archeologici venduti al Getty Museum di Los Angeles. Nel 2003 le dogane svizzere vi hanno scoperto 200 antichità egizie rubate, tra cui due mummie. Nel 2016 la Polizia italiana rintracciò a Ginevra reperti romani ed etruschi rubati da tombaroli per conto di un mercante d’arte inglese. Intorno a Ginevra ruota poi la guerra tra il magnate e collezionista russo Dmitry Rybolovlev e il mercante d’arte Yves Bouvier, titolare di un magazzino nel porto franco ginevrino. Dal 2015 Rybolovlev ha portato in casa Bouvier per truffa ai clienti e dal 2018 Bouvier è sotto inchieste penali in Francia, a Monaco e in Svizzera. Come nella scena finale del capolavoro del 1981 di Steven Spielberg, dunque, chi oggi va in cerca dell’“Arca perduta” deve spesso infilarsi in uno smisurato, anonimo magazzino.

Bergogliani per Ue e integrazione. La destra clericale si butta su Salvini

Mai come questa volta la campagna elettorale per le Europee culminata con le urne di ieri ha tracciato una linea netta di demarcazione tra i cattolici italiani, per attenersi agli appelli letti nell’ultime ore.

Il più clamoroso, e anche divertente, è quello circolato su tantissimi social e vede il caro e vecchio don Camillo-Fernandel fare una raccomandazione, modello Quarantotto: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, la Cei no”. Stavolta c’è la Conferenza episcopale italiana al posto di quel comunistone sanguinario di Stalin. L’antico slogan riciclato dalla destra clericale filosalviniana esprime tutta l’insofferenza per la linea europeista e anti-sovranista espressa dai vertici dei vescovi. Ancora ieri, le ultime righe del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, nella sua consueta rubrica domenicale sono state queste: “Io oggi andrò a votare per l’Europa. Scegliendo l’Europa e – con l’arma della preferenza – persone che siano chiaramente impegnate per la causa dell’integrazione europea e dell’affermazione dell’umanesimo europeo con le sue salde radici cristiane e solidaristische”. Un passaggio che sintetizza in modo esemplare lo spirito della Chiesa francescana, cui si contrappone invece la linea farisea e tradizionalista dei credenti filoleghisti. Il rosario ostentato da Salvini a Milano interpreta proprio il moto populista di questa fronda per ribaltare se possibile questo Papa e anche per mettere in evidenza il fastidio per una linea che va nella direzione europeista.

Lo ha scritto ieri Riccardo Cascioli sul Giornale, esplicitando una contraddizione a suo dire: “La Chiesa si trova in sintonia con quelle forze laiciste che più osteggiano i valori della famiglia e della vita che erano invece discriminanti nei pontificati precedenti, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”. Ma sicuri che mettere insieme l’anti-liberale Salvini con Ratzinger non sia un altro paradosso?

Terra al bivio: poveri ma vivi oppure felici verso l’Apocalisse

I l pianeta si surriscalda, l’inquinamento avanza, cibo e acqua si riducono per tutti. Salvarsi (forse) è possibile, ci ripetono gli esperti, solo a patto di cambiare radicalmente stile di vita, proprio come la rivoluzionaria Greta Thunberg. E dunque niente carne e latticini nel menù, niente plastica, niente viaggi aerei. E poi, anche, no ai pannolini usa e getta, agli assorbenti, agli elettrodomestici e aria condizionata a go go. Ma passi mangiare tofu al posto del pollo o bere dalla borraccia, scelte neutre rispetto al rapporto tra i generi: il resto potrebbe invece implicare qualche spiacevole conseguenza sui rapporti uomo–donna, con possibili passi indietro sulla strada dell’emancipazione femminile (già messa alla prova da un’immagine idealizzata di Natura che ha convinto le donne che l’epidurale sia un male e l’allattamento a oltranza un obbligo).

Se infatti avevamo spinto con fatica l’uomo a cambiare un pannolino non riciclabile, quanto tempo ci vorrà a convincerlo a lavarne a mano uno? E se si torna a lavare piatti e panni a mano, non è evidente che quel fragile e sudatissimo lavoro part time rischierebbe di saltare? Meno globalizzazione, poi, potrebbe anche voler dire che l’amore conosciuto all’Erasmus lo devi lasciare, per sposarti il più ecologico dirimpettaio. In generale, consumare meno significherebbe tornare alla vita di quartiere, di paese. Sa un po’ di Medioevo, come sa di pre-civile l’uso per il ciclo dell’ormai nota coppetta mestruale (o addirittura l’emergente free bleeding, il ciclo lasciato libero). Però, in fin dei conti, abbiamo un’alternativa, se non quella di andare dritti verso l’apocalisse mangiando hamburger, consumando quintali di plastica e ordinando frigoriferi sempre più enormi? Forse meglio vivere localmente, ma restare vivi. E chissà poi che non si scopra che i rapporti a chilometro zero, persino quelli tra uomo e donna, non sono poi così male.

