“Il dirigente Fiat fu ucciso per ordine dei comunisti”

“L’Ingegner Codecà è stato ucciso per ordine del Cac (Comitato azione clandestino) perché in possesso di informazioni riguardanti la vendita di brevetti industriali segreti effettuata da industriali italiani ai paesi di Oltrecortina. (…) Codecà, informato dalla moglie, si indirizzò così al dirigente della Spa (la Fiat Spa, ndr) di quell’epoca. (…) Il dirigente generale rispose all’Ingegnere Codecà che ‘era pazzo’ e che nulla di quanto riferiva corrispondeva alla realtà. L’Ing. Codecà minacciò di rivelare il fatto alla Polizia italiana. Fu allora che da parte dei dirigenti italiani fu decisa la sua fine. Non conosco il nome della persona che prese contatto con il Cac di marca comunista”. Conservato nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma tra le carte del ministero dell’Interno, con segnatura ACS-B-116, lo scritto è del 5 settembre 1962. Ha come oggetto l’invio a Roma di un rapporto della polizia britannica, in relazione a una “frode commessa da cittadina inglese in Svizzera e suo possesso di dichiarazione rilasciata da un individuo in merito ad un omicidio commesso in Italia”.

L’assassinio è quello dell’ingegnere Eleuterio (detto Erio) Codecà, nato a Ferrara nel 1901, direttore della Fiat. Fu ammazzato a Torino, vicino casa sua, in via Villa della Regina, la sera del 16 aprile del 1952. Un delitto rimasto senza colpevoli, che fece epoca. Soprattutto perché verosimilmente collegato alla politica, cioè ad ambienti di ex partigiani e di militanti del Pci, e agli affari delle grandi industrie italiane con i Paesi dell’Europa dell’Est, quelli della Cortina di Ferro. Erano affari che avevano al centro le operazioni commerciali effettuate da industrie, a cominciare dalla Fiat, con le nazioni d’Oltrecortina, che, in piena Guerra fredda, erano osteggiate dagli Stati Uniti e dalla Nato. Anche perchè, in diversi casi, erano andate in porto grazie all’intermediazione di società riconducibili a esponenti del Partito Comunista Italiano.

L’assassinio di Codecà avvenne in un periodo segnato dalle tensioni fra Usa e Urss, da un acceso anticomunismo e caratterizzato da un duro scontro tra gli operai del Pci e gli industriali, in particolare alla Fiat di Vittorio Valletta. Le indagini vennero così indirizzate subito verso il milieu comunista. Nel 1956, poi, fu arrestato e incriminato per il delitto un ex partigiano dal passato sanguinario: Giuseppe Faletto. Al processo, nel marzo del 1958, l’imputato fu però assolto per insufficienza di prove, sebbene venisse condannato per altri crimini commessi durante la Resistenza. Sull’omicidio di Codecà calò il sipario.

A distanza di oltre mezzo secolo, il caso viene riaperto ora dai documenti, come quello citato della polizia inglese, scoperti a Roma dal ricercatore Roberto Gremmo, che li pubblica nel libro Il delitto Codecà. Il ‘Boia della Valsusa’ e il misterioso omicidio che nel 1952 fece tremare Torino, edito da Araba Fenice. Ha rintracciato intanto il rapporto del 1962 degli investigatori del Regno Unito, che si erano imbattuti in quel j’accuse sul delitto Codecà indagando su una giovane inglese che aveva vissuto a Torino. La ragazza, coinvolta in una truffa, aveva consegnato ai poliziotti lo scritto di cui sarebbe stato autore un giornalista italiano, Edoardo Morello, conosciuto in Svizzera, con il quale aveva avuto una relazione. La polizia inglese trasmise l’incartamento in Italia. Tuttavia la Questura di Torino non gli diede peso. Non credette, o non volle credere, che il manager era stato fatto fuori da un sicario perché sapeva troppo dei traffici con i Paesi dell’Est, e aveva detto a qualcuno di voler “rivelare il fatto alla Polizia italiana”. La polizia si accontentò delle ritrattazioni di Morello. Il giornalista disse infatti che quelle accuse erano “frutto della sua fantasia”.