Medioevo green: solo la scienza può salvare pianeta e diritti

“Non siamo angeli”, diceva un mio prof. quando entrava in aula e fiutava l’aria appesantita dagli afrori di trenta teenager dopo cinque ore di coabitazione. Irrespirabile, come l’atmosfera di un piccolo pianeta abitato da sette miliardi di non-angeli, metà dei quali decisamente diabolici sotto il profilo dei consumi inquinanti.

Messa peggio è solo l’acqua, in cui va a finire tutta la schifezza che i sette miliardi di corpi scaricano nelle fogne, più gli scarichi delle fabbriche, più pattume assortito più biodegradante che biodegradabile. Ora, per rallentare significativamente il degrado almeno due continenti su cinque dovrebbero tornare in blocco da domani all’età preindustriale. Perché quasi tutto quello che negli ultimi duecento anni ha allungato la vita umana e l’ha resa più comoda e piacevole – soprattutto per quelli che per millenni avevano avuto vite come la scala del pollaio (corte e piene di merda), cioè i poveri e soprattutto le donne – danneggia e inquina il pianeta. E allora il grido di Greta è giusto, sprechi e sfruttamento sono eticamente sbagliati, ma nelle proporzioni in cui vogliamo e possiamo ridurli senza patire serviranno solo a farci andare verso l’apocalisse con la coscienza un po’ più pulita e le mutande un po’ più sporche.

Cambiare porta sofferenza, e magari persino qualche passo indietro nel progresso. Oppure ci vorrebbe una rivoluzione scientifica e tecnologica pari a quella che ha innescato lo stato attuale delle cose e che non si limiti a riportare le donne al lavatoio e gli uomini a zappare. Come incentivare i colpi di genio degli scienziati in modo che accelerino la scoperta di soluzioni? Forse costringendoli a lavarsi i piatti e farsi il bucato a mano da soli per una settimana. Oppure, visto che dove c’è scienziato c’è colf, costringerli ad andare ai loro convegni internazionali in treno, in pullman o a piedi. Proprio come i pellegrini medievali.

Conte riprende Stellini il venduto

E alla fine rieccolo. Come volevasi dimostrare. A volte ritornano: e figuriamoci se nello staff di Antonio Conte non c’era posto per riabbracciare Cristian Stellini, 45 anni, l’ex difensore di Como, Ternana e Genoa divenuto uomo di fiducia, prima sul campo e poi fuori, di Antonio Conte allenatore in pectore dell’Inter 2019–2020. A volte ritornano: magari lasciando dietro di sé una scia di imbarazzo lunga chilometri. Per chi si fosse perso le puntate precedenti: Stellini è il tesserato che nell’agosto 2012, braccio destro di Conte al suo secondo anno sulla panchina della Juventus, patteggia 2 anni e 6 mesi di squalifica per gli illeciti commessi come vice di Conte a Siena (partita Albinoleffe–Siena 1–0) e come suo giocatore, due anni prima, a Bari (Bari–Treviso 0–1 e Salernitana–Bari 3–2); in tribunale patteggia un mese di reclusione per le due partite vendute dal Bari per 220 mila euro.