Eppure altre carte trovate da Gremmo dimostrano che a molti faceva comodo che le indagini sull’omicidio di Codecà si arenassero, come avvenne, tra depistaggi e imputati poco credibili, come fu nel caso di Faletto. E testimoniano che l’ingegnere, in vita, era diventato assai scomodo: forse perché, dopo essere stato coinvolto lui stesso in quei traffici, se ne era stancato; oppure perché aveva scoperto ciò che succedeva. C’è un appunto, in particolare, di un informatore della Questura di Torino, sempre nel fascicolo ACS-B-116 del ministero dell’Interno. Riguarda il conte Giancarlo Camerana, allora vicepresidente della Fiat e imparentato con la famiglia Agnelli, e l’ex maggiore dei carabinieri Roberto Navale, capo della sicurezza Fiat fino al 1945, uomo del Servizio segreto militare italiano (all’epoca si chiamava Sim), già coinvolto nell’omicidio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. L’appunto, datato 3 febbraio 1953, recita: “Il conte Camerana ha chiamato il Maggiore Navale per riferirgli circa quanto deciso dalla Fiat in merito all’affare Codecà. Come era prevedbile la Fiat ha detto che non se ne fa niente. Personalmente quanto sopra mi convince che la stessa Fiat ha tutto l’interesse di non venire in chiaro nella faccenda perché alcuni suoi grossi dirigenti sono implicati direttamente o indirettamente. Il Maggiore Navale ha pensato bene di non insistere”. Non si voleva venire “in chiaro” perché Codecà era uno di quei “grossi dirigenti implicati”, o perché indagando a fondo sulla sua morte sarebbero venuti a galla pezzi di verità troppo compromettenti? Nonostante la Guerra fredda e lo scontro sociale, ricorda Gremmo, alcuni uomini del Pci organizzarono nel 1955 il viaggio in Italia di una delegazione commerciale sovietica, e in seguito avrebbero favorito lo sbarco della Fiat a Togliattigrad.

Chi uccise Codecà? Quali furono i mandanti? Nello scritto del giornalista Morello si dice: “Fu comunque chiesto di ‘far fuori’ Codecà, (…) Il Cac rispose affermativamente. L’incartamento fu trasmesso a Roma tramite un ufficio commerciale di Via Frattina. Dopo qualche giorno il pseudo ufficio commerciale inviò un suo delegato a Torino con le disposizioni del caso. A Torino il delegato prese contatto con un gruppo specializzato del Cac. La cifra di ricompensa fu decisa in 5 milioni (di lire, ndr)”. Ovviamente, la polizia non scovò mai alcuna traccia del fantomatico Cac.

Lavori a pezzi per “Dea” Atalanta

Prima la festa dei tifosi per salutare la Curva Nord, poi – il 7 maggio – un demolition show, in diretta su Facebook, con una ruspa bianca (e bande nerazzurre). Ad azionarla c’era Antonio Percassi, imprenditore e presidente dell’Atalanta. Sono iniziati così i lavori per rinnovare lo stadio “Atleti azzurri d’Italia” di Bergamo, realizzato nel 1928, rinnovato più volte, ma mai abbastanza: le curve non rispettavano i canoni dell’Uefa e nelle ultime due stagioni gli “orobici” sono stati costretti a giocare gli incontri di coppa a Reggio Emilia, dove hanno disputato anche l’ultima giornata di questo campionato e le prime del prossimo. I lavori verranno fatti “a pezzi”: questa estate la curva Nord, la prossima quella Sud e nell’estate 2021 una delle tribune. Alla fine la “Dea” avrà il suo stadio: il club – tramite la Stadio Atalanta srl – lo ha comprato all’asta dal Comune di Bergamo per 8,6 milioni. Spesa complessiva tra acquisto e lavori: 40 milioni. La capienza passerà da 21.700 a 23.370 posti e per sei anni si chiamerà Gewiss Arena. Diventerà il quinto stadio di proprietà in Italia: il più famoso è l’Allianz della Juventus (41mila posti per 155 milioni di euro), costruito sulle ceneri del Delle Alpi in un’area concessa da Torino per 99 anni. La stessa soluzione è stata adottata a Udine per la Dacia Arena (25.144 posti, 25 milioni per i lavori), realizzata però ristrutturando il vecchio stadio Friuli. A Frosinone nel 2017 la società è riuscita a finire il nuovo stadio, intitolato a Benito Stirpe (padre dell’attuale presidente Maurizio). C’è infine il Mapei Stadium: il Sassuolo del patron Giorgio Squinzi ha scelto di comprare lo stadio di Reggio Emilia, fatto dalla Reggiana negli Anni ‘90.