Dalla deposizione di Alessandro Gazzi, oggi centrocampista dell’Alessandria: “Prima della partita con la Salernitana, Stellini fece una riunione in palestra con quasi tutta la squadra ricordando il gemellaggio tra le tifoserie e invitando a tenere un particolare atteggiamento in campo, dal momento che il Bari era già promosso in serie A mentre la Salernitana aveva bisogno di punti”. Capita l’antifona, Gazzi scoppia a piangere e abbandona la riunione. Invece dei 7 mila euro, gli faranno trovare nell’armadietto un pc. Ad Arianna Ravelli, che lo intervista per Il Corriere della Sera, Stellini racconta: “Abbiamo cominciato a parlarne nello spogliatoio, non volevo nascessero liti. Per questo ho proposto la riunione in palestra. Lì ho fatto un discorso di cui mi pento: ‘Decidiamo assieme. Se la vogliamo fare facciamola, se qualcuno non vuole lasciamo perdere’”. Nessuno si ribellò? “No. Ma se non avessi fatto appello all’unità, forse qualche giovane che era contrario come Ranocchia e Gazzi avrebbe trovato il coraggio di parlare. Gazzi se ne andò a metà riunione”. Tutti hanno preso soldi? “Non so, non c’ero nei giorni della distribuzione dei soldi, i miei li ho trovati nello spogliatoio. A Gazzi e Barreto è stato dato un computer, ma non gli è stato detto che era per la partita”. L’anno prima il Bari di Conte aveva venduto la partita al Treviso, che si era salvato. Venti giocatori furono deferiti e processati per quei due illeciti: Conte giurò di non essersi mai accorto di niente, “Sono un coglione, dovrebbero togliermi il patentino”, piagnucolò. Già.

Nell’agosto 2012 Stellini confessa ai pm gli illeciti e a settembre la Procura convoca Conte e gliene chiede conto. “Stellini venne nello spogliatoio e mi disse: ‘Mister, su Bari–Salernitana c’è qualcosa’. Dissi: ‘Cristian per favore, tu sai quello che sto passando, per favore non dirmi un cazzo, esci, non voglio sapere niente’”. Conte alla Gazzetta: “Stellini ha patteggiato la squalifica e per la giustizia sportiva io non potevo non sapere? Sono allibito: Stellini mi ha tenuto all’oscuro perché sapeva quale sarebbe stata la mia reazione. Deluso? Sono molto arrabbiato con Cristian: dando le dimissioni ha dimostrato senso di responsabilità. I suoi comportamenti mi hanno messo in difficoltà e danneggiato”. All’allenatore, per Albinoleffe–Siena, diedero 10 mesi, poi ridotti a 4. A pagare fu soprattutto Stellini. Ma tutto passa. Infatti oggi, meritoriamente, Stellini ritorna. Da Conte. Il danneggiato, si era detto.

Questa nuova Europa non è quella auspicata dalle destre

Di sicuro è un’altra Europa, quella che emerge dalle elezioni europee di ieri. Ma non quella che tanti si aspettavano. Nessuna onda nera ha travolto gli equilibri di Bruxelles, quelli che gli avversari chiamano “populisti” o “sovranisti” si sono confermati una forza importante, ma incapace di diventare decisiva. Visto dalla prospettiva italiana, il risultato è lontano da quello che la Lega sperava: un trionfo in Italia che avrebbe permesso di spostare a destra il baricentro della coalizione di maggioranza nell’Europarlamento, con il Carroccio come elemento decisivo. Invece i sovranisti si sono fermati, in alcuni Paesi sono addirittura arretrati.

Non deve ingannare il sorpasso di Marine Le Pen su Emmanuel Macron. La leader del Rassemblement National, stando ai numeri disponibili mentre andiamo in stampa, è al 23,6 per cento, La République en Marche di Macron al 23. C’è il sorpasso. Ma se si pensa a tutto quello che il presidente francese ha sbagliato, a tutte le sue disavventure, dai gilet gialli a Notre Dame in fiamme, è comprensibile il suo calo. Di sicuro non c’è lo sfondamento dell’ex Fronte nazionale: al primo turno delle presidenziali francesi, nel 2017, la Le Pen era comunque arrivata al 21,3 per cento (Macron al 24). Si è rafforzata, ma alle presidenziali perderebbe di nuovo al secondo turno. E il suo appello a sciogliere l’Assemblea nazionale come effetto del voto rimarrà inascoltato.

Anche in Germania la destra estrema di Alternative fur Deutschland si è fermata poco sopra il 10 per cento, sotto il livello delle elezioni politiche del 2017 (12,6 per cento). I socialisti sono crollati, hanno perso undici punti rispetto a cinque anni fa. Ora il governo di Angela Mekel sembra appeso a un filo. La Spd non può continuare a dissanguarsi per sempre in nome della stabilità della grande coalizione.

Nel Parlamento europeo gli euro-critici sono destinati a rimanere ai margini anche nella prossima legislatura. Non avranno più di 40 seggi, anche sommati ai 48 circa del partito Brexit e dei Cinque Stelle (alleati nel precedente Parlamento, molto più distanti in quello nuovo) sono destinati a rimanere una minoranza capace di incidere assai poco nelle scelte e ancor meno nelle nomine che contano.

Poi c’è il dato sull’affluenza. Per quanto da maneggiare con prudenza – cinque anni fa risultò gonfiato e fu poi rivisto al ribasso – l’affluenza è risultata in crescita rispetto al 2014. Più elettori, ma non più voti agli euro-scettici: la saldatura tra la protesta contro le misure di austerità post-2010 e la rabbia per l’arrivo dei rifugiati (soprattutto nel 2015) sembra non aver esaurito il suo potenziale di dissenso verso l’Unione. Perfino in Grecia, il simbolo della disastrosa reazione dell’Ue alla crisi finanziaria, è tornato in testa il partito Nuova democrazia. Quello che era al potere negli anni in cui venivano prima gonfiato il debito e poi consegnato il Paese alla troika Ue-Fmi-Bce. Syriza di Alexis Tsipras è arrivata seconda.

Eppure sarebbe sbagliato leggere in questi risultati, frastagliati come i 28 Paesi che compongono l’Ue, un ritorno al Passato. Non è tornato tutto come prima e i cittadini europei non si sono svegliati all’improvviso entusiasti di un progetto istituzionale che continua ad avere i volti di Jean Claude Juncker e Antonio Tajani. La barriera all’avanzata culturale e ideologica delle destre l’hanno messa non le forze europeiste tradizionali, ma nuovi partiti che hanno offerto un’idea di mondo alternativa a quella dei nazionalisti. In particolare i partiti verdi che hanno ottenuto risultati sorprendenti in Francia e in Germania, ma anche in Finlandia, Austria, Irlanda. Parte del merito sarà sicuramente di Greta Thunberg e del suo movimento di giovani che ha riempito le piazze, dalla Svezia all’Italia, fino allo “sciopero mondiale” per il clima. Ma è anche demerito dei partiti affiliati ai Socialisti: le sinistre tradizionali non sono mai riuscite a emanciparsi dal ruolo di garanti dello status quo europeo e quindi non sono riuscite a trovare argomenti capaci di intercettare il desiderio di cambiamento. Quella ambientalista è rimasta l’unica grande narrazione capace di contrapporsi al messaggio chiaro, semplice e poco articolato dei nazionalisti. Niente è più globale e indifferente ai confini della battaglia contro il riscaldamento globale e per la difesa dell’ambiente. La disuguaglianza dei redditi, la disoccupazione e la protezione sociale sono invece ancora temi che si affrontano soltanto a livello nazionale. E i partiti di centrosinistra non sembrano avere ricette originali da contrapporre alle semplificazioni sovraniste. Senza risultati da offrire e senza neppure sogni da evocare, le sinistre arrancano.

A Bruxelles qualcosa cambierà. Prima nel Parlamento europeo e, a cascata, con le nomine dei vertici di Consiglio e Commissione. Ma non ci sarà quel ribaltamento che avevano promesso Salvini e i suoi sodali. Chi dell’Europa contesta le regole di bilancio non trova in questa elezione nessun appiglio per sostenere che verranno ribaltate. E c’è il forte rischio che la maggioranza che si delinea, Ppe-Socialisti-liberali, partorisca figure e politiche non troppo diverse da quelle emerse dal voto del 2014. Ma il giorno dopo le elezioni è sempre quello delle grandi speranze di cambiamento. Tanto ci sono cinque anni per accettare eventuali delusioni.

Muore la nipote di Muccioli, ipotesi esalazioni da stufetta

È stata trovata priva di vita ieri pomeriggio India Muccioli, figlia di Andrea, erede del fondatore della comunità di San Patrignano, Vincenzo Muccioli. La giovane era in un appartamento di proprietà della famiglia, in centro a Rimini. La ragazza aveva soltanto 18 anni.

Secondo i primi accertamenti, la Muccioli sabato avrebbe trascorso la serata nell’appartamento, in via Isotta degli Atti, con gli amici. A dare l’allarme sarebbero stati i familiari che non riuscivano a contattarla.
I sanitari del 118 che sono intervenuti sul posto non hanno potuto che constatarne il decesso.

Tra le ipotesi al vaglio, quella che la morte della ragazza sia dovuta a un’intossicazione da monossido di carbonio provocata da una stufetta malfunzionante che la giovane avrebbe azionato per riscaldare l’appartamento prima di andare a dormire.