L’ex patron è finito ai domiciliari

Il nuovo stadio a Cagliari è finito in procura e in tribunale. L’ex storico patron Massimo Cellino ha provato per anni e in vari modi a rifare il vecchio S. Elia: prima ha cercato di spostarlo su alcuni terreni di sua proprietà ma troppo vicini all’aeroporto di Elmas, trovandosi sbarrata la strada dall’Enac. Poi c’è stata la parentesi di Is Arenas, lo stadio “provvisorio” a Quartu, su cui però sono state contestate varie irregolarità nei lavori che sono costate qualche mese di domiciliari a Cellino nel 2013 (ora attende il processo). Ora la nuova proprietà del presidente Giulini ci riprova. Un hotel da 72 camere con piscina sul tetto, ristorante e lounge-bar con vista mare, attività commerciali, museo, aree verdi circostanti. Sarà questo il volto della Sardegna Arena”, destinato a sorgere sulle ceneri del vecchio stadio Sant’Elia in una versione adeguata ad accogliere i grandi eventi sportivi grazie al via libera all’ampliamento di capienza che prevede 30 mila posti a sedere anziché i 25 mila iniziali già previsto nella proposta del consorzio Sportium firmatario del progetto. Costo dell’opera 60 milioni di euro, 5 in più rispetto a quelli previsti nello studio di fattibilità (10 coperti dall’amministrazione). A marzo il Comune ha approvato la variante urbanistica che serviva (proprio nell’ultima seduta prima dello scioglimento del Consiglio), ora si attende il progetto esecutivo del club che dovrà ricevere l’ok della conferenza dei servizi per far partire i lavori. Solo una formalità, a questo punto. I tempi dei lavori dovrebbero essere di due anni, la consegna è prevista per il 2022. Ma prima di esultare, a Cagliari vogliono vedere lo stadio per davvero.

Il Comune e la società a braccetto

Cantieri nel 2020 La ristrutturazione del vecchio e glorioso Dall’Ara dovrebbe partire l’anno prossimo. Il condizionale è d’obbligo perché manca il progetto definitivo che il consiglio comunale dovrebbe votare per dichiarare il pubblico interesse e mettere a gara i lavori.

Una cosa, però, pare probabile: addio a nuovi stadi. Si punta sulla ristrutturazione. Perché il primo nodo era questo: ristrutturare il Dall’Ara o costruire una nuova struttura. Soluzioni diverse che avevano visto scendere in campo cordate e interessi opposti. Si manterrà il vecchio impianto anche perché, altrimenti, il Comune rischierebbe di cacciare al vento un bene di cui è proprietario. Non solo: è tramontata anche l’ipotesi di realizzare una città della moda nella vicina zona di Prato di Caprara. Un’idea che non poteva rientrare nella legge sugli stadi, ma soprattutto era fortemente avversata dagli abitanti. Il nuovo progetto secondo le promesse del patron del Bologna, il canadese Joey Saputo, dovrebbe essere ultimato entro il 2024, per i dieci anni della sua presidenza. L’investimento previsto è di 70 milioni, 40 messi da Saputo e 30 dal Comune, “con una partnership tra pubblico proprietario e privato concessionario – spiegano in Comune – che è diffusa in Europa, ma inedita in Italia”. Il progetto finora presentato prevede una riduzione dei posti da 31mila a 27mila (29mila per eventi particolarmente affollati). Il nuovo progetto prevede una copertura leggermente arretrata rispetto alla linea muraria, un’eliminazione delle aggiunte operate negli anni ’90 e sedute vicinissime al campo. Sul modello inglese. Ci saranno anche un museo del Bologna e un negozio del club.

La soap infinita (con Della Valle?)