Quella dell’esalazione da monossido resta al momento l’ipotesi più accreditata dagli investigatori, l’autopsia che verrà effettuata probabilmente già oggi potrà sciogliere i dubbi.

Addio a Vittorio Zucconi che ha trasformato l’America in un romanzo popolare

“Ma basta con queste baruffe chiozzotte fra i due saltimbanchi al non governo. Buffoni senza dignità”. Aveva fissato questo tweet sul suo profilo: Vittorio Zucconi, una vita a raccontare l’America, è morto ieri lasciandosi dietro anche un finale di carriera da battagliero polemista social. Dopo una carriera dedicata a cesellare le parole, a piegare talvolta anche i fatti alle necessità della bella scrittura, Zucconi guardava ormai l’attualità con un grado di cinismo e di ribollente rancore che lasciava un po’ stupito chi lo aveva conosciuto in anni diversi.

Forse era anche la malattia che lo ha vinto ieri, a 74 anni, ad avergli tolto il sorriso beffardo che ha accompagnato una carriera straordinaria, cominciata al liceo Parini di Milano, con l’unico giornalino scolastico che ha fatto scandalo e iniziato il Sessantotto in Italia, con un anno di ritardo: La Zanzara (quella originale, non quella di Giuseppe Cruciani su Radio24). Zucconi era nato a Modena, anzi a Bastiglia, con un papà impegnativo: Guglielmo Zucconi, grande giornalista, direttore importante della sua generazione, dalla Discussione al Giorno. A lui Modena ha intitolato una strada e Vittorio un generoso premio che assegna da quasi quindici anni a promettenti cronisti locali.

Nel 1990 Zucconi cede alla tentazione dell’autobiografia: Parola di Giornalista. Racconta di quando rubava le foto ai morti negli incidenti stradali per La Notte a Milano. Poi l’ascesa, dalla Stampa al Corriere della Sera, a Repubblica. In quel libro, romanzato e inaffidabile come tutte le autobiografie, Zucconi non nasconde uno dei suoi infortuni professionali: una cronaca troppo letteraria degli eccessi alcolici di Boris Elstin durante la visita negli Stati Uniti che innesca una mezza crisi diplomatica.

In un Paese provinciale come l’Italia, i corrispondenti dagli Stati Uniti dei grandi giornali si sono sempre divisi in due parrocchie: quelli che vogliono replicare il distacco e l’imparzialità (presunta) del giornalismo anglosassone, anche a costo di limitarsi a riportare il contenuto del New York Times e del Washington Post, e quelli che invece puntano a capire l’America più degli americani, a spiegarla anche a loro, a trasformarla in un grande romanzo a puntate per i lettori italiani, tagliando tutte le asperità analitiche e lasciando i personaggi, le “storie dell’altro mondo”, come si chiamava una sua rubrica sul settimanale femminile di Repubblica, D-Donna. Chissà se erano vere, se le ricostruzioni erano accurate, commentavano i detrattori. Che però le leggevano sempre e avrebbero spesso voluto essere stati loro a scriverle.

Zucconi l’America l’ha capita, o almeno l’ha scelta, ha preso la cittadinanza degli Stati Uniti, lì è morto, a Washington, e lì vive gran parte della sua vasta famiglia. Lui, Vittorio, ha sempre ostentato una specie di personale ubiquità: sempre americano, ma anche molto italiano, al punto da fare in contemporanea l’editorialista sugli Stati Uniti e il direttore di Repubblica.it o di Radio Capital in momenti in cui nessuna delle due poltrone era particolarmente ambita, perché si trattava di testate da creare o rilanciare. A Zucconi piaceva molto dare consigli, soprattutto ai giovani cronisti. Uno: mai usare gli avverbi che finiscono con “mente”, appesantiscono la frase. Aveva sicuramente ragione.

Fca-Renault: l’incognita Tokyo e il risiko da Macron a Trump

Questa mattina presto, a borse ancora chiuse: per le nozze Renault-Fca la verità arriva all’alba. Il consiglio d’amministrazione della casa automobilistica francese è fissato per le 8, a Bercy, il quartiere degli affari di Parigi. Obiettivo? Qualcosa che viene sempre indicato, per il momento, come un generico “progetto di alleanza” e che, nelle prime ipotesi degli analisti, potrebbe imboccare però due strade distinte, anche se per nulla in conflitto tra loro. Si va infatti da “una possibilità di un avvicinamento tra i due gruppi” (cioè l’inizio dell’alleanza) a qualcosa che assomiglia, se non già a una “fusione”, quantomeno a un concreto “scambio azionario fra i due gruppi”.