LE ELEZIONI INCOMBONO Metti insieme il tifo per la Fiorentina e quello per le elezioni. Il nuovo stadio è diventato materiale incandescente nella campagna elettorale per l’elezione del sindaco. Il vecchio Artemio Franchi era stato progettato nel 1930 da Pier Luigi Nervi e Gioacchino Luigi Mellucci. Costo all’epoca 6,5 milioni di lire per 43.147 posti. Il nuovo impianto dovrebbe contenere 40mila persone. Il costo – cittadella compresa – è di 420 milioni. Ma bisogna risolvere un puzzle in cui tanti pezzi diversi devono incastrarsi: lo stadio dovrebbe andare a Novoli, negli spazi che dovrebbero essere liberati dal Mercafir, il Centro Alimentare Polivalente di Firenze. Che, a sua volta, dovrebbe trasferirsi nella piana di Castello accanto all’aeroporto. Ma c’è l’incognita della seconda pista voluta da Matteo Renzi e dall’attuale sindaco Dario Nardella. Comitati e comuni della piana, però, hanno bocciato il progetto. Un ricorso pende al Tar. Il vero nodo, però, è il braccio di ferro con i Della Valle (in attesa di capire se a loro subentrerà Commisso). I termini per la presentazione del progetto definitivo stanno scadendo. Anzi, nemmeno su questo ci si riesce a mettere d’accordo: per qualcuno la Fiorentina doveva consegnare il progetto il 6 maggio. Per altri il 20. La società chiede certezze sui tempi dello spostamento del mercato. Qualcuno ipotizza che l’impianto verrà ‘rimpicciolito’: si potrebbe scendere sotto i 35mila spettatori, visto che in media non si superano le 26mila presenze. Il sindaco ribatte: “Gli alibi sono finiti”. Come finirà si capirà nelle prossime ore. Ammesso che i Della Valle non vogliano prima conoscere il nome del nuovo sindaco. Oppure addirittura vendere la Fiorentina.

La politica contro l’Inter e il Milan

Il Comune vuole ristrutturare San Siro, Milan e Inter preferiscono costruire un nuovo stadio: il futuro del calcio a Milano passa necessariamente da quello del glorioso Meazza. Le due società hanno una strategia chiara: proporre a Palazzo Marino di abbattere San Siro e realizzare un impianto moderno nel parcheggio dell’attuale Scala del calcio. Costi? Circa 700 milioni (e quattro anni di lavori) per avere a disposizione la nuova struttura, seriamente candidata ad ospitare la cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali 2026. Questa soluzione, secondo il ragionamento di Milan e Inter, offre indubbi vantaggi, primo fra tutti quello di non traslocare altrove durante i lavori o, come accaduto in altre città (Udine, ad esempio), di giocare le partite casalinghe con capienza ridotta dalla ristrutturazione in corso. Sempre a sentire le società, il nuovo stadio è l’unica ipotesi possibile per avere un impianto realmente all’avanguardia, obiettivo irrealizzabile in caso di rifacimento dell’attuale struttura. I cui costi, oltretutto, ammonterebbero a circa 550 milioni (2-3 anni il tempo stimato). In attesa della presentazione del progetto ufficiale (prevista entro l’inizio dell’estate), l’unica certezza è il luogo: anche in caso di nuovo stadio, la zona resterebbe quella di San Siro, quartiere da pochi anni raggiungibile in metropolitana. Ad agitare i tempi della decisione e il dialogo tra Comune e società, però, c’è stata la questione delle oscillazioni anomale dello stadio, con il Comune a smentire puntualmente ogni possibile ipotesi di rischio per l’incolumità degli spettatori.

Fu più facile realizzare il Colosseo

Il calcio d’inizio avrebbe dovuto darlo Totti. Non ci riuscirà nemmeno De Rossi, Florenzi chissà. Tra burocrazia, inchieste, nodi tecnici e politici, una data per l’inaugurazione del nuovo stadio della Roma non c’è: non prima del 2022-23. Eppure se ne parla dal 2012, quando l’impianto (da 60mila posti) valeva appena il 16% di un progetto faraonico, con business park e due grattacieli disegnati dall’archistar Daniel Libeskind, e forse proprio da qui partono i problemi. Il sito è il vecchio ippodromo di Tor di Valle, periferia sud della Capitale, terreni di Eurnova di Luca Parnasi, che con la Neep di Pallotta fonda la Stadio Tdv Spa, per costruire l’impianto e darlo alla Roma per 30 anni. Oggi di quel piano resta poco. Nel 2014 l’assemblea dell’ex sindaco Ignazio Marino aveva votato l’interesse pubblico, ma il M5S quando è salito al Campidoglio ha iniziato una lunga trattativa. Il progetto ne è uscito dimezzato: taglio del 40% delle cubature e senza torri. Così, però, sono stati eliminati anche gli investimenti privati sulle infrastrutture, 600 milioni in meno fra cui il prolungamento della metro B e il ponte sul Tevere. La mobilità è la maggiore incognita: restano solo la via del Mare e la disastrata ferrovia Roma-Lido; l’ex governo Pd si è impegnato a finanziare il ponte sul Tevere con soldi pubblici, ma chissà quando. L’ultima grana è l’inchiesta sullo stadio che ha travolto Parnasi e la politica locale. Il progetto a parole va avanti, ma manca la decisiva variante urbanistica da votare in aula. Dopo l’arresto del capogruppo De Vito, la maggioranza della sindaca Raggi è impaurita e divisa. Il club continua a parlare di posa della prima pietra nel 2019: è tutto fermo.

Cartellino rosso: nuovi stadi, errori antichi

C’è chi ci prova da anni, come James Pallotta (“C’è voluto meno per il Colosseo”, ha detto esasperato il patron della Roma), e chi invece c’è riuscito subito e se lo gode, come la Juventus. Chi vuole buttar giù e ricostruire, chi si è comprato quello altrui. Chi ristruttura, chi pensa in grande (pure troppo, tra palazzine e grattacieli) e chi è finito incastrato nelle inchieste. Da Nord a Sud, spuntano progetti di stadi come funghi: nuovo è bello, e (soprattutto) redditizio. Ma tra il dire e il fare c’è l’Italia, dove gli impianti sono quasi tutti vecchi, spesso fatiscenti, sempre svantaggiosi.

Un tempo la Serie A era all’avanguardia in Europa: i Mondiali di Italia ‘90 lasciarono in eredità sprechi e impianti che alla lunga si sarebbero rivelati sbagliati (il San Nicola di Bari, ad esempio) ma all’epoca rappresentavano un’eccellenza. Sono passati quasi 30 anni e salvo poche eccezioni il nostro calcio va avanti con gli stessi stadi, nel migliore dei casi riammodernati, nel peggiore abbandonati a se stessi.

L’inadeguatezza delle infrastrutture pesa su conti, competitività e spettacolo del nostro calcio: secondo Deloitte, in Italia la migliore è la Juve (non a caso unico top club con impianto di proprietà), con oltre 50 milioni di ricavi da stadio, comunque lontanissima dai top mondiali (Barcellona e Real a quota 140 milioni l’anno). Figuriamoci le altre. Per lo stesso motivo – impianti poco confortevoli, non sempre sicuri – l’Italia è scivolata al 4° posto per media spettatori, dietro Inghilterra e Germania (i tornei “modello”) ma anche alla Spagna.

Da qui passa il rilancio della Serie A. Tutti ci provano, quasi nessuno ci riesce. “Troppa burocrazia” è la scusa più sentita, infatti periodicamente si parla di una nuova legge sugli stadi, pure dal governo gialloverde. In realtà la normativa è stata ritoccata di recente, due volte, nel 2013 da Letta e nel 2017 da Gentiloni: esiste già una “corsia preferenziale”, con una conferenza di servizi accelerata; l’ultimo intervento dell’ex ministro Lotti ha aggiunto che il suo parere può valere da variante urbanistica (con l’ok del consiglio comunale) e ha addirittura sdoganato l’edilizia residenziale (prima esclusa), sogno proibito di ogni costruttore.

Insomma, si può già fare (quasi) tutto e in tempi relativamente brevi: dalla presentazione del progetto all’apertura dei cantieri con questo iter può bastare un anno. Perché invece i progetti si trasformano in odissee? Sicuramente rispetto all’estero l’Italia sconta una burocrazia e un’amministrazione meno efficiente. Ma non è solo questo: “Da noi di imprenditori seri, interessati a fare solo uno stadio, ce ne sono pochi”, spiega Roberto Della Seta, ex deputato e presidente di Legambiente, da sempre attivo sulla questione stadi (ha anche collaborato a quello della Roma). “Mancano i soldi e gli impianti spesso vengono visti come cavalli di Troia per fare altro”. Così nascono progetti velleitari, operazioni sproporzionate o poco trasparenti che inevitabilmente incontrano degli ostacoli. E qualche volta finiscono “all’italiana”, tra favori, abusi e inchieste della procura.