Ed è proprio questa ultima possibilità quella che innesca subito nuovi interrogativi e altri scenari. Lo scambio sarà alla pari o ci sarà una prevalenza di uno dei due contraenti? E se fossero Fca e gli Agnelli a scendere nella reciprocità dello scambio, quanto pagherebbe Renault per un eventuale primato nell’alleanza? Al contrario, se fosse invece Fca a prevalere, si aprirebbe una realtà nuova per la Famiglia: essere soci con uno Stato, visto che quello francese possiede il 15 per cento di Renault. L’ultima incertezza, infine, riguarda quale sarà il ruolo di Nissan, il gruppo di Tokyo partner di Renault (i francesi posseggono il 43 per cento dei giapponesi, fermi invece al 15 per cento delle azioni transalpine) che, sino a ieri sera, era dato alla finestra. Una situazione su cui peserebbe lo scontro in atto all’interno dell’alleanza franco nipponica, dopo l’arresto in Giappone dell’ex amministratore delegato Carlos Ghosn, ora sostituito da Jean Dominique Senardad. L’ulteriore integrazione tra francesi e giapponesi si è così bloccata agli assetti passati, con in più l’aggiunta di Mitsubishi, il cui 36 per cento è in mano a Nissan. E se quest’ultima, che è il vero motore progettuale e di vendite dell’alleanza attuale, dovesse sfilarsi proprio dopo il blitz Renault-Fca? Un’eventualità che renderebbe impossibile costituire il primo polo automobilistico del mondo (con un potenziale mercato di 15,6 milioni di vetture l’anno) e che, nello stesso tempo, trasformerebbe l’intesa tra i nuovi partner, Renault e Fca, nell’alleanza tra due debolezze.

Intanto, se lo scoop della trattativa era arrivato sabato da Londra e dal Financial Times, ieri è toccato invece a un giornale francese, Les Echos, fornire i dettagli del possibile scambio azionario. In sostanza, affinché la “fusione tra pari non conduca a un’acquisizione di Renault da parte di Fca e degli Agnelli”, Fca verserebbe anticipatamente “un dividendo straordinario agli azionisti. Questo permetterebbe di avvicinare le capitalizzazioni di mercato dei due gruppi: attualmente Fca pesa per circa 18 miliardi di euro, contro poco meno i 15 miliardi di Renault. La famiglia Agnelli, che attraverso Exor controlla il 29 per cento di Fca, sarebbe così ancora il maggiore azionista del nuovo colosso dell’auto, davanti al governo francese”.

Una circostanza, quella del capitale pubblico di Renault, che in queste ore anima soprattutto le reazioni sindacali in Italia. La Fim-Cisl, molto morbida verso le scelte di Fca ai tempi di Sergio Marchionne, ieri ha lanciato invece un appello all’unità, ricalcando le richieste di sabato di Fiom-Cgil: “Serve un subito un confronto. Sono decisive per il futuro dell’industria italiana, e avvengono con un Governo impegnato in una perenne campagna elettorale, lasciando soli lavoratori e imprese”.

Ma che cosa c’entra la partecipazione dello Stato transalpino in tutto questo? Molto, visto ciò che è già emerso in queste ore dal punto di vista dei rapporti internazionali. Per quanto riguarda Parigli, l’ad di Nissan ha avvertito il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire, mentre secondo il Corriere della Sera John Elkann avrebbe incontrato il premier Macron. Sempre il presidente di Fca, con l’ad Mike Manley, quattro giorni fa aveva visto il presidente del Brasile e quello dell’Argentina, due realtà strategiche per il gruppo. E visto il peso di Chrysler negli Usa, non sarebbe certo azzardato immaginare che anche l’amministrazione Trump sia stata informata. È stato così anche per l’Italia, secondo una tradizione che durava dai tempi della Fiat di Vittorio Valletta e del senatore Giovanni Agnelli, proseguita poi con Gianni Agnelli e Cesare Romiti e, infine, anche nell”era Marchionne, oppure questa volta Fca ha deciso di comportarsi da “americana”, badando soprattutto ai suoi interessi fondamentali a Detroit, alla sede legale ad Amsterdam e a quella fiscale a Londra? E comunque, come intende muoversi il governo rossoverde di Conte (e di Salvini e Di Maio) dalle 8 di questa mattina in poi: informato oppure no, poco importa a questo punto, della trattativa?