Oggi ci sono appena 5 stadi di proprietà (Juve, Udinese, Frosinone, Sassuolo e Atalanta), dei nuovi progetti forse soltanto Cagliari è vicino a vedere la luce. Qualcuno (ad esempio il presidente del Coni, Giovanni Malagò) pensa che la situazione possa sbloccarsi solo con un grande evento: la Figc di Gabriele Gravina ha intenzione di candidarsi agli Europei di calcio 2028. Paradossalmente il pessimo stato degli impianti italiani è al contempo il principale ostacolo da superare e la motivazione maggiore per vincere. Il sottosegretario Giorgetti, invece, punta più sull’ordinario: allo studio un nuovo intervento normativo per incentivare i privati. Nel testo della futura delega, tutta da scrivere, per ora si parla solo di “semplificazione delle procedure” e “redditività degli interventi”, paroline magiche che fanno drizzare le antenne agli investitori ma che spesso hanno fatto rima con speculazione. L’Italia un po’ ci spera, un po’ ha paura.

Venezia, lo schiaffo di Banksy alla Biennale del potere

“Venezia, Venezia / Che ignori i poeti / E celebri i mercanti. / Sotto i rostri rapaci / Oscena risplende / la bianca carcassa / La piramide delle parole /Si dissolve /Nell’expo permanente / Di chiese e palazzi / Oh! Venezia Venezia / Città della diaspora / Palcoscenico della memoria /Sepolcro di alieni”. Questi versi di Pier Luigi Olivi sono stampati in 25 lingue in un magnifico libro le cui pagine riproducono opere realizzate da Luigi Gardenal con relitti recuperati in Laguna. 40 esemplari contenuti in astucci ricavati dagli stessi materiali sono stati donati a capi di Stato di tutto il mondo, al Papa, alle autorità venete e a quelle dell’Unesco: perché capiscano – sono le parole dell’introduzione di Salvatore Settis – che “non c’è città senza cittadini. Che non c’è rigenerazione urbana senza rigenerazione umana. Che non c’è salvezza per Venezia senza una politica del lavoro, della casa, dei giovani”.

Le altre copie di Venezia, Venezia sono in vendita per finanziare “associazioni di cittadini che lottano sul territorio perché Venezia continui ad avere un futuro come comunità”. A fianco di queste associazioni si è schierato, nelle ultime ore, l’artista più influente (e certo il più intelligente) del mondo: Banksy.

Mercoledì scorso il profilo Instagram dell’artista (e del suo collettivo) ha pubblicato uno strepitoso video di un minuto girato a Venezia il 9 maggio, e ora visto da quasi tre milioni di persone. La didascalia, come sempre ironica e stringatissima, dice: “Eccomi a montare il mio stand alla Biennale di Venezia. Nonostante che sia il più grande prestigioso evento artistico nel mondo, per qualche ragione non sono mai stato invitato”. Nel video si vede un artista di strada, dal volto nascosto, che allestisce nei pressi di San Marco una sua personalissima ‘mostra’: un sistema di cavalletti regge nove tele che compongono l’immagine di una delle mostruose grandi navi che passano nel Bacino di San Marco.

Lo stile è quello dei dipinti-souvenir che si moltiplicano per le calli veneziane, ma il soggetto è una contundente denuncia. Si vedono turisti e veneziani che si fermano a guardare e a commentare l’opera, e infine entrano in scena gli agenti della polizia municipale veneziana che fa smontare l’opera e caccia l’artista che non ha la licenza per esporre e vendere in strada: sullo sfondo passa, indisturbata, una vera Grande Nave.

E non è finita qua: venerdì alle 15 lo stesso profilo Instagram ha pubblicato (e dunque autenticato) un magnifico murale apparso, sempre quel 9 maggio, su una malridotta facciata veneziana. Il soggetto del nuovo stencil di Banksy è una piccola migrante, povera e provata, che innalza un fumogeno da cui si spande un gran fumo rosa: una richiesta di soccorso in mare, e una chiara allusione alla Statua della Libertà che con la sua fiaccola accoglieva i migranti nel melting pot americano.

La Venezia che muore “sotto i rostri rapaci” delle Grandi Navi, la repressione delle divise che cacciano dalla strada chi è senza documenti, la mostruosa campagna neofascista contro i migranti e contro l’idea stessa di una società libera e aperta: Banksy è riuscito a raccontare insieme Venezia, l’Italia e l’Europa. Egli sa quello che dice, e lo dice con una forza di persuasione che nessun’altro artista (e quasi nessun’altro intellettuale) potrebbe avere.

Ed è sublime la presa in giro della Biennale: che, chissà perché! non lo invita. La risposta è naturalmente nell’opera stessa: la Biennale è una grande struttura di potere, legata intimamente al potere dei dominanti del momento e del tutto interna alle logiche dell’”expo permanente” che uccide Venezia.

Così, mentre la Brexit continua a fagocitare una classe dirigente britannica che si dice disinteressata alle sorti dell’Europa, è un artista inglese a dire la verità su Venezia e sull’Italia di oggi. Chissà se Banksy ha pensato al precedente di John Ruskin, il grande artista e intellettuale inglese che, nella seconda metà dell’Ottocento, mise al centro della sua riflessione le ‘pietre di Venezia’ (Stones of Venice è il titolo del suo capolavoro, ripubblicato in più versioni dopo il 1853).

L’intuizione fondamentale di Ruskin riguarda il nesso strettissimo che unisce le pietre di Venezia al suo popolo: nulla si può capire dell’urbs, della città materiale, se non la si mette in connessione con le vicende morali e spirituali della civitas, la città degli uomini, cioè la società. Un messaggio drammaticamente attuale sul piano sociale e politico: non salveremo la Venezia di pietre se non salveremo prima la Venezia di popolo.

Ruskin conobbe una città abitata da circa 130.000 veneziani, oggi il suo connazionale Banksy parla ad una comunità di 54.000 residenti. La “comunità civile” di cui egli scrive in Stones of Venice semplicemente ha cessato di esistere, e con essa sta per scomparire l’unico soggetto collettivo capace di comprendere davvero profondamente, e dunque capace di tutelare, la città di pietra.

In St. Mark’s Rest, l’ultimo suo grande tributo a Venezia, Ruskin spiega con un fulminante gioco di parole come la decadenza della città delle pietre sia conseguenza dell’avidità che porta a credere al reign of St. Petroleum instead of St. Peter. Ebbene, nel video di Banksy la camera inquadra un cartellino col titolo dell’opera: Venice in oil. Una pittura a olio su Venezia: o anche Venezia immersa nell’olio dei motori delle Grandi Navi.

Venezia, con la nostra stessa umanità, uccisa dal culto del petrolio: cioè del denaro.

“L’amante giovane è l’antidoto alla paura d’invecchiare?”

Cara Selvaggia, ho visto le foto di Monica Bellucci a Cannes. Molto bella, molto elegante, una cinquantacinquenne che porta egregiamente i suoi anni. Ho letto anche le sue assennate dichiarazioni sulla vecchiaia che è ancora un tabù e sulla sua tranquillità nell’invecchiare. “Non ho paura di invecchiare” ha detto. Tutto molto bello. Poi però ho visto il suo nuovo amore e appreso che ha 18 anni meno di lei. Da quello che vedo è una specie di artista, un po’ hippy, capellone, molto rude, l’esatto contrario del suo ex Vincent Cassel. A sua volta, so che Cassel ha una nuova moglie che ha 21 anni e dunque 31 meno di lui. Per riassumere, i nuovi compagni di Monica e Vincent, insieme, hanno 49 anni in meno di loro due. Una vita, insomma. La mia osservazione quindi è la seguente: davvero Monica non ha paura di invecchiare? E se invece sia lei che il suo ex marito quasi coetaneo fossero scappati non l’uno dall’altra ma dalle reciproche paure di invecchiare? Perché alla fine diciamocelo, se Monica non avesse bisogno di sentirsi ancora una ragazza, avrebbe scelto un uomo maturo, centrato, con qualche capello bianco. E invece è appagata, lusingata dall’amore giovane. Non è forse questa una gran paura del tempo che passa?

Giorgio N.

Monica, ritratta in foto con un piacente settantenne sarebbe la ragazzina della coppia. Quindi no, uscire con un uomo più giovane, al limite, fa sentire più vecchi, posso garantirtelo